«Pier Silvio vuole riuscire dove Silvio non ha potuto»
Saggista, massmediologo, direttore di reti tv del servizio pubblico in Italia e in Francia, Carlo Freccero è l’uomo che ha realizzato la televisione di Silvio Berlusconi, il patriarca che non c’è più.
Che cosa pensa della nuova Mediaset nella prima stagione senza il fondatore e con il governo di destra? Che cosa pensa delle mutazioni introdotte dal figlio Pier Silvio, amministratore delegato dell’azienda?
«Premetto che la mia analisi è esclusivamente tecnica, da autore televisivo. Ben, c’è una tv prima della scomparsa del re Silvio è una tv dell’erede, Pier Silvio, che persegue un obiettivo: fare un network europeo di tv generaliste. Nel mondo non esiste un corrispettivo, ma è l’unica strada per reggere alla concorrenza delle piattaforme».
È una sfida possibile? C’è questo spazio per le tv generaliste?
«Se questo spazio non ci fosse, la tv generalista si sarebbe già estinta con l’avvento del digitale. Non solo la generalista è sopravvissuta, ma periodicamente, conosce momenti di ripresa come durante il lockdown per il Covid. L’Italia è un Paese in corso di impoverimento e di invecchiamento. E per un anziano è quasi un incubo la gestione della vita quotidiana, sottoposta alla cosiddetta semplificazione. Il rapporto con la banca, le bollette, il fisco, i pagamenti si svolgono oramai solo tramite il digitale. I cittadini meno aggiornati in casa vogliono staccare la spina, vogliono accendere la tv schiacciando un bottone. In Europa c’è una grande riserva di anziani che ha la tv generalista come medium di riferimento».
Quindi, quale può essere la strategia editoriale?
«La questione è controversa. L’editore vuole cancellare il trash, ma si osserva che, in realtà, lo si sostituisce con altro trash. A questo punto sorge l’esigenza di dare una definizione esatta di trash e la cosa si fa complicata. Io vedo tutto in modo più semplice».
Cioè?
«Se vuole affermare il suo modello di televisione, Pier Silvio deve renderlo esportabile. Vuole avere il passaporto in regola, soprattutto in Francia, ancora oggi il Paese più schierato in difesa della propria identità culturale».
L’esempio della Francia e del passaporto fa capire che la svolta di Mediaset non è solo in vista di un lasciapassare geografico, europeista, ma anche di una legittimazione culturale. Eliminare il trash vuol dire allinearsi al verbo politicamente corretto?
«Il politicamente corretto è l’esperanto ideologico di questa Europa».
Torniamo alla definizione dell’oggetto: cos’è il trash, la tv spazzatura?
«La parola trash non designa qualcosa di deleterio. Il trash viene spesso scambiato con il kitsch, che è la degenerazione di modelli culturali alti tradotti in una versione volgare. Il trash è volgare tout court, anche senza bisogno di presupporre modelli alti. Ma volgare vuol dire popolare e il trash rappresenta anche la materia del pop».
E oggi cos’è trash?
«All’epoca della prima tv commerciale veniva identificato con l’arcitaliano, ma derivava comunque da modelli culturali popolari consolidati come il varietà e la commedia stracult degli anni Ottanta e Novanta. La morte delle grandi star tv ha chiuso un’epoca. Oggi il trash ha cambiato segno perché sono cambiati i programmi, sostituiti da format come reality e talent. In questi format il trash è il gossip: la tv si è corrotta nell’incrocio con i social media. Il trash è il selfie della casalinga di Voghera che diventa visibile. Non è un caso che Pier Silvio abbia iniziato l’epurazione degli influencer. I quali se ne sono lamentati. Ricordiamo che il gossip è autoreferenziale e, come tale, necessariamente provincialesco, di cattivo gusto».
Questa metamorfosi sta funzionando?
«I personaggi del Grande fratello non riescono a superare la dimensione del gossip per passare a uno storytelling che darebbe senso e seguito al programma».
Non è un passaggio semplice: il trash è più di impatto dello storytelling. È possibile che chi guarda il Grande fratello ne disprezzi gli eccessi, ma alla fine è ciò che vuole vedere, magari per sentirsi migliore.
«Non sono d’accordo che il trash sia più impattante: lo storytelling fidelizza, il trash no. Il trash si fa storytelling nel gossip, nelle storie dei vip, Belen e Stefano De Martino, Ilary Blasi, Francesco Totti e Noemi, Fabrizio Corona e Nina Moric. Invece, il pubblico del reality è attualmente quello che, sentendosi socialmente inferiore, gioisce a vedere qualcuno più maleducato, incapace e sfigato di lui. Lo sfigato vuole vedere altri prototipi di sfigati. Ma proprio questo conferma che l’intento dell’editore è selezionare un pubblico migliore».
Quindi come dovrebbe essere declinato il reality?
«Mi sembra che Pier Silvio abbia in testa un prototipo vincente, cioè Maria De Filippi. E voglia tradurre la sua tv in questa chiave. Prendiamo C’è posta per te, la parte che si svolge in studio è un reality nel senso letterale del termine perché è una realtà che si forma di fronte alla telecamera. Ma a differenza di altri reality come il Gieffe, che oggi è inconsistente perché i personaggi hanno poco da raccontare e quindi non fidelizzano il pubblico, De Filippi crea un impatto narrativo con una drammaturgia da feuilleton, che garantisce la partecipazione emotiva del pubblico. Lei lavora su dei topos (formule ndr) antichissimi. In particolare il tradimento del legame familiare. La miseria e la sopravvivenza, l’abbandono e il tradimento, la passione in conflitto con l’amore materno. È tutta una “matarazzata”, dai film di Raffaello Matarazzo».
Perché questo tipo di racconto è efficace?
«Perché desta stupore che esista ancora nel presente una società così arcaica, dove si soffre, si tradisce, si ama e non si fanno i selfie. Il Gieffe è un selfie collettivo, che scivola sulla superficie dell’immagine, ma non riesce a costruire storie. Gli ospiti della De Filippi sono del secolo scorso e ispirano anche la fiction di Mediaset».
Non sarà che il Grande fratello è un format datato?
«Purtroppo il Gieffe nasce come format psicologico. A questo proposito se dovessi scegliere un commentatore, chiamerei uno psicologo televisivo, un Paolo Crepet con i suoi maglioni colorati. Il Gieffe è nato come format psicologico in una fase in cui la psicologia era solamente individuale. Oggi la psicologia è soprattutto sociale e il controllo è ben superiore a quello immaginato da George Orwell».
Quindi per rifondare la linea editoriale basta eliminare gli influencer e assumere giornalisti prestigiosi? «Non basta sostituire gli influencer con i giornalisti affermati per rendere il programma più autorevole. Le prestigiose Cesara Buonamici e Myrta Merlino sono fuori contesto. In più, mi spiace dirlo, mancano di quella vocazione nazional popolare che fa scattare nei programmi generalisti l’identificazione del pubblico. Abbiamo detto all’inizio che la tv generalista commerciale ha un target medio/basso, la donna tatuata. Qualcosa di simile avviene con Nicola Porro che è sicuramente un eccellente conduttore turboliberista, ma stenta a imporsi perché differisce antropologicamente dal suo target».
Parlando di storytelling e giornalisti, cosa pensa di Giampiero Mughini concorrente del Grande fratello?
«È un aggiornamento al format, non più una bolla spazio temporale, ma un microcosmo connesso con il mondo che gli altri concorrenti non sono abituati a frequentare. È come portare i libri nell’isola dei naufraghi. Dopo il marciatore che si allena, lo scrittore senza pc. Manca solo il politico trombato».
Perché Bianca Berlinguer è sempre attaccata dalla critica e dal giornalismo benpensante?
«Bianca ha declinato il talk in una chiave che a Mediaset funziona meglio che a Rai 3. Berlinguer ha sempre utilizzato in alternativa alla predica una chiave leggera che le permette di trasformare la politica da informazione a infotainment. Però il suo infotainment non è mai Vanity Fair, ma attraverso il dialogo confidenziale con l’ospite ne esalta il tratto umano inedito. In un certo senso, è come se fosse un po’ stanca del carico ideologico portato dal suo cognome e preferisca far emergere piccole verità più che verità assolute. Come dimostrano i dialoghi con i due opposti. Mauro Corona è il vergine che rappresenta lo straniamento. Alessandro Orsini il professorone che rappresenta l’eretico, odiato dal mainstream. Proprio per questo le parti che funzionano meno sono quelle più tradizionali».
Facciamo una previsione: l’erede vincerà la scommessa? Ce la farà, mentre la Rai si sposta a destra, a riequilibrare Mediaset a sinistra arruolando Berlinguer, Merlino e Littizzetto?
«I due figli del primo matrimonio Marina e Pier Silvio hanno sempre anteposto l’azienda alla politica. Credo che a loro non interessi altro che il futuro di Mediaset. Che, per espandersi, deve esprimersi politicamente con la maggioranza europea. Vedremo se l’erede Pier Silvio riuscirà là dove il patriarca non è riuscito, cioè creare una tv europea, perché è entrato in politica».
Infine, non posso non chiederle il suo pensiero sullo spot di Esselunga.
«Le storie che racconta la pubblicità sono finalizzate al consumo. Infatti gli interpreti sono sempre sovratono e la finzione è manifesta. I dialoghi sono sempre perentori e impositivi rispetto al prodotto. Invece lo spot Esselunga è girato come un film e ha un linguaggio cinematografico anziché pubblicitario. Qui il prodotto è una pesca, che dà nome al film e compare al centro della scena sul binario che la trasporta alla cassa. È la protagonista del film. È un oggetto intriso di emotività. In quanto al fatto che, secondo i critici, un Presidente del Consiglio non debba cedere alla ricerca dell’empatia, mi risulta che i coach allenino i politici a mostrarsi umani. Basta ricordare l’algido Mario Monti che si presentava in televisione con un cagnolino in braccio. La verità è un’altra. In un’epoca in cui si procede col pilota automatico delle varie agende internazionali, la politica non esiste più. Una volta c’erano i programmi dei partiti, oggi si deve seguire un copione scritto altrove e le critiche al potere si spostano dal politico al privato che, invece, non c’entra per nulla. Non a caso, il mainstream non critica Giorgia Meloni perché porta avanti l’agenda Draghi, ma perché preferisce la famiglia alla liquidità woke».
La Verità, 30 settembre 2023