Tag Archivio per: Fuortes

Seguendo i soldi con Fazio si indovina sempre

A seguire il flusso dei soldi non si sbaglia. Soprattutto se il beneficiario è Fabio Fazio, nativo di Savona. Nessun martirio, nessuna censura. Ci mancherebbe. L’addio alla Rai «dopo quarant’anni di onorata carriera», tra folle di vedove inconsolabili e sodali de sinistra in servizio permanente, è una faccenda di mercato editoriale. Una questione di danè. Altro che vittime della democrazia. Follow the money, recita il vecchio adagio. E nel caso del conduttore di Che tempo che fa è più che mai la pista giusta. Nella nuova casa della Warner Bros Discovery Italia, Fazio guadagnerà 2,5 milioni all’anno che, moltiplicati per quattro, fanno dieci milioni tondi tondi. Niente male. Rispetto al milione e 900mila percepito in Rai con l’ultimo contratto, si tratta di un incremento superiore al 30%. Il miglioramento è ancora più ragguardevole considerando la durata del nuovo accordo che la Rai di sicuro non avrebbe potuto garantirgli. Insomma, un contratto dorato solo stando a quello che lo riguarda personalmente. Cioè, senza contare quanto incasserà OFFicina, la società fondata nel 2017 e di cui ora è socio al 50% con Banijay. Nell’ultimo biennio, per la produzione delle trenta puntate del talk show di Rai 3 l’incasso è stato di 10,6 milioni. Se la percentuale d’incremento fosse la stessa, si sfiorerebbe la cifra di 14 milioni, sempre all’anno. Ma questa è solo un’ipotesi perché dipenderà dalle scelte di palinsesto di Nove, la rete sulla quale potranno continuare a vederlo i suoi affezionati telespettatori.

«Sono in Rai da quarant’anni, però non si può essere adatti a tutte le stagioni», ha detto lui domenica sera rispondendo al fervorino di Ferruccio De Bortoli («Oggi la notizia sei tu…»). «Io e Luciana (Littizzetto ndr) non abbiamo nessuna vocazione a sentirci vittime né martiri», ha assicurato, bontà sua, tentando poco convintamente di sedare i piagnistei della tifoseria desiderosa di buttarla in politica. «Siamo persone fortunatissime e avremo occasione di continuare altrove il nostro lavoro», ha ribadito. Invano. Lo stesso De Bortoli aveva chiosato: «Il fatto che te ne vai è una gravissima perdita per il servizio pubblico e un grande errore editoriale». Ieri, con il solito gioco di prestigio tra narrazione e fatti reali, i giornaloni fiancheggiatori hanno dato il meglio per pilotare sul conto del governo di Giorgia Meloni il clamoroso divorzio. «Rai a destra, Fazio lascia», ha titolato Repubblica. «Vergogna Rai. Fazio costretto all’addio», ha echeggiato La Stampa. In realtà, se di «grande errore editoriale» si tratta, è evidente che a commetterlo è stato l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes che si è ben guardato dal presentargli una proposta di rinnovo del contratto. Come hanno sottolineato sia la presidente Marinella Soldi che i consiglieri Rai, nei mesi scorsi c’era tutto il tempo per farlo. Ma in quel modo non ci sarebbe stato nessun caso politico. E addio anche alle accuse di censura che stanno galvanizzando le milizie dem. Fazio non ha voluto aspettare che, giusto ieri, la nuova governance s’insediasse in Viale Mazzini e Roberto Sergio, amministratore delegato, e Giampaolo Rossi, direttore generale, prendessero possesso degli uffici, firmando il giorno prima con Discovery. Anche in questo caso la tempistica è rivelatrice. Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai? Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros. L’unica rimasta sul tavolo dopo che anche Urbano Cairo, patron di La7 con la quale il conduttore aveva già flirtato, si è defilato quando Fazio ha chiesto di contrattualizzare anche la squadra di autori e il gruppo di OFFicina. In fondo, con lui e «Lucianina», è un intero blocco di potere che si sposta. Che tempo che fa è una centrale di formazione del consenso, un crocevia di case editrici, produzioni cinematografiche, contenuti giornalistici, artisti, comici, ballerine e compagnia cantante. Ma per i bilanci controllatissimi del parsimonioso Cairo arruolare tutti avrebbe potuto essere un colpo mortale. Come quello che, nel 2001, portò alla fine precoce del tentativo di creare dall’ex Telemontecarlo di Vittorio Cecchi Gori ceduta a Roberto Colaninno l’agognato terzo polo tv. Anche allora c’erano Fabio Fazio e Luciana Littizzetto tra i volti della nuova emittente. Ma i debiti accumulati e il nuovo cambio di proprietà fecero abortire il progetto in poche settimane. Che, tuttavia, valsero a Fazio una liquidazione di 28 miliardi di vecchie lire, utili per prestigiosi investimenti immobiliari. Ci vollero due anni prima che il conduttore di Savona tornasse nella tv pubblica, nel 2003, ricominciando da Che tempo che fa.

Insomma, a seguire il flusso del denaro s’indovina. E si scopre che, ai quarant’anni di onorata carriera in Rai di EffeEffe, bisogna sottrarne due di esilio e sommare 28 miliardi di vecchie lire. Quanto fa?

 

La Verità, 16 maggio 2023

Lasciate Fabio Fazio dov’è, nella Ztl di Rai 3

Aiuto, ricomincia. Anzi, è già ricominciato. Come nell’imminenza del rinnovo di ogni contratto. Puntuale e immancabile come la dichiarazione dei redditi, riparte il tormentone di Fabio Fazio fuori dalla Rai. Lo cacciano. Anzi no. È lui che se ne va, che non può restare a queste condizioni. Non può continuare a lavorare nella tv «in mano alle destre» (vedi Lucia Annunziata). Simpatico come un 730 da compilare, il tam-tam è iniziato con largo anticipo sulla scadenza, fra due mesi, del contratto. Si profila un’altra maledetta primavera di forse sì e forse no. Ogni volta un caso di Stato e, francamente, non se ne può più. Eppure c’è chi preferirebbe lasciarlo dov’è, Fazio. E potrebbero pensarci anche i padroni del vapore, Giorgia Meloni e i suoi uomini. Sarebbe un’astuzia che potrebbe spiazzare i fautori dell’«ora tocca a noi». Ma, in realtà, non se ne può più di vedere il «fratacchione» frignare per la mancanza di libertà. Magari gli si potrebbe sforbiciare la cresta del cachet da 1,9 milioni a biennio strappato nel maggio 2021. Continuare a lavorare con la squadra collaudata è pur sempre buona cosa, piuttosto che ricominciare da zero in una tv marginale come Nove, gruppo Discovery…

Da Viale Mazzini filtrano i rumors di scatoloni che si riempiono. A lungo atteso, il risiko delle nomine è partito. I dirigenti destinati a cambiare aria sono più d’uno, dall’amministratore delegato Carlo Fuortes al direttore dell’Intrattenimento prime time, Stefano Coletta, inventore seriale di flop (da Da grande di Alessandro Cattelan fino a Benedetta primavera). E prima o poi qualcuno farà i conti dei costi della sterminata sequenza d’insuccessi. Il vicedirettore dell’Intrattenimento daytime Angelo Mellone, in quota Fratelli d’Italia, sarebbe in odore di promozione, ma forse non a capo della fiction come lui spera. Protetta dal  solito Coletta che la portò da Rai 3 a Rai 1 sembra in declino la stella di Serena Bortone. Per Silvia Calandrelli, responsabile di Rai Cultura sotto la cui giurisdizione Fazio si è spostato per sfuggire alla direzione Intrattenimento, si dice invece sia arrivata l’ora di una nuova destinazione. Questione di settimane e la governance della tv pubblica sarà diversa.

Secondo i beninformati, a mettere in giro le voci del drammatico addio a Mamma Rai sarebbe lui stesso, EffeEffe. Gioca al rialzo, con la sapiente regia di Beppe Caschetto, che ha un nutrito stuolo di artisti e autori da piazzare come ospiti fissi, ospiti saltuari, ospiti frequenti, collaboratori e consulenti, prima, durante e dopo, al Tavolo, nel salotto, sopra e sotto la panca. Che tempo che fa è il giocattolo perfetto per il pubblico benpensante. Costruito e lubrificato negli anni. Nei decenni, già due (potrebbero pure bastare). Un terzo di buonismo, un terzo di perbenismo, un terzo di progressismo e il piatto è servito. Il nuovo film di Veltroni («ma anche» il nuovo documentario, il nuovo saggio, il nuovo romanzo, il nuovo giallo…). Una predica di Saviano. Una prescrizione vaccinale di Burioni. Una promozione dello scrittore da festival. Qualche regista e qualche attore/attrice del quartiere Prati. Il comico mainstream. Un tot di giornalisti allineati, meglio se del gruppo Cairo, vista la danarosa rubrica che EffeEffe tiene su Oggi (si parla di 6.000 euro al mese, beato lui): ed è sempre meglio essere riconoscenti. I compitini di Luciana Littizzetto. I monologhi moraleggianti di Michele Serra. Varie ed eventuali, sempre nel mood del dagli alle destre ora che il fascismo è di nuovo qui.

I siti specializzati tambureggiano da giorni. Dissodano il terreno. Preparano la strada per il sempre ventilato ritorno da La7 di Massimo Giletti. Uno se ne va e l’altro arriva. Ci sarebbero già stati dei contatti. Giletti rientrerebbe di corsa in Viale Mazzini. Quanto a Fazio, anche due anni fa si era parlato di un approdo su Nove, dove c’è ad attenderlo Maurizio Crozza, anche lui targato Caschetto. Sembrerebbe un gioco facile. La quadratura della tv ai tempi del governo più a destra della storia repubblicana.

Però, forse no. Il colpo a sorpresa potrebbe essere lasciare Fazio dov’è. Nella Ztl della Rai. Dove lo seguono quelli del salotto chic. Gli elettori dem. I convinti del gender. I fautori dell’accoglienza senza se e senza ma. I followers di Fedez. I transfughi di Propaganda live. I delusi da Soumahoro. I lettori di Vanity Fair. I nostalgici delle Invasioni barbariche… Il recinto dei buoni. Spingerlo fuori da Rai 3 vorrebbe dire vederlo atteggiarsi a martire, sentirlo piangere per le libertà costituzionali violate. E magari rischiare l’accusa di scarsa lungimiranza editoriale. Giletti potrà tornare lo stesso in Rai, il posto non manca. Ma lasciare il giocattolino a EffeEffe, concedendogli di restare nella Ztl della tv, vorrebbe dire mostrarsi veri liberali. Riuscendo, contemporaneamente, a depotenziarlo.

Il golpetto di Amadeus per Mattarella all’Ariston

Il Cda Rai si preoccupa di non essere stato informato della presenza del presidente Mattarella all’Ariston. Per me è qualcosa che valorizza l’intera azienda Rai e al loro posto direi grazie a qualunque persona abbia fatto in modo che il presidente fosse all’Ariston. Invece di colpevolizzarlo andrei a stringergli la mano». Parole e musica stonate di Amadeus, direttore artistico e conduttore del Festival della canzone italiana. In buona sostanza, i dirigenti Rai dovrebbero ringraziarlo ora che, nei fatti, lui e il suo manager hanno preso il loro posto. Il giorno dopo la trasferta sanremese del presidente della Repubblica i contorni di tutta l’operazione vanno chiarendosi. A tracciare il bizzarro scenario che abbiamo osservato in queste ore sull’asse Ariston-Quirinale concorrono diversi fattori. C’è una Rai priva di un vertice solido e di una catena di comando autorevole e operativa. C’è un Cda, rappresentante del Parlamento, che non sa farsi rispettare, come già visto in occasione della querelle sull’ospitata del presidente ucraino Volodymyr Zelensky (attivata da un pur autorevolissimo giornalista che ha svolto compiti di intermediario in forma privata). C’è un organo di controllo, peraltro da abolire, come la Commissione di Vigilanza, che attende da mesi d’insediarsi. C’è un ubiquo presentatore al quale ormai è stato appaltato mezzo palinsesto Rai, che dirige e conduce la più importante manifestazione culturale del Paese per il quarto anno di fila (arriverà anche il quinto). C’è il suo potente e molto manovriero agente senza il quale sembra impossibile organizzare la kermesse, che pure vorrebbe portarla fuori dal teatro in cui si realizza da sempre, come per altro ripetutamente auspicato dall’altro presentatore di punta del gruppo (Paolo Bonolis), che potrebbe avvicendare quello in carica fino al 2024.

Sono le condizioni del colpo di mano in Viale Mazzini consumato in questi giorni. Parlare di colpo di Stato sarebbe troppo, anche considerando che protagonisti dell’azione che ha portato Sergio Mattarella sul palco dell’Ariston per l’inaugurazione del Festival sono gli uffici del Quirinale e della tv pubblica, due organismi statali. Sarebbe troppo, certo. Ma fino a un certo punto. Lucio Presta, agente di Amadeus, e Giovanni Grasso, consigliere per la comunicazione del presidente della Repubblica, «si conoscono e si stimano da tempo. Ecco perché la trattativa è stata gestita da loro», ha rivelato il conduttore, buttandola sul tenero. L’ad Rai Carlo Fuortes è intervenuto solo nella fase finale. Nessuna parte in commedia hanno, invece, avuto gli altri dirigenti, informati a cose fatte come attestato dalla lettera alla presidente Marinella Soldi dei consiglieri d’amministrazione, infuriati per essere rimasti all’oscuro della laboriosa trattativa. In Rai hanno fatto tutto Amadeus e il suo manager. Che poi ha coinvolto Roberto Benigni, anch’egli della sua scuderia, chiamato per confezionare l’avvertimento della serata al governo in carica. Se volete fare le riforme costituzionali, presidenzialismo e autonomia territoriale, dovrete avere il nostro benestare, quello dei vertici istituzionali e dell’establishment del Paese.

Per recapitare il messaggio si poteva ricorrere anche a qualche violazione del protocollo. Ed è ciò che successo. Lo ha confermato ieri mattina il direttore artistico del Festival tra un’esultanza per lo share da record (drogato dal nuovo sistema di rilevazione, infatti in termini numerici il dato è inferiore all’anno scorso) e un mea culpa per la sbroccata di Blanco. «Grasso e Presta da un anno lavoravano insieme a me affinché questo nostro sogno si potesse realizzare», ha ammesso Amadeus. «Questa operazione, segreta per una ragione di sicurezza, è avvenuta quasi in forma privata, non istituzionale. Il Quirinale ci ha chiesto di non dirlo a nessuno, di tenerlo per noi tre».

Dunque, esautorato il Cda, esautorata la presidente Soldi, esautorato è stato anche il direttore dell’Intrattenimento del prime time, Stefano Coletta. Il quale ha sussurrato: «Non ho partecipato all’operazione, ma quando nell’imminenza ne sono stato informato, sono stato molto contento che avvenisse, molto emozionato». Prima di chiudere, con voce flautata: «Non mi sono sentito sminuito per nulla». Insomma, dopo che il regalo è arrivato, qualcuno, aprendolo, si è molto risentito e qualcun altro ha fatto buon viso anche se chi l’ha scelto non ne aveva i titoli. Così è se vi pare: in assenza di decisioni della politica, le leve di comando della Rai vengono impugnate da chi è più lesto. Nel suo delirio di onnipotenza, Amadeus ha risposto anche al vicepremier Matteo Salvini che aveva criticato la scelta di difendere la Costituzione dal palco di Sanremo e annunciato che sabato non guarderà la serata finale: «Sono quattro anni che se la prende con il Festival: basta non guardarlo», ha concesso il presentatore. «So che sabato vedrà un film, spero sia bello». L’articolo 21 della Costituzione garantisce anche la libertà di telecomando.

 

La Verità, 9 febbraio 2023

Il Festival di Alcatraz e la Ferragni allo specchio

Le pagelle della serata d’esordio del 73° Festival di Sanremo.

Il Festival di Alcatraz. Voto: 3

È il dogma stesso del Festival da rimettere in discussione. Obbligo sociale, politico, civile. Una sorta di prigione in cui la Rai sta chiudendo il pubblico. Non solo come entità televisiva, ma proprio come spazio. Il martellamento a tutte le ore e in tutti i programmi, dal Tg1 agli spot fino alle rubriche periferiche, sono il luogo della costrizione. Asfissiante. Anche nell’ora d’aria si resta in galera. La macchina fagocita tutto come un mostro onnivoro. E nell’opinione pubblica che si avvertono i conati pre-rigetto.

La prima serata. Voto: 5

Manca soprattutto il ritmo, l’idea, il profilo della serata, prigioniero della sua eccessiva istituzionalizzazione. Il Festival è quasi coetaneo della Costituzione e l’Ariston sembra La Scala. Quando entrano Anna Oxa e non si capiscono le parole, e quando compaiono Mamhood e Blanco e si capiscono i lamenti, tutto precipita. E non risale neanche con le stecche dei Pooh…

L’asse Fuortes-Presta. Voto: 7

La coppia amministratore delegato superagente ha messo a segno il colpo dell’anno: Sergio Mattarella all’Ariston ad ascoltare Roberto Benigni che esalta la Costituzione. Senza il 75º anniversario della Carta vivevamo lo stesso, ma il pretesto è servito per allestire il momento patriottico introdotto dall’Inno di Mameli (da non chiamare Fratelli d’Italia). Messaggio primario: per cambiare la Carta in tavola, Giorgia Meloni dovrà passare sul nostro corpo. Effetto secondario: Fuortes e Presta si sono autoblindati.

Roberto Benigni costituzionalista. Voto: 5

A un certo punto, vista l’enfasi, pareva che parlasse del Vangelo. Un libro che salva e redime da tutto. Ci si aspettava un collegamento tra la Carta e l’arte, è arrivato il poco originale elogio dell’articolo 21 («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero»), in perfetto stile Repubblica. Unico guizzo quando, rivolto a Mattarella, ha detto che la Costituzione è praticamente «sua sorella», riferendosi alla presenza del padre di lui tra i costituenti.

Gianni Morandi finto tonto. Voto: 7

Con tutto quello che ha fatto e visto in carriera non conosce l’ansia da prestazione. Finge di non capire, gioca a fare la spalla, si prende in giro cantando le sue ciofeche. Sta sul palco come a casa sua. Infatti, dopo la sbroccata di Blanco, impugna la scopa e spazza. Risolutivo.

I favoritissimi della gara. Voto: 6

La tuta nera di pelle di Marco Mengoni, a metà tra i Village people e Alberto Sordi, rischia di distogliere dal testo della canzone. Idem l’esplosiva Elodie in versione come ti svesti. Piace il crescendo di Ultimo, ma anche lui non è aiutato dall’audio. Ricorrere ai sottotitoli?

Chiara Ferragni, la vita è un selfie. Voto: 4

La maggiore delusione della serata. Non s’infierisce solo perché è un esordio. Per tutto il tempo parla e dice di sé. Della sua emozione, del suo nervosismo, di come si è preparata, di cosa dicono i suoi abiti (il terzo era la tutina glitterata smessa da Achille Lauro?). Vive davanti allo specchio. Il primo post è rivolto a sé stessa: «Pensati libera». La letterina da terza media del monologo pure. Una galleria di banalità nel mood del piagnisteo vittimista. Si rimpiangono Drusilla Foer, Sabrina Ferilli, Diletta Leotta e Gegia.

Blanco, una bestemmia in chiesa. Voto: 4

Prendere a calci i fiori nella città dei fiori è lo sfregio peggiore. Gli scenografi avevano addobbato il palco con migliaia di rose rosse, come da titolo della sua canzone (L’isola delle rose) e da video della stessa nel quale le strapazza. Il ricevitore sbagliato consegnato dai tecnici non gli faceva sentire la voce in cuffia. E lui ha perso il controllo, magari perché troppo carico…

Fiorello: «Non risparmio nessuno, ma ficco poco»

È un Fiorello ecumenico, conciliante ma preciso, ovviamente divertente quello che è arrivato «come un ciclone» nella Sala degli Arazzi di Viale Mazzini per improvvisare la conferenza stampa di Viva Rai 2, da lunedì prossimo alle 7,15 sulla rete del titolo. Un Fiorello in ottima forma, pur con tutte le paturnie tipiche di un artista sensibile alla vigilia di un esordio impegnativo: sei mesi in onda all’alba su una rete generalista. Ad attenderlo nel palazzone di vetro con il cavallo simbolo, meta del tragitto in vespa e filmato in diretta dal Glass di Via Asiago, sede del programma, c’era tutto il vertice Rai pronto alla gara dell’elogio più sperticato. «Fiorello è un uomo del servizio pubblico che con questo programma regala a tutti gli italiani la possibilità d’iniziare la giornata con il buonumore» (Carlo Fuortes, amministratore delegato). «Fiorello è il numero uno europeo dell’intrattenimento perché ha capacità come nessuno di stupirsi delle piccole cose e trarne una grande creatività» (Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento primetime). «Caro Fiorello, sappi che tutti i programmi del daytime sono aperti a qualsiasi incursione» (Simona Sala, direttrice Intrattenimento daytime). Un contesto tanto istituzionale e zuccheroso non poteva che innescare la modalità più conciliante dell’artista siciliano. Il quale ha subito smorzato potenziali polemiche: «Non c’è stato nessun dirottamento da Rai 1. Come si dice: quando si chiude una porta si apre un portone. Capisco che i giornalisti del Tg1 difendano il loro spazio. Poi c’è modo e modo di dire le cose. Ho trovato poco elegante quel comunicato, si poteva fare una telefonata. Io sono il migliore amico del Tg1… Anche se leggere la parola “sfregio” mi ha lasciato un po’ così».

L’idea di Rai 2 è stata immediata. In un primissimo momento, si era pensato addirittura a Rai 5. Poi però si è rimasti sulla rete generalista perché, rispetto all’Edicola Fiore di qualche anno fa su Sky, la differenza è proprio questa: vedere se il morning show imperniato sulle news attrae anche il pubblico della televisione generalista. E qui sono emersi i timori di Rosario perché, considerato il successo del rodaggio su Raiplay, «non vorrei che l’Aspettando… si rivelasse più divertente dell’aspettato… come quando senti le scarpe vecchie più comode di quelle nuove. E poi anche perché chiunque tocca Rai 2 muore. Però va bene così, a quell’ora fa l’1%, se faccio il 2 cresco del 100%, se arrivo al 4 divento ad della Rai e… chiamatemi Fiorellos». Se invece va male oggi in Rai non si sa chi chiamare perché il direttore non c’è più. «Questo fatto l’ho realizzato adesso. Una volta il direttore rispondeva, ma adesso chi risponde? Tu, per esempio, che fai?», ha scherzato rivolto al capo dell’Intrattenimento primetime Coletta, la cui presenza per un programma delle 7 del mattino poteva sembrare effettivamente pleonastica a fronte di quella contemporanea della collega del daytime.

Però, come detto, il clima era conciliante. Tanto più dopo la digressione sulla tragedia di Ischia, toccata anche durante la diretta su Instagram. «L’Italia va aggiustata, non rattoppata», ha detto quasi con un moto di ribellione. «Invece, dopo, diciamo sempre che si poteva evitare. È un discorso che riguarda destra, sinistra, tutti… C’è un po’ d’ipocrisia anche in noi, quando diciamo the show must go on. Io non so come si poteva evitare, sono solo un giullare». Sarà. Ma, con Aspettando Viva Rai 2, Rosario ha dato un po’ a tutti la linea del buon senso sui Mondiali del Qatar, sulla polemica riguardo la figlia di Giorgia Meloni offrendosi come «tato», su Enrico Letta che fa «numeri da Rai 2», su Ignazio La Russa che vorrebbe solo «canzoni del Ventennio». «Destra, sinistra, centro: non guardiamo in faccia nessuno. Ma sempre senza astio, la satira ficcante la fanno altri… Io ficco poco. Però una strada la troveremo…». La sfida è sempre innovare, trovare l’idea che ci porti più avanti. Come ha sempre fatto, cominciando da #Ilpiùgrandespettacolodopoilweekend, il primo show in onda di lunedì che stupì Bibi Ballandi, per proseguire con l’Edicola Fiore sulla pay tv, fino a Viva Raiplay, per lanciare la piattaforma omonima. Tutte idee di «questo signore di 62 anni», ha concluso Claudio Fasulo, vice dell’Intrattenimento serale. Già, Fiorello ha cinque più del solito Coletta: «E io che ti ho sempre trattato come un uomo d’esperienza… Dev’essere il peso dei libri», ha gigioneggiato poco dopo avergli troncato una citazione del Fanciullino: «E su Giovanni Pascoli, il microfono venne tolto…».

Con la sua squadra, dall’ottantenne Ruggero al tiktoker Gabriele Vagnato, dal corpo di ballo di Luca Tomassini al maestro Cremonesi, quelli che lui chiama la pancia del Paese, qualcosa s’inventerà anche stavolta, Rosario. Un programma virale, una scia tra reti, anche nella notte di Rai 1 con qualcosa di creato ad hoc per i nottambuli, poi in radio e nei social. Ospite della prima puntata, Amadeus: «Non ho nemmeno avuto bisogno d’invitarlo. Annuncerà i cantanti in gara al Festival. Io a Sanremo? Ma ci sono stato già tre volte di fila. È un record…».

 

La Verità, 29 novembre 2022

 

 

Il Tg1 spinge Fiorello su Rai 2. Ma è vera vittoria?

Mentre ci si chiede se sia prevalente la responsabilità aziendale di Fiorello e dell’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes che, dopo la vibrata protesta dei giornalisti del Tg1 capeggiati dall’iperpresenzialista Monica Maggioni, hanno deciso di traslocare il nuovo programma su Rai 2 o se, piuttosto, in questa scelta covi un sanissimo istinto di vendetta sul telegiornalone che ha opposto resistenza, una cosa è certa: i vertici Rai hanno dimostrato la solita mancanza di visione e, soprattutto, di polso. Come si fa a trasmettere un programma di punta affidato all’artista italiano più popolare in una rete secondaria? Come si fa a cedere alle rimostranze miopi e corporative dei sindacalisti del tg? Trovare una risposta minimamente soddisfacente è davvero difficile. Sta di fatto che, nello scontro tra la Maggioni e Fiorello, ha vinto la signora. Tuttavia, sarà il tempo a dire se di vera vittoria si tratta.

Dopo l’inusitato braccio di ferro innescato dal Cdr del Tg1 contro la rassegna stampa comica condotta dall’artista siciliano, ieri l’ad di Viale Mazzini ha annunciato al Consiglio d’amministrazione che il programma andrà in onda su Rai 2 nella fascia tra le 7 e le 8,30 e s’intitolerà, appunto, Viva Rai2. L’esordio avverrà il 7 novembre su RaiPlay, il 5 dicembre sbarcherà sulla seconda rete e proseguirà fino a giugno per un totale di 135 puntate. «Ringrazio la Rai, soprattutto l’amministratore delegato Carlo Fuortes e Stefano Coletta (direttore dell’Intrattenimento del prime time ndr), per avermi dato la possibilità di tornare in Rai e di farlo su Rai 2», ha affermato lo showman. «È una scelta che mi rende felice, io amo le prime volte, anche se in realtà si tratta di un ritorno. Approdo al mattino presto di Rai 2 con un progetto a cui tengo molto, e che come fu con Viva Radio 2 e Viva RaiPlay, ha quel sapore gioioso di un nuovo inizio».

Anche se chi gli sta vicino lo dava dispiaciuto e contrariato, Fiorello, uno che andrebbe tutelato come patrimonio del divertimento, non si è perso d’animo per l’ostracismo architettato dalla signora del tg, preoccupata che l’avvento del nuovo programma palesasse la differenza di audience con la sua creatura. Dovunque era stato accolto con stupore il comunicato vergato dai membri del Cdr Roberto Chinzari, Leonardo Metalli e Virginia Lozito (uno dei quali fino a poco prima corteggiava lo showman perché lo facesse collaborare) in cui si lamentava «lo sfregio al nostro impegno quotidiano». Il varo della rassegna stampa rompeva il giocattolo: «Noi come Cdr della redazione del Tg1 sottolineiamo la battaglia fatta per ottenere quegli spazi e lo sforzo enorme compiuto da tutti noi sul mattino, impegnandoci su un lavoro di ripensamento e valorizzazione di quella fascia», si leggeva nel comunicato. Peccato che lo «sforzo enorme» e il «lavoro di ripensamento» non stavano portando i risultati sperati, tanto che, proprio in quella fascia oraria, la concorrenza di Canale 5 si aggiudicava regolarmente la gara dell’audience. Chissà, dev’esser stato per questo che i vertici aziendali avevano pensato alla striscia quotidiana affidata alla verve del comico siciliano. Ma nella ridotta di Saxa Rubra i giornalisti del Tg1 reagivano come i cittadini di Piombino davanti al rigassificatore.

«Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico, generando confusione nel pubblico a casa?». Già, visto comparire Fiorello al posto dei mezzibusti del Tg1-Mattina, i telespettatori si sarebbero subito lamentati per l’interruzione del «flusso informativo» e la «confusione» ingenerata. Dopo l’esecrazione universale prodotta dalle loro stesse parole, i sindacalisti avevano tentato un’imbarazzante retromarcia con una lettera all’artista autore dello «sfregio» nella quale, dopo un untuoso «Caro Fiore», assicuravano che il Tg1 «nutre grande stima per il tuo lavoro e si diverte come tutti, da sempre, con le tue invenzioni televisive». La colpa dello scontro, ovviamente, era di chi aveva riportato la notizia. «Il Tg1 non è in guerra con nessuno, come scrivono i giornali, tantomeno con un artista del quale continuamente racconta le mirabili imprese televisive». Insomma, tutto falso, tutto inventato. A sorpresa, dimostrando poca compattezza e molto autolesionismo, i vertici aziendali – non si afferra bene perché comprendano in questa vicenda anche il direttore dell’Intrattenimento prime time – avevano nel frattempo già deciso lo spostamento su Rai 2. E così, tutti contenti per la vittoria, i sindacalisti del tg ammiraglio avevano rinfoderato la protesta e cancellato l’assemblea di redazione. «Ringrazio i giornalisti del Tg1 per le parole di stima nei miei confronti, contenute nella lettera pubblicata ieri, e auguro loro di trovare le risposte e le soluzioni per lavorare al meglio», ha concluso Fiorello spruzzando un po’ di veleno nella coda.

Ora non resta che attendere la partenza della sua rassegna stampa. A quell’ora Rai 2 fa ascolti da monoscopio, mentre Rai 1 galleggia tra il 10 e il 13% di share, sempre inferiore a quella di Canale 5. Chissà se quando debutterà Viva Rai2, al Tg1 resterà ancora il buon umore.

 

La Verità, 21 ottobre 2022

Aboliamo la Vigilanza, residuato dell’era sovietica

Un angolo di Unione sovietica in Italia. Un retaggio della vecchia Urss. Oppure una scheggia di regime putiniano. Ce l’abbiamo oggi nel nostro Paese: è la Commissione di Vigilanza sulla Rai. Denominazione ufficiale: Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Emblematico, no? Propaggine di un’epoca che s’immaginava finita con la caduta del Muro di Berlino. Avrebbe dovuto essere asfaltata nel secolo scorso, invece continua a vigilare. Già la stessa esistenza di un organismo composto da politici che sorvegliano l’operato di un’azienda che si occupa d’informazione e intrattenimento è significativa. Se poi aveste assistito a una sua seduta nell’austero Palazzo San Macuto avreste di che sorridere. San Macuto è un palazzo nel cuore della Roma politica, specializzato nell’ospitare commissioni dal fascino sinistro come quella per l’antimafia e quella per la sicurezza della Repubblica, il famigerato Copasir. Seguire un’audizione è un’esperienza memorabile. Come guardare una docufiction brezneviana, uno show distopico, viaggiare con la macchina del tempo. Banchi d’aula in teak, microfoni snodabili, riprese con telecamera fissa. Mentre a livello planetario la comunicazione viaggia sul web e gli esperti studiano come liberarsi dalla cappa degli algoritmi, nel nostro pittoresco Paese sopravvive un posto dove l’amministratore delegato della più importante azienda culturale deve giustificare come un esaminando perché promuove Tizio, rimuove Caio o pensa di affidare un programma a Sempronio. Non a caso è in questa commissione dove la politica ridimensiona, rimonta ed esautora i manager che, puntualmente, a ogni cambio di governo annunciano l’attesa rivoluzione in Rai. Nelle riunioni della Vigilanza a San Macuto sono state affossate la riforma delle newsroom di Luigi Gubitosi, quella della media company di Antonio Campo Dell’Orto e ora sta subendo violenti colpi di maglio il piano editoriale per generi di Carlo Fuortes.

L’audizione del 15 giugno era stata convocata perché l’amministratore delegato «fornisca chiarimenti» a proposito della rimozione di Mario Orfeo dalla direzione dell’area Approfondimenti e del suo ritorno al Tg3, il trasferimento di Antonio Di Bella nella casella degli Approfondimenti e il passaggio di Simona Sala al daytime. C’era poco tempo, ma Fuortes doveva spiegare oltre il domino di nomine, l’ipotesi di vendita della sede di Viale Mazzini ed eventuali decisioni riguardo al Piano editoriale, con particolare riferimento ai talk show. In queste audizioni l’ad siede tra un dirigente Rai che lo accompagna per solidarietà e il presidente della Commissione, che in questa legislatura è Alberto Barachini di Forza Italia. Al termine della comunicazione dell’amministratore convocato, dopo aver dondolato il capo in segno di disapprovazione, sono intervenuti i vari commissari. L’altro giorno gli autori dei niet più inappellabili sono stati Valeria Fedeli e Andrea Romano del Pd e Michele Anzaldi di Italia viva, per l’occasione allineatissimo alle dure critiche dei colleghi vigilanti del suo ex partito.

Il tema che sta davvero a cuore ai commissari dem e pure di Forza Italia sono comunque i talk show. Dopo le polemiche di qualche settimana fa, in coda alla partecipazione remunerata, poi trasformata in gratuita, del professor Alessandro Orsini a Cartabianca di Bianca Berlinguer, sembrava che la questione degli ospiti e dei loro contratti fosse stata archiviata per sempre. Invece no. Non potendo più contestare la decisione di spostare Orfeo al vertice del Tg3, ormai approvata dal Cda, Barachini ha rispolverato la grana esercitando il suo potere di «indirizzo e vigilanza» su come vengono scelti ospiti, esperti e opinionisti e se costoro debbano essere contrattualizzati. L’idea è commissionare un sondaggio a un istituto demoscopico per chiedere lumi ai telespettatori. Non è difficile immaginare che la demagogia avrebbe facile presa: un idraulico o un elettricista che prestino la loro opera hanno diritto alla sacrosanta mercede; un docente universitario che abbia studiato decenni o un giornalista che abbia conquistato autorevolezza in qualche materia e spendano una serata in tv invece di farsi i fatti propri o di andare in un canale concorrente, no.

In un’informazione pubblica che di fatto risponde a un governo di unità nazionale, con tutti e tre i telegiornali appiattiti sulla linea di Palazzo Chigi, i talk show politici – cioè la sola Cartabianca, perché anche Porta a Porta è filogovernativa – sono l’unico spazio che ospita punti di vista dissonanti. Stabilire criteri di approvazione degli ospiti significa espropriare conduttori e autori dell’autonomia produttiva. E puzza di intenzione normalizzatrice. Come si sa, la campagna anti-talk occupa da settimane le testate governative, dal Foglio al Corriere della Sera, quest’ultimo di proprietà dello stesso editore di La7, rete lastricata di programmi concorrenti della Rai. La proposta del sondaggio di Barachini ha trovato l’opposizione di Fdi e 5 stelle e l’approvazione di Pd, Italia viva e Forza Italia.

Personalmente e assai più modestamente propongo un sondaggio sull’abolizione della commissione di Vigilanza, ultimo pezzo di Unione sovietica attivo in Italia. Sarebbe il modo per avviare il riassetto del servizio pubblico, iniziando a sganciarlo dalla politica. Chissà se il Pd, che ha più sedi in Rai che nel resto del Paese (copyright Michele Santoro), lo appoggerebbe.

 

La Verità, 17 giugno 2022

 

Il caso Orsini e il regime soft dei migliori

La censura dei migliori. Operata dai migliori. I buoni, quelli che stanno dalla parte giusta della Storia. La vittima è il professor Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo internazionale presso la Luiss (Libera università internazionale di studi sociali). Colpevole di avere posizioni non allineate al pensiero unico atlantico. E per di più colpevole di percepire 2.000 euro a puntata per sei puntate di #Cartabianca alle quali l’aveva invitato Bianca Berlinguer. È un filputiniano, così è stato marchiato, lo si può colpire. Dopo la prima ospitata e la levata di scudi, preventiva ma unanime, dal Pd a Italia viva, la Rai ha stracciato il suo contratto. Il direttore di Rai 3, Franco Di Mare, «d’intesa con l’amministratore delegato della Rai» ha deciso di non dar seguito all’accordo «originato dal programma #Cartabianca che prevedeva un compenso per la presenza del professor Orsini». È la Rai al tempo di Mario Draghi e di Carlo Fuortes. Eccezioni e dissonanze non sono tollerate. Almeno Silvio Berlusconi aveva il coraggio di diramare un editto. Ora si censura con un comunicato, in sordina. Con i modi del regime soft. «Mamma Dem comanda e la Rai ubbidisce», ha twittato Marcello Veneziani. Corradino Mineo ha parlato di maccartismo.

Lo scandalo è doppio. Innanzitutto che Orsini esponga critiche alla Nato e all’Unione europea a proposito della situazione che ha portato all’invasione di Putin dell’Ucraina. E poi che lo faccia essendo retribuito. Da Paola Picierno a Stefano Bonaccini, da Andrea Romano a Michele Anzaldi il senso del ragionamento è questo: se vuole dire le sue opinioni lo faccia gratis. Domanda: per essere pagati, come lo sono tutti gli opinionisti da Mauro Corona ad Andrea Scanzi, da Giampiero Mughini a Beppe Severgnini per citare i primi nomi che vengono, bisogna dire cose gradite al padrone del vapore? Berlinguer ha replicato che se si vuole approfondire il dibattito (i talk non si chiamavano programmi di approfondimento?) il contraddittorio è necessario. Escludere una voce rappresentativa di un’opinione presente nella società italiana lo mortificherebbe. «Serve la più ampia pluralità di idee. Non è forse questa la missione del servizio pubblico?», ha chiesto Berlinguer. Orsini si è detto pronto a partecipare al programma anche gratuitamente. Vedremo se il problema sono gli euro o i contenuti del professore. O magari la Berlinguer stessa, che la Rai draghiana vuole accantonare.

La gran cassa del monopensiero lavora a tempo pieno fin dalla pandemia. E con l’invasione dell’Ucraina ha serrato ancora di più le file. In pochi giorni abbiamo letto la lista di proscrizione di indegni filoputiniani, sorta di scomunica civile, redatta da Gianni Riotta. Abbiamo visto Beppe Severgnini accaldarsi nel dire «che bisogna leggere solo i giornali giusti e guardare solo i programmi giusti». Abbiamo letto Massimo Gramellini randellare tutti coloro che deviano dal sentiero bellico per dire che con costoro non ci può essere alcun dibattito. Abbiamo letto Antonio Polito scrivere scandalizzato che «in ogni talk show ce n’è uno». Sarebbe questo lo scandalo. Invece, mi verrebbe da dire: grazie a Dio. Anche se non condividessi nulla di ciò che questo «uno» sostiene. È un fatto di pluralismo, bandiera ammainata dalla sinistra. Di salute della democrazia, principio che ormai i dem disconoscono. Tutti allineati e coperti, si diceva da militare. E chi sgarra, in punizione. O censurati. Dai migliori.

 

La Rai di Fuortes premia il re dei varietà flop

Con la riforma per generi della Rai, ideata da Fabrizio Salini, e abbracciata dall’attuale amministratore delegato, Carlo Fuortes, il direttore di Rai 1, Stefano Coletta, dovrebbe insediarsi alla direzione della struttura per l’intrattenimento di prima serata. Insieme con quella della fiction, è la più ricca delle dieci aree in cui verrà organizzata la tv pubblica. La ratio della riforma è il contenimento dei costi, da attuare riportando le produzioni all’interno, invece di ricorrere alle troppe società esterne. Ma per raggiungere l’impegnativo obiettivo serve una buona squadra di autori, ben guidata dai dirigenti scelti allo scopo. Se poi, come dice Carlo Freccero, autorità riconosciuta in materia, perseguendo il risparmio, questa pianificazione comporta «un taglio alla possibile diversità del pensiero», poco importa.

Per capire se il pubblico della Rai avrà motivi di soddisfazione dall’imminente promozione di Coletta, già direttore della Terza rete e issato sulla Prima durante il governo giallorosso, è utile chiedersi come abbia gestito il sabato sera, giorno chiave dei programmi d’intrattenimento. Le medie di ascolto dal 2 gennaio al 6 novembre 2021, nell’orario 21.30-24.30, parlano di 2.929.000 telespettatori con il 16% di share, per Rai 1, e di 3.973.000 ascoltatori, con il 21,7%, per Canale 5. Una forbice di oltre un milione di spettatori e di 5,7 punti percentuali a vantaggio della rete Mediaset. Divario motivato dal fatto che, se si eccettuano cavalli di battaglia come Ballando con le stelle ereditati dalle precedenti direzioni, i nuovi esperimenti si sono rilevati tutti clamorosi fallimenti.

Per i sabati dello scorso febbraio, nelle settimane che dovevano accompagnare al Festival di Sanremo, la direzione di Rai 1 aveva pensato a una serie di serate evento con i big della canzone italiana, presentate da conduttori diversi. La realizzazione era stata affidata a Ballandi multimedia. Ma il 13 febbraio, vigilia di san Valentino, Parlami d’amore, il varietà presentato da Veronica Pivetti e dal molto sponsorizzato Paolo Conticini che doveva fare da prologo ad altre 4 serate, raggranellava appena il 10,2% (2,3 milioni di spettatori) a fronte del 28,2 di C’è posta per te di Canale 5. Per la seconda puntata, la prima della serie intitolata A grande richiesta, erano stati schierati Patty Pravo e Flavio Insinna. Ma il risultato era stato ancora più deludente: solo l’8,3% e 1,9 milioni di telespettatori (C’è posta per te si era inerpicato fino al 30,3%). A quel punto, per ammortizzare i costi ormai sostenuti (si parla di 750.000 euro a serata), le successive puntate con Ricchi e Poveri, Loredana Berté e Christian De Sica, erano state dirottate al martedì, tuttavia, senza che la colonnina dell’Auditel s’impennasse.

Per il debutto della nuova stagione, invece, il pezzo forte doveva essere l’atteso esordio nella rete ammiraglia della tv pubblica di Alessandro Cattelan, il golden boy reduce dalle trionfali annate su Sky di X-Factor. All’inizio Da grande era stato programmato per sabato 18 e sabato 25 settembre, con conseguente destinazione del budget (pare vicino al milione di euro). L’investimento era forte perché, nelle intenzioni del direttore di Rai 1, le due serate dovevano aiutare il conduttore a familiarizzare con la rete in vista della promozione sul prestigioso palco dell’Eurovision song contest del maggio prossimo. Così, una volta scoperto che Maria De Filippi aveva anticipato la partenza di Tu sí que vales proprio al 18 settembre, per evitare al giovane Cattelan l’ìmpari duello, era stato spostato alla domenica sera. Ma anche con la più morbida concorrenza di Scherzi a parte, Da grande era rimasto piccolo (share tra il l 12 e il 13%).

Dopo tali avvisaglie non restava che puntare sul collaudato e affidabile Ballando con le stelle. La prima puntata confermava le speranze ben riposte, strappando un sostanziale pareggio con il programma di Canale 5 (anche se il numero di ascoltatori era di poco inferiore). Purtroppo, però, il sabato successivo tra i concorrenti si registrava l’assenza di Mietta causa Covid e la conseguente polemica, mal gestita a livello di comunicazione, finiva per appannare l’immagine del talent di Milly Carlucci. Che, continuando a flettere, ora si trova a 3,6 punti percentuali di distacco da quello di Canale 5 (21,8 contro il 25,4%).

Difficile dire che cosa riserverà il futuro ai telespettatori della Rai, quando Coletta ne dirigerà l’intrattenimento di prima serata di tutte le reti. Qualcosa si può immaginare per l’immediato futuro del pubblico di Rai 1. Negli ultimi anni, il primo gennaio aveva riscosso notevole successo Danza con me di Roberto Bolle. Stavolta, però, il direttore aveva voglia d’innovare. Alla presentazione dei palinsesti di luglio, aveva quindi annunciato per i sabati di gennaio, a partire proprio da Capodanno, quattro puntate di Meraviglie di Alberto Angela. Sfortunatamente non aveva previsto il diniego del conduttore, restio a confrontarsi con C’è posta per te della solita De Filippi. Incapace di imporsi, come in passato aveva fatto Teresa De Santis, convincendo Angela al duello del sabato sera peraltro con esiti dignitosi, Coletta sta facendo marcia indietro per ripristinare la serata di gala di Bolle. Mentre per i restanti sabati di gennaio si sta lavorando a un’edizione Nip di Tale e quale show, condotto da Carlo Conti. Quanto a Meraviglie, verrà programmato durante la settimana.

Tutto bene, dunque? Mica tanto, confidano i beninformati in Viale Mazzini. Perché, mentre le altre reti subiscono drastici tagli, per il valzer del palinsesto di Rai 1 servirà un extrabudget che potrebbe sfiorare i 4 milioni (500.000 a puntata per Tale e quale show e 1,8 milioni per Danza con me).

 

La Verità, 10 novembre 2021

Il gioco di squadra non abita in Viale Mazzini

Stasera è una serata no, per me», ha cominciato a lagnarsi fin dall’anteprima Bianca Berlinguer, martedì scorso. A farle da spala, c’era, come al solito l’«alpinista scrittore» Mauro Corona. Pausa pubblicitaria e imbeccata studiata ad hoc. No, con la «Biancaneve» non si può scalare, non si può finché la neve non è ben assestata. «Lei è assestata, Bianchina?». «Questa sera non sono per niente assestata, tutt’altro!», ha replicato la conduttrice. «Sono molto arrabbiata, ma non posso dirlo ai nostri telespettatori, non sarebbe giusto. Ma troverò il modo di comunicarlo…». Si sussurra di una telefonata di protesta ai piani alti di Viale Mazzini.

Il motivo del lamento è come mai Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, abbia scelto di sconfinare su La7 chez Giovanni Floris per difendersi dalle accuse di tenere bordone ai no-vax. Figuriamoci. La questione è grave ma non seria, come sempre in Italia, tanto più nella Rai del servizio pubblico. Detto in due parole: oltre che conduttore di Report, Ranucci è anche vicedirettore di Rai 3. Lunedì sera, all’interno del suo programma, aveva mandato in onda un’inchiesta nella quale si ponevano alcuni interrogativi sull’obbligo della terza dose vaccinale. Apriti cielo: il Comitato di salute pubblica, il mix di politici e opinionisti gauchistes che governa l’infodemia emergenziale, ha gridato allo scandalo, signora mia! Con la sua erre blesa e la sua aria ingannevolmente pacioccona, Ranucci ha dovuto trovare il modo di difendersi. Ho fatto solo del giornalismo, ha detto, dubitando che i detrattori del servizio incriminato l’avessero visto davvero perché, nel dettaglio, era tutt’altro che funzionale alla mentalità no vax.

Il problema per la Rai targata Carlo Fuortes, improvvisamente divenuta nella narrazione mainstream un posto idilliaco, è che queste argomentazioni Ranucci è andato a rappresentarle a DiMartedì (share del 4,8%, un milione scarso di spettatori), programma concorrente di #cartabianca (4,2%, 852.000 spettatori) in onda sulla rete che vicedirige. Bizzarro, no? Dopo aver scoperto che era stato regolarmente autorizzato, ancor più bizzarramente si è scoperto che, invece, non era stato invitato nel salotto di B.B. Ovviamente, Floris non ha perso l’occasione di ospitare il giornalista al centro delle polemiche. Così, ai piani alti di Viale Mazzini, hanno facilmente potuto replicare alla Berlinguer che avrebbe dovuto giocare d’anticipo. Ma si sa, il gioco di squadra non è esattamente il punto di forza della Rai. Per Fuortes e Marinella Soldi c’è ancora parecchio da lavorare.

 

La Verità, 5 novembre 2021