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«La globalizzazione è l’era della solitudine»

«Ho preso casa qui, nel quartiere di mia madre e dei miei nonni. È quasi un paese, un villaggio. Vede quel negozio? Può esistere solo a Fiera». A Treviso, Fiera è il posto dei bambini perché tutti gli anni, in ottobre, arrivano le giostre, si chiamano ancora così. Il «negozio» che indica Francesco Targhetta è una stanza spoglia davanti a una parete con qualche pacchetto di sigarette, nient’altro. Accendini, sigari, tabacco, caramelle, fazzoletti di carta, giornali, bibite, quaderni, penne neanche l’ombra. Un angolo di dopoguerra sopravvissuto finora. Trentanove anni, insegnante di liceo, esordio come poeta, Targhetta ha una predilezione per i contrasti, le sacche di desolazione del turbocapitalismo, la solitudine in piena globalizzazione. Nel romanzo Le vite potenziali (Mondadori), premio Giuseppe Berto e secondo classificato al Campiello, narra di tre amici, protagonisti di una piccola epopea nel mondo dell’informatica. Ma ciò che spicca sono gli stati d’animo, certe atmosfere umbratili rese con intuizioni fulminanti. Come quella usata per descrivere un senso di smarrimento dopo una domanda rimasta in sospeso: provocò «la stessa sensazione che si prova dopo aver lanciato un boomerang e averlo perso di vista».

A fine marzo Mondadori ripubblicherà Perciò veniamo bene nelle fotografie, insolito romanzo in versi di qualche anno fa.

Come si diventa poeti nella periferia di Treviso?

«Credo sia più facile scrivere versi da posti magari non belli, ma vivi. È più difficile scrivere in contesti da cartolina o di armonia sociale. La poesia nasce da una forma di ribellione e indignazione, un po’ come tutta l’arte».

Perché è passato al romanzo?

«Avevo scritto un romanzo in versi, forma abbastanza insolita, su un gruppo di studenti fuori sede a Padova. Il romanzo è più adatto a raccontare una storia complessa e articolata».

Come mai un insegnante ambienta un romanzo nel mondo dell’informatica?

«Ritengo interessante che gli scrittori raccontino mondi altri, che non scrivano sempre di sé».

Gli scrittori non scrivono sempre di sé anche sotto mentite spoglie?

«Un po’ è inevitabile. Anzi, quando ci si maschera è più facile lasciarsi intravedere».

È la cosiddetta autofiction?

«Un tempo non era così, ma oggi le vite degli scrittori sono particolarmente noiose, la mia di sicuro. Perciò devo andare per forza alla ricerca di qualcos’altro. Ho voluto conoscere un mondo diversissimo dal mio».

Esiste la Silicon Valley del Nordest?

«È una sintesi giornalistica. Non mi sembra che il polo scientifico e tecnologico di Marghera, possa definirsi tale. Ci sono alcune aziende disseminate che però non formano un distretto compatto».

È un Nordest compiuto, ma sempre dipendente da altri centri?

«I clienti dell’azienda, i grandi marchi sono altrove. I personaggi sono costretti a spostarsi, com’è naturale per qualsiasi consulente».

La periferia consente di godere di una migliore qualità della vita attingendo al centro quando è necessario, senza subirne i condizionamenti?

«Io non riuscirei a vivere altrove. La provincia dà il tempo e lo spazio che mancano nelle grandi città. Ne ho bisogno per vivere e anche per scrivere. Poi, certo, ha i suoi abissi, l’inquietudine di un luogo dove succedono meno cose. Però questo stimola la creatività; se succedono meno cose forse puoi farle succedere tu».

Cita le vie, le piazze: perché tanta attenzione alla toponomastica?

«Ho la passione per i nomi dei luoghi. Ce ne sono di poetici, a Marghera Via dell’Elettrotecnica o Via dell’Azoto, che costeggia il canale industriale ovest, sono già poesia, non serve metterla in versi. Oppure la tautologia del paese che si chiama Paese fuori Treviso, o del lago che si chiama Lago».

Quella che racconta è una storia di tradimento di un’amicizia?

«È il motore narrativo del libro».

Il tradimento dell’amicizia è più grave di quello dell’amore? L’amore ha a che fare con un sentimento primordiale che si confronta con la tentazione, nell’amicizia la tentazione non c’è.

«Non ci avevo pensato. Nel contesto di competizione esasperata attuale le tentazioni sono altre. La fedeltà dell’amicizia non è più scontata. Viviamo vite schizofreniche, continuamente rivoluzionate: mantenere qualcosa che duri è complicato».

Parlando di Luciano, la persona in cui più si riconosce, scrive: «Ci sono persone a cui neanche una volta capita nella vita di essere amate».

«L’esclusione dall’amore è un tema che mi sta molto a cuore. È una condizione che riguarda un numero crescente di persone. Di cui però non si parla mai, perché sono vite che hanno poco di romanzesco, in cui non succede niente. È un’esclusione subita, non scelta. Una manifestazione del processo di atomizzazione in atto».

Le vite potenziali sono quelle permesse dalla rivoluzione digitale e dalla realtà virtuale?

«Sono le vite che si sovrappongono a quella presente. Internet ci fa essere qui e ora, ma al contempo altrove in un altro momento. Non sono le vite alternative delle sliding doors, ma le vite che si sommano a quella che stai conducendo. Ora sono qui, ma prima ho inviato una mail alla quale intanto mi hanno risposto, quindi sono anche lì».

Sono potenziali anche le vite di una generazione che stenta a rischiare fino in fondo?

«Direi di no. Le vite potenziali sono transgenerazionali. Un mio amico che lavora in Confindustria mi diceva che oggi vengono considerati più positivamente i curriculum con tante esperienze lavorative brevi piuttosto che quelli con poche e di lunga durata. Uno che ha cambiato più lavori ha visto più cose, fatto più esperienze, è più elastico».

Anche se a volte, come scrivi, avendo marce in più le ingranano a caso?

«Esatto».

Anche quella dei figli nella pancia delle due ragazze sono vite potenziali?

«Rappresentano l’unico spiraglio di speranza del libro».

Fuori dalla casa di famiglia di Alberto un cartello recita: «La vita è di Dio, l’aborto è contro Dio». Anche gli aborti sono vite potenziali?

«Da ricercatore universitario ho curato un libro del poeta Corrado Govoni intitolato Gli aborti. È una parola che m’insegue… Da ipotetico padre non saprei quali reazioni avrei. Ho una posizione libertaria, che difende la libertà di scelta».

Se non sono vite potenziali quelle dei feti abortiti…

«Sicuramente lo sono, non c’è dubbio. Abbiamo scelto questo titolo perché in sociologia l’aggettivo potenziali descrive l’evoluzione della contemporaneità, il cambiamento».

Vede solo lati positivi nella globalizzazione?

«No. Gli aspetti negativi sono l’aziendalizzazione delle nostre vite e il consumismo dilagante. Certe formule applicate alla sfera privata. Basta pensare alle app di appuntamenti in cui esaltiamo le nostre caratteristiche e qualità come fossimo merce in vendita».

Scrivendo un romanzo su un’azienda informatica ha dovuto misurarsi con l’anglo-italiano.

«Alla fine è un gergo, come ce l’ha ogni mestiere. L’informatica è zeppa di anglismi, ho cercato di limitarli. Mi sembrava una bella forma di attrito quello fra la lingua della letteratura e questo gergo».

Oggi i trentenni dicono «un giorno spot» anziché «qualsiasi», e «scegliamo random» anziché «a caso». Stiamo perdendo l’italiano?

«Anche “spoilerare” anziché “rovinare il finale”. Le peggiori sono le espressioni adattate in italiano. Negli ultimi anni la nostra struttura lessicale si sta restringendo, mentre la nostra lingua è molto più ricca di vocaboli. Ma per esempio gli studenti ne usano sempre meno. Per una sorta di compensazione ho voluto inserire parole desuete e da cercare nel vocabolario, per mostrare le potenzialità dell’italiano».

Appunto. Un’altra particolarità sono i periodi fluviali, un rischio se non sono ad altissima definizione.

«Questo è un aspetto a cui tengo molto. È un’altra compensazione rispetto alla frammentazione del mondo che racconto. La mia risposta è questo periodare lungo ed esteso: voi avete i codici e i numeri, io ho le subordinate. Nelle scelte linguistiche e sintattiche c’è il mio stile, la mia risposta polemica alla tecnica».

Ha avuto dei maestri locali?

«Maestri è una parola che non mi piace. Modelli invece sì. Per la poesia Guido Gozzano e Elio Pagliarani. Per la prosa Luciano Bianciardi».

L’ultimo libro letto?

«Turbulence, un libro di racconti a partire da voli aerei, di David Szalay, uno degli scrittori più talentuosi delle nuove generazioni. Uscirà in ottobre da Adelphi».

L’ultimo film?

«Suntan, un film greco con un personaggio houellebecqiano».

Houellebecqiano.

«Michel Houellebecq è uno dei miei autori preferiti. Per me il suo libro migliore è il primo, Estensione del dominio della lotta, protagonista un informatico».

Se Houellbecq fosse italiano come lo tratteremmo?

«Continuerebbe a vendere bene, come già accade. Forse s’imbatterebbe in forme di ostracismo e di pregiudizio ideologico nella stampa e tra i colleghi. È un tipo di intellettuale dissidente, anarchico e conservatore, cui la Francia è più abituata. Da noi questi autori hanno sempre faticato a emergere. Basta pensare a Curzio Malaparte».

Il politicamente corretto influenza la nostra letteratura e la nostra editoria?

«Influenza le vendite e le classifiche più che la letteratura. I veri scrittori continuano a scrivere quello che vogliono, anche se hanno poca visibilità e facilità di vendita».

Il prossimo libro?

«Ci vorranno quattro o cinque anni, sono lento. Con la scuola, scrivo solo d’estate. L’idea è chiara in testa, sto iniziando a documentarmi. Come dice Ian McEwan, tra un libro e l’altro si deve diventare persone leggermente diverse. Quindi val la pena aspettare».

Che cosa le preme maggiormente trasmettere ai suoi studenti?

«Credo che dobbiamo imparare a non reagire al dominio della tecnologia solo con le emozioni. Ma dobbiamo cercare di recuperare il pensiero critico e la capacità di riflessione e di analisi».

 

La Verità, 26 febbraio 2019

«Imparare la lingua, via obbligata per integrarsi»

Antonia Arslan è una donna minuta con tanta storia sulle spalle. A ottant’anni è piena di energia. Viaggia molto. Incontra i giovani nelle scuole. Presiede un centro culturale. Nel suo libro più noto, La Masseria delle allodole (Rizzoli, 2004) – 38 edizioni, traduzioni in tutto il mondo e la trasposizione cinematografica di Paolo e Vittorio Taviani – ha raccontato le violenze subite dagli armeni durante lo sterminio del maggio 1915. Nell’ultimo, La bellezza sia con te, insiste sul «coraggio di vedere il bicchiere mezzo pieno». Il palazzo dove vive nel centro storico di Padova fu acquistato dal nonno nel 1930 ed è tuttora di proprietà della famiglia. Adiacente c’è la sede del centro culturale La casa di cristallo, dove ci incontriamo.

Il genocidio degli armeni ha un giorno della memoria?

«Il 24 aprile, il giorno prima della festa della Liberazione italiana. Si ricorda la notte in cui vennero prelevati i capi della comunità armena di Costantinopoli dai Giovani turchi».

È vero che la parola genocidio è bandita?

«In Turchia la parola soykirim (genocidio ndr) è bandita. Parlare di genocidio è un oltraggio allo Stato. Fino a qualche tempo fa era una sottigliezza mediorientale. Da quando è arrivato Recep Tayyp Erdogan, se ne parli offendi la Turchia. Ribattono: i tedeschi sì hanno attuato un genocidio, noi siamo un popolo corretto, come potremmo averlo commesso?».

Chi ne parla subisce sanzioni?

«In Turchia i giornalisti sono in prigione, le libertà sono soppresse. La politica dello Stato turco è improntata al negazionismo sebbene il genocidio sia provato al 95%».

Il popolo armeno è un popolo troppo docile?

«Se hai perso l’indipendenza da un millennio sopravvivi in base all’appartenenza religiosa che ti dà un’identità più mite, ma anche più veritiera. Ti devi piegare come cristiano all’interno dell’impero ottomano dove si professa la religione musulmana. All’inizio convivevano greci, bulgari, serbi e armeni. Poi i Giovani turchi decisero di sopprimere le minoranze, sfruttando la Guerra mondiale per mimetizzare le loro azioni».

Prima della Masseria delle allodole si era mai parlato del genocidio armeno?

«Franz Werfel, letterato austriaco ebreo, aveva scritto I quaranta giorni del Mussa Dagh».

Perché ha atteso tanto prima di scriverlo?

«Perché non mi sentivo matura per farlo. Non ci pensavo proprio. Avevo questa storia che mi aveva raccontato mio nonno Yerwant e ogni tanto ne parlavo con amici… Quando mi sono appassionata alle poesie di Daniel Varujan sono entrata nella realtà di questo popolo perduto».

È una cronistoria piena di particolari.

«È un romanzo, non la testimonianza di un sopravvissuto. La storia e i protagonisti sono veri. Sempad era il fratello minore di Yerwant, ma non aveva la sua energia. Mio nonno è arrivato qui a 15 anni, poi è andato in Francia ed è diventato chirurgo. È stato uno dei fondatori della scuola di otorinolaringoiatria italiana».

Come si colloca nella letteratura italiana d’inizio secolo?

«Tecnicamente è un romanzo storico, soprattutto se lo si vede insieme a La strada di Smirne che è la seconda parte di un’unica storia. Mi piacerebbe pubblicarli insieme».

Compongono un’epopea familiare.

«Di una famiglia armena quasi distrutta, ma nella quale qualcuno si salva. Nel personaggio di Nazim volevo rappresentare il fatto che non sempre siamo o buoni o cattivi. Più spesso adottiamo comportamenti ambigui».

Siamo più grigi che o bianchi o neri?

«C’è un modo manicheo di ragionare; anche nelle scuole. Per esempio, si celebra la Giornata della memoria, ma poi tutto finisce lì. Per due settimane parliamo della Shoah, i ragazzi vanno in gita ad Auschwitz, ma i comportamenti antisemiti continuano. Dachau era a venti chilometri da Monaco e i tedeschi sapevano che cosa accedeva. Nelle università italiane quanti professori hanno accettato senza batter ciglio le cattedre lasciate libere dagli ebrei perseguitati».

Essendo di origine armena ha insegnato a lungo Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Padova. Che cos’è per lei l’integrazione?

«Sono italiana e non posso esprimermi che in italiano. L’integrazione la vedo di più in mio padre e in mio nonno. Per me la parte armena è stata una riconquista iniziata a una certa età».

Perché suo nonno fece modificare il cognome?

«Lo chiese al Regno d’Italia, nel 1923. Ho trovato il documento in cui viene concesso al professor Yerwant Arslanian di tagliare le ultime tre lettere. Era così angosciato da quello che era successo alla sua famiglia da chiedere di cambiarlo. Prima aveva dato ben quattro nomi armeni a ognuno dei suoi figli. In Veneto Arslan può risultare un cognome locale».

Oggi l’integrazione è possibile come allora?

«Ripeto spesso la frase di Charles Aznavour: “Io sono al 100% francese e al 100% armeno”. Una volta arrivati in un Paese gli armeni imparavano subito la lingua. Oggi non mi pare questo accada. Anzi, vedo gente per bene che non ritiene importante parlare la lingua del posto dove vive. Imparare bene la lingua è necessario per conoscere le leggi del Paese che ti ospita. Credo che questa dovrebbe essere una condizione necessaria».

Quanto conta l’identità nella formazione di uno scrittore?

«Conta la curiosità verso la propria storia. Si può cominciare da qualcosa di concreto, da un parente. Io avevo uno zio che veniva dalla Siria e ci raccontava le storie del suk di Aleppo. Così ho voluto approfondire la mentalità e la cultura di quel mondo. È necessario esercitare la curiosità dentro la cornice dalla quale si proviene».

La globalizzazione tende a stemperare queste appartenenze?

«Su certe cose sì. In California, a New York, a Chicago gli armeni costruiscono chiese e centri culturali e hanno i loro parroci. A volte tendono a chiudersi per difendere la loro identità, ma per fortuna mantengono anche relazioni esterne. Nelle piccole comunità i matrimoni misti stemperano tradizioni e costumi. La globalizzazione è una strana bestia. Tutti beviamo la Coca cola, ma poi cerchiamo il cibo di un posto preciso. A New York si beve il Pinot grigio e si mangia il formaggio Piave. Tante comunità perdono la lingua, ma conservano il cibo. Non so se è qualcosa di cui essere contenti».

Bisognerebbe conservare anche la lingua.

«Guardi l’inflazione in Italia di parole inglesi mal capite. Adesso ci sono i navigator: non c’era una parola italiana? Come jobs act, non si poteva dire azione lavoro? Oppure shopper, che si usa al posto di sacchetti della spesa, mentre significa cliente, acquirente».

Se si tiene all’identità si è gelosi anche della lingua e della letteratura?

«Mi chiedo come facciamo noi che siamo un popolo di 60 milioni di abitanti ad accettare tutti questi termini inglesi. Parole come sport e tennis sono indispensabili, ma tante altre no. Il fatto di non essere in tutto e per tutto italiana mi fa vedere bene l’esterofilia degli italiani».

Concorda con Cesare Cavalleri per cui l’ultimo grande romanzo italiano è Il Cavallo rosso di Eugenio Corti?

«Lo so che dice questo. Cavalleri è autorevole e Il cavallo rosso è un grande libro. Ma io aggiungerei anche Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il dialogo tra il cacciatore e il padrone sul voto fa capire un intero mondo. Oppure Una questione privata di Beppe Fenoglio. Poi ci sono certi romanzi rimossi, come Maria Zef della padovana Paola Drigo. Un testo al femminile, anticipatore di tante questioni».

Esiste una specificità della letteratura veneta e del Nordest?

«Ne ho scritto qualche anno fa. Molti veneti sono stati grandi viaggiatori perché erano giornalisti. Giovanni Comisso, Guido Piovene, Goffredo Parise, Antonio Barolini di Vicenza. Pensi a Il viaggio in Italia di Piovene, ai viaggi in Cina e in Asia di Comisso. Poi c’è sempre il ritorno al nido, il posto delle radici. Comisso si compra la casa a Zero Branco… Sono scrittori concreti, attenti al dettaglio, dotati di un’ironia cinica. Un altro tema è il rapporto con la montagna. Come in Dino Buzzati, anche lui giornalista».

Hanno anche una lingua comune?

«Hanno una scrittura molto chiara, forse derivata dalla Repubblica di Venezia. Una scrittura chiara non significa piatta, ma vivace. Pensi all’opera di Giuseppe Berto; a Pier Quarantotti Gambini, altro giornalista. Tra i più giovani c’è Matteo Righetto. Hanno curiosità verso ciò che è diverso da sé, la voglia di trovare gente, d’intraprendere un viaggio che comporta sempre il ritorno. Perché hanno un apparato di valori di riferimento».

Dallo sterminio della sua gente a oggi è stata testimone di tanti cambiamenti. Che cosa le dà la speranza di cui parla nell’ultimo libro?

«Intanto il fatto che l’Italia è in pace da settant’anni. Non ha mai avuto un periodo così lungo di pace, ma questo non lo sento dire mai. Il piagnisteo nazionale lo trovo eccessivo e inutile. Ha mai sentito un greco, con tutto quello che ha subito la Grecia, che non difende il suo Paese? La vita è piena di risorse, ma noi crediamo di sapere già tutto…».

Nell’ultimo anno però c’è stata una svolta abbastanza radicale, non crede?

«Molto è stato preparato prima, con la continua demolizione delle istituzioni. Ora mi sembra che i politici parlino troppo. Ma un elettore conquistato con una parola lo si può perdere con un’altra parola. Sento chiacchiere e contraddizioni anche nel corso della stessa giornata. Come per esempio abbiamo visto sulla vicenda del ponte di Genova. Autostrade aveva tante leggi e leggine che la difendevano. Era meglio studiare, capire e poi pronunciarsi per avviare i lavori con tutti i documenti in mano. Ci dimentichiamo che l’Italia è una grande potenza mondiale. Sì, lasciamo lavorare chi è arrivato. Però con un po’ di discrezione da parte di tutti».

La Verità, 27 gennaio 2019

«Quando il tennis era per dandy solitari, ma liberi»

Un’ossessione chiamata tennis. Un morbo. Una religione. Possibile? «Possibilissimo, altamente probabile», acconsente Matteo Codignola, autore di Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi). «Certo, c’è anche chi gioca un’ora a settimana. Per hobby, o per fare un po’ di movimento. Ma se lo si ama, il tennis può tramutarsi in una malattia». Che si vive alla morte. Da giocatore, da spettatore, da lettore e da scrittore. Come accade a Codignola, genovese, classe 1959, traduttore e curatore per Adelphi di Patrick McGrath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John McPhee. E come documenta questo che è qualcosa più di un libro: oggetto feticcio, raffinato album fotografico virato seppia, galleria di personaggi eccentrici, divagazione sulla natura di una disciplina patologica, di gran lunga il più completo e complesso sport individuale esistente. Coerentemente con la materia che tratta, anche la genesi di Vite brevi di tennisti eminenti è alquanto singolare, essendo che da un bel po’, ma invano, Codignola cercava l’innesco per un grande racconto sul tennis. Fin quando il suo amico Vincenzo Campo, editore della sofisticata Henry Beyle e habitué di mercatini, non rinvenne in quello di Cormano una valigia di cuoio, scrigno di una collezione d’immagini in buste ordinate per argomento: moda, cinema, ingegneria, tennis. Era il famoso spunto mancante. Tra gli oltre cento scatti di gesti bianchi e normalità a bordo campo, prima e dopo i match, sulla scaletta dell’aereo o in posa di gruppo, Codignola ne ha scelte 22 attorno alle quali stendere le sue torrenziali digressioni fitte di aneddoti, relative a una crème di giocatori dilettanti tra i Cinquanta e i Sessanta. Perché, dietro quelle immagini eleganti e bizzarre che danno l’idea di un ambiente un filo estetizzante, in realtà si celano «strane creature», baroni, dandy, zingari teatranti, coach inflessibili, invasati del funny game. «Di prezioso quelle foto avevano la casualità della vita quotidiana che mai avrebbe avuto una ricerca d’archivio».

Un ritrovamento che mise in moto la sua ricerca?

«Avevo una bella traccia. Non sono un feticista delle racchette di legno, quelle partite oggi ci annoierebbero. Ma sapevo che il tennis precedente all’era open, iniziata nel 1968, generava storie. Che il circo bianco dei dilettanti, equivalente grossomodo all’attuale circuito Atp, era un mondo cosmopolita e senza tabù, fatto di ragazzi molto amici o molto nemici fra loro, che si divertivano anche fuori dal campo. Finivano la carriera a 35 o 40 anni avendo girato il mondo. Aerei, navi, alberghi. Ma spesso dovevano inventarsi una vita perché venivano pagati a rimborso spese. A quel punto, aiutati da ghostwriter, pubblicavano autobiografie».

Fonti inesauribili.

«Tra una partita e l’altra, i tennisti di allora parlavano. Molto. Oggi tutto è deciso dagli sponsor, dai team, dai manager. Una gabbia impenetrabile. Ci sono il match e la conferenza stampa. Stop. Di Alexander Zverev o Stefanos Tsitsipas sai appena il paese d’origine e chi li allena. Io non penso si possa raccontare uno sport descrivendo solo l’evento agonistico. Allora tutto era più esotico e spontaneo. Se frequentavi i tornei potevi fare due chiacchiere con Rod Laver, stava seduto lì. I match fra John Newcombe e Ken Rosewall erano prima di tutto scontri tra due personaggi».

C’era più gossip?

«C’erano più storie. Anche nel calcio, della vita di Angelillo facevano parte la vita notturna, la nostalgia per l’Argentina… Della crisi di Novak Djokovic durata oltre un anno non sappiamo nulla. Si fanno delle supposizioni, ma non esce una parola».

Perché i tennisti sono una setta di perfezionisti paranoici pieni di tic?

«È un gioco solitario, che costringe a una vita anche più solitaria. Mentre pensi come anticipare meglio un rovescio, ti rendi conto che lo stai facendo in un tre stelle a Trebisonda o a Tashkent. Non è semplice né divertente, uno in qualche modo deve sfogarsi».

Björn Borg voleva la temperatura della camera a 12 gradi. Rafa Nadal ha la paranoia delle bottigliette. Tutti, anche se il tubo delle palle nuove è appena stato aperto, vogliono scegliere le due necessarie fra 3 o 4.

«La serie di cause alle quali un tennista può attribuire una sconfitta tende all’infinito. All’esterno è difficile da credere. Roger Federer, che è il più serafico, dopo un solo torneo con un nuovo modello di racchetta ha smesso di utilizzarla perché le striscioline di colore bianco introdotte nell’ovale nero lo distraevano».

Il rapporto del tennista con la pallina somiglia a quello dello scrittore con la parola?

«Non saprei fare un accostamento. Per alcuni scrivere è divertimento, per altri una sofferenza. Nel tennis la palla non è tutto. È importante, certo, tutto si decide lì, da come la colpisci… Ma poi ci sono tante altre componenti, i movimenti, la coordinazione, i segnali del corpo… Quando giochi, pensi forse più al resto che alla palla. Spesso sbagliando».

Perché il tennis può diventare un’ossessione?

«Un giocatore scopre sempre che ci sono più cose tra la linea di fondo campo e la rete di quante ne possa contenere la sua filosofia».

Parafrasando William Shakespeare…

«O era lui che parafrasava i tennisti del suo tempo?».

Potrebbe essere.

«C’è qualcosa, nel gioco, che non è mai cambiato, e non cambierà mai – a meno che non lo stravolgano, come stanno tentando di fare. La geometria delle linee, rassicurante in un certo senso, minacciosa in un altro, come le righe sulla tovaglia di Io ti salverò. E il tempo, tutto quel tempo vuoto tra uno scambio e l’altro. O anche durante gli scambi, a pensarci bene».

 Un tempo nel quale accadono un sacco di cose.

«Nel quale sei solo ed elabori un’infinità di pensieri, parole, dubbi. Una partita ti logora, alla lettera. Il campo è un luogo del delitto sul quale continueresti a tornare per correggere gli errori».

Cosa c’è dentro il tennis?

«Soprattutto il monologo continuo con sé stessi. Le coazioni e le psicosi che uno ha nella vita quotidiana, nella competizione si amplificano. Vince chi le controlla meglio».

Preferiamo l’artista della racchetta, ma spesso vince lo scacchista?

«Una volta ho chiesto a Ivan Lendl come aveva potuto perdere da Michael Chang al Roland Garros quella famosa partita in cui, a un certo punto, il tennista americano aveva battuto dal basso. Lendl rispose che ai massimi livelli le differenze tecniche sono irrilevanti, basta un minimo calo di attenzione e il giocatore più debole può vincere. Una partita dura 4 ore e si risolve in sette, otto secondi».

Stiamo stabilendo che il talento è perdente?

«Oggi non basta più. Uno come Ilie Nastase si allenava quando e se voleva. Ma oggi se Djokovic non si presenta al meglio può perdere dal numero 195. Il concetto stesso di talento va aggiornato. Per esempio, Nadal è sicuramente un giocatore costruito, ma in tutto ciò che non riguarda la naturalezza dei colpi – tattica, intelligenza, agonismo –  è un talento smisurato. Di Federer si ammirano l’eleganza, la creatività, le angolazioni, senza pensare che la sua facilità di esecuzione deriva da una preparazione atletica fenomenale. E massacrante».

È la ricerca della perfezione la patologia del tennis?

«C’entra moltissimo. Nessuno lo ammetterebbe razionalmente, ma molti tennisti hanno l’idea della partita perfetta. Come del game perfetto: quattro ace senza che l’avversario tocchi la pallina. Non si vorrebbe sbagliare mai. Il primo errore rovina il match. Si vorrebbe appallottolare il foglio e ricominciare da capo».

Ogni partita è un romanzo perché si giocano tanti punti, ognuno dei quali può derivare da lunghi scambi e capovolgere l’andamento della sfida?

«Non ci sono mai due partite uguali. Devi cercare un punto di rottura tecnico o psicologico in quell’altro che sta oltre la rete. Oltre alla qualità dei colpi, conta anche la psicologia. È una guerra di nervi. Stai sempre a scrutare l’altro, ti chiedi se sta bene o se comincia a cedere».

Stando a Torben Ulrich, padre del batterista dei Metallica, secondo il quale il tennis è anche un fatto sonoro, ha ragione Adriano Panatta con il suo «pof», simbolo di stile?

«Torben era un eccentrico, e le sue battute possono sembrare mattane, ma non è così. Anche a livello amatoriale ci sono colpi che riconosci vincenti dall’impatto, dal suono della palla sulla racchetta. Certe volée, certe stop volley, certi dritti da fondo… Il “pof” di Panatta dice questo».

Perché il cinema sul tennis è meno credibile della letteratura?

«Perché deve competere con la cosa vera, già vista in tv e ripresa meglio. Il tennis è quello che succede in campo, se non puoi farlo vedere, o devi ricostruirlo copiandolo dagli originali su YouTube, sei fritto. In questo senso, la letteratura ha più armi a disposizione».

Mettendo insieme titoli come Tennis di John McPhee, Divina di Gianni Clerici, Il tennis come esperienza religiosa di David Foster Wallace e Open scritto da J. R. Moehringer per André Agassi si può parlare di genere tennistico?

«Open è un buonissimo romanzo sotto mentite spoglie, nel quale il tennis c’entra fino a un certo punto. A questa lista aggiungerei anche Tennis, tv, trigonometria, tornado in cui Foster Wallace, che è stato un ottimo giocatore, racconta la sua adolescenza nel ventoso Illinois, e il suo amore quasi fisico per il nemico numero uno di qualsiasi avversario: lo spaventoso vento del Midwest. Ci sono singoli titoli eccellenti come The Courts of Babylon, il classico di Peter Bodo sull’esplosione pop del tennis negli anni Settanta. E poi, certo, c’è Gianni Clerici. Che non è uno scrittore, ma un genere letterario, uno di quei fenomeni sempre in fuga, dietro i quali gli altri arrancano sui tornanti. Ma siamo solo agli inizi. Credo che i grandi libri di tennis, in realtà, siano ancora da scrivere».

 

La Verità, 9 dicembre 2018

«Tutto ciò che ho imparato dall’Amica geniale»

Schivo, quasi ombroso, asciutto nelle risposte. Zero concessioni alle curiosità su vicende private. Zero esternazioni su temi politici ai quali sono avvezzi molti cineasti, suoi colleghi. Saverio Costanzo ha 43 anni, due figlie dal primo matrimonio con Sabrina Nobile e una filmografia di tutto rispetto (Private, In memoria di me, La solitudine dei numeri primi, Hungry Hearts). La sua immagine pubblica si condensa nel suo cinema e nel rapporto con il pubblico che ne deriva. La sua compagna è l’attrice Alba Rohrwacher, delicata voce narrante dell’Amica geniale, la serie evento tratta dalla tetralogia di Elena Ferrante e prodotta da Fandango, Wildside e Hbo per Raifiction e TimVision che da martedì sarà su Rai 1 (su TimVision e online su RaiPlay). Al centro della storia c’è l’amicizia speciale tra Lila Cerullo (Ludovica Nasti e Gaia Girace) e Elena Greco (Elisa Del Genio e Margherita Mazzucco) che, dal rione Luzzati della Napoli dei Cinquanta, le spinge a emanciparsi dall’ignoranza, dalla misoginia e dalla povertà. Figura propulsiva di questa parabola è la maestra Oliviero (Dora Romano), capace d’infondere fiducia e autostima, convincendo le ragazze a studiare e coltivare la passione per la lettura. Una storia semplice, ma epica e carica di energia, che è diventata un successo mondiale e alla cui regia Costanzo si è accostato con umiltà, dedizione e sensibilità artigianale. I primi episodi trasmessi da Hbo hanno raccolto grandi consensi dalla critica americana. Time ha inserito L’amica geniale tra le dieci serie consigliate.

L’attesa è finita, che cosa si aspetta dal debutto televisivo?

«Niente. Il nostro lavoro l’abbiamo fatto, d’ora in poi quello che accade non è nelle nostre mani».

Dopo La solitudine dei numeri primi si era ripromesso di non cimentarsi più con un best seller.

«Confrontarsi con un universo simbolico già conosciuto e apprezzato dal grande pubblico implica paragoni impegnativi. Dopo il romanzo di Paolo Giordano ho diretto Hungry Hearts tratto da Il bambino indaco che, rimanendo un’opera di nicchia consentiva una trasposizione abbastanza libera».

Che cosa l’ha convinto a tornare a occuparsi di un’opera molto popolare?

«La storia di Ferrante. Sarebbe stato sbagliato rinunciare alla possibilità di misurarsi con personaggi così ben architettati e profondi, incastonati in una storia così originale».

Come definirebbe il rapporto tra le due protagoniste?

«Molto speciale, ma anche molto comune come sono i rapporti di amicizia. Credo che il successo clamoroso della tetralogia sia dovuto alla capacità del lettore d’identificarsi con le dinamiche interne dei personaggi. Quando accade una cosa del genere è perché c’è una forte aderenza psicologica ai protagonisti della storia».

In che misura secondo lei è autobiografica?

«Il racconto di Ferrante si svolge in un flusso di coscienza. È un lungo monologo interiore che ha una forma autobiografica».

È nata qui l’idea della voce narrante?

«È nata anche qui, ma è stata soprattutto una scelta istintiva. La prima volta che mi sono trovato davanti al libro ho subito immaginato una voce narrante. Essendo però stata una decisione istintiva non saprei dire quali siano le motivazioni concrete».

Che cosa è stato più difficile nella riduzione di un’opera così acclamata?

«La cosa più difficile è stata restituire la densità letteraria del testo. Il cinema inevitabilmente semplifica ciò che la letteratura rende più complesso. Sono linguaggi diversi. Accorpare o cambiare l’ordine degli eventi può portare a rendere meno denso o ad appiattire il racconto. La difficoltà maggiore è creare sempre una tensione drammaturgica, un’energia che riempia lo spazio scenico e i dialoghi tra gli attori».

Invece, che cos’è stato facile?

«Nel cinema non c’è niente di facile. Il bello è stato poter vivere in questo universo femminile per tanto tempo».

Si pensa debbano essere le donne a raccontare storie femminili.

«Nell’arte non ci sono le pari opportunità come in politica. È un terreno nel quale non riesco a pensare in termini di maschile e femminile. Mi piace Virginia Woolf come Fëdor Dostoevskij. Un romanzo così non sarei stato in grado di scriverlo, ma da lettore lo capisco benissimo. Essere profondamente maschio non mi impedisce di avventurarmi dentro una storia femminile, non sarei una persona compiuta. Sono stato educato da femmine a volte anche invadenti, mi sento a mio agio più con le eroine che con gli eroi».

Come avete individuato le interpreti nelle varie età?

«Con un casting circoscritto alla Campania e ai dintorni di Napoli. È un po’ come una pesca, si getta la rete e si raccolgono incontri, persone, facce. Tirata la rete, si cerca di conoscere meglio queste persone e di immaginarle nel racconto».

Il fatto di essere padre l’ha aiutata a lavorare con attrici bambine?

«Mi ha aiutato nella pazienza».

Come si è svolto il rapporto con Elena Ferrante?

«È stato come un dialogo con una persona che sta a Shangai e Skipe non funziona. Un rapporto epistolare, ottocentesco, nel quale ci diamo del lei. Quando ho iniziato a occuparmi della serie avevo già letto i primi tre libri. Avevo provato a prendere i diritti di La figlia oscura, un suo libro precedente».

La collaborazione alla sceneggiatura come si è sviluppata?

«Avevamo scelto di disturbarla il meno possibile, il 95% del lavoro l’aveva già fatto. Quando c’è stata la necessità di coinvolgerla ha dimostrato un profondo senso del cinema e della scena. Non è mai stata difensiva o possessiva della sua storia. Sospetto desiderasse una trasposizione più infedele».

Pubblicherete il carteggio?

«Ci penseremo, le sue note sono molto interessanti le mie molto meno».

Di questa storia le è piaciuta la passione per l’umano e per la vita?

«Sì, certo. Leggendo mi sentivo come un bambino sulla montagna russa. A volte ho anche avuto paura a girare pagina. C’è qualcosa di miracoloso quando s’instaura un rapporto così fisico con la narrazione».

Perché è una storia così apprezzata?

«Per la sua universalità. Se si intercetta davvero un personaggio raccontandone i movimenti interiori il pubblico si riconosce, essendo l’umanità uguale. Nel profondo, siamo tutti la stessa cosa».

Quanto concorre al successo dei romanzi l’inafferrabilità della sua autrice?

«Secondo me per niente. Le speculazioni sull’identità non hanno avuto molto seguito. Non si leggono duemila pagine per la curiosità sull’autrice».

State lavorando già sulla seconda stagione?

«Con lo stesso team: Francesco Piccolo e Laura Paolucci».

In una recente intervista suo padre ha detto che rivede in lei il suo dna…

«Non parlo di mio padre, per scelta personale. Credo che certi rapporti vadano preservati, è una questione di rispetto per il lettore».

Parlando della maestra, decisiva nell’infanzia di Lila e Lenù, ha definito L’amica geniale un’opera anche politica.

«Quando abbiamo messo in scena la maestra Oliviero ho capito che l’ostinazione di questa donna diventava sentimentale. Guardandola con l’occhio di oggi mi accorgevo che non abbiamo più persone come lei. Avvertire cosa significa la passione di un’educatrice che forma le persone di domani è un fatto politico».

Perché secondo lei oggi non ci sono figure autorevoli come quella maestra?

«Per rispondere servirebbe un’analisi sociologica. Ho 43 anni e non conosco un mondo diverso da questo. Bisognerebbe chiederlo agli anziani».

Quando ha capito che il cinema e la regia erano la sua strada?

«Ho studiato sociologia perché volevo fare l’etnografo. M’interessavano i piccoli gruppi sociali, le piccole realtà. Quando nacquero le tecnologie leggere, anziché con il taccuino ho pensato di documentare le situazioni con una piccola telecamera. Ho cominciato a girare dei documentari. Sono stato un anno in un caffè italo americano di Brooklyn, poi in un reparto di terapia intensiva al Policlinico Umberto I traendone documentari di 15 o 20 ore per Internet. Gianluca Nicoletti acquistò Caffè Milleluci per Rai.it. Nella Striscia di Gaza capitai a casa di un signore che abitava con i soldati israeliani sul tetto. Quando gli proposi di realizzare un documentario, lui suggerì di fare un film perché un documentario poteva essere pericoloso. Ne nacque Private, il mio film d’esordio».

C’è qualcosa, una lettura, un viaggio, un incontro decisivo nella sua formazione?

«Un viaggio di tre mesi in India con due amici. Era il 1997, fu uno di quei momenti in cui ti rendi conto di ciò che ti manca per diventare quello che vuoi essere».

Cos’era?

«Avevo 21 anni, per la prima volta ho capito quanto contava la mia curiosità, che poi mi ha permesso di diventare ciò che desideravo».

Il suo cinema è molto attento all’animo umano. Che punti di riferimento ha?

«Il cinema mi sorprende sempre. Mi piacciono da Quentin Tarantino a Ingmar Bergman, da Federico Fellini a Stanley Kubrick, da Yasujiro Ozu a Woody Allen. Quando sei giovane, per formarti, cerchi di essere qualcun altro. Poi rifletti e a un certo punto ti rendi conto che quello che fai somiglia solo a te. E che lo devi accettare, nel bene e nel male».

Che rapporto ha con la politica?

«La seguo molto. Mi appassiono, ma non sono una persona che tende a schierarsi».

A differenza di molti suoi colleghi che prendono posizione pubblicamente.

«Io lo faccio con il lavoro, rivolgendomi al pubblico. Inoltre, tendo a cambiare idea. Affermare qualcosa vorrebbe dire che ho le idee chiare, mentre non è così».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«Una grande ricchezza, ma anche un grande fardello. Perché un amico ti ricorda spesso quello che sei e che magari vorresti dimenticare».

 

La Verità, 25 novembre 2018

 

 

«Io, obiettore di coscienza dei social network»

«Testimone di una trasformazione portentosa». Si definisce così Mauro Covacich, 53 anni, scrittore triestino che vive a Roma nel quartiere Flaminio. Autore schivo e profondo, com’è nel temperamento della gente di quel confine martoriato. Un confine crogiuolo. Il suo ultimo libro, La città interiore (per La Nave di Teseo che ha deciso di ripubblicare il «Ciclo delle stelle»: A perdifiato, Fiona, A nome tuo, Prima di sparire), è entrato nella cinquina finale del Campiello. In giugno ha ricevuto il premio intitolato a Fulvio Tomizza, uno dei tanti scrittori che hanno segnato la sua formazione. Gli articoli che Covacich scrive sul Corriere della Sera illuminano sempre qualcosa di cruciale, uno stato d’animo, una svolta culturale, le ragioni di una differenza. Come quello sulla tranquilla rinuncia ai social network per privilegiare rapporti in carne e ossa. Oppure quello sul cambio dello scenario psicologico che ha portato ai nuovi equilibri della politica. Nell’ultimo ha dipinto «la plaga dei coetanei», nonni che giocano a calcio, padri di cinquantenni con la tartaruga, a loro volta genitori di adolescenti che vestono da sciantose: «Tutti coetanei, che incubo».

In quell’articolo ha demolito un mito su cui sfreccia la nostra società da mezzo secolo: forever young, per sempre giovani.

«È uno strano per sempre, perché poi si muore».

Subito al dunque…

«Credo che l’illusione di restare giovani peggiori la vita perché le fa perdere forma. Una delle forme della vita è data dall’età. Essere bambino, poi adolescente, adulto, anziano. Questo non significa che uno non cerchi di stare meglio che può. Ma se sono un padre è giusto che mio figlio mi percepisca come un’altra cosa, diversa da lui. Quando vivevo con i miei genitori, le parole di mio padre le ascoltavo come provenienti da un altro mondo. Non erano le parole di un mio amico».

Da sempre i ragazzini vogliono diventare presto adulti e i vecchi ringiovanirsi: cosa c’è di male?

«Non mi sembra sia così. Fino a qualche anno fa i vecchi e i genitori erano figure autorevoli. Ora sembra che da 10 a 80 anni partecipiamo tutti alla stessa gara. È una pretesa che falsa la realtà, la adultera. Dobbiamo imparare ad accettare il momento in cui siamo fuori gara, senza che questo significhi essere morti. Oggi essere pensionati è una colpa, un tempo era uno stato in cui, non essendo più nell’agone, si poteva elargire la propria sapienza. Il vecchio le cose le aveva fatte e ora trasmetteva un pensiero. Adesso i bambini sono pressati dall’obbligo di diventare adulti, soprattutto le bambine bramano diventare ragazze, donne fatte».

Combattere il mercato globale e la pubblicità che vivono sull’industria anti invecchiamento, sulla smania di prolungare la giovinezza, la prestanza e l’avvenenza è una battaglia di Don Chisciotte?

«Definirla battaglia significa pensare che possa persuadere qualcuno invece sono rassegnato. Questo non m’impedisce di protestare. L’ossessione che abbiamo per il corpo ne annuncia anche la dissoluzione. Da una parte, non ipotizzando un dopo, è la nostra ultima certezza e cerchiamo di mantenerlo il più bello possibile come un’urna sacra. Dall’altra si è moltiplicata un’idea di amicizia che prescinde dall’incontro».

Invece?

«Penso che amicizia significhi anche avere a che fare con il corpo dell’altro. Se tradisco un amico devo aspettarmi che mi tiri un ceffone. Nella comunità digitale, pur parlando continuamente del corpo – alimentazione, diete, palestre – il corpo non c’è. È tutto virtuale. Anche l’amore si fa a distanza. L’esperienza sessuale mostra questa contraddizione».

In che senso?

«Il sesso si è trasformato in una prova atletica. Ci sono i tutorial per imparare le tecniche e diventare bravi. L’elemento personale, psicologico, l’arrischiamento, anche l’imbarazzo, l’emozione e la titubanza non ci sono più».

Convivere come coetanei azzera il carisma degli adulti?

«Se non c’è distanza tra l’adulto e il ragazzo non c’è prospettiva. La fine dell’autorevolezza dei professori comincia qui. Magari c’è l’eccezione di quello che irradia ancora fascino, ma dalla maggioranza dei ragazzi gli insegnanti sono considerati degli sfigati. Non perché siano più stupidi di una volta, ma perché si sono abbassati al livello degli studenti. Fanno parte della plaga dei coetanei di figli, genitori amici, studenti, allenatori, tutti nella stessa gara».

Tutti nei social network.

«Fanno i simpaticoni. Sperano di conquistare ascendente con la complicità. Danno il numero di cellulare ai ragazzi… Mi sembra aberrante che un ragazzino possa accedere al cellulare di un professore. È questione di status, non di problematiche sessuali. Come si fa a scambiarsi l’amicizia su Facebook? Se sei mio amico non sei più interessante. Tuttalpiù posso darti una pacca sulla spalla, ma non ti ascolto più con attenzione».

La categoria degli insegnanti è svalutata per colpa loro o della politica?

«Non credo sia colpa della politica. Certo, hanno fatto mille riforme e non se la sono cavata bene. Ma l’errore è il fatto che per i ragazzi il professore è diventato uno di loro. Posta le foto, aggiorna il profilo… L’eccesso di democratizzazione è fuorviante. Sono sparite autorità e autorevolezza. Le materie sono le stesse, ma ai miei tempi il professore suscitava un sentimento misto di paura e fascino. Non c’è più soggezione perché non c’è più differenza».

Le donne sono più vulnerabili al passare del tempo?

«Credo di sì. Ma credo che la vulnerabilità delle donne sia causata dall’aver assunto i tratti virili dei comportamenti sessuali e sociali degli uomini. L’emancipazione della donna ha preso una strada imprevista. Non credo che le femministe degli anni Settanta pensassero che meritare lo stesso trattamento degli uomini comportasse la mascolinizzazione della donna».

E per converso la femminilizzazione del maschio.

«Ci sono dati evidenti. Gli uomini hanno più attenzione per la cosmesi, i ragazzi si depilano, usano meno la macchina e si fanno venire a prendere a casa dalla ragazza. Una volta farsi la patente per andare a prendere la ragazza era motivo di orgoglio».

Nel libro La città interiore ricostruisce la mappa storica, esistenziale e psicologica dalla quale lei stesso scaturisce. Perché si è sottoposto a una ricerca così impegnativa?

«Ognuno di noi ha la propria città interiore, ognuno di noi è quello che gli altri lo hanno fatto diventare. Poi ci si mette del proprio. I genitori e i maestri che abbiamo avuto, i viaggi, i libri, le esperienze che abbiamo fatto determinano quello che siamo. Covacich è un cognome sloveno di una persona italiana. Per me è stato un lavoro e solo successivamente un libro necessario. Una sorta di resa dei conti. Avevo raccolto vari giacimenti, quello della famiglia e della storia, quello degli scrittori… È una ricostruzione anche topografica, una mappa d’identità».

Un’identità che contempla la rottura di confini ideologici e esperienze contrastanti come fare il bagnino e scrivere di notte oppure amare gli sport pensando all’Isef e iscriversi a filosofia.

«Alcuni contrasti si sono risolti. Ora conduco una vita dedicata con continuità alla scrittura. Negli ultimi 15 anni mi sembra di aver scavato nello stesso buco. Ho scritto libri molto autobiografici, romanzi con persone più che con personaggi. Persone vere in carne e ossa, mia madre, la mia compagna, i miei amici. Si sta definendo questa identità di scavatore, di uomo che cerca. Solo apparentemente è una vita risolta».

Da giovane con i suoi amici discuteva di gettatezza, l’essere venuti al mondo inopinatamente in una data epoca e in un dato luogo, rispetto alla quale c’è chi crede al caso e chi al destino: lei?

«Sono contento di vivere in quest’epoca di cambiamenti radicali. Personalmente credo al caso. Se si cresce in una bella famiglia a Stoccolma o in un campo profughi in Sudan nessuno può farci niente. Ma il secondo ha tutti i diritti di incazzarsi».

Quanto contribuisce la cosiddetta società dell’immagine, ora con i social network ancor più pervasiva, al rifiuto della vecchiaia e alla rimozione della morte?

«Non so se sia una delle cause o uno degli effetti di questa rimozione. Ma non si può fermare il mare con le mani. Io ho una posizione considerata snob, da obiettore di coscienza dei social. Il mondo dominante è questo, pochi privilegiati possono permettersi di starne fuori. Mi basta vedere i miei amici la cui vita nella maggioranza dei casi batte su altri ritmi. Non ho l’ansia di stare al passo con i tempi. Rivendico la libertà di essere antiquato, senza che questo significhi essere retrogrado o antimoderno. Mia madre a 78 anni ha scoperto Facebook ed è diventata un’altra persona. A me semplicemente non interessa».

I sociologi parlano di cultura del narcisismo.

«Non è rimasto altro che rispecchiarsi nella propria immagine. Il gesto stesso del selfie ha modificato il modo di guardare il mondo: davanti ci sei tu e il mondo – i paesaggi, i monumenti – è in secondo piano alle tue spalle».

L’io si è sostituito a Dio?

«Non credo. Il luogo di Dio è rimasto vuoto, ma si prova a riempirlo con altri palliativi: l’ambientalismo, il veganesimo. Credo che in modo inconscio a nessuno sfugga la propria fragilità. Il bisogno di certezze ce l’abbiamo tutti. I fanatismi, dal pornoshop alla militanza nell’Isis, sono risposte alla vacillazione dell’io».

A lei che cosa dà speranza?

«Io non ho speranza… Ma l’intervista non può finire così… In realtà, sono contento di vivere il presente, curioso di quest’epoca. Mi sento testimone di una trasformazione portentosa. Un po’ come un cronista alla fine dell’Impero romano. Non si sa cosa verrà dopo, ma la caduta dell’Impero è un momento molto stimolante».

 

La Verità, 18 novembre 2018

 

«Oggi pregare è diventato un gesto eversivo»

Una doppia provocazione. Una provocazione al quadrato. La prima è la trama del romanzo. Una storia quasi eversiva. Che cosa c’è di più scorretto, di più alieno, di un bambino che prega? Oggi, nell’era digitale. Oggi, ai tempi di Instagram. Leone di Paola Mastrocola, appena uscito da Einaudi, è la storia di un bambino di sei anni che di punto in bianco inizia a recitare Padre nostro, Ave Maria, Angelo di Dio per strada, a scuola, in salotto. Pregando, turba. La madre soprattutto, che non si capacita. E l’ambiente, la maestra, i compagni di classe, i vicini di casa. La seconda provocazione è la pubblicazione stessa del romanzo. Come sarà accolta una storia così dai lettori, dai media, dai circoli letterari? A me ha richiamato alla mente La strada di Cormac McCarthy, protagonisti un padre e un figlio in cerca di futuro dopo una catastrofe nucleare. Qui ci sono un figlio e una madre divisi da quella preghiera, prima di un evento meteorologico che cambierà la vita di tutti. Poi mi ha fatto ricordare L’ultima luna di Lucio Dalla.

Con Paola Mastrocola, torinese, autrice di fortunati romanzi e saggi sulla scuola, firma del Sole 24 ore, ci incontriamo negli uffici della Fondazione Hume diretta da Luca Ricolfi, suo marito. Alle pareti disegni, schizzi, studi a carboncino.

Di chi sono?

«Miei. Risalgono a quando avevo vent’anni e volevo fare la pittrice».

La pittrice?

«Certo, è tutto un fallimento la mia vita. Mai avrei pensato di scrivere romanzi».

Altri fallimenti?

«La poesia, il teatro, la critica letteraria, l’università. Strade bloccate e porte chiuse fino a 44 anni».

Le è andata meglio…

«Sì, adesso posso fare quel che mi piace davvero: scrivere. Ma fino a 44 anni è stata dura».

Il fallimento più doloroso?

«Forse, la carriera universitaria. Ho fatto un concorso a 42 anni e non l’ho superato. C’erano i baroni».

Ci sono ancora. E la poesia?

«Fino all’esordio come romanziera non ho mai trovato un editore se non a pagamento. Un libro pubblicato a pagamento nasce morto».

L’editore lo trovò per La gallina volante.

«E cambiò tutto. Le porte si aprirono. Avevo vinto il Premio Calvino per opere prime con lo pseudonimo Enrica Tolmer».

Con lo pseudonimo?

«Gliel’ho detto, il mio nome era segnato dai fallimenti. Volevo cambiare identità e vita. Mandai il manoscritto così, non pensavo di vincere. Quando Luigi Brioschi di Guanda mi chiese se volevo mantenerlo dissi di no. Sbagliando».

Perché?

«Perché mi avrebbe reso invisibile, una cosa che mi piace da pazzi. Oggi gli scrittori peccano di divismo. Pontificano in tv, alle presentazioni, nei salotti, mentre dovrebbero essere invisibili. Solo i libri devono esistere. La scrittura è segreta, riservata».

Invidia Elena Ferrante?

«Molto. Ha avuto il coraggio di fare quello che a me non è riuscito. E poi è bravissima, una tra le migliori».

Perciò, se Fabio Fazio la invitasse su Rai 1 lei non ci andrebbe?

«Ci sono andata, per altri libri, con gioia. Come vede, sono una peccatrice anch’io. Però mi piacerebbe lo stesso far sparire Paola Mastrocola e trovarmi un’altra identità per togliermi di dosso un bel po’ d’incrostazioni che mi hanno appiccicato».

Per esempio?

«Sono la vecchia nostalgica e reazionaria perché ho osato dire che mi piacciono lo studio, la serietà, il latino e il greco, la grammatica e la letteratura. In più ho qualche perplessità sul mondo digitale. Infine, ho combattuto la scuola voluta da Luigi Berlinguer che è stata ed è un disastro».

Altre etichette da cui fuggire?

«Quella dello scrittore-insegnante. Che abbia insegnato cosa significa? Esiste lo scrittore che fa il tranviere, il cacciatore di balene, l’impiegato di banca? No, esiste solo lo scrittore. Invece, appena esce un mio libro si crede già di sapere com’è. Ma se non lo so nemmeno io… C’è una certa inerzia mediatica… Siccome nel 2004 ho scritto dei libri sulla scuola sono sempre quella lì. Invece, vorrei potermi ancora stupire di me. Questo romanzo, per esempio, mi ha stupito moltissimo».

Spieghi.

«Ho voluto fare un esperimento scientifico, inventando un bambino che prega quando gli viene. Ovunque, in bagno, a scuola, fuori dal cinema. Mi sono detta: proviamo a metterlo nel nostro mondo di oggi e vediamo cosa succede».

È una favola, una parabola, una storia di fantascienza?

«Nei miei libri non descrivo la realtà, ma la esaspero senza però cadere nell’irrealistico. Negli ultimi capitoli piove a lungo, ma non è una situazione impossibile. In Non so niente di te un gregge di pecore irrompeva in una conferenza di economia a Oxford. Improbabile. Ma lì, poco distante, ci sono prati e pascoli e non si sa mai».

Come le è venuto questo bambino che manda tutti nel panico?

«Lo spunto me l’ha dato un’amica libraia. L’ho raccolto dopo aver maturato pensieri, sentimenti e la voglia di raccontare la bambina che sono stata. Quando i bambini normalmente pregavano, normalmente credevano in Gesù Bambino e non in Babbo Natale. La mia famiglia non era assiduamente praticante. Eravamo cattolici in quanto italiani, come tanti. Poco alla volta ho abbandonato tutto. Ma mi è rimasta una visione religiosa della vita».

Se oggi un figlio si mettesse a pregare cosa accadrebbe?

«Credo ciò che accade nel libro. Tutti sono imbarazzati, molti lo escludono, altri gli chiedono di pregare per loro. Questo bambino sconvolge. Noi non siamo pronti, prega chi va in chiesa. Chi non è cattolico o non appartiene a una religione specifica cosa se ne fa di quel sentimento naturale che è pregare? Per Leone è un gesto ingenuo. Si rivolge a qualcuno che è suo amico e che si chiama Gesù. Crede che lo possa aiutare. Tanto per cominciare lo ascolta, mentre i genitori hanno sempre da fare…».

Pregare è un atto eversivo?

«Oggi sì. Abbiamo abbracciato la scienza e la tecnologia come nume tutelare. Preferiamo essere positivisti e materialisti. Trionfano parole come utilità, tecnologia, carriera. Sono sparite le parole dell’interiorità: credere, dubitare, riflettere, coscienza».

Leone resuscita anche l’esame di coscienza.

«Quand’ero bambina lo facevamo. Niente di che, a fine giornata ognuno si prendeva un piccolo tempo per riflettere su ciò che aveva fatto o non fatto. Oggi ci corichiamo con il tablet. Non voglio dire che bisogna snocciolare il rosario, non siamo beghine. Ma stare un momento con sé stessi e pensare che non finisce tutto con noi può aiutare».

La madre turbata rappresenta il politicamente corretto? Uno che prega è «come un’auto che esce dalla coda e ti verrebbe da rimetterla in fila con le altre».

«Una madre è turbata dalla diversità di un figlio. Vorrebbe che fosse uguale agli altri, conforme. È tendenzialmente conformista. Perché la differenza la mette in crisi. Anche se quella di Leone è una diversità minima, non fa niente di male».

Illuminante l’ammonimento della maestra e della preside: «Suo figlio che prega esula».

«Esula deriva da esilio, essere fuori. A noi che piacciono tanto gli esuli, uno che prega non ci piace. Ci piacciono gli esuli esotici, non quelli nostrani».

Comunque, Leone un po’ strano lo è: mai una partita a pallone, un litigio…

«Gioca a minibasket. È un bambino timido, con un suo mondo immaginario in cui Gesù lo aspetta su una panchina invisibile. Non è un bambino di moda, estroverso e vincente».

È un libro di donne sole, la mamma, la nonna…

«Non ci avevo pensato».

Libro cripto femminista?

«Non pronuncerei quella parola».

In tutto ci sono due uomini.

«Avevo bisogno che la madre fosse da sola con suo figlio, altrimenti le dinamiche familiari mi avrebbero deviato dal cuore della storia. La nonna è sola perché il rapporto tra lei e Leone è il vero centro di tutto».

Un rapporto molto vissuto.

«Perché qui si è intrufolata la mia vita. Ho perso mia madre quando mio figlio aveva tre anni e non può ricordarsela. Io invece ricordo il rapporto d’amore tra loro: mai visto un amore così. Il motore affettivo del libro è il dolore di mio figlio che non ha potuto davvero conoscerlo, quell’amore. Tutto il resto è inventato, compresa la preghiera».

Che non è poco.

«Mi sono chiesta: c’è la preghiera nel nostro mondo? Ci rivolgiamo al cielo soprattutto nelle situazioni di pericolo, di precarietà. Ma a me quando c’è una bella giornata, come oggi, viene da dire: “Grazie Gesù”. Oppure, sotto le stelle… Altre volte mi vien da dire: “Gesù, fa che…”. Sono stupita: da dove mi arriva questa cosa? Ma se mi chiede se credo in Cristo rispondo di no».

Un libro così, calato nell’oggi, è un esperimento?

«Sono curiosa di vedere come verrà accolto. Piacerà al mondo cattolico, al mondo laico, a nessuno? Facendo due presentazioni ho avvertito un certo disagio quando pronuncio la parola Gesù, una perplessità strisciante. Ho voluto chiedere a me stessa e alla mia generazione cosa ne abbiamo fatto del cristianesimo. È una domanda che rivolgo ai miei contemporanei perché la risposta io non ce l’ho».

Nell’emergenza, quando salta l’elettricità e si spengono i cellulari, la comunità si ritrova attorno a quel bambino: dobbiamo tornare al poco ma fondamentale?

«È una forzatura narrativa. Ma penso che per andare al fondo dobbiamo sfrondare, tornare all’essenziale. È la spoliazione di San Francesco. Accantonato il superfluo emergono i rapporti e nasce la comunità».

Perché ha scelto come epigrafe una frase di Louis Aragon che parla di qualcuno che ha sollevato una tenda, rendendo nuovamente possibile ciò che fu?

«Leone pensa di vedere Gesù la notte di Natale dietro una tenda che si scosta. È un episodio della mia infanzia. Spesso nella nostra vita il miracolo ci passa accanto, si scorge qualcosa, s’intravede la divinità. Come dice Eugenio Montale nella poesia I limoni, intravisti nel loro giallo solare da “un malchiuso portone”».

La Verità, 28 ottobre 2018

«Premi letterari? Truccati come certi talent»

Questione di «aspettative irrealistiche». Nell’ultimo romanzo Una di Luna (La nave di Teseo), Andrea De Carlo dice tutto in due parole. Pensiamoci un secondo, la faccenda è tutta qui. Quando riponiamo attese eccessive su qualcosa o qualcuno; quando ci aspettiamo soluzioni magiche, risposte gratificanti, corrispondenza totale ai nostri desideri. Quando crediamo finalmente di svoltare se si verifica un determinato evento. Le «aspettative irrealistiche» confinano con l’illusione e sono il contrario della speranza. Che è aperta, non pretenziosa, pronta a raccogliere quello che viene. Musicista, fotografo e giramondo, ma soprattutto scrittore, De Carlo – 66 anni, capelli nerissimi come la camicia con colletto coreano – è allergico alle giurie, ai premi letterari e ai talent show sebbene vi abbia partecipato, anzi, proprio per avervi partecipato. Si definisce uno «scrittore scrittore» per distinguersi dagli «scrittori letterati». Appare poco e vive tra Camogli e Milano.

Margherita, la protagonista del suo romanzo, è apprensiva per un padre che l’ha «tiranneggiata tutta la vita»: una rarità. Oggi i figli ci mandano a quel paese molto prima, o no?

«È così, i ragazzi di oggi non hanno la pazienza della mia protagonista. Lei è apprensiva verso il padre perché sa che, in fondo, dietro la scorza dura, è un uomo fragile, perennemente sull’orlo di un crollo, di uno schianto».

La figlia è la voce narrante, come ha fatto a immedesimarsi nella psicologia femminile?

«In passato avevo già scritto romanzi con una parte maschile e una femminile. Ho sempre ascoltato molto le donne, sono una fonte inesauribile, un universo che continua a incuriosirmi e che cerco di capire. Mi aiutano l’osservazione e la conversazione. Scriverne è un modo di entrare ancora di più in questa comprensione».

Il padre del romanzo è un uomo anziano, un fascista scontroso, un cuoco inflessibile per il quale finisce per simpatizzare anche lei?

«Volevo presentarlo come un uomo insopportabile, antipatico e in guerra con il mondo. Però poi, strada facendo, ha rivelato dei tratti che suscitano simpatia. Per esempio, quando si ribella agli autori del talent show che vogliono piegarlo al loro gioco non si può non parteggiare per lui. La sua intransigenza anche nella preparazione di una ricetta suscita simpatia. È una sorta di guerriero, un uomo di principi, nostalgico di un mondo ordinato e un po’ utopistico».

Quando s’incontrano la fatuità della tv e il rigore di un vecchietto tutto d’un pezzo esplode il conflitto generazionale, di culture e antropologie.

«Ho immaginato certi autori televisivi alla ricerca di tipi umani come fossero ingredienti, pezzi di verdura da infilare nel minestrone. Achille resiste a questa guerra cinica sperando nella grande occasione di riscatto. Ma è un sogno che va in frantumi e la sua partecipazione viene tragicamente manipolata».

È un racconto che deriva dall’esperienza di giurato nel talent letterario Masterpiece?

«Avevo accettato di far parte della giuria nella speranza di parlare di letteratura, di riflettere su come si scrive un romanzo e di partecipare a una piccola comunità letteraria. Era un’aspettativa irrealistica perché un talent è solo un gioco tra diversi concorrenti. Spesso ciò che noi giurati ritenevamo interessante veniva tagliato al montaggio perché tutto era finalizzato alla gara. È stata un’esperienza frustrante. Probabilmente in un programma dal vivo è diverso».

Mai più?

«Certo, mai più. Avevo esitato, ma alla fine mi ero convinto perché, ragionavo, se non si prova non si può valutare. La produzione puntava a due/tre milioni di telespettatori. Invece ci assestammo sul mezzo milione, più o meno l’audience di tutti i programmi di libri. Comunque, anche quell’esperienza è tornata utile».

Nel libro il talent s’intitola Chef Test: come la prenderanno a Sky?

«Non credo possano contestare. Quello che racconto riguarda il meccanismo di quei programmi, non tanto uno specifico».

Perché li chiama chefstar?

«Sono i nuovi maître à penser. Gli chef fanno di tutto, sono ovunque. Dispensano ricette di comportamento anche lontano dalle cucine».

Che sono diventate glamour.

«Una volta erano un posto infernale. Quando a vent’anni ho fatto il cameriere a Los Angeles, in cucina si sentiva urlare continuamente, c’era puzza d’olio bruciato, era sporco. Adesso è tutto patinato».

E si scopre che gli chef sono persone insoddisfatte se non infelici, sull’orlo dell’autodistruzione come rockstar.

«Il cuoco era un lavoro umile, quasi da nascondere: un uomo che lavora in cucina? Oggi i grandi chef sono quasi tutti uomini. Forse perché sono più maniacali. O più bravi a promuoversi, a gestire i meccanismi delle critiche e delle stelle».

Nel backstage del talent si assiste al conflitto tra due filosofie: quella dell’artigiano e quella globalizzata della tv.

«È anche un fatto logistico. Lo studio televisivo è in un capannone, un non luogo dell’hinterland milanese. Mentre il vecchio cuoco arriva da Venezia, un luogo stratificato da mille vicende, pieno di storia».

Che lei conosce bene…

«Ci ho vissuto da bambino, mio padre insegnava lì. Poi ci sono tornato parecchie volte».

Tornando al confronto generazionale, i nostri padri avevano solidità e uno spessore che noi ci sogniamo?

«Erano molto più solidi. La loro è stata una generazione forgiata da difficoltà enormi, compresa la guerra. La cultura dell’epoca imponeva ruoli definiti e inscalfibili. L’uomo era la roccia della famiglia, non piangeva mai, a volte era un tiranno. La comunicazione affettiva con i figli era quasi inesistente. Oggi siamo caduti nell’estremo opposto: padri bamboccioni, che piangono alla minima difficoltà e fanno gli amiconi».

Le aspettative irrealistiche sono la causa principale delle nostre depressioni?

«Sì, per le delusioni che provocano. Le aspettative irrealistiche diventano surrettiziamente una pretesa. Tendiamo a configurare troppo ciò che attendiamo. Per esempio, vai in un ristorante stellato e sei sicuro di uscirne un uomo trasformato. Invece, magari esci solo più povero e ancora affamato. Il vecchio cuoco del romanzo pretende il suo risarcimento pubblico dall’ospitata a un talent. Margherita spera che a 87 anni un padre super egocentrico diventi chissà perché attento ai suoi sentimenti. Quello che attendiamo con troppa precisione non è mai come ce lo immaginiamo».

Non dobbiamo illuderci. Perché l’unico uomo che corrisponde alle attese di Margherita è un illusionista?

«Perché c’è differenza tra illusione e speranza. La speranza è aperta, non prestabilisce come deve andare. L’uomo che corrisponde alle aspettative di Margherita è un illusionista disincantato».

Anche lui un artigiano, come i cuochi di una volta?

«E come lo scrittore. Ispirazione a parte, la ricerca quotidiana delle parole è un’umile attività artigianale».

Che differenza c’è tra gli scrittori letterati e gli scrittori scrittori?

«Lo scrittore letterato è colui che si sente testimone della società e interviene sui temi più disparati nei salotti televisivi. Gli scrittori scrittori sono quelli che si limitano a raccontare le storie che sentono e vedono intorno a loro stessi. Io appartengo a questa seconda categoria. Recitare la parte dello scrittore non m’interessa per niente. Scrivere, invece, molto».

Facciamo qualche esempio delle due categorie?

«Meglio di no, guardandosi intorno si riconoscono. Comunque, oggi il ruolo sociale dello scrittore è ridimensionato».

Sicuro? Quest’estate c’erano quelli che volevano salire sulle navi dei migranti.

«Vero, ma ormai si ha la percezione che gli scrittori militanti finiscono per svilire la loro arte. Fanno i maître à penser, come i cuochi filosofi. Ciò detto, anch’io esprimo la mia visione del mondo, ma lo faccio nei romanzi».

Perché non partecipa ai premi letterari?

«Sono stato diversi anni nella giuria del Premio Strega e ho assistito ai traffici degli editori per far vincere questo o quello. Ho visto i meccanismi della manipolazione che assomigliano a quelli del montaggio dei talent show. Alla fine mi sono dimesso e ora sarebbe incoerente concorrere ai premi. Per di più non sono convinto che una giuria possa decidere se un libro è meglio di un altro».

E dei festival cosa pensa?

«Qualche volta ci vado. Si incontrano i lettori… Sono stato a Mantova, a Pordenone. Ma non lo faccio in modo seriale. Anche lo scrittore da festival che allestisce il suo show non mi convince».

A proposito di aspettative irrealistiche, che rapporto ha con la politica?

«Non mi sono mai identificato in nessuna ideologia e tanto meno in qualche partito. Ho un atteggiamento critico verso chiunque sia al potere. E adesso anche con chi è all’opposizione. Sono un anarchico insofferente».

Ha mai votato?

«Una volta sola. Mi sembra di esser costretto a scegliere tra cose che non mi piacciono».

Ha cambiato tante città, è stato in America e in Australia. Vivere a Camogli è una scelta estetica?

«La Liguria mi è piaciuta fin da bambino. Camogli è un luogo di luce e colori che mi corrisponde».

Come si divide tra le attività di musicista, fotografo e scrittore?

«La fotografia è il gusto della curiosità, niente più che un hobby. Amo la musica e suono tutti i giorni. Ma la mia attività vera è la scrittura, dove so di riuscire a fare quello che voglio. Gli altri linguaggi possono arricchirla».

Che cosa le dà speranza?

«Soprattutto le piccole cose quotidiane. Suonare con gli amici. Stare con qualcuno che non vedevo da tanto tempo…».

 

La Verità, 16 settembre 2018

«Veneriamo la tecnologia come una religione»

L’anagrafe conta fino a un certo punto. Paolo Giordano ha 35 anni ed è il più giovane vincitore del Premio Strega. Lo conquistò nel 2008, a 25 anni, con La solitudine dei numeri primi, il suo primo romanzo, che quell’anno vendette oltre un milione di copie e divenne un film con la regia di Saverio Costanzo. In Divorare il cielo (Einaudi) torna a raccontare una storia di formazione di un gruppo di ragazzi, ultratrentenni come lui, che passano dalla fede religiosa al credo ecologista alla rivoluzione digitale. L’anagrafe conta fino a un certo punto: «Dovrei sentirmi più vicino ai millennials», riflette. «Invece, mi rendo conto di essere più affine al sistema di pensiero dei miei genitori». Lo incontro in un locale di Torino.

Divorare il cielo è un romanzo sul bisogno di credere in qualcosa?

«È un romanzo sulla difficoltà di scegliere in che cosa credere. E sulla forte instabilità che ha una forma di credo oggi. Non solo per un fatto antropologico, ma anche per la complessità del mondo contemporaneo. Credo sia una difficoltà di molti».

È un romanzo sulle ideologie o sul desiderio di dare un significato all’esistenza che accomuna tutti?

«Sono refrattario a tutto ciò che ha a che fare con le ideologie, perciò mi sembra impossibile definirlo un romanzo ideologico. Sicuramente c’è un tratto anagrafico comune a persone che vivono a cavallo del millennio. Il che non vorrebbe dir niente se non fosse per il cambiamento radicale che è avvenuto. Veniamo da un secolo d’ideologie dominanti e siamo entrati in un nuovo secolo, dominato dalla polverizzazione o dall’atomizzazione. Delle ideologie non ho alcuna nostalgia, dell’attitudine a credere un po’ sì».

Secondo lei i millennials come cercano il senso della vita?

«Non è facile capirlo. Ho 35 anni e dovrei essere vicino ai millennials, invece, come struttura di pensiero, mi sembra di essere più affine ai miei genitori. Sono curioso di vedere come recepiranno il libro i più giovani, quando li incontrerò nelle scuole. Forse vediamo più differenze di quelle che in realtà ci sono».

Trenta o quarant’anni fa c’erano la Chiesa, i partiti, lo sport. Ora, mentre questi riferimenti appaiono più lontani, si affermano nuovi maestri e nuovi luoghi. Il cambiamento è stato in meglio?

«Non vorrei che il libro fosse inteso come una dichiarazione sui padri e sulle madri. La mia riflessione è sul bisogno di maestri più che sul fatto che quelli che ci sono hanno fallito oppure no. Il mondo ha accelerato, tenergli dietro è difficile per chiunque».

Però glielo chiedo: padre e madri hanno fallito o no?

«Forse non tutto è passato da una generazione all’altra. Lo dico anche a proposito di come ci si oppone a un sistema, di come si coltiva il proprio pensiero all’interno di un solco. I personaggi del libro sono un po’ tutti gettati nel mondo».

Non mettere radici profonde genera instabilità.

«Un progresso così rapido e complesso come quello di questi decenni ha fatto invecchiare rapidamente certi ancoraggi, mettendoci di fronte a tante opportunità anche morali, per cui oggi tutto risulta più difficile. I protagonisti del libro a un certo punto si danno regole precise. Il rispetto della natura diventa il comandamento massimo, per il quale sono disposti al sacrificio. Ma quando emerge un desiderio nuovo come quello di un figlio, che la natura da sola non appaga, si allontanano dal solco. Le generazioni più giovani vivono dentro questa discontinuità, questa incertezza. Io stesso la vivo».

Il mondo collegato alla rivoluzione digitale è la nuova religione dei millennials, un credo fatto di like, visibilità e narcisismo in tutte le sue varianti?

«Sono d’accordo sul fatto che un certo tipo di tecnologie siano oggi oggetto di venerazione. Se dovessi scegliere una fede dominante, direi proprio quella, con tutto il corollario di personalità carismatiche che ruotano lì attorno. Steve Jobs su tutti. Nel romanzo avevo idea di approdare lì fin dall’inizio, ma per arrivarci con senso sono dovuto partire da lontano. Nel momento in cui i ragazzi scappano e trovano l’ennesimo nascondiglio, in Germania, la loro attenzione si rivolge proprio al Web, ad Amazon… Inoltre, non è un caso che la prima frattura fra Bern e Cesare (il giovane e l’adulto della storia ndr) avvenga per l’acquisto di un computer».

È casuale che i protagonisti abbiano genitori distanti non solo geograficamente?

«Non è casuale. Anche se la narratrice viene dal quadro più borghese e solido possibile. Una costante dei miei libri è il tentativo di definire che cosa sia famiglia. Temo si stia tentando di definirla in un recinto molto stretto, mentre io la vedo come una realtà diramata ed estendibile».

Non è più il luogo dell’educazione e della testimonianza?

«Lo è, ma non necessariamente nella struttura tradizionale, che si dimostra non al passo con i tempi».

Il passo dei tempi ci sta dando un uomo più felice?

«Forse no. Ma di sicuro ci chiede una forte versatilità e adattabilità. Il cambiamento è molto più epocale e rapido di quanto ci accorgiamo. Quand’ero studente, 15 0 20 anni fa, i figli di separati erano anomalie. Tra i genitori dei ragazzi di oggi ci sono famiglie ricomposte, monogenitoriali, sovrabbondanza di padri e madri. Alla politica e al buon senso comune sta decidere se trattarle come errori o rendere più elastici i bordi delle definizioni. La rigidità con cui il sistema si oppone o le esclude genera solo stati di sofferenza».

I rapporti tra i ragazzi vengono messi alla prova dal desiderio di essere padri e madri. Perché anche questo oggi è complicato?

«Perché il futuro spaventa di più. L’incertezza è anche economica. C’è un senso di precarietà diffuso che aumenta il grado di responsabilità».

Per avere un figlio ricorrono alla fecondazione eterologa, imbattendosi in ambienti e medici ambigui.

«In Italia, fino a pochi anni fa, sulla fecondazione assistita c’era un vuoto legislativo che veniva colmato da persone animate dalle loro convinzioni o da obiettivi più ambigui; più spesso da una strana commistione delle due cose. Se la politica non pensa a regolamentare certe esigenze reali, chi le avverte e agisce di conseguenza rischia di passare per criminale. Come accadeva ai tempi dell’aborto clandestino».

Cosa pensa del ricorso alla gestazione per altri?

«Non ho una linea tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Per me l’unico criterio discriminante è la sofferenza delle persone».

Oggi facciamo nascere figli in tutti i modi oppure li sopprimiamo se indesiderati. Questo ventaglio di opzioni in contraddizione tra loro è vero progresso o sintomo di egoismo?

«Non lo so. Ho un atteggiamento iper laico su questi argomenti. Penso che il punto sia la grande impreparazione di tutti noi riguardo alle tante possibilità che abbiamo. Riportare il dibattito indietro, a livello politico e ideologico, è assurdo. Credo che dobbiamo educare il nostro senso critico per saper entrare nelle situazioni reali».

Dopo l’esperienza religiosa, i ragazzi del romanzo diventano ecologisti insurrezionalisti. Ha tratto ispirazione dai movimenti NoTav che hanno base a Torino? È un credo credibile?

«Se il romanzo fosse stato ambientato in Piemonte, sì, quei ragazzi avrebbero partecipato alle azioni NoTav. Le cause ecologiste sono territorializzate. In Puglia ci si batte contro l’abbattimento degli ulivi. Io non prendo parte, non l’ho mai fatto, sono sempre diviso. M’interessava capire dove un giovane oggi può investire le sue energie di protesta».

Protesta che sconfina nella violenza e nel terrorismo. A tratti viene in mente Pastorale americana.

«È un libro scritto negli anni dell’ultima ondata di terrorismo. C’è la genesi di un terrorista, di un integralista».

Pur di credere in qualcosa si può diventare terroristi: la società contemporanea non ha spazi che rispondano alla ricerca di senso?

«In modo significativo, non saprei. Ci sono tanti palliativi».

Tipo?

«Lo yoga in palestra, le diete bio, le vacanze ecosostenibili, le grandi camminate in montagna. Anche l’idea di mettere al mondo dei figli può diventare una forma di appagamento spirituale. Oppure, l’ambizione di costruire un piccolo mondo immune dalle regole del mercato. Avendo sgretolato i grandi sistemi spirituali, la ricerca di un credo si distribuisce e si frammenta».

Che giudizio dà dei media?

«Sono un disastro. Hanno abdicato alla responsabilità di fare da guida. Famiglia, fecondazione, ambientalismo sono questioni capitali: visto che la politica latita, mi aspetterei dai media una funzione di supplenza, un lavoro che aiutasse a creare consapevolezza e discernimento. Non vedo niente del genere».

La letteratura che ruolo può avere?

«Può provare a dissodare le coscienze. Può far sorgere domande scomode. Se una cosa non ti tocca personalmente è facile tirare la riga della moralità: di qua sì, di là no. La letteratura aiuta ad attraversare questa linea, a spostarla o a toglierla del tutto».

C’è chi ritiene che le serie tv siano la letteratura del futuro: concorda?

«Le serie mi piacciono, ma non le amo. Non sottoscrivo l’identificazione tra serie e romanzi. La narrazione televisiva sfrutta il romanzesco e i romanzi devono fare i conti con la serialità, ma la struttura è diversa. Le possibilità di profondità che il romanzo consente sono inavvicinabili anche dalle serie più riuscite. Credo che l’impegno di leggere un romanzo, se lo è davvero, offra un premio molto maggiore».

Tornando a Divorare il cielo, il suo bisogno di credere ha trovato casa?

«Se la domanda secca è se credo in Dio, la risposta è sì. Ma…».

La domanda è se ha trovato qualcosa che risponda alla sua ricerca di felicità?

«Diciamo che ci sto lavorando».

 

La Verità, 24 giugno 2018

 

«La globalizzazione trasforma l’arte in moda»

Aurelio Picca arriva alla stazione ferroviaria di Velletri con la sua Lexus Sc 430, un coupé color genziana 4.300 di cilindrata. In Italia ce l’avrà solo lui. Andiamo a casa, nella collina verde di ulivi che abbracciano le ampie vetrate: salotti, living, studio hi tech, librerie, grandi dipinti. Picca è eccesso pieno di stile, esagerazione sopraffina, estetica, vitalismo assoluto, sorgente di una scrittura tumultuosa e selvaggia, sempre all’inseguimento di qualcosa che appaghi la fame di vita che non lo abbandona. Un sosia di Curzio Malaparte di un metro e 85, un sessantenne che cita Tyrone Power. Tutte le volte che lo vedo, da quando collaborava al giornale dove lavoravo, gli dico che dovrebbe fare il cinema. È un dandy potente, ma sofferto. Uno che s’incasina la vita, uscendone sempre alla grande. Col cuore. Ha da poco pubblicato Arsenale di Roma distrutta (Einaudi), autobiografia con libere invenzioni tra i Sessanta e gli Ottanta.

Perché questo libro, dopo la Roma di Romanzo criminale e Suburra, dei film di Claudio Caligari e Fabrizio Mainetti?

«Quei film non li ho visti. Conosco un po’ Caligari, ma mi è sembrato scarno e poco vitale, per quanto lui sia autentico. La mia Roma ce l’ho in corpo da tanto. Quando ho scritto un post su Facebook, Paolo Repetti di Stile libero mi ha chiamato: “Aurelio, ho sentito i brividi. Ce la fai a tenere questa scrittura per 200.000 battute?”. Pure per 700.000… Pensavo di avere delle immagini nuove. Ho vissuto gli anni della ferocia e della trasformazione, quando hanno fatto diventare città una Roma che non lo era».

E cos’era?

«Un agglomerato di villaggi, di barrios. Ogni quartiere con storia e ostilità proprie, la Garbatella contro Trastevere, Testaccio contro i Parioli. Quella era la forza. Ognuno con la sua lingua. Ti spostavi di un chilometro e cambiava l’inflessione. Poi si dimentica sempre che Roma ha il mare di Ostia. E Ostia di Sergio Citti, che per Laura Betti era la vera mente barbarica più di Pasolini, è un grande film».

Roma maschio e femmina, santa e mignotta, cinica e selvaggia. Sintesi di contrari e contrasti: tutti dentro l’arsenale del titolo?

«L’arsenale è un gigantesco magazzino che in realtà viene dalle navi militari di Venezia. L’ho usato anche in un vecchio poemetto. Mi piaceva questo luogo abbandonato, ma pieno di energie. Come tante rovine abbandonate e carbonizzate, che invece sono pietre preziose adagiate: il passato, la ferocia, le lotte, la mitologia».

Ci sono anche eroi tragici come Giorgio Chinaglia e Nino Benvenuti.

«E Carlos Monzon, il primo criminale moderno arrivato a Roma. Quando mise al tappeto Benvenuti alla dodicesima ripresa ero lì, in quel palazzetto vociante, che sembrava un’astronave poggiata sull’Eur. Le donne urlavano “Nino, Nino”. Avevano già capito che non ce l’avrebbe fatta. Monzon l’aveva lavorato col sinistro tutto l’incontro; per poi sparare il destro, definitivo come una pistolettata. Una tragedia».

E Chinaglia?

«Tra romanisti e laziali è sempre odio e amore. I romanisti lo dicono: un avversario potente come Chinaglia non l’abbiamo più trovato. Segnava e andava sotto la curva puntando il dito a mo’ di pistola: eccomi qua, vi ho bucato. Anche lui è stato un eroe tragico, morto male in America. Come Monzon, finito in galera perché aveva ucciso la moglie. E una sera, tornando in carcere, ha trovato la morte in un sorpasso azzardato. Roma ti esalta e ti distrugge, puoi essere re solo per un giorno».

Tranne Francesco Totti, che è l’ottavo?

«Totti appartiene a un’altra Roma. Il re della mia epoca era Bruno Giordano… Quando ho visto Roberto Fico camminare circondato da una folla di compagni e uomini della scorta ho pensato già alla fine. Troppa gloria concentrata non dura».

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«La letteratura non è Calvino e Baricco»

Colpisce il tono di voce. Pacato, quasi dimesso. E poi lo sguardo affabile, tra i capelli e la barba bianca. Antonio Moresco, settant’anni, mantovano di nascita e milanese d’adozione, mi accoglie nel sottotetto che gli fa da studio in Porta Romana. Un posto semplice, scaffali di libri e una scrivania con vista alberata, dove si ritira, eremita della parola. Uno tra i più irriducibili e incendiari scrittori italiani, autore di romanzi estremi che hanno diviso la critica tra bluff assoluto e superamento di Dostoevskij, nonché di saggi contro l’intero sistema editoriale, ha una voce e una gentilezza inusuali. Zero sussiego e zero narcisismo. Questo tono calmo fonde anni di seminario, dislessia, ripetute bocciature scolastiche, militanza nell’estrema sinistra al confine con la lotta armata, lavori come facchino e operaio d’altoforno, 15 anni di rifiuti prima dell’esordio, quarantacinquenne.

L’ultimo libro, L’adorazione e la lotta (Mondadori), è un atto d’amore per la letteratura e un atto d’accusa per la casta degli intellettuali?

«È un atto d’amore per la letteratura come la intendo io più che per la sua idea corrente».

Che sarebbe?

«Un’idea al ribasso. Che non contempla quel carattere d’invenzione, di rottura e di profezia che ha sempre accompagnato la letteratura e che è ciò che me la fa amare. Di conseguenza, il mio è anche un atto di lotta nei confronti di chi, in particolare dalla seconda metà del Novecento, vuol portare giù le cose, teorizzando che è impossibile volare alto».

I suoi scritti sono stati a lungo respinti. La denuncia nei confronti dei «gruppi d’intellettuali canonizzatori, schematizzati e ideologici» è una rivalsa?

«È un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle. Non ci sono arrivato con il cervello, ma con altre parti del corpo. Questo dovrebbe aggiungere e non togliere verità a un’affermazione».

Che cosa accade in uno scrittore quando patisce tanti rifiuti?

«È stata una via crucis di 15 anni. Ma la mia dedizione alla letteratura era così forte che, pur soffrendo, resistevo; come uno che prende un sacco di cazzotti, ma non va per terra. Non mi passava nemmeno per la testa di gettare la spugna. I verdetti dei sacerdoti canonizzatori hanno rafforzato la mia vocazione».

La sua predilezione è per i classici e per certi libri rimossi. Qual è il criterio, se ce n’è uno?

«Le preferenze sono istintive, ma gli scrittori e i poeti che amo sono persone che fronteggiano il mondo e il male del mondo. Leopardi, Cervantes, Tolstoi, Dostoevskij, Balzac, Melville, Kafka, Celine non hanno paura di prendere di petto le cose che contano. Sono autori sonnambulici, perché attingono anche a risorse sotterranee, che permettono loro di vedere la parte in ombra, il buio».

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