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«Il Papa vuole essere pop come un influencer»

Atti impuri. Argomento scabroso, teologicamente incandescente e attualissimo. Ha a che fare con la dottrina della sessualità e del matrimonio. Con il ruolo della donna e i rapporti nelle coppie dello stesso sesso. Con gli abusi e le violenze dei preti e la pedofilia: ferite apertissime nella Chiesa. Se ne occupa in Atti impuri, appunto, per Laterza, la storica e femminista Lucetta Scaraffia, con approccio distaccato e chirurgico.

Da che cosa nasce questo saggio?

«Dalla scoperta che l’unico dei Dieci comandamenti che ha cambiato formulazione è il sesto, ed è quello che riguarda il comportamento sessuale. Ha smesso di essere “Non commettere adulterio” ed è diventato “Non commettere atti impuri”. Il cambiamento è avvenuto nel Cinquecento e solo nel 1992 è tornato alla formulazione originale».

Qual è lo scopo del libro?

«Trovare le radici dell’atteggiamento della Chiesa di fronte agli abusi sessuali. La Chiesa ha dimostrato una grande difficoltà a risarcire le vittime. Anzi, ancor prima, ad accettare che esistano. Il suo sguardo è concentrato sul colpevole, che diventa peccatore in quanto ha trasgredito il sesto comandamento».

Perché preferisce la formulazione: «Non commettere adulterio»?

«Perché allude a una rete di rapporti sociali. Allude alla rottura di un legame di fiducia all’interno di una famiglia e di una comunità».

Non rischia di essere ripetitiva del nono comandamento: «Non desiderare la donna d’altri»?

«Certo. Però l’adulterio è un fatto, una realtà che avviene e danneggia i rapporti sociali. Quello trattato nel nono comandamento è un peccato di intenzione e di desiderio».

Che ha una radice nel vangelo di Matteo: «Chi guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio in cuor suo».

«Perché, in realtà, i desideri tendono a realizzarsi».

La formulazione è cambiata quando è insorta la variegata casistica di trasgressioni che riguardano la sessualità e il rispetto del corpo «tempio di Dio»?

«La formulazione diventa “Non commettere atti impuri” quando l’attenzione si sposta solo sull’individuo che compie l’atto e la sessualità trasgressiva comincia a essere concepita come impurità. Quindi, il colpevole peccatore deve tornare puro. Non conta nulla la persona con cui ha commesso l’atto».

Un cambiamento di prospettiva importante.

«Fino all’epoca moderna la Chiesa controllava anche l’ordine pubblico, garantendo che nelle comunità non prevalesse la violenza. In quest’ottica i peccati più gravi erano l’ira, la superbia e l’invidia perché innescavano azioni di sopraffazione. Invece, con la nascita degli Stati nazionali, sono le istituzioni statali ad assumere il compito di garantire l’ordine pubblico. A quel punto la Chiesa si preoccupa di consolidare il suo unico ambito di supremazia, che è quello del comportamento sessuale e delle relazioni private».

«Non commettere atti impuri» equipara l’adulterio, la contraccezione, la masturbazione, l’omosessualità, la pedofilia, la prostituzione. Come si poteva formulare un comandamento per ognuno di questi peccati?

«Il problema è che vengono messi sullo stesso piano peccati che non diventano violenza verso altri, come la masturbazione e la prostituzione, e azioni come l’abuso e lo stupro nelle quali ci sono delle vittime».

L’errore è aver inglobato lo stupro e gli abusi, la violenza sul partner non consenziente?

«La Chiesa non mostra attenzione alla questione del consenso che oggi è diventata centrale nel giudicare le trasgressioni sessuali».

La Chiesa si preoccupa della conversione del cuore. Gli effetti sulla vittima e la riparazione delle conseguenze delle azioni del peccatore sono il terreno della carità e dell’azione pastorale?

«L’unico comandamento che Gesù ha lasciato è “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Questo è l’unico comandamento della tradizione cristiana. La conversione del cuore deve comprendere anche la carità e la responsabilità verso gli altri. È fondamentale per un cristiano. Questa definizione del peccato deriva da una concezione maschile della sessualità».

Perché?

«Perché per gli uomini esiste una forma di piacere anche in un rapporto di abuso e stupro, mentre per le donne no. Il sesto comandamento e il diritto canonico considerano la vittima come complice, anche se non volontaria, della trasgressione. Perché è un piacere impuro al di fuori del legame matrimoniale, l’unico accettato dalla morale cristiana».

Non riesco a vedere in che modo la Chiesa consideri complice nel piacere il non consenziente.

«La vittima non viene considerata tale. È solo una persona coinvolta nella trasgressione del sesto comandamento».

Queste debolezze attraversano parti consistenti del clero e fanno dire ad alcuni teologi e vescovi che la soluzione potrebbe essere l’abolizione del celibato dei preti e il sacerdozio femminile. Lei cosa ne pensa?

«Penso che non è una soluzione magica. Sappiamo che gli abusi avvengono anche nelle famiglie e con uomini sposati. Però nel matrimonio c’è una donna che controlla l’uomo e sta attenta a quello che combina».

Quindi è favorevole?

«Forse sì. Sarebbero meno soli, e questo è importante. Ma anche la fine del celibato avrebbe risvolti negativi. Sarebbe una soluzione a doppio taglio».

Per esempio?

«Gli interessi della famiglia potrebbero distoglierlo dalla cura dei fedeli, sia dal punto di vista finanziario che emotivo. Poi il comportamento magari trasgressivo dei famigliari potrebbe nuocere alla sua autorevolezza nei confronti dei fedeli… Lei si immagina un prete con figli drogati o bulli?».

La sessualità è il terreno nel quale i Papi sperimentano maggiore solitudine, come confermò Paolo VI ad Alberto Cavallari il 3 ottobre 1965: «Si studia tanto, sa… Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli…». Perché?

«Perché da quando è iniziata la rivoluzione sessuale nei primi decenni del Novecento la Chiesa si è trovata a vivere dentro una tendenza storica che promuoveva una morale opposta a quella che aveva sempre insegnato, cioè  in una situazione fortemente contraria al nuovo spirito del tempo».

È la stessa solitudine di cui ha parlato papa Francesco intervistato da Fabio Fazio a proposito dell’autorizzazione concessa alla benedizione delle coppie omosessuali contenuta nella Fiducia supplicans?

«Quella è tutta un’altra cosa. In realtà, la decisione di benedire le coppie omosessuali è stata fatta per rispondere alla una tendenza storica in atto di riconoscimento degli omosessuali. Quindi, il Papa non è solo e diverso dalla mentalità comune, ma si adegua al fluire del pensiero corrente. Caso mai è solo rispetto a gran parte della Chiesa che non approva quella decisione. È un tipo di solitudine completamente diversa».

Che cosa pensa della decisione del presidente del Dicastero per la dottrina della fede Víctor Manuel Fernández?

«Penso che non ce n’era alcun bisogno perché, in realtà, le cose sono rimaste come prima. Cioè, è sempre stato possibile per un sacerdote benedire i singoli individui, senza domandare loro se sono buoni o cattivi. Il problema riguarda le coppie, ed è stato specificato che non possono essere benedette in quando coppie omosessuali».

Cosa pensa del fatto che papa Francesco ha detto che chi critica questa dichiarazione non conosce a fondo la materia?

«Penso che l’abbia detto per difendersi dalle polemiche, ma non è vero. È un modo per impedire di criticare una dichiarazione che è nulla perché nella sostanza non fa che ribadire un’azione che già si può compiere».

Nei giorni scorsi Francesco ha detto che «il sesso è un dono di Dio»: è un passo avanti?

«No. L’aveva già detto Giovanni Paolo II nella sua teologia del corpo e nel libro Amore e responsabilità».

Lei si sofferma sulla controversa formulazione del sesto comandamento, ma papa Wojtyla l’ha riportata all’origine. Si tendono un po’ a rimuovere le innovazioni del suo pontificato, ma con lui e Benedetto XVI la Chiesa si è ravveduta, o no?

«Ravveduta non è la parola giusta. È tornata su alcuni punti rifacendosi alle origini della dottrina cristiana. Chi ha riportato alla formulazione originaria il sesto comandamento è stato l’allora cardinale Ratzinger, nel nuovo catechismo. Ed è stato sempre Ratzinger, cioè Benedetto XVI, nella lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda del 2010, a dire che gli abusi erano stati perpetrati “contro” le vittime e non “con” le vittime, come prevedeva la formulazione precedente».

Che cosa rappresenta questo papato dopo quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI?

«A me sembra che ci siano stati cambiamenti importanti come l’attenzione alla terra e all’ecologia che ha aperto una sfera nuova di impegno dei cattolici. Però, per il resto, mi pare che abbia generato molta confusione».

Ambientalismo, teoria gender, migranti: la Chiesa è troppo allineata al pensiero unico?

«Più che altro è silente rispetto ai numerosi punti in cui il  pensiero unico si allontana dalla dottrina cristiana, perché parlare la renderebbe impopolare. E il Papa ha scelto la popolarità».

Qualche giorno fa ha detto che si comporta come un influencer. L’influencer influenza scelte e comportamenti dei seguaci come fa anche un’autorità morale, o no?

«L’influencer deve cavalcare la mentalità corrente, non può mai schierarsi contro la mentalità corrente. È questo il problema».

Nel frattempo, le chiese si svuotano?

«La ricerca della popolarità di Francesco, le interviste infinite, il suo avvicinarsi al pensiero del mondo: tutto ciò non è servito ad attirare persone al cristianesimo».

È un Papa molto apprezzato da chi non è credente.

«Che rimane tale. Perché i non credenti non vedono la grande differenza tra quello che dice e quello che fa, prestano attenzione solo alle parole».

Qual è questa differenza?

«Ha sempre detto che le donne sono importanti e che bisogna ascoltarle. Ma non ha mai fatto nulla di reale per cambiare il loro ruolo nella Chiesa. Ne ha messa qualcuna qua e là, realizzando una cosmesi superficiale. Non ha mai affrontato seriamente il tema degli abusi contro le suore da parte di sacerdoti e religiosi, che sono numerosi e gravi, e comportano spesso come conseguenza l’aborto».

Da storica quale futuro intravede per questa Chiesa?

«La Chiesa deve ridefinire sé stessa rispetto al mondo contemporaneo. È un’operazione che aveva avviato papa Ratzinger, che era un grande studioso del rapporto fra Chiesa e modernità nella sua accezione più alta. Penso che valga quello che ha profetizzato lui: rimarranno pochi cattolici, ma di grande qualità».

Il piccolo gregge?

«Da cui ricominciare».

 

La Verità, 20 gennaio 2024

Bergoglio, Fazio e quel feeling figlio di Repubblica

Il Fratacchione e il Papa. Fabio e Francesco. Fazio e Bergoglio. Storia di un riconoscimento. Di un comune sentire. Di predilezioni e affinità elettive. Maturate e benedette da Repubblica fin dagli albori della pandemia. Le somiglianze tra il grande conduttore televisivo e il grande condottiero della cristianità sono evidenti. Il Fratacchione catodico e il Papa cattolico. Il papa laico e il Papa religioso. Stasera il Pontefice sarà ospite per la seconda volta nel giro di un paio d’anni di Che tempo che fa, quasi che il conduttore ligure abbia raccolto il testimone da interlocutore privilegiato del Santo padre lasciato da Eugenio Scalfari. Complimenti a Fabio Fazio che, tra un dialogo con il Ct dell’Arabia saudita, Roberto Mancini, qualche gag di Leonardo Pieraccioni, gli immancabili sermoni di Roberto Burioni e Michele Serra, e la letterina di Luciana Littizzetto, lo intervisterà sul Nove in collegamento dal collegio Santa Marta. Un colpo giornalistico che, sebbene di recente anche il direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci abbia dialogato con Bergoglio, contenderà il primato degli ascolti alla Rai. Tuttavia, nel video postato sugli account di X, Fazio lascia intendere che non è l’attualità a interessarlo.

Dopo una premessa emotiva in cui spiega che non vuole «sprecare l’occasione» perché le parole del Papa «non sono in funzione di una trasmissione televisiva, ma sono in funzione della nostra vita», il conduttore sottolinea che il suo tentativo sarà quello di mettersi «in ascolto e di non fare cronaca, ma riuscire a porre argomenti che possano andare un po’ più lontano». Insomma, par di capire che si parlerà di cose alte e profonde allo stesso tempo. E nessuno più di noi ne è contento. Ciò nonostante, non dispiacerebbe se si trovasse spazio anche per i temi all’ordine del giorno in Vaticano e nella cristianità universale. Tipo le benedizioni alle coppie dello stesso sesso che hanno agitato le conferenze episcopali e i fedeli di mezzo mondo. O la predilezione per la banda di Luca Casarini, l’ex disobbediente invitato al Sinodo e ora sotto indagine della Procura di Ragusa per favoreggiamento dell’emigrazione clandestina, ma che «salva gente in mare» con i soldi delle diocesi, facendo storcere il naso a tanti devoti che la domenica fanno l’elemosina in chiesa.

Vedremo. Fazio non è solito fare il contropelo agli ospiti. Figuriamoci al Papa, con il quale intrattiene un rapporto di grande empatia. La prima volta che lo ebbe ospite, grazie ai buoni uffici dell’associazione Nuovi orizzonti di Chiara Amirante e della Comunità di Sant’Egidio, fu il 6 febbraio 2022. Allora il programma andava in onda su Rai 3 (share del 25,4% e 6,7 milioni di telespettatori) e, per scaldare il pubblico, era stato invitato a dare una definizione del Pontefice un quartetto di giornalisti molto in voga, anche se non esattamente del ramo. Massimo Giannini aveva parlato di un «Papa vicino alla gente, inviso alle gerarchie». Fiorenza Sarzanini lo aveva descritto come «uno straordinario rivoluzionario». Roberto Saviano lo aveva identificato come «l’ultimo socialista». Mentre per Carlo Verdelli era «un grande uomo solo». Il tutto a conferma che Bergoglio piace molto ai non credenti. Il che andrebbe benissimo se, al contempo, non autorizzasse documenti come la Fiducia supplicans, redatta da Víctor Manuel Fernándes, il prefetto del Dicastero per la dottrina della fede da lui nominato, che, come si diceva, ha gettato nello sconcerto le chiese africane, quelle dell’Est europeo e di parte del Sudamerica.

Del resto, se il feeling tra Fabio e Francesco è nato e cresciuto all’ombra di Repubblica, un motivo ci sarà. All’epoca, 18 febbraio 2020, a dirigere il quotidiano di Largo Fochetti c’era Carlo Verdelli. Da poco era iniziata la prima quarantena per il coronavirus e Bergoglio era solito farsi intervistare (con virgolette approssimative se non arbitrarie) da Scalfari fin dal primo ottobre 2013. Ma quella volta fu il vaticanista a interrogare il Papa. In quei giorni di coprifuoco Verdelli aveva pensato di far scrivere alcuni volti noti su ciò che stava loro a cuore. A un certo punto era toccato a Fazio vergare una sorta di decalogo che invitava a «riconnettersi alla Terra e all’ecosistema» e «a stare vicini alle persone a cui vogliamo bene». Il giorno dopo, papa Bergoglio aveva rivelato a Paolo Rodari che l’aveva «molto colpito l’articolo scritto su Repubblica da Fabio Fazio». Proprio così. Chissà se l’aveva letto spontaneamente… E cosa, in particolare, l’aveva colpito? «Tanti passaggi, ma in generale il fatto che i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri». E poi, ancora, il fatto che chi evadeva le tasse toglieva denaro alla sanità pubblica. Insomma, davanti alla situazione planetaria altamente drammatica, con la morte che imperversava, mentre i filosofi e gli intellettuali laici ricorrevano a Sant’Agostino, diversamente Francesco era «colpito» da Fazio. La citazione aveva «aperto» l’edizione meridiana del Tg1, il conduttore era pur sempre, ancora, un volto Rai (mentre gli altri tg l’avevano ignorata). Non poteva che nascere quel grande rapporto mediatico di cui, oggi, tutti godiamo.

Stasera a preparare il terreno all’evento ci sarà un altro terzetto di giornalisti: Annalisa Cuzzocrea, vicedirettrice della Stampa, Nello Scavo, inviato di Avvenire, e l’irrinunciabile Massimo Giannini, editorialista di Repubblica. Chissà se loro riusciranno a convincere l’amico Fabio a non trascurare troppo la cronaca.

 

 

La Verità, 14 gennaio 2024

«Sono anticlericale, ma non un ateo militante»

L’appuntamento con Marco Bellocchio è in un elegante hotel di Milano. Reduce dal Festival di Cannes privo di riconoscimenti, il regista di Rapito è in tour per presentare il film al pubblico. È un’opera che abbina alla seduzione estetica il taglio anticlericale nel narrare la vicenda di Edgardo Mortara, nono dei dodici figli di una famiglia ebraica della Bologna di metà Ottocento, ancora appartenente allo Stato pontificio. Battezzato di nascosto dalla tata cattolica allorché malato e in pericolo di vita, una volta appreso dell’amministrazione del sacramento, papa Pio IX esercitò l’imperativo previsto dal diritto canonico di educare cristianamente il nuovo affiliato alla Chiesa. Immediatamente il caso esplose con grande clamore, fino ad assumere rilevanza internazionale. Attorno alla vicenda del «bambino rapito dal Papa re», si coagularono le comunità ebraiche mondiali, la massoneria, i sovrani europei da Cavour a Napoleone III, le grandi testate giornalistiche. Una coalizione che s’infranse contro la volontà del bambino. Il quale crebbe in un convitto religioso, si fece prete assumendo il nome di Pio Maria Edgardo per gratitudine verso il Papa suo benefattore e morì a 90 anni nell’abbazia di Bohuay, in Belgio. Anche Pio IX, pronunciando il famoso «Non possumus», non indietreggiò. Ma in qualche modo quella vicenda contribuì ad accelerare la «presa di Roma» e la fine del potere temporale vaticano.

Come ha scelto il titolo del film?

«Prima avevamo pensato a La conversione ma, nonostante il mio entusiasmo, la garbata opposizione della comunità ebraica mi ha fatto recedere. Il secondo titolo era Non possumus, ma in questo caso è stata la distribuzione a dissuadermi perché il latino non lo conosce nessuno. Poco prima di fare i manifesti siamo arrivati a Rapito che, mi pare, entri nell’orecchio».

Qual è l’idea di questo film di cui va più fiero?

«Fin dall’inizio mi ha mosso l’amore per il dramma di questo bambino. Solo ora il film sta suscitando un certo tipo di discussioni e polemiche, ma il mio primo interesse non era fare un’opera contro Pio IX. Questi due elementi si sono integrati, un po’ come nei grandi romanzi dell’Ottocento s’intrecciano la piccola storia e la grande storia. Stiamo parlando di un film di 2 ore e 5 minuti, non di un libro di storia. Né è mia intenzione paragonarmi ad autori come Alessandro Manzoni che, pure, dedica un intero capitolo dei Promessi sposi alla peste».

Ha scritto una lettera a papa Francesco invitandolo a vederlo: risposte.

«Finora nessuna. Naturalmente ha cose ben più importanti di cui occuparsi».

Si aspettava qualche riconoscimento a Cannes?

«I riconoscimenti sono legati ai gusti dei giurati, che hanno scelto diversamente. Inoltre, l’anno scorso avevo già avuto la Palma d’oro alla carriera. Si poteva considerare l’interprete del Papa, del padre o della madre…».

Una straordinaria Barbara Ronchi.

«I grandi attori sono molto padroni del proprio volto e dei propri occhi. Lei ha saputo trovare la giusta misura della madre straziata».

Si può dire che c’è una prima parte del film più provocatoria e una seconda più riflessiva, in cui sembra rispettare le scelte del protagonista?

«Man mano che si procede s’impone la grande storia con la fine del Regno pontificio. Avevamo l’esigenza di trovare delle sintesi, rendendo lo strazio del bambino. E l’impresa impossibile alla quale è chiamato, di conciliare le due religioni, quella della famiglia e quella del suo secondo padre, Pio IX. Qui è nata la scena nella quale schioda il crocifisso…».

Quella iniziale con il padre tentato di lanciarlo dalla finestra ai suoi confratelli per sottrarlo al sequestro è un po’ forzata?

«Non è inventata. Nelle cronache si cita il padre che espone il bambino ai suoi correligionari perché lo portino via. È anche vero che poi non se la sente, come si rendesse conto del rischio di perderlo definitivamente».

Dalle ricostruzioni storiche risulta che il Papa propose di farsi carico dell’educazione di Edgardo fino alla maggiore età quando avrebbe scelto a quale confessione aderire.

«È vero. Il bambino mostrò sempre gratitudine verso il Papa per l’educazione ricevuta».

Frequentando una scuola cattolica a Bologna si voleva garantire ai genitori la possibilità di vederlo.

«Questo non lo so. So che il Papa dispose una pensione cospicua affinché il bambino potesse studiare. Poi lui chiese di continuare gli studi come missionario e di chiamarsi Pio. La sorpresa maggiore si ebbe quando, con la liberazione di Roma, il fratello entrò in seminario per riportarlo in famiglia, ma lui si oppose, scegliendo di rimanere lì».

Tornando al battesimo clandestino, la legge vietava che le famiglie ebraiche avessero personale cattolico proprio per evitare queste situazioni.

«Era un divieto blando e poco rispettato. Alle famiglie ebraiche faceva comodo avere personale cattolico nei giorni del shabbat, quand’è proibito lavorare».

Risulta anche che la massoneria favorì l’irrigidimento della famiglia.

«Il padre era massone, tuttavia era anche il più disponibile a un’apertura. La madre lo rimproverava perché lo riteneva troppo morbido. A un certo punto il permesso di visitare il bambino fu sospeso perché lei continuava a opporsi e rifiutava che venisse educato cristianamente».

Un dei meriti del film è mostrare che Edgardo aderì presto ai nuovi insegnamenti impartiti: quindi non fu un’educazione forzata?

«Nella sua autobiografia scrive di essere sempre stato trattato con estrema umanità. Ma se pensiamo a un bambino prelevato dalla sua famiglia non possiamo escludere che cercasse la migliore sopravvivenza. In un luogo sconosciuto, anche un bambino si adatta alla situazione. L’amico gli dice: “Tocca farse furbi”… Penso che non abbia fatto molti ragionamenti, in un ambiente gentile ma ostile trovò la sua strada».

Quando i genitori vanno a Roma il rabbino dice al padre che ha sbagliato a creare troppo clamore e che il bambino sta bene, «una brutta notizia per voi».

«Non cercava di scappare, si era adattato. Ma era un adattamento superficiale come evidenziò la visita della madre che riuscì a spezzarne le difese, provocandone la crisi e la richiesta di tornare dai fratelli».

Nella scena in cui sogna di schiodare Cristo crocifisso compie un atto di riparazione per conto del popolo ebraico?

«Gli dicono che il suo popolo è responsabile dell’uccisione di Dio, un’accusa che ora la Chiesa ha cancellato. E lui vedendo e rivedendo questo crocifisso immagina che, liberandolo dai chiodi, può aiutare una riconciliazione che gli permetta di non rinnegare la nuova religione e di riconciliarsi con la vecchia».

Nel dipingere un Pio IX mellifluo e geloso del proprio potere non si risparmia.

«Senz’altro. All’inizio era un papa liberale, poi diventa quasi reazionario. Tenersi il bambino è il simbolo di una battaglia disperata. Che invece perde e, con essa, perde anche il suo regno e ne mostra il dolore. È una figura più tragica che caricaturale».

Tiene fede al principio del battesimo cristiano e da una posizione di debolezza si scontra con i poteri forti dell’epoca.

«Gli rimane il potere spirituale, ma non vuole perdere quello temporale. In Francia i cattolici si dividono, alcuni suggeriscono la restituzione. Rischia di inimicarsi Napoleone III che lo difendeva in nome del principio del battesimo che fa di chi lo riceve un cristiano per sempre. E in nome del quale perde numerose alleanze. Wojtyla lo beatificò proprio in quanto simbolo della difesa della fede in un mondo che si laicizza».

Perché si è basato sulla ricostruzione di Daniele Scalise piuttosto che sull’autobiografia dello stesso Edgardo Mortara?

«Ho letto anche l’autobiografia, certo. Scalise è la fonte principale, ma ho attinto anche a un libriccino di Gemma Volli dove ho trovato la scena della madre disperata. Poi a quello di David Kertzer e ai documenti del processo all’inquisitore».

Che cos’è per lei l’ateismo?

«Ha in sé qualcosa di militante contro la religione che non è in me. Sono non credente, ma non ho bisogno di affermarlo. Anzi, in questi tempi più che complicati, laddove si trovassero momenti di dialogo senza pretendere che un credente rinunci alla fede o, al contrario, che voglia convertirmi, il mondo troverebbe nuove risorse. Nell’Ottocento esisteva il partito degli atei, io non sento questa forma di revanscismo. Certamente vengo da un’educazione cattolica da cui mi sono progressivamente separato».

È incuriosito dal cristianesimo, ma ostile alla Chiesa?

«Se vedo un credente non è che sia attratto, ma lo ascolto. Capita che mi chieda: lui crede e io no, com’è possibile? A volte, quando vedo rappresentata la fede nell’arte e nel grande cinema, come quello di Dreyer, succede che mi commuovo».

Cos’è l’anticlericalismo?

«Nel mio caso può derivare dall’educazione che ho ricevuto fatta di messaggi violenti: “Devi essere sempre in grazia di Dio, perché se muori vai all’inferno per sempre”. Sono stato educato con questi principi. Oggi un prete aperto non userebbe queste espressioni. Ma a me è andata così, infatti per molti anni ho avuto paura. Poi, con l’adolescenza, mi sono emancipato».

In Italia, nel cinema e nella letteratura, c’è l’egemonia della sinistra?

«Si diceva che così fosse. Però ormai le carte si sono mescolate. In un periodo in cui la sinistra era fortemente egemone, non sono mai stato iscritto al Pci. Anche il liberalismo progressista aveva il suo peso, poi c’erano distinzioni tra socialisti e comunisti. Comunque la sinistra era dominante».

Ha seguito le polemiche del Salone del libro per la presentazione di Una famiglia radicale di Eugenia Roccella?

«Penso che se si invita una persona a presentare il suo libro, ministro o non ministro, non si può impedirle di parlare. Poi, certo, c’è l’esuberanza dei giovani… Ma anche l’avversario ha diritto di parlare: impedirglielo è sbagliato».

Sta già pensando al nuovo film?

«L’idea è lavorare su Enzo Tortora. Non so se un film, una serie o altro. Mi prendo qualche settimana per decidere».

Rapito può voler dire anche rimanere affascinati da un fatto, un avvenimento. È quello che può essere accaduto a Mortara?

«Il significato primario è che è stato rapito, non volente. Un film può raccontare le estasi di Mortara come quelle di Santa Teresa. Ma penso che non lo farò io. Anche se non lo nego».

 

La Verità, 31 maggio 2023

«Il Papa è solo contro gli ultras della guerra»

Filosofo e docente di Filosofia morale all’università di Perugia, Massimo Borghesi è una delle voci più seguite dell’intellighenzia cattolica. L’ultimo suo libro s’intitola Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo» (Jaca Book).

Professore, come vive questa Pasqua di guerra?

«Siamo di fronte a un evento drammatico che, al pari dell’11 settembre 2001, cambia la scena del mondo».

Paragone forte.

«La storia è segnata dalla lunga durata, come dicono i francesi, e da avvenimenti spartiacque che hanno un prima e un dopo. Stiamo entrando in una fase nuova e inaspettata, nella quale affonda il mito della globalizzazione che aveva già subito grossi colpi con la caduta delle Torri gemelle».

Finisce il Nuovo ordine mondiale nato nel 1989?

«Dal mondo multipolare si torna a un mondo bipolare. Da un lato, gli Stati Uniti attraverso la Nato, stanno svuotando l’autonomia europea, dall’altro, la Russia, comunque finirà la guerra, si accoderà sempre più alla Cina. Nel nuovo mondo si fronteggeranno America e Cina. La povera Ucraina è il terreno di scontro di questi nuovi equilibri».

Il cardine teorico dell’Occidente è sempre la vecchia ambizione di esportare la democrazia?

«È chiaro che la responsabilità di aver scatenato una guerra ingiustificabile ricade tutta su Vladimir Putin che ha le mani insanguinate per le tante morti provocate. Questo va sottolineato con chiarezza. Detto ciò, ci troviamo di fronte al tipico schema manicheo che rende quasi irrisolvibile il conflitto. Da una parte Putin vuole restaurare la Grande Russia contro l’Occidente, terra della decadenza. Dall’altra si ripropone il modello teocon, aggiornato in chiave democratica, dell’Occidente paladino della libertà in contrasto con le autocrazie».

Abbiamo parlato di Pasqua di guerra, sarebbe più corretto dire in guerra?

«È una Pasqua di guerra, ma non certo “una Pasqua di giusta guerra” come ha affermato Giuliano Ferrara sul Foglio. L’Occidente ha fatto bene a sanzionare Putin e a sostenere sul piano militare la resistenza all’invasore. Non può, però, limitarsi a questo. Deve premere, al contempo, per trovare una possibile intesa che metta fine al conflitto».

Invece?

«Quando sentiamo dire che l’Ucraina potrebbe vincere o quando sentiamo parlare di assalti in territorio russo delle forze ucraine, significa che non siamo più di fronte a una mera guerra di resistenza, ma a un conflitto di lunga durata. Quando sentiamo il presidente americano Joe Biden, sostenuto da un esagitato Boris Johnson, parlare di sanzioni e armi senza accennare a soluzioni di pace non possiamo che preoccuparci. La domanda che dobbiamo porci è: l’Occidente ha una strategia di pace?».

Biden vuole destituire Putin.

«Credo che il suo obiettivo sia mettere all’angolo la Russia, non semplicemente di sostituire Putin».

Fosse semplice…

«Vuole arrivare allo scacco militare in modo che il problema russo venga per un certo tempo accantonato. Perciò mi chiedo: Biden ha intenzione di arrivare alla pace o no? L’Occidente ha una strategia di pace o ha delegato la mediazione alla Turchia e a Israele? Tra Russia e Ucraina medierà la Cina che non ne ha voglia, l’Onu che risulta impotente, l’Europa che balbetta? Se ci si limita a inviare armi e a inasprire le sanzioni la guerra finirà per desertificare l’Ucraina. Qualcuno si preoccupa degli ucraini oltre al Papa?».

La cui richiesta di una tregua durante la Settimana santa è stata ignorata.

«In questo contesto il Papa è il fattore di contraddizione. È l’inascoltato per eccellenza perché rappresenta un giudizio realistico, il pericolo della terza guerra mondiale, che nessuna delle parti vuole sentire. Non Putin che vuole tornare a casa con il suo bottino, non Zelensky che vorrebbe addirittura il coinvolgimento della Nato».

Francesco è solo?

«La solitudine del Papa risalta maggiormente davanti ai silenzi dei leader politici dopo l’invito alla tregua pasquale. Nessuna voce si è levata dall’Onu o dall’Europa o dal presidente cattolico Biden a sostenere quella proposta».

Per farsi ascoltare Francesco ha alzato i toni parlando di «sacrilegio», di «pazzia» del riarmo, di «oltraggio a Dio», di «tradimento blasfemo del Signore della Pasqua» e «idolatria del potere».

«Il Papa è angosciato da questa guerra perché la vede come la fine del progetto di pace per cui ha lavorato in questi anni. È la sconfessione della Fratelli tutti che presupponeva un mondo multipolare e la coesistenza tra le potenze. Il ritorno allo schema bipolare manicheo passa da una guerra senza prigionieri. Il timore di Bergoglio è che la “terza guerra mondiale a pezzetti” diventi reale a tutti gli effetti».

Diventi un pezzo unico?

«Una guerra globale. In questi giorni abbiamo sentito analisti e politici accennare alla possibilità di un conflitto nucleare. Questo dice la follia alla quale siamo arrivati. Sembra di essere tornati alla crisi di Cuba».

John Kennedy si comportò in modo diverso da Biden.

«Concesse la smobilitazione dei missili dislocati in Turchia. Un compromesso che convinse Nikita Krusciov a togliere i missili a Cuba. Oggi la parola compromesso è bandita dal vocabolario».

Come mai Francesco è inascoltato anche da quei media che solitamente lo elogiano?

«Questo non mi sorprende perché il Papa è apprezzato ora da destra ora da sinistra a seconda di come le sue parole possono essere utilizzate».

Ieri si è celebrata la Via crucis al Colosseo: come valuta il fatto che l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede e il vescovo di Kiev hanno deplorato la scelta di Francesco di affiancare una donna russa e una ucraina?

«La reazione ucraina a questa unione fraterna tra le due donne sotto la croce di Gesù, fa capire che non si vuole la pace, ma lo scontro fino all’ultimo sangue. La presa di posizione dell’ambasciatore rappresenta una grave ingerenza. Ancora più grave è l’intervento del vescovo perché animato da nazionalismo politico-religioso, vera piaga dell’Est cattolico e ortodosso».

In Ucraina e in Russia, come mostra la benedizione della guerra del primate ortodosso Kirill, il nazionalismo prevale sull’appartenenza alla Chiesa?

«Questo è ovviamente molto grave e rende ancora più coraggioso l’impegno ecumenico di papa Francesco. Il cesaropapismo rende la Chiesa di Kirill organica al progetto della Grande Russia perseguito da Putin. Usare il nome di Dio per legittimare le guerre sembra un’idea condivisa anche dal vescovo cattolico di Kiev».

Francesco è solo quanto lo fu Giovanni Paolo II ai tempi della guerra in Iraq?

«Forse anche di più. Osannato come il protagonista che aveva permesso la caduta del comunismo, quando nel 2003 prese posizione contro la guerra di George W. Bush, Giovanni Paolo II fu osteggiato dai media e criticato dai teocon cattolici che invitavano a schierarsi con l’America contro il Papa. Allora però la sinistra e il mondo cattolico seppero organizzare un movimento pacifista oggi latitante».

Qual è la causa di questa assenza?

«In Italia e in Germania oggi i partiti sono molto preoccupati di allinearsi alla politica americana. Il fatto che alla Casa Bianca sieda un democratico rende questo allineamento ancora più sensibile. Con Donald Trump la sinistra italiana si sarebbe sentita più libera di articolare una riflessione critica. Detto questo, non è vero che il Papa è completamente solo».

Cosa glielo fa dire?

«Se guardiamo i sondaggi ci accorgiamo che più di metà della popolazione, in Italia e in Europa, è favorevole a un processo di pace e non vuole il coinvolgimento della Nato. La maggior parte dell’opinione pubblica è con il Papa. Invece l’establishment non è con lui».

Il Pd è diventato improvvisamente il partito della guerra?

«Non sono stupito data la leggerezza dei partiti attuali che fiutano il vento proveniente da Washington. Vedo che la Lega è più dubbiosa. Ma mi chiedo se Salvini si sarebbe smarcato o allineato nel caso in cui Trump avesse attuato una politica bellica. Dobbiamo chiederci qual è la vera autonomia dell’Europa».

È significativo che i consensi al Papa arrivino da figure della sinistra-sinistra come Luciana Castellina o Michele Santoro?

«Certo. La sinistra nel 2003 appoggiò Woytjla che pure aveva favorito la fine del comunismo e questo perché aveva la pace nel suo Dna. Negli anni successivi si è compreso che aveva ragione perché la guerra in Iraq si è rivelata un disastro immane. La sinistra-sinistra conserva la memoria dell’Europa uscita da due guerre mondiali, conosce il valore dell’Onu e, dopo aver preso atto della caduta del comunismo, ha sperato nella distensione tra Russia, Europa e Stati Uniti».

Nei media d’ispirazione cattolica si è ritrovata una certa unità su questi temi.

«Avvenire di Marco Tarquinio, Civiltà cattolica con il direttore padre Antonio Spadaro e L’Osservatore romano di Andrea Monda stanno facendo un ottimo lavoro di documentazione e riflessione. Purtroppo in questi momenti emerge il fatto che il mondo cattolico non ha quella forza mediatica necessaria per far sentire una voce fuori dal coro. La voce dei cattolici non ha spazio nelle grandi testate nazionali».

Cosa pensa dei cattolici che militano nel Pd?

«Immagino che vivano qualche disagio. Come la sinistra-sinistra così anche i cattolici nel Pd non sono rappresentati, come voleva il progetto originario di Romano Prodi. Questo disagio, già visto sulla legge Zan, riemerge con l’allineamento eccessivo alle volontà americane».

Il responsabile della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi è uno dei garanti del Pd per le Agorà.

«In alcuni articoli sul Domani uno degli esponenti più significativi di Sant’Egidio, Mario Giro, ha espresso posizioni guidate da grande realismo, in profonda sintonia con il pensiero del Papa».

In conclusione, esiste una terza via sulla guerra in Ucraina?

«La terza via è quella che si muove tra il pacifismo integrale, che però non ha storia, e il bellicismo ad oltranza che non si cura della sorte del popolo e della nazione ucraina. Quest’ultima posizione è quella che oggi prevale, ad Est e ad Ovest. Il Papa è la voce della mediazione. Occorre una potenza della mediazione che lo sostenga. L’Onu e l’Europa devono ritrovare la voce, devono frenare Putin limitando il suo appetito, cinico e sanguinoso, e portare anche l’Ucraina al tavolo delle trattative. Al contrario assistiamo a una resa dei conti planetaria in cui la povera Ucraina è vittima sacrificale».

 

La Verità, 16 aprile 2022

I papà della pubblicità così materni e amorevoli

Come sono materni i nuovi papà della pubblicità. Amorevoli, moderni, inclusivi. Si tratti dello spot di un marchio assicurativo, di un altro della più gettonata azienda di acquisti online o di quello di una carta di credito risolvi problemi, a cullare i neonati insonni o a preparare i dolci da infornare ci sono sempre loro. Pazienti, affettuosi, mai stanchi. E le mamme? O non ci sono per niente perché magari separate, o spuntano solo a grana sbrogliata, o rientrano con impermeabile e valigetta executive, stanche dalla giornata di lavoro proprio mentre i biscotti stanno per andare in cottura.

È la tendenza dell’advertising nell’era del genitore 1 e genitore 2. Si sa, la pubblicità è sempre avanti e padre e madre sono schemi binari antiquati, prigionieri di una cultura sessista. Dopo lo sdoganamento dei baci saffici, ora è via libera all’interscambiabilità dei genitori. Così c’è il papà che, indossato il grembiule da cucina, è tuttavia incapace di preparare il tiramisù per il moccioso che lo osserva compassionevole. Oppure c’è quello che ricorre ad Alexa per trovare le risposte giuste dei compiti per casa. Infine ce n’è uno che, non sapendo a che santo votarsi per calmare il pargolo, diventa lui stesso il santo della situazione. Abbandonato il letto nel cuore della notte, s’infila in auto per scarrozzare l’irrequieto bebè e farlo assopire, riconsegnandolo quando albeggia alla madre sorridente. Chissà se ora il babbo è pronto per la giacca e cravatta da ufficio. Meglio non farsi domande, quello che conta sono i ruoli liquidi, fluidi, perfettamente sovrapponibili. Ben oltre la quotidiana solidarietà domestica, qui siamo al capovolgimento copernicano.

Da tempo, nella comunicazione pubblicitaria, lui è diventato così materno, tenero e rassicurante, non di rado timido e imbranato che, finita l’overdose di mammi da spot, verrebbe da coccolarli come tanti peluche. Al contrario, la figura intraprendente, trasgressiva e pronta a infrangere i limiti è lei, dinamica, in carriera e maliziosamente agressive. Nell’ultima campagna di un ambito Suv coupé si vede Nathalie Emmanuel (Il trono di spade) tuffarsi da qualche chilometro a testa in giù nel mare di Cap de Formentor, davanti a Barcellona, riemergere asciutta e mettersi al volante della sport car, mentre il rapper Loyle Carner recita: «Non abbiamo bisogno di molto per vivere…». Una situazione che, al confronto, il vecchio James Bond pare ’na criatura. Nel prossimo spot vedremo l’intrepida superwoman rincasare mentre il marito le prepara il tè caldo?

 

La Verità, 13 maggio 2021

«Lo dice la storia, dopo le pandemie c’è la rinascita»

Professore, da grande viaggiatore quanto soffre il lockdown?

«Non molto. Quando c’è vento fatti canna, recita un detto siciliano. Finita la bufera torni dritto…».

Franco Cardini ha la saggezza degli antichi e dei filosofi. Di suo, è storico, insigne medievista, fondatore e direttore di riviste, consulente di case editrici, polemista. «Impenitente reazionario», sottolinea. Cattolico, antimilitarista, tutt’altro che innamorato della democrazia, riluttante alle regole della tecnologia e del giornalismo: «Il mio sito lo gestiscono alcuni collaboratori, ci scrivono anche altri, io ogni tanto mando le mie pensate. Quando scrivevo per il Giornale e Indro Montanelli mi chiedeva 4.000 battute me ne venivano il doppio. “Io non taglio nulla, taglia tu”, mi ribatteva. “Ma sono le due di notte”. E lui: “Veglia”».

Con quale immagine descriverebbe la situazione in cui siamo?

«È l’esito finale del capovolgimento del rapporto tra domanda e offerta attuato dall’Occidente. Un tempo era il cliente a stabilire cosa far produrre. Da due millenni la prospettiva è rovesciata: i produttori inducono i consumi per arricchirsi. Le conseguenze le vediamo».

La pandemia ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali?

«Ci dividiamo in tre famiglie. Quelli che non hanno scoperto un accidente e restano nel disagio o nell’ottusità. La maggioranza che ha riscoperto questa dimensione dimenticata. E una minoranza che non ha mai abbandonato, almeno in linea concettuale, il silenzio e il rapporto con sé stessi. Qualcosa che i credenti chiamano Dio».

Finiti gli esercizi spirituali ci sarà la trasformazione del capitalismo?

«Non credo. Il capitalismo può cambiare i suoi pesi e contrappesi interni. Più produzione e meno finanza, più tecnologia e meno manifattura, forse. Ma senza ciò che i greci chiamavano metanoia, cioè conversione a qualcosa di diverso, il capitalismo non muterà la sua natura determinata dalla fame dell’oro».

Vede il pericolo di svolte autoritarie?

«Quello c’è sempre. Ma che sia in sé un pericolo è da dimostrare. Io sono un impenitente reazionario e segnalo che prima della svolta autoritaria c’è il disordine. Platone osservava che quando c’è troppa licenza, un eccesso di forza bruta a tutti i livelli, questo genera un violento e arbitrario ritorno all’ordine. Aveva ragione e viveva ad Atene».

Si parla di primato della scienza, ma i virologi litigano.

«Da una parte riconosciamo il primato della competenza e la necessità che certi argomenti vengano discussi tra addetti ai lavori, dall’altra, vittime della mitologia democratica, pretendiamo di sapere e dire la nostra su tutto, anche quando dovremmo ascoltare. I talk show sono l’emblema di questa contraddizione. Aveva ragione Umberto Eco: c’è una massa di imbecilli che vuole pontificare senza studiare».

La pandemia è una lezione di umiltà per la scienza che rincorre il virus?

«Qualunque scienziato serio sa di essere una formica. Il problema è che la scienza non va avanti sulle proprie gambe, ma su quelle del potere. I mezzi per farla avanzare sono in mano a chi dovrebbe decidere per il bene comune, ma in realtà decide per mantenere la propria supremazia».

Ai tempi della spagnola la scienza era messa peggio, ma si faceva leva su altre risorse?

«C’erano maggiore coesione sociale e maggiore capacità di reagire intimamente. Più fede religiosa e più capacità di relativizzare la vita umana. In Italia abbiamo adottato misure così drastiche perché abbiamo proiettato a livello sociale le nostre paure individuali. Se la vita è un valore assoluto perché siamo convinti che dopo non ci sia nulla, la morte è irrimediabile».

La politica che figura ci sta facendo?

«Nel Medioevo l’egoismo dei politici era temperato dalla filosofia del buongoverno. Carlo Marx prevedeva che i governanti si sarebbero trasformati in comitati d’affari. L’economia e la finanza – le menti – e la tecnologia – il braccio armato – comandano sulla politica che balla su uno spartito scritto da altri. Se Machiavelli scrivesse oggi Il Principe non lo spedirebbe ai capi di Stato, ma a Wall Street o a Davos».

E i nostri governanti come si stanno comportando?

«Si potrebbe far di meglio, ma non so quanto. L’Italia è una delle maggiori potenze europee, ma avendo perso l’ultima guerra ha ceduto sovranità. Non abbiamo autonomia nel decidere se fare la guerra o mantenere la pace. Non abbiamo sovranità diplomatica, monetaria e territoriale. Siamo un Paese militarmente occupato da circa 130 basi di uno Stato extraeuropeo e di un’alleanza egemonizzata dalla Nato».

Che nesso c’è con la gestione dell’epidemia del coronavirus?

«Il nesso è nei fondi che si usano per fabbricare gli F35 anziché per il sistema sanitario. Sono antisovranista perché i sovranisti non lo sono abbastanza. Il cane bastonato morde il bastone e lecca la mano del padrone, ma se capisse da dove viene la bastonata morderebbe la mano. Questo Giorgia Meloni lo sa bene».

Il premier Conte è troppo paternalista quando assicura che non si potrà tornare alla situazione di prima?

«Un governante ha una capacità di comprensione del mondo superiore a quella dei cittadini comuni. Il pater familias è per natura paternalista».

Il paternalismo può servire a indorare il lockdown e prolungare il mandato?

«Uno statista adegua le scelte alle esigenze del momento. C’è un’emergenza senza precedenti. Poi può anche sbagliare. Il governante dice: so più cose, ho più responsabilità e più mezzi di voi. Quando vi dico una cosa, fatela».

La tendenza ad applicare uno schema identico a situazioni diverse è eccesso di ideologia?

«Credo che se il governatore di una regione decide una linea più permissiva debba anche assumersi la responsabilità di affrontare l’eventuale ripresa del contagio».

Molise e Umbria devono sottostare alle stesse normative decise per Lombardia e Piemonte?

«Bisogna pensare alle possibili ricadute del contagio. L’obiettivo di un governo dev’essere arrivare al debellamento del virus su tutto il territorio nel minor tempo possibile. Il virus si è diffuso con tempi e modalità diverse, sparirà con tempi e modalità diverse. In alcune regioni servirà qualche settimana, in altre qualche mese. Perciò, certe cose si possono fare e altre no».

Lo stesso eccesso ideologico si è visto nella sospensione delle funzioni religiose feriali? In certi paesi di campagna l’unica novità è il divieto di assistere alle messe.

«Il divieto di partecipazione alle messe è una misura estrema, bastava chiedere il rispetto della distanza di un metro. I valori di carattere spirituale che riguardano i diritti di Dio sono superiori ai valori materiali».

Le gerarchie ecclesiastiche dovevano fare di più perché venissero rispettati?

«Le gerarchie sanno che gran parte dei fedeli sono tiepidi. Perciò, non hanno avuto una reazione più robusta di fronte a questi provvedimenti. Dei credenti autentici sarebbero insorti. Pur di non rinunciare all’alimento spirituale avrebbero corso il rischio dell’infezione».

Che sentimento le ha provocato la Preghiera del Papa in piazza san Pietro?

«È stato il gesto della solitudine della Chiesa e di un Papa che ribadisce il suo ruolo nel mondo. Ma che, allo stesso tempo, non può chiedere ai fedeli di venire in piazza. Lo fece nel 1630 il cardinal Federigo Borromeo con un’altra cristianità, indicendo la processione per scongiurare la peste. Il giorno dopo erano tutti infettati, ma credevano fosse per volontà di Dio».

Le sono piaciuti i balconi del 25 aprile?

«Non capisco come mai devo adattarmi alla messa televisiva e si è permesso a tante persone di celebrare insieme il 25 aprile. I balconi mi sono sembrati la dimostrazione che abbiamo bisogno di liturgie consolatorie, cantando Bella ciao o Fratelli d’Italia».

Fratelli d’Italia più di Bella ciao, o no?

«Come cittadino sì, ma come uomo l’unità d’Italia è stata una sciagura. Ero per il mantenimento del Granducato di Toscana, cioè per un’unità non lesiva delle differenze regionali, su modello dei länder tedeschi. Invece abbiamo scelto qualcosa di contrario alla nostra storia, simile allo Stato nazionale francese».

Come si sta comportando l’Europa?

«Come un’entità inesistente. Quando si è formata, pareva un passo verso un assetto federale o confederale. Invece l’Unione europea è solo doganale e finanziaria, al massimo socioeconomica. Non certo sociopolitica. È il regno dei Chief executive officiers, funzionari che badano agli interessi delle lobby e delle multinazionali. L’Europa non dispone di strumenti legislativi per arginare le crisi. Dipendiamo dai banchieri tedeschi e dagli imprenditori francesi».

In questa emergenza si sono realizzate le idee di Beppe Grillo: riduzione dei consumi non essenziali, stop alle grandi opere, tutti a casa con i sussidi statali: è la decrescita felice?

«Non tanto. Quella di Grillo è una visione statica. Gli storici sanno che durante le pandemie succede questo. Dobbiamo recuperare la capacità di guardare oltre. Per fortuna, dopo le epidemie e le guerre c’è un rifiorire, si aprono nuove strade…».

Anche quella di una vita controllata dalla tecnica: droni, piattaforme, app. Scaricherà l’applicazione «Immuni»?

«Io no, i miei familiari e collaboratori sì. È la contraddizione dei sistemi democratici: difesa della privacy o sicurezza, libertà o salute. Nasce dalla Rivoluzione francese: la fraternità è la componente più trascurata, libertà e uguaglianza sono difficilmente compatibili. Il vaccino garantisce salute, ma impone controllo sociale. Il drone salva dal malvivente, ma sorveglia il privato. Trovare il giusto equilibrio spetta alla politica».

È ottimista sul futuro?

«Sì, grazie ai miei studi. Dopo un trauma c’è sempre una ripresa. Dopo la crisi del Basso Medioevo, dopo la Seconda guerra mondiale… Si torna a riempire i vuoti. Lo dico a scapito di me stesso: la pandemia si comporta da predatrice e colpisce i più deboli della specie, indirettamente rafforzandola. Dopo aver perso potere demografico ci sarà una nuova natalità. Dopo aver perso ricchezza torneremo a produrre…».

 

La Verità, 3 maggio 2020

«Hanno riaperto prima le librerie delle chiese»

Fuma ancora?
Certo. La mia mascherina è la coltre di fumo che c’è tra me e il mondo.
Quando, una ventina d’anni fa, il tabagista Giovanni Lindo Ferretti fu operato di tumore alla pleura i polmoni erano sani come quelli di un bambino. «Adesso come allora il mio problema è la mia salvezza». Parole da perfetto reazionario. «Non può farmi complimento migliore». Ecco Ferretti: pronto ai paradossi e a capovolgere problemi e soluzioni. Sessantasette anni, fondatore dei Cccp – Fedeli alla linea, primo gruppo punk italiano poi evoluto nei Csi (Consorzio suonatori indipendenti) e nei Pgr (Per grazia ricevuta). Uno che aveva la cresta rossa e girava in minigonna e stivali militari. Che è tornato a casa, al cristianesimo, vive a Cerreto Alpi, un borgo incastonato nell’Appennino emiliano che declina verso la Toscana. Settanta anime, bar alimentari circolo ricreativo, chiesa, cimitero, stalle. Un posto dove il tempo si è fermato. Come si vede in Ora, il video da poco pubblicato su YouTube.
La sua vita è cambiata da quando si è diffuso il morbo?
Non granché. Anzi, nella quotidianità non è successo proprio nulla. Sono cambiati i pensieri. Quando si arriva qui, di solito, si resta colpiti dal silenzio ma ora il silenzio si è fatto così acuto che ci ha rintronati.
Racconti.
Pensavamo anche noi che quello di prima fosse silenzio ma nella valle c’è una strada statale, il cielo era attraversato dagli aerei e ci spostavamo in macchina. Adesso siamo tutti fermi, camminiamo lenti e i pensieri rimbombano.
Il primo qual è?
Negli ultimi anni, per liberarmi da un eccesso di inviti, proposte, aspiravo agli arresti domiciliari. Troppa grazia: ci siamo finiti tutti, abbiamo consegnato la nostra libertà in cambio di una promessa medico scientifica di sicurezza. È il segno che abbiamo valutato male molte cose.
Tipo?
La libertà di spostamento. La riavremo in cambio della tracciabilità? Sarà un potere tecnico-scientifico con finalità etico-morali la soluzione dei nostri problemi?
È uno stato di emergenza.
Niente come l’emergenziale apre al possibile, al consuetudinario. Non ho soluzioni, pongo domande.
Non crede che ciò che sta succedendo possa portare svolte positive?
Non vedo come, mobilità e socialità sono comportamenti improvvisamente divenuti pericolosi. Parlando da qui: i borghi di montagna e le terre alte hanno un’economia ridotta a turismo. Mi permetto di ricordare che quassù non ci sono molte casse integrazioni.
Come tanti paesi, Cerreto Alpi è rimasto in un’altra epoca?
Non c’è dubbio. Però se continui a portare sempre i soliti pantaloni a campana, quando tornano di moda sei all’avanguardia.
Siete da sempre in lockdown. Tempo lento, pochi assembramenti…
Di fronte a tanto dolore è vergognoso dire che qui è una specie di paradiso terrestre. È che si intravede l’angelo che si sta posizionando sulla porta….
Vive con uno zio di 94 anni e ha un cugino di 86 in casa di riposo. Ha paura?
Sono il loro parente più prossimo. Per mio cugino lo ero perché è morto qualche giorno fa.

Mi dispiace…

Quanto a me, non ho paura di ammalarmi o morire. La vita è così: dentro la disgrazia c’è la grazia e la grazia contiene la disgrazia. Mi sono già trovato, in ospedale, insicuro del risveglio. Con la paura della morte è meglio cominciare a fare i conti da adolescenti. Certo, per far tesoro della disgrazia bisogna che da qualche parte ci sia la grazia.
Dopo saremo migliori?
Non vedo in forza di cosa. Ci sono buone possibilità del contrario.
Qualcuno ha fatto il confronto con l’11 settembre.
Il terrorismo internazionale ha prodotto una crisi estrema, ma lo conoscevamo. La storia dell’umanità è costellata da violenza e guerre. Il virus mina l’economia, la politica, la religiosità, il costume. L’immaginario. Credevamo di aver debellato il male ma risultiamo vulnerabili.
Lo spot di una casa automobilistica tedesca dice: «Il momento giusto per ogni cosa? È quando decidi di viverlo».
È proprio questo «deciderlo tu» che è crollato.
Lo sconcerto è che non ci sia il vaccino.
Possiamo credere che ci sarà, non che sconfitto un virus non ne arrivi un altro.
Il video intitolato Ora si pronuncia con la «o» stretta o larga?
Avverbio di tempo o voce del verbo orare? Decida lei.
Dice che siamo «connessi, tracciabili, asettici»: che cosa la inquieta?
Questa forma di tecnodipendenza. Per richiedere il sussidio di 600 euro bisogna connettersi. Per mandare i figli a scuola serve un computer, un allacciamento e una buona connessione. Persino per la messa serve un pc o uno schermo… rito o spettacolo?
La tecnologia non fornisce soluzioni?
È la soluzione il nostro problema.
La tecnologia è il problema?
Ne abbiamo una visione teologica. È il nuovo idolo. Ci affidiamo a lei come ci si affidava ai miracoli. Mi auguro funzioni come a volte funzionavano i miracoli. Però ammettiamo di essere nel campo della teologia.
Nel video dice «comunichiamo solitudini moleste e sovraesposte». Siamo soli davanti a uno schermo?
Lo inseguivamo da molto e finalmente il regno delle solitudini si è materializzato. Connessi, nelle proprie case, cittadini singoli, liberi in libero Stato nel libero mondo. Dovremmo essere contenti, no? Nell’ultimo secolo abbiamo cancellato famiglie, comunità, piccole patrie, corpi intermedi e i doveri che derivano dalla vita comune e reale, non virtuale. Ho ben presenti difetti e orrori della famiglia e della società tradizionale. Ma conosco altrettanto bene l’orrore e la solitudine esistenziale nella quale ci siamo infilati.
Nelle prime c’era una legge morale da seguire, nella seconda c’è il nichilismo?
È stata cancellata la dimensione naturale e cosmica dell’uomo. Il quale s’illude di essere ciò che decide, come diceva quello spot. Uno che non decide nemmeno di venire al mondo, di esserci.
Questa pandemia porterà un po’ di umiltà?
Non vedo perché questo morbo debba essere così benefico. Non c’era bisogno del virus, abbiamo appena avuto terremoti distruttivi, muoiono comunque persone care, la malattia e il dolore c’erano anche prima del coronavirus.
Tornando al video la si sente dire: «Tutti da Fabio Fazio la domenica sera». Che cosa non le piace?
Il Papa che cita Fazio l’ho trovato imbarazzante. Si reggono cose tremende poi un’inezia ti distrugge.
Le chiese chiuse le sopporta?
Si riaprono le librerie perché allietano l’anima, ma le chiese ben chiuse che l’inquietano.
A Cerreto Alpi c’era pericolo di assembramenti?
Si agisce per ideologia, senza una visione materiale della quotidianità. Qui non è cambiato nulla col virus. Le novità sono la chiesa e il cimitero chiusi. Il problema non doveva nemmeno porsi. A messa la domenica siamo una decina. Nel cimitero, all’aperto, due o tre volte l’anno vedo un’altra persona a 50 metri.
Contesta l’acquiescenza delle gerarchie ecclesiastiche?
L’acquiescenza preventiva, chiusa prima la chiesa del bar.
L’acquiescenza delle gerarchie e l’invadenza dello Stato?
Lo Stato contro il diritto naturale. In Veneto hanno dato il permesso di mangiare in giardino, capisce? Si possono portare fuori i cani, ma non con tutte le precauzioni i bambini?
La sua conclusione è il benedettino ora et labora?
Senza orare né laborare? Non mi si dica che la preghiera è libera nell’anima, quello è nell’ordine dei sentimenti e nessuno può impedirlo. La preghiera è soprattutto liturgia e se impedisci di lavorare impedisci il pane quotidiano. La metà del genere umano si guadagna il pane in modi non sindacalizzabili e gestibili dall’alto. Illegale? In queste montagne non ci sono cassa integrazione e sussidi statali.
Si sente fuori dal mondo?
Al contrario, sono al centro del mondo. Nel posto in cui sono stato desiderato e amato, nella casa della mia famiglia, tra la mia chiesa e il mio cimitero, al cospetto della creazione.
C’è un gesto o un’immagine che le è rimasto in mente di questo periodo?
Due immagini. La prima me l’ha mostrata la filmaker che lavora con me. È una foto dalla Mongolia: un drappello medico militare dell’esercito cinese a cavallo, tanto utile a contenere che ad allargare il contagio. La Cina è l’impero di mezzo, e muove. L’altra immagine è la prima liturgia in piazza San Pietro deserta, il Papa senza curia, Urbi et orbi. Bellezza e timore. Prescindo da valutazioni positive o negative, la Cina e la Santa sede sono i soli due soggetti politico sociali presenti in questa situazione. Tutto il resto è silente, litigioso e insignificante, o non pervenuto.
A cosa sta lavorando?
Il 29 febbraio ho consegnato a Mondadori un nuovo libro, dieci anni di riflessioni, chiuso il conto con il tempo di prima. Sto lavorando ad un nuovo video canzone: Ora II.
Come sarà la nuova normalità?
Quando finirà questa sospensione non sarà possibile tornare a prima, è un tempo sconosciuto.

 

Panorama, 22 aprile 2020 

Il virus e il «suggeritore» della Preghiera del Papa

Quell’immagine resterà a lungo nella mente dei fedeli e degli uomini di tutto il mondo. Come un frame, un fotogramma del grido dell’umanità, a testimonianza di quest’epoca di tragedia. Per quanto contano, lo confermano anche i dati di ascolto da record di Rai 1, in proporzione un’antenna locale: 8,6 milioni di telespettatori e il 32,7% di share, (ai quali vanno aggiunti i 2,8 milioni con il 10,6% di Tv2000, e le platee minori di RaiNews24 e SkyTg24). C’era idealmente tutto il mondo nella piazza san Pietro deserta. Tutto il mondo «flagellato dalla tempesta». La piazza solitamente affollata, gremita. Meta abituale dell’assembramento devoto. Pioveva al tramonto, a Roma. E, nella luce bluastra, si è udito il silenzio. Si è udita la voce flebile di papa Francesco. Si è udito il suono delle campane. Si è udito l’urlo delle ambulanze. Tutto si è fuso nella preghiera elevata da Bergoglio, protetto da una tettoia approntata sul sagrato della basilica. «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città, si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti», ha detto Francesco. E poi ancora. «Con la tempesta è caduto il trucco degli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ego». Dallo studio di Rai 1, commentavano il vaticanista Ignazio Ingrao e monsignor Filippo Di Giacomo.

Mentre si ascoltava colpiva l’immagine dell’uomo vestito di bianco, sotto una tettoia anch’essa bianca, solo in mezzo al colonnato del Bernini. Francesco ha riproposto il vangelo della barca nel mare in tempesta, con gli apostoli spaventati mentre Gesù dorme, in apparenza indifferente. Fino a quando lo svegliano perché si vedono in pericolo. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?», si sentono rispondere. «La fede non è tanto credere che Tu esista», ha chiosato Francesco, «ma venire a Te, fidarsi di Te… Con Dio a bordo non naufragheremo». L’immagine della barca è servita a Bergoglio per sollecitare tutti alla solidarietà, «fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme». È giusto, tutti insieme. Ma il Papa ha fatto il Papa. E davanti alla pandemia sembra che la voce della massima autorità religiosa mondiale sia la più dotata di credibilità.

Era stato don Marco Pozza, durante una puntata domenicale di A sua immagine, collegato dal carcere di Padova di cui è cappellano, a invitare il Pontefice a un gesto di preghiera da piazza san Pietro. Un gesto con tutte le televisioni collegate, che avesse il sapore dell’evento. Bergoglio gli ha dato ascolto, come sta facendo da qualche tempo. Don Marco lo intervista da tre anni nei cicli sulla preghiera trasmessi da Tv2000. Insieme con alcuni detenuti del carcere padovano, ha partecipato alla stesura delle riflessioni della prossima Via crucis. Ha collaborato anche al testo della preghiera di venerdì sera. Al termine della quale, dopo l’adorazione al Santissimo in una ritualità che ha mostrato tutto il peso di duemila anni di storia, Francesco ha impartito la benedizione Urbi et Orbi con la concessione dell’indulgenza plenaria. Che, nell’impossibilità di accedere ai sacramenti in tempo di quaresima, accorda il perdono a tutti coloro che lo chiedono. Mentre la impartiva dall’ingresso della basilica, le sirene delle ambulanze si confondevano con il suono delle campane.

 

La Verità, 29 marzo 2020

Socci: «Ecco dove sbaglia papa Francesco»

Al Papa non ne perdona una. Antonio Socci è il più autorevole e documentato tra i critici di Francesco. Ce ne sono altri, più viscerali e politicizzati. Non passa settimana che Socci non faccia le pulci al Pontefice: sulla predicazione riguardante gli immigrati, sul rapporto con l’islam, su questioni dottrinali. Ci ha scritto due libri molto controversi. Il penultimo, intitolato Non è Francesco (Mondadori), è stato censurato dalle librerie Paoline che, pure, mettono in vetrina le pensate teologiche di Corrado Augias e Vito Mancuso. Un atteggiamento sideralmente lontano da quello di Bergoglio che, qualche mese fa, ha scritto una lettera autografa al giornalista e saggista toscano, dando sèguito all’invio dell’ultimo libro intitolato La profezia finale – Lettera a papa Francesco sulla Chiesa in tempo di guerra. «Ho cominciato a leggerlo», ha scritto Bergoglio, «e sono sicuro che tante delle cose riportate mi faranno molto bene. In realtà, anche le critiche ci aiutano a camminare sulla retta via del Signore…». Forte di questa risposta, Socci non si è fermato e ora è bersaglio dei bergogliani doc.

La lettera che papa Francesco ha scritto a Socci, rispondendo all'invio del suo libro

La lettera che papa Francesco ha scritto a Socci, rispondendo all’invio del suo libro

È un dibattito stucchevole: sembra che noi giornalisti vogliamo insegnare il catechismo al Papa, non crede?

«Il problema è se un Papa è fedele alla sua missione o no. Santa Caterina insegnava eccome ai papi del suo tempo. E in quegli anni non era ancora una santa e una mistica riconosciuta, ma una ragazza analfabeta, una popolana. Ogni battezzato ha il diritto/dovere di ricordare ai pastori l’insegnamento di sempre della Chiesa. La storia cristiana ha molti esempi di papi che hanno imparato dal loro gregge. A cominciare da Pietro che fu corretto pubblicamente da san Paolo. Tommaso d’Aquino scrisse che l’umiltà di san Pietro deve essere di esempio per tutti i suoi successori. Ratzinger, a proposito delle eresie del IV secolo, ha scritto: “Nella crisi ariana, in cui sembrò in certi momenti che l’intera gerarchia fosse caduta preda delle tendenze di mediazione arianizzanti, solo l’atteggiamento sicuro dei fedeli assicurò la vittoria della fede nicena”. Capisce?».

Capisco meno il suo continuare a criticare animosamente Bergoglio dopo che le ha scritto di suo pugno.

«Prima di tutto non ho nulla di personale contro il Papa. E nessuna animosità. Anzi, prego per lui ogni giorno con tutto il cuore, come ci ha chiesto fin dalla prima sera in cui si affacciò in piazza San Pietro e come mi ha chiesto personalmente nella lettera. Mentre ho l’impressione che non lo facciano coloro che ne fanno oggetto di culto. Per quanto posso, siccome mi ha scritto che le critiche gli servono, spero di rendermi utile così oltre che con le preghiere. Gli voglio bene e soffro per lui».

È ancora convinto che Francesco non sia il vero Papa perché la sua elezione è inficiata da un vizio procedurale?

«È una sciocchezza, non sono io a decidere chi è il Papa».

Lei ha scritto Non è Francesco.

«Il titolo si riferisce al parallelo tra lui e Francesco d’Assisi. In quel libro di oltre 300 pagine solo un capitolo di 15 pagine è dedicato alla questione del Conclave. Lì, da giornalista e in base alle notizie di Elisabetta Piqué, una collega argentina, biografa del Papa, ho evidenziato errori procedurali del Conclave su cui, peraltro, non ho ricevuto risposte esaurienti. Per mestiere un giornalista pone domande. Ad altri spettano le risposte. Detto questo, il Papa è colui che la Chiesa indica. Punto».

Il vizio procedurale è una scheda in più caduta per errore nell’urna durante una votazione subito ripetuta, senza obiezioni di nessuno dei cardinali presenti.

«Il Conclave ha una procedura ultra regolamentata e non è stata rispettata. Su questa faccenda, peraltro, Bergoglio non c’entra nulla, non è lui che ha gestito le operazioni di voto».

Papa Francesco e Ratzinger in uno dei tanti momenti di incontro in Vaticano

Papa Francesco e Ratzinger in uno dei tanti momenti di incontro in Vaticano

Perché sostiene che le dimissioni di Benedetto XVI non siano state spontanee?

«Ripeto: da giornalista riferisco i fatti e pongo domande. Benedetto iniziò il suo pontificato dicendo di pregare per lui perché non fuggisse “davanti ai lupi”. Poi ha avuto otto anni di pontificato in cui è stato sottoposto ad attacchi pesantissimi e alla fine ha rinunciato. Senza che fossero dichiarati i “gravi motivi” che sono previsti per tale decisione. E con una strana precipitazione per cui ha addirittura lasciato a metà, l’enciclica sulla fede, la più importante del suo pontificato, e anche l’Anno della fede. Perché? E perché ha scelto – unico nella storia – di restare Papa emerito, continuando a vestirsi da Papa, conservando il titolo e rimanendo dentro le mura di San Pietro? Possibile che si trovi normale che – per la prima volta in duemila anni – ci siano due papi?».

A me pare che Benedetto XVI conduca vita appartatissima.

«Infatti ha appena pubblicato un best-seller. Il fatto è che non sono mai stati chiariti i motivi della rinuncia. Per esempio, a proposito dell’essere rimasto papa emerito con l’abito papale ha risposto che, in quel momento, non erano disponibili altre vesti in Vaticano. Una risposta assurda da cui si capisce solo che non può parlare. Oppure, in Ultime conversazioni (Garzanti), l’ultimo libro, dice che si è dimesso a febbraio perché non si sentiva di affrontare il viaggio fino a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù del luglio 2013. La Chiesa ammette che ci si possa dimettere da Pontefice, ma per motivi gravissimi e la partecipazione alla Gmg non mi pare lo sia. Tra la Gmg e il papato mi pare ovvio che si rinunci alla prima, non al secondo. Insomma è tutto strano e misterioso. Il 21 maggio, in una conferenza, monsignor Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, ha parlato di uno “stato d’eccezione” e ha detto che ora Benedetto svolge un “pontificato d’eccezione”. Lo stesso Benedetto, nel suo ultimo discorso, spiegando la sua scelta, disse che il munus petrinum è per sempre e che la sua decisione riguarda solo “l’esercizio attivo” del ministero. Francesco stesso si rivolge a Benedetto chiamandolo Santo Padre e ha parlato di rinuncia al ministero attivo».

Ratzinger ha sempre pubblicamente sottolineato la sua adesione al magistero di Bergoglio.

«Ci sono espressioni di affetto personale, ma sull’adesione ai contenuti non mi pare sia così. Ci sono diversità importanti».

Per esempio?

«Per esempio sul tema della misericordia ha suggerito a Bergoglio di tornare all’impostazione teologica di Giovanni Paolo II. È un invito implicito a restare nell’alveo del magistero della Chiesa».

Ha altre obiezioni?

«Uno dei principali problemi dottrinali riguarda i sacramenti: il matrimonio, la confessione e soprattutto l’Eucarestia che è il pilastro della vita cristiana. L’Amoris laetitia è una bomba tirata nella cattedrale della dottrina cattolica. Si leggano le critiche di tre grandi intellettuali cattolici: Stanislaw Grygiel, amico di Giovanni Paolo II, Josef Seifert e Robert Spaeman, entrambi amici di Ratzinger».

Forse Bergoglio ha in mente un annuncio capace di fare i conti con l’uomo contemporaneo. Sua intenzione potrebbe essere sottolineare la centralità di Cristo più che l’ortodossia etica con la quale spesso s’identifica il cristianesimo?

«L’annuncio cristiano è uno. Gesù è al tempo stesso la Verità fatta carne e il Buon Pastore. E la Chiesa in duemila anni ha battezzato il mondo intero così. Non può esserci un altro Cristo che viene scoperto oggi, diverso da quello vero, quello di sempre».

Altre parti della predicazione di Bergoglio che non la convincono?

«Le sue dichiarazioni sull’immigrazione e sull’islam. Un conto è predicare la carità, un altro teorizzare l’abbattimento delle frontiere e un’immigrazione di massa indiscrimanta. Sia perché danneggerebbe i paesi di provenienza – come ripetono i vescovi africani – sia perché si rivelerebbe devastante per le società di destinazione. Quanto all’islam mi sconcerta un Papa che attacca continuamente la Chiesa cattolica e difende l’islam in tutte le sue espressioni».

Il suo disappunto verso Francesco è nato dopo l’intervista a Scalfari?

«Quella forse è stata la prima volta in cui ha esposto le sue bizzarre teorie. In precedenza l’avevo sostenuto in modo convinto. Mi piaceva la volontà di uscire dal paludamento di certi ambienti vaticani. Francesco aveva anche firmato l’enciclica di Benedetto XVI sulla fede (che poi non ha mai citato). Nell’estate 2013 c’era stata l’iniziativa diplomatica e pastorale che fermò la guerra americana in Siria. A me non fa problema nemmeno l’accento sui poveri. Ma bisogna parlarne come Madre Teresa di Calcutta e non come la Teologia della liberazione. Oltretutto papa Bergoglio non ha mai detto nulla contro la grande finanza che si mangia l’economia reale e condiziona gli stati. La Rerum novarum di Leone XIII e la dottrina sociale della Chiesa erano molto più coraggiosi».

La copia di «Repubblica» con l'intervista di Bergoglio a Scalfari, motivo di scandalo

La copia di «Repubblica» con l’intervista di Bergoglio a Scalfari, motivo di scandalo

Perché la svolta è stata l’intervista a Scalfari?

«Prima c’è stato il commissariamento dei Frati francescani dell’Immacolata: una decisione assurda. Era un ordine che viveva davvero la povertà evangelica e la preghiera, con tante vocazioni. Solo che non era cattoprogressista… L’intervista a Scalfari conteneva espressioni inaccettabili. Per esempio, dove il Papa sosteneva che ognuno deve perseguire la propria idea di Bene e di Male».

Scalfari trasformò in intervista un colloquio avvenuto senza registrazioni e senza prendere appunti.

«Il Vaticano non ha mai smentito quelle parole e anzi Bergoglio le ha ripubblicate in un libro a sua firma. Dire che ognuno deve perseguire la propria idea di Bene è relativismo. Anche gli estremisti musulmani perseguono la loro idea di Bene. Il Bene e il Male sono oggettivi. Pure l’espressione “non esiste un Dio cattolico” fu molto infelice. Anch’essa porta in pieno relativismo. E poi se non esiste un Dio cattolico mi chiedo se il Papa lo sia».

Le obiezioni a Bergoglio derivano dal fatto che dialoga con presunti nemici?

«Il problema non è dialogare. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II dialogavano con persone culturalmente molto lontane, ma restavano cattolici e annunciavano la verità».

Non è quello che Bergoglio fa con Scalfari?

«Proprio no. Ha pure sottolineato che lui non vuole convertire nessuno ed è contrario al proselitismo. Infatti, lì è il Papa che è apparso scalfariano».

Addirittura. Ma la fede non si trasmette attraverso la testimonianza?

«Appunto. La testimonianza significa testimoniare la verità, non fare nostra la menzogna della mentalità dominante. Nel vangelo Gesù invia i suoi a insegnare e a battezzare tutte le genti. Con la forza inerme della verità che è scomoda per il potere e può portare al martirio. Gesù è stato crocifisso, non si è limitato a essere buono. Per questo la storia cristiana è una storia di martiri».

Bergoglio è soprattutto un pastore: con l’Anno della misericordia ha voluto aprire agli immigrati, ai divorziati risposati, agli omosessuali.

«Lei mi ripropone quello che si sente ovunque: un fritto misto di banalità che non significano nulla. Che vuol dire “aprire a immigrati, divorziati e omosessuali”. Aprire cosa? La Chiesa da duemila anni è aperta a tutti gli uomini. Le critiche a Bergoglio sono anzitutto sulla fede, sulla dottrina cattolica. Ha gettato la Chiesa in una confusione immensa e l’ha umiliata davanti al mondo. Migliaia di missionari come Madre Teresa hanno portato la luce di Cristo fra i più diseredati ben prima che arrivasse Bergoglio e senza smarrire la fede cattolica».

Non crede ci sia un modo islamico d’intendere il cristianesimo? Come strumento per battaglie civili, come piattaforma dell’Occidente?

«A proposito di piattaforma dell’Occidente sarei molto lieto di un Vaticano che va contro l’agenda Obama. Ma purtroppo…».

Come inquadra l’incontro tra Bergoglio e il patriarca ortodosso di tutte le Russie Kirill a Cuba?

«Un grande evento e un bellissimo documento finale firmato da entrambi. Mi dispiace solo che, una volta risalito sull’aereo, il Papa se lo sia in parte rimangiato».

Il maggior dispiacere in questa vicenda è la divisione nella Chiesa pro e contro Bergoglio: concorda?

«No. Al centro della vita della Chiesa c’è Cristo, non Bergoglio. La tragedia è la perdita della fede cristiana di popoli interi. La Madonna a Fatima mostrò che la tragedia è vedere moltitudini che finiscono all’Inferno per sempre. La tragedia è che ai vertici della Chiesa non se ne curino, la tragedia – come ebbe a dire Paolo VI – è l’invasione di un “pensiero non cattolico” dentro la Chiesa che sta diventando dominante».

Sta dando dell’eretico al Papa?

«Ho solo citato Paolo VI. E voglio ricordare che la missione del Papa è custodire e difendere la vera fede cattolica, il depositum fidei, non stravolgerla. Perché il Papa è servo della verità, non padrone. La verità è un avvenimento accaduto duemila anni fa. Neanche il Papa ha il potere di cambiarla».

Come spiega il fatto che Francesco non s’inginocchi davanti al Santissimo?

«Non so dire, non lo ha mai spiegato».

Un’ultima domanda: come sta sua figlia Caterina?

«Lotta, per tornare piano piano alla sua vita. È per tutti noi una testimone luminosa e commovente del Salvatore».

 

La Verità, 26 ottobre 2016