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Senza Coletta e Presta è Fiorello il «regista» di Ama

Quest’anno al Festival di Sanremo numero 74, anno quinto dell’èra Amadeus, si è finalmente capita la vera ripartizione dei ruoli. Ci sono un professionista e un fuoriclasse, protagonisti di una simbiosi perfetta. Il professionista è Amedeo Umberto Rita Sebastiani, direttore artistico e conduttore della kermesse, praticamente il testimonial della Rai di oggi. Il fuoriclasse, invece, è Rosario Tindaro Fiorello, showman, intrattenitore, artista dello spettacolo. In questo Amadeus five, la linea di comando è diventata improvvisamente più snella e operativa. Un po’ come avviene in certe società di calcio quando si riducono i dirigenti e finalmente allenatore e direttore sportivo non hanno troppi capi a cui rendere conto. A Sanremo, sparito Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento primetime con il vizietto di mettere il naso sulle scalette, e dileguato Lucio Presta, il manager che procurava ospiti importanti ma orientati, sono rimasti loro due. Il selezionatore di canzoni e presentatore, padrone del palco sul quale muove collaboratori, ospiti e cantanti. E il talento artistico che, in un certo senso, come abbiamo scritto, dopo la separazione da Presta, è diventato il vero agente di Amadeus e il suggeritore dell’evento. L’intesa assoluta tra i due si giova anche del mandato di piena libertà concesso loro dagli attuali vertici (un anno fa c’era ancora Carlo Fuortes).

Prendiamo ieri sera. Con le esibizioni di solo metà delle canzoni in gara si sono aperti alcuni spazi grazie a Dio non per monologhi e prediche, ma per alcuni ospiti importanti. Il toccante racconto della malattia di Giovanni Allevi e l’esibizione di John Travolta, in occasione dell’imminente settantesimo compleanno. Mentre la partecipazione del pianista era già definita da tempo essendo nata proprio dalla frequentazione con Amadeus, l’incertezza riguardava che cosa fare con il divo hollywoodiano. L’ultima volta che venne all’Ariston, Festival 2006, la star di Grease si trovò a massaggiare i piedi di Victoria Cabello. In precedenza, ospite di Stasera pago io di Fiorello, aveva già riproposto i passi di ballo del Tony Manero de La febbre del sabato sera e, in altre occasioni, quelli del Vincent Vega di Pulp fiction. Dunque, che fare? «Fiorello mi ha detto di avere l’idea giusta», ha risposto Amadeus a precisa domanda in conferenza stampa. «È qualcosa che ancora non so», ha buttato lì. Difficile che davvero non lo sapesse. Più realistico che, come abbiamo visto, l’idea fosse farina di Fiore.

Di lui il direttore artistico si fida ciecamente perché ogni sua gag, ogni sua apparizione contiene il guizzo che dà plusvalore alla manifestazione. L’altra sera, sul lungo mantello che indossava davanti all’Ariston si leggeva: «Ama pensati libero, è l’ultimo». Un colpetto a Chiara Ferragni e un incoraggiamento all’amico per alleggerirne il carico. Poco più tardi si è presentato a sorpresa in platea per violare il patto di non salire fino a sabato sera sul palco, dov’è rimasto improvvisamente immobile come un avatar disobbediente dell’intelligenza artificiale. Intanto, dall’Aristonello, il vero Fiorello disconosceva il replicante impazzito. Poi, in piena notte, a Viva Raidue! Viva Sanremo! ha improvvisato un match di tennis con Marco Mengoni e letto i whatsapp di tutti gli amici nottambuli sintonizzati a quell’ora.

Le doti da grande intrattenitore dello showman siciliano sono note da tempo. Quelle da manager capace di leggere il contesto e le situazioni con lucidità lo erano meno. Invece, il nuovo Fiorello è anche capace di dare la linea cazzeggiando. Alla conferenza stampa di apertura del Festival, a un certo punto ha confessato: «Quest’anno non sta succedendo niente, l’ospite di sabato sera potrebbe essere il Codacons». Ecco perché Amadeus ha spalancato le porte dell’Ariston al movimento dei trattori. Serve un’intramuscolare di realtà per non restare confinati nella gara canora, per quanto di qualità. Le polemiche sono il sale di Sanremo e se mancano quelle c’è caso che gli ascolti ne risentano. Non è stato così finora (10,6 milioni di spettatori e 65,1% di share all’esordio) e questo Festival sta per fortuna riuscendo a dimostrare che si possono battere i record anche senza strappare foto di viceministri o simulare effusioni gaie in fascia protetta.

Invece domenica sera, in collegamento con Che tempo che fa, Fiorello aveva detto: «Questo è l’ultimo Festival, poi noi apriremo un profilo su Onlyfans in coppia, anche per rispetto del pubblico che non ne può più di Ama». Pur dette con tono leggero, sono parole di qualcuno che riesce a intravedere la conclusione di un ciclo e il rischio del rigetto. No, non apriranno una pagina su Onlyfans, Ama & Fiore. Più facile che realizzino un varietà insieme. «È un desiderio che l’ad Roberto Sergio ha manifestato qualche tempo fa», ha confermato Amadeus. «Ci piacerebbe, è possibile. Non c’è ancora l’intenzione», ha precisato. Se son rose, fioriranno.

Spegnendo le sirene di La7 e del gruppo Discovery che, pare, avrebbero delle mire su Fiorello.

 

La Verità, 8 febbraio 2024

 

Post scriptum A Viva Raidue! Viva Sanremo! Fiorello ha ammesso che la gag del ballo del qua qua con Travolta «è stata terrificante».Onore all’autocritica dello showman che stavolta ha floppato. Al punto che l’attore americano si è rifiutato di firmare la liberatoria per la diffusione della scena. 

Amadeus, il finto buono pronto a tutto per lo share

In realtà, i finti buoni sono tremendi. Furbetti, maliziosi, determinatissimi. Per un punto di share metterebbero il proprio figlio adolescente in prima fila all’Ariston a godersi la pomiciata tra un rapper che viene dai centri sociali e gira in Lamborghini e un ex graffitaro e modello di Gucci che canta vestito da donna. E se al ragazzo cresce la disforia di genere, pazienza. Quello che conta è il risultato. Bisogna sempre migliorare. Superarsi. Ama(poco)deus ex-machina lo sa bene. Un Festival dopo l’altro. Il terzo più del secondo e il quarto più del terzo. Purtroppo arriverà anche il quinto. E poi chissà.

«Nella vita, al di là dei festival, dipende tutto dal risultato», ha teorizzato nella conferenza stampa di chiusura. «Se si ottengono questi risultati hai una forza. Se avessi fatto il 15-20% in meno sarei un allenatore esonerabile. Qualsiasi allenatore è forte finché la squadra vince, se la squadra perde anche i più grandi sono a rischio esonero. Ecco perché devo portare quello che sento, bisogna sbagliare con le proprie idee». Il pluridirettore artistico di Sanremo, con moglie perennemente al seguito, non si pone limiti. Colpa anche dei vertici Rai. Se dai troppo potere a un solo artista facile che si pensi un supereroe. Sembra preistoria la perculata di Checco Zalone: «Grazie a nome di tutti gli italiani, tu Amadeus ci fai sentire dei geni». Dopo che nel terzo è riuscito a emanciparsi da Fiorello, il quarto Festival di fila ha completato la metamorfosi. Da conduttore a condottiero. Quest’anno Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna, gavetta nelle radio locali e a DeeJay prima di sfiancarsi nella spola Mediaset-Rai, ha replicato senza giri di parole al vicepremier Matteo Salvini, al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ai politici di Fratelli d’Italia, autoinvestendosi di un compito che sarebbe toccato a qualche dirigente. Un cambio di ruolo. Un’autopromozione.

Sul palco, invece, nello spasmodico inseguimento dello share, ha confezionato un Sanremo grondante politica. Infarcito di messaggi obliqui. Come quello ordito la prima sera da Roberto Benigni alla presenza di Sergio Mattarella e indirizzato alla premier: cara Giorgia Meloni, se vuoi fare il presidenzialismo devi passare sul nostro corpo. E di altri più espliciti. Come quello che si è inverato nella soave slinguazzata di cui sopra. «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna: è normale, l’amore non ha etichette. E questo va portato ovunque, anche nello spettacolo», aveva argomentato nei panni di guru del Festival di Zan Remo. C’è la fascia protetta per proteggere i minori? Quella vale per impedire ai bambini dell’innocente coro di Mr. Rain di esibirsi dopo la mezzanotte. Non al pubblico infantile di assistere alla twerkata del rapper in abiti femminili sul pacco del marito di Chiara Ferragni.

In realtà, i finti buoni sanno andare al sodo. Le regole sono fatte per essere piegate a proprio piacimento. Se c’è da invitare il capo dello Stato all’Ariston la trattativa la conducono il pluridirettore artistico e il suo agente Lucio Presta (lo è anche di Benigni e Morandi, il prossimo è Mattarella?), scavalcando l’amministratore delegato Carlo Fuortes, la presidente Marinella Soldi, il direttore dell’Intrattenimento prime time Stefano Coletta e il cda al completo. Se c’è da lasciare Fedez prendere a pesci in faccia mezzo governo ci si trincera dietro il rispetto della libertà artistica. Infine, a forza di mitragliare Festival, Ama(poco)deus ex-machina ha disimparato anche a fare la scaletta, confinando dopo l’una di notte il monologo di Chiara Francini, il migliore e il più originale tra tutti quelli che, invece, hanno incantato il demi-monde di riferimento.

Più che mai quest’anno, il segreto del successo è stata la quantità. L’espansione. L’occupazione sistematica di tutti gli spazi. Dai telegiornali ridotti a newsletter ai megaschermi di Urban vision nelle grandi città che trasmettevano la diretta delle serate. Orizzonte ingombrato. Un Leviatano mediatico capace di triturare qualsiasi ostacolo, con la compiacenza dell’informazione mainstream al completo. Peccato che, a forza di fare lo «swiffer delle polemiche» come dice Fiorello, non abbia ancora imparato a gestirle. Prendete la faccenda delle foibe. Amadeus/1 ha risposto che «ci sono tante ricorrenze, non possiamo commemorare tutto». Poi, pur di non dare l’impressione di piegarsi ai politici di destra, Amadeus/2 ha detto che il ricordo «era già previsto».

Adesso per lui qualcuno ipotizza un cambio di passo. Nella disperata ricerca di figure carismatiche, c’è chi lo vede in politica. Che poi, carisma… Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna è un medio man, un normal one. Però «la sinistra riparta da Sanremo», ha twittato qualche sagace commentatore. «Ora che avevamo trovato come fare opposizione il Festival è finito».

In realtà, i buonisti sono spietati. Con gli altri, s’intende. Quelli che non li elogiano, non li lisciano. Avete presente Fabio Fazio? Più che Baudo, è lui il suo modello. Dietro la patina un po’ untuosa da bravi ragazzi, c’è gelido zinco. Intoccabili. Se si dissente, cliccano sulla consolle e parte la recita da martire. «Se mi mandano via me ne vado», ha detto sperando nella sollevazione popolare. Se se ne va, magari l’opposizione trova un leader, i telespettatori ridono, la moglie sempre al seguito piange e in Rai si devono mettere a lavorare. Perché in questi anni gli hanno appaltato mezzo palinsesto.

 

La Verità, 14 febbraio 2023

Il golpetto di Amadeus per Mattarella all’Ariston

Il Cda Rai si preoccupa di non essere stato informato della presenza del presidente Mattarella all’Ariston. Per me è qualcosa che valorizza l’intera azienda Rai e al loro posto direi grazie a qualunque persona abbia fatto in modo che il presidente fosse all’Ariston. Invece di colpevolizzarlo andrei a stringergli la mano». Parole e musica stonate di Amadeus, direttore artistico e conduttore del Festival della canzone italiana. In buona sostanza, i dirigenti Rai dovrebbero ringraziarlo ora che, nei fatti, lui e il suo manager hanno preso il loro posto. Il giorno dopo la trasferta sanremese del presidente della Repubblica i contorni di tutta l’operazione vanno chiarendosi. A tracciare il bizzarro scenario che abbiamo osservato in queste ore sull’asse Ariston-Quirinale concorrono diversi fattori. C’è una Rai priva di un vertice solido e di una catena di comando autorevole e operativa. C’è un Cda, rappresentante del Parlamento, che non sa farsi rispettare, come già visto in occasione della querelle sull’ospitata del presidente ucraino Volodymyr Zelensky (attivata da un pur autorevolissimo giornalista che ha svolto compiti di intermediario in forma privata). C’è un organo di controllo, peraltro da abolire, come la Commissione di Vigilanza, che attende da mesi d’insediarsi. C’è un ubiquo presentatore al quale ormai è stato appaltato mezzo palinsesto Rai, che dirige e conduce la più importante manifestazione culturale del Paese per il quarto anno di fila (arriverà anche il quinto). C’è il suo potente e molto manovriero agente senza il quale sembra impossibile organizzare la kermesse, che pure vorrebbe portarla fuori dal teatro in cui si realizza da sempre, come per altro ripetutamente auspicato dall’altro presentatore di punta del gruppo (Paolo Bonolis), che potrebbe avvicendare quello in carica fino al 2024.

Sono le condizioni del colpo di mano in Viale Mazzini consumato in questi giorni. Parlare di colpo di Stato sarebbe troppo, anche considerando che protagonisti dell’azione che ha portato Sergio Mattarella sul palco dell’Ariston per l’inaugurazione del Festival sono gli uffici del Quirinale e della tv pubblica, due organismi statali. Sarebbe troppo, certo. Ma fino a un certo punto. Lucio Presta, agente di Amadeus, e Giovanni Grasso, consigliere per la comunicazione del presidente della Repubblica, «si conoscono e si stimano da tempo. Ecco perché la trattativa è stata gestita da loro», ha rivelato il conduttore, buttandola sul tenero. L’ad Rai Carlo Fuortes è intervenuto solo nella fase finale. Nessuna parte in commedia hanno, invece, avuto gli altri dirigenti, informati a cose fatte come attestato dalla lettera alla presidente Marinella Soldi dei consiglieri d’amministrazione, infuriati per essere rimasti all’oscuro della laboriosa trattativa. In Rai hanno fatto tutto Amadeus e il suo manager. Che poi ha coinvolto Roberto Benigni, anch’egli della sua scuderia, chiamato per confezionare l’avvertimento della serata al governo in carica. Se volete fare le riforme costituzionali, presidenzialismo e autonomia territoriale, dovrete avere il nostro benestare, quello dei vertici istituzionali e dell’establishment del Paese.

Per recapitare il messaggio si poteva ricorrere anche a qualche violazione del protocollo. Ed è ciò che successo. Lo ha confermato ieri mattina il direttore artistico del Festival tra un’esultanza per lo share da record (drogato dal nuovo sistema di rilevazione, infatti in termini numerici il dato è inferiore all’anno scorso) e un mea culpa per la sbroccata di Blanco. «Grasso e Presta da un anno lavoravano insieme a me affinché questo nostro sogno si potesse realizzare», ha ammesso Amadeus. «Questa operazione, segreta per una ragione di sicurezza, è avvenuta quasi in forma privata, non istituzionale. Il Quirinale ci ha chiesto di non dirlo a nessuno, di tenerlo per noi tre».

Dunque, esautorato il Cda, esautorata la presidente Soldi, esautorato è stato anche il direttore dell’Intrattenimento del prime time, Stefano Coletta. Il quale ha sussurrato: «Non ho partecipato all’operazione, ma quando nell’imminenza ne sono stato informato, sono stato molto contento che avvenisse, molto emozionato». Prima di chiudere, con voce flautata: «Non mi sono sentito sminuito per nulla». Insomma, dopo che il regalo è arrivato, qualcuno, aprendolo, si è molto risentito e qualcun altro ha fatto buon viso anche se chi l’ha scelto non ne aveva i titoli. Così è se vi pare: in assenza di decisioni della politica, le leve di comando della Rai vengono impugnate da chi è più lesto. Nel suo delirio di onnipotenza, Amadeus ha risposto anche al vicepremier Matteo Salvini che aveva criticato la scelta di difendere la Costituzione dal palco di Sanremo e annunciato che sabato non guarderà la serata finale: «Sono quattro anni che se la prende con il Festival: basta non guardarlo», ha concesso il presentatore. «So che sabato vedrà un film, spero sia bello». L’articolo 21 della Costituzione garantisce anche la libertà di telecomando.

 

La Verità, 9 febbraio 2023

Il Festival di Alcatraz e la Ferragni allo specchio

Le pagelle della serata d’esordio del 73° Festival di Sanremo.

Il Festival di Alcatraz. Voto: 3

È il dogma stesso del Festival da rimettere in discussione. Obbligo sociale, politico, civile. Una sorta di prigione in cui la Rai sta chiudendo il pubblico. Non solo come entità televisiva, ma proprio come spazio. Il martellamento a tutte le ore e in tutti i programmi, dal Tg1 agli spot fino alle rubriche periferiche, sono il luogo della costrizione. Asfissiante. Anche nell’ora d’aria si resta in galera. La macchina fagocita tutto come un mostro onnivoro. E nell’opinione pubblica che si avvertono i conati pre-rigetto.

La prima serata. Voto: 5

Manca soprattutto il ritmo, l’idea, il profilo della serata, prigioniero della sua eccessiva istituzionalizzazione. Il Festival è quasi coetaneo della Costituzione e l’Ariston sembra La Scala. Quando entrano Anna Oxa e non si capiscono le parole, e quando compaiono Mamhood e Blanco e si capiscono i lamenti, tutto precipita. E non risale neanche con le stecche dei Pooh…

L’asse Fuortes-Presta. Voto: 7

La coppia amministratore delegato superagente ha messo a segno il colpo dell’anno: Sergio Mattarella all’Ariston ad ascoltare Roberto Benigni che esalta la Costituzione. Senza il 75º anniversario della Carta vivevamo lo stesso, ma il pretesto è servito per allestire il momento patriottico introdotto dall’Inno di Mameli (da non chiamare Fratelli d’Italia). Messaggio primario: per cambiare la Carta in tavola, Giorgia Meloni dovrà passare sul nostro corpo. Effetto secondario: Fuortes e Presta si sono autoblindati.

Roberto Benigni costituzionalista. Voto: 5

A un certo punto, vista l’enfasi, pareva che parlasse del Vangelo. Un libro che salva e redime da tutto. Ci si aspettava un collegamento tra la Carta e l’arte, è arrivato il poco originale elogio dell’articolo 21 («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero»), in perfetto stile Repubblica. Unico guizzo quando, rivolto a Mattarella, ha detto che la Costituzione è praticamente «sua sorella», riferendosi alla presenza del padre di lui tra i costituenti.

Gianni Morandi finto tonto. Voto: 7

Con tutto quello che ha fatto e visto in carriera non conosce l’ansia da prestazione. Finge di non capire, gioca a fare la spalla, si prende in giro cantando le sue ciofeche. Sta sul palco come a casa sua. Infatti, dopo la sbroccata di Blanco, impugna la scopa e spazza. Risolutivo.

I favoritissimi della gara. Voto: 6

La tuta nera di pelle di Marco Mengoni, a metà tra i Village people e Alberto Sordi, rischia di distogliere dal testo della canzone. Idem l’esplosiva Elodie in versione come ti svesti. Piace il crescendo di Ultimo, ma anche lui non è aiutato dall’audio. Ricorrere ai sottotitoli?

Chiara Ferragni, la vita è un selfie. Voto: 4

La maggiore delusione della serata. Non s’infierisce solo perché è un esordio. Per tutto il tempo parla e dice di sé. Della sua emozione, del suo nervosismo, di come si è preparata, di cosa dicono i suoi abiti (il terzo era la tutina glitterata smessa da Achille Lauro?). Vive davanti allo specchio. Il primo post è rivolto a sé stessa: «Pensati libera». La letterina da terza media del monologo pure. Una galleria di banalità nel mood del piagnisteo vittimista. Si rimpiangono Drusilla Foer, Sabrina Ferilli, Diletta Leotta e Gegia.

Blanco, una bestemmia in chiesa. Voto: 4

Prendere a calci i fiori nella città dei fiori è lo sfregio peggiore. Gli scenografi avevano addobbato il palco con migliaia di rose rosse, come da titolo della sua canzone (L’isola delle rose) e da video della stessa nel quale le strapazza. Il ricevitore sbagliato consegnato dai tecnici non gli faceva sentire la voce in cuffia. E lui ha perso il controllo, magari perché troppo carico…

Pd, Lgbtq, agenti: ecco chi comanda davvero in Rai

In fondo la composizione dei palinsesti Rai è il grande gioco di società dell’establishment politico-mediatico romano. Dirigenti del servizio pubblico (vigilati dai commissari), agenti di spettacolo e artisti vari siedono attorno al grande tavolo della tv di Stato e piazzano le loro pedine, fanno le loro puntate, tirano i dadi. Niente di nuovo, è così tutti gli anni. Quest’anno con vista sulla stagione autunno-inverno 2022/2023 un po’ di più. Se manca una visione definita, un’idea forte di quale sia la mission del più grande broadcaster tv del Paese ai tempi del colera, i feudatari, i mandarini e i burattinai della Telerepubblica hanno gioco facile. Così i palinsesti diventano un grande puzzle con tasselli da colorare a piacimento, un Monopoli 2.0 con tante trattative per conquistare un posto al sole per sé o per i propri assistiti. E i telespettatori che pagano ancora il canone nella bolletta elettrica? Massì, se la faranno andare bene… Forse.

Rai 1 immobile

Il primo dato emergente spulciando i programmi dell’anno che verrà è la staticità della rete ammiraglia: i tutti i classici della prima serata sono confermati. Se di scelta si tratta, è evidente che sa di pigrizia soprattutto perché, in un contesto in continua evoluzione, la riproposta dei soliti format non potrà non appannare l’attrattiva della rete. Se proprio si vuole cercarla, l’unica novità è una bizzarria. Non a caso lo stesso Marco Giallini, protagonista di Rocco Schiavone, ha contestato il trasloco della serie da Rai 2, trattandosi di una fiction trasgressiva che mal si sposa con le preferenze del pubblico di Rai 1. L’altro elemento da segnalare, non in quanto novità, ma in quota consolidamento di potere, è il ruolo sempre più centrale di Amadeus che, oltre al Festival di Sanremo e ai Soliti ignoti, ritrova lo show in tre serate Arena ’60 ’70 ’80 ’90. Presenzialista quanto il Pippo Baudo anni Novanta, Ama è la punta di diamante della squadra di Lucio Presta, il superagente amico di Matteo Renzi, che annoverando tra i suoi artisti anche i confermatissimi Antonella Clerici a mezzogiorno, Eleonora Daniele al mattino e Marco Liorni nel preserale, controlla quasi tutta la programmazione di Rai 1.

Banksy della tv

Sugli altri due canali generalisti si concentra invece il lavoro mimetico di Beppe Caschetto. Cresciuto alla scuola dell’indimenticato Bibi Ballandi che, dalla regione Emilia Romagna, lo instradò nello showbiz «insegnandogli a volare bassi per schivare i sassi», Caschetto è probabilmente l’agente più potente della tv (ma qui parliamo solo di Rai). Come l’invisibile street artist, anche lui mette tutti davanti al fatto compiuto. I suoi però non sono graffiti mainstream, ma riempimento di caselle dei palinsesti attuato con mano di velluto. Ogni anno la sua rete si estende. Stavolta, alla già nutritissima rappresentanza in Rai (Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Geppi Cucciari, Massimo Gramellini, Enrico Brignano, Lucia Annunziata eccetera), ha aggiunto le new entry Alessia Marcuzzi, che condurrà il varietà generazionale Boomerissima, e Ilaria D’Amico, al timone di Che c’è di nuovo. Qualche tempo fa, invece, aveva strappato al rivale Presta, quello Stefano De Martino che, oltre a tornare con Bar Stella, sarà alla conduzione anche di un game show (Sing sing sing).

La rete gay friendly

Insieme con la riproposizione in seconda serata di Epcc, il late show di Alessando Cattelan, i programmi di Marcuzzi, D’Amico e De Martino saranno in controtendenza alla linea editoriale della nuova Rai 2 che godrà di un corposo incremento di budget (sarebbe interessante conoscerne l’entità a fronte delle nozze con le prugne secche cui furono costretti i precedenti direttori). La profonda trasformazione del secondo canale lo renderà molto gay friendly. Detto di Non sono una signora, show di drag queen, ovvero personaggi famosi che si addobberanno vistosamente da donne, il filone en travesti si avvale della conferma dell’Almanacco di Drusilla Foer, in onda dal 21 novembre, quando terminerà il quiz Una scatola al giorno condotto dal protettissimo Paolo Conticini, già vincitore a sorpresa della terza edizione del Cantante mascherato. Niente maschere, ma lo scambio di ruoli nei vari tipi di famiglie (tradizionali, allargate, arcobaleno…) animerà il pomeridiano Nei tuoi panni di Mia Ceran che prenderà il testimone da Pierluigi Diaco, conduttore di Bellama’, sorta di confronto tra boomer e influencer sui nuovi temi contemporanei. La svolta gaia di Rai 2 però non è opera di oscuri agenti, ma principalmente del neodirettore per l’intrattenimento Stefano Coletta che, non potendo arcobalenizzare Rai 1 ha concentrato i suoi sforzi sul secondo canale.

L’agente occulto

Com’è noto, dal 5 settembre Marco Damilano striscerà tutte le sere alle 20,35 su Rai 3 con Il cavallo e la torre. In automatico, ma poco convinta, è partita la protesta dell’Usigrai per la svalutazione della professionalità aziendale implicita nell’affidamento dello spazio a un esterno anziché a un giornalista Rai. In realtà, la vera contraddizione è la concorrenza fratricida che il nuovo programma farà a Tg2Post: due approfondimenti contemporanei su due reti generaliste evidenziano che lo scopo della nuova striscia è pilotare contenuti, oltre che dare una casella a Damilano. Sia lui che Giancarlo De Cataldo, in seconda serata su Rai 1 con Tempo e mistero, non hanno avuto bisogno dei buoni uffici di un agente professionista perché hanno quelli del Pd che, Michele Santoro dixit, «ha più sedi in Rai che nel resto del Paese».

Contentini e conflittini

Alcuni più evidenti, altri più felpati. Franco Di Mare, il direttore di Rai 3 appena andato in pensione continuerà a condurre il suo Frontiere, il sabato pomeriggio nella sua ex rete. Gratuitamente come da policy aziendale, e come capitò al pensionato Carlo Freccero che diresse Rai 2 gratuitamente per un anno, o no? Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera di proprietà di Urbano Cairo, editore di La7, sarà consulente e autore di editoriali in Storie della tv, programma in onda su Rai 4 dal 18 ottobre. Walter Veltroni, editorialista e grande firma del solito Corriere del solito editore, dirigerà invece il documentario Ora tocca a noi: storia di Pio La Torre, in onda su Rai 3.

Buona visione.

 

La Verità, 30 giugno 2022

Il baco nel «sistema Draghi» si chiama Soldi

Un baco nel sistema operativo dell’infallibile Mario Draghi. Un piccolo infortunio. Un intoppo nell’ingranaggio solitamente ben oliato della macchina di Palazzo Chigi. Da qualche giorno, a proposito delle designazioni dei candidati ai vertici Rai, nei salotti romani circola una battuta al fiele: «Collaboratori infedeli». O, volendo, addolcirla: «Collaboratori inetti». Riguarda i consiglieri del premier che si sono occupati delle nomine della tv di Stato. Infedeli o inetti, la sostanza non cambia. Difficile inquadrare diversamente l’incidente di percorso che riguarda la scelta dell’amministratore delegato nella persona di Carlo Fuortes, attuale Sovrintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, e del presidente in quella di Marinella Soldi, ex ad di Discovery Network e ora titolare di numerose cariche tra cui la presidenza della Fondazione Vodafone Italia. Se queste designazioni venissero confermate, il baricentro della Rai penderebbe così a sinistra da rischiare di farle perdere l’equilibrio. Non a caso Lega e Forza Italia, per non parlare di Fratelli d’Italia, si sono calate l’elmetto.

Andando oltre gli schieramenti, soprattutto l’indicazione della Soldi si è rivelata un tremendo autogol strategico. Nonostante le smentite di rito, è stata lei, prima di trasferirsi al gruppo Vodafone, a condurre la trattativa con la Arcobaleno tre, la società di Lucio Presta, manager di Matteo Renzi, per l’acquisto di Firenze secondo me, il documentario in quattro puntate condotto dall’ex premier e andato in onda sul Nove del gruppo Discovery tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019. Il contratto tra l’agente e Discovery è ora finito sotto la lente d’ingrandimento della Procura di Roma che vuole capire come si giustifica il versamento di 700.000 euro dalla Arcobaleno tre a Renzi, 400.000 per la realizzazione del documentario e la parte restante per due format rimasti a livello progettuale. «È tutto rigorosamente tracciato e legittimo», ha replicato l’ex premier in attesa dei controlli della Guardia di finanza.

Al di là di quando e come si concluderanno le indagini, un’ombra sinistra è calata sull’ex numero uno di Discovery nata a Figline Valdarno (Firenze), poco distante da Rignano, cresciuta a Londra, in possesso di un curriculum internazionale e considerata presidente in pectore da tutti. Invece, questo fastidioso baco costringe al ricalcolo. Perché, adesso, particolarmente per il ruolo di presidente i giochi si riaprono. Tanto più considerando il fatto che poi, in Commissione di Vigilanza, servirà la maggioranza dei due terzi (27 voti su 40). Ora più che mai, dunque, Palazzo Chigi avrà interesse a precisare che, mentre spetta al governo, formalmente al ministero dell’Economia e finanza guidato da Daniele Franco, scegliere l’amministratore delegato, la presidenza «di garanzia» compete al Cda Rai. Il quale è, a sua volta, in via di formazione. Ai tre consiglieri già nominati – Fuortes, Soldi e, in rappresentanza dei dipendenti di Viale Mazzini, Riccardo Laganà – vanno aggiunti i quattro scelti da Camera e Senato su indicazione dei partiti. Sono le complesse incombenze di questi giorni, influenzati dal calendario dei lavori parlamentari e dagli umori nella maggioranza, scossa dai contraccolpi del dibattito sul ddl Zan e sulla riforma della giustizia.

Finita la ricreazione per la vittoria agli Europei, le attenzioni di Draghi sono tornate sull’agenda del Recovery fund e la gestione dell’uscita dall’emergenza sanitaria. Di certo le nomine Rai non gli hanno mai tolto il sonno, motivo per cui il relativo dossier è finito sui tavoli dei «collaboratori»: il capo di gabinetto Antonio Funiciello e il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera. Sui quali hanno avuto buon gioco le pressioni dei potenti uomini di sottogoverno romano, da Goffredo Bettini al consigliere del ministro Dario Franceschini, Salvo Nastasi, decisivo nelle nomine di teatri e sovrintendenze, fino allo stesso Gianni Letta, sempre molto influente quando si tratta di tessere tele e indirizzare cariche. Per dire, nel pomeriggio del 6 luglio Bettini è stato avvistato a Palazzo Chigi. Difficilmente per incontrare il premier in persona. Eppure, qualche giorno dopo, ha potuto esultare con un whatsapp che aveva il tono della rivendicazione: «La proposta di Carlo Fuortes per la Rai assicura una professionalità di grande valore alla più importante azienda culturale italiana. Nel 2003, in qualità di presidente dell’Auditorium, proposi al consiglio di amministrazione di nominarlo amministratore delegato. Ho avuto, così, con lui straordinari anni di collaborazione e di amicizia». Per altro testimoniati dalla foto allegata nella quale, vicino ai due, s’intravede anche Letta zio.

Per la Soldi, invece, oltre ai buoni uffici di Renzi, si sussurra di un interessamento del ministro per l’Innovazione Vittorio Colao, per un decennio ad di Vodafone e nel giugno scorso estensore del Piano di rilancio degli Stati generali dove, in molte pagine dedicate alla comunicazione e alla digitalizzazione la Rai non è mai citata. Chissà perché, si chiedono le solite malelingue romane, una come la Soldi che tra Vodafone, Nexi, Italmobiliare e Ariston Thermo assembla un budget che sfiora i due milioni, dovrebbe accontentarsi di un assegno di 200.000 euro l’anno.

 

La Verità, 15 luglio 2021

Freccero: «Massì, sono un direttore controcorrente»

Carlo Freccero – Il ritorno». Potrebbe intitolarsi così il film ora in prima visione sugli schermi di Mazzini. Un sequel 16 anni e mezzo dopo l’editto bulgaro, 18 aprile 2002. Per qualcuno, infatti, il sottotitolo è «Il controeditto». Per altri «La rivincita». Un fantasy; un giallo. O, visti i colpi di scena, un thriller. Mentre la rivoluzione di Rai 2 avanza, Freccero colleziona nemici. Ogni giorno un casino. Quotidiani e riviste lo dipingono censore, venditore di fumo, cialtrone. Lui si diverte come un bambino. «Eccole dieci euro», dice alla segretaria.

Come sta andando la rivincita?

All’inizio il risentimento è stato la motivazione per accettare di lavorare gratis. Inconsciamente ho adottato il pensiero di Enzo Tortora quando tornò a Portobello: «Dov’eravamo rimasti?». E l’idea di richiamare Daniele Luttazzi può avere un sapore di rivincita. Ma poi, un po’ alla volta, la televisione ha preso il sopravvento sui miei sentimenti. Perché, lei lo sa: noi siamo parlati dalla televisione…

La stanza da direttore è la stessa di 16 anni fa?

La stessa, ma rifatta.

Altra èra.

Totalmente. Oggi la sfida è dare identità a una rete generalista complementare a Rai 1 nell’epoca dell’over the top, le piattaforme multinazionali digitali.

In parole povere?

La tv generalista deve imparare a rispettare i tempi sociali dello spettatore. Fino a qualche anno fa c’era solo lei; oggi, nell’epoca dei tempi liquidi, il pubblico sceglie la tv generalista solo in prima serata. Questo va tenuto presente quando si fa il palinsesto. Io mi concentrerò sulla fascia dalle 19 a mezzanotte.

Rivincita senza vendette?

Certo. Fu Celentano a farmi lavorare a Rockpolitik, quando ero in punizione. Ma non covo risentimento. Non c’è il conte di Montecristo. Questo ritorno è un dottorato post universitario.

È un ritorno contro? Controeditto, controprogrammazione, controinformazione.

Controeditto un po’ sì. Disturbavo troppo e sia Berlusconi che Renzi non mi hanno mai preso in considerazione. Nel Cda Rai mi hanno eletto i 5 stelle e Sinistra ecologia.

Mentre il Pd l’ha mandato sul satellite.

I Ds per l’esattezza, segretario Piero Fassino, responsabile della comunicazione Carlo Rognoni.

La segretaria ricompare con una Coca zero. È dovuta uscire dal palazzone di Viale Mazzini per comprarla al bar.

«Ne vuole un po’?», chiede Freccero.

No, grazie.

(Agitandosi) Forza, forza con le domande!

È un’altra èra anche politicamente. Che rapporti ha con i 5 stelle?

Un rapporto di amicizia con Alessandro Di Battista e Gianluigi Paragone, che ho difeso quando conduceva La Gabbia.

Che cosa vi siete detti in trattoria con Di Battista?

Ho fatto apposta a farmi vedere con lui per festeggiare il suo ritorno in Italia.

Molti sono scandalizzati perché anche questo governo aveva giurato: fuori i partiti dalla Rai.

Naturalmente sono io che parlo di televisione, mentre lui mi parla del Paese.

Ha mai incontrato Matteo Salvini?

No. Mi piacerebbe incontrare lui e anche Steve Bannon. Comprenderli è necessario.

Perché?

Sono sull’onda del successo. Questo è il grande insegnamento che ho tratto dalla tv commerciale. Tutto ciò che ha successo va preso in considerazione. È l’umiltà l’insegnamento. Non possiamo pensare che il nostro io valga più di quello degli altri. Se una cosa è popolare bisogna rispettarla.

Ha più sentito Berlusconi?

Mai dal 2 maggio 1992 quando mi licenziò. Mi piacerebbe molto rivederlo e litigare con lui.

Perché la licenziò?

La mia Italia 1 disturbava il Caf, Craxi Andreotti Forlani.

Segnali dal suo mondo?

Conservo ottimi rapporti professionali. Scrivo sulla rivista Link che ritengo la migliore rivista in assoluto di televisione.

Quanto durerà questo governo?

Mi auguro tanto perché è senz’altro migliore di quello precedente.

Nonostante le frequenti gaffe mediatiche?

Le gaffe mediatiche sono meno rilevanti della crisi economica creata da chi c’era prima.

Come sono i suoi rapporti con i vertici aziendali?

Ottimi. Con l’ad Fabrizio Salini c’è una vecchia sintonia. Ancora oggi lo ringrazio per l’aiuto che mi diede al Festival della Fiction di Roma quand’era capo della Fox. Organizzammo un master class con Alicia Witt, la sceneggiatrice di Walking dead. Con il presidente Marcello Foa mi unisce l’attenzione critica verso l’informazione.

L’accusano di fare controprogrammazione e Salini sarebbe preoccupato.

La controprogrammazione è una regola che fa parte del lavoro televisivo quando si tiene presente lo scenario competitivo. Non è un dispetto contro qualcuno.

Rai 1 ha cancellato la conferenza stampa di Superbrain, lo show di Paola Perego, contro il quale ha programmato la serie The Good Doctor.

Con Lucio Presta ho sempre avuto un rapporto tempestoso. Però lo ammiro perché l’amore per sua moglie è così struggente che vorrebbe che tutte le reti si spegnessero in concomitanza dello show di lei. È come il protagonista di Adele H di Francois Truffaut, travolto dall’amour fou. Mi commuove e lo apprezzo.

Fa anche controinformazione.

È necessaria, detesto il pensiero unico politicamente corretto che nasconde le notizie sgradite. In questi anni la Rai ha perso il primato dell’informazione. Basta vedere che La7 ha Otto e mezzo e Rete 4 ha Stasera Italia. La Rai nulla. Deve coprire questa lacuna. Per me la conduttrice ideale dell’approfondimento dopo il Tg2 serale è una come Federica Sciarelli.

Ma ha già Chi l’ha visto?

Infatti, è un pio desiderio.

Ha dato dell’imbecille a una giornalista della Stampa.

Chiedo scusa per l’imbecille, ma bisogna ammettere che certi articoli sono molto fantasiosi. Ho trasceso usando il mio impatto mediatico per ridare centralità a Rai 2. Mai come adesso si avverte il conformismo dei media. Non a caso le vendite dei giornali precipitano.

Come si spiega che quasi tutta la stampa la attacca?

(Sorride) Chi mi attacca mi fa un favore. Vuol dire che sono davvero disturbante. Squadrato, come diceva Celentano.

Alla prima uscita si è fatto una valanga di nemici.

Ci sono stati tre tipi di reazione alla mia presentazione del palinsesto.

Addirittura.

La prima, sotto forma di depistaggio. Allontanare l’attenzione dai programmi più problematici e concentrarla su quelli più popolari come I fatti vostri e Quelli che dopo il tg. Per Repubblica il mio unico problema era mettere a tacere queste voci dissenzienti. Un po’ come censurare Stanlio e Ollio.

La seconda?

Rovesciare la focaccia. Cosa si oppone a un direttore di rete che si propone l’obiettivo di abolire la censura? Di essere un noto censore, incaricato dalla maggioranza di tacitare l’opposizione e la libertà di espressione.

E la terza reazione?

L’abbiamo vista all’opera a proposito dell’Ottavo blog: demonizzazione delle fonti. Ho letto sulla Stampa che i blog da me citati avrebbero molti scheletri nell’armadio. Non sono in grado di dibattere sullo specifico. Non m’interessa l’attendibilità di chi presenta l’informazione, ma l’attendibilità dell’informazione stessa. Saddam Hussein era il più cattivo di tutti, ma ahimè sulle armi di distruzione di massa era l’unico a dire il vero. Assad è stato prima buono poi cattivo. Ricevuto in pompa magna dal presidente Napolitano come baluardo dei valori occidentali contro l’integralismo islamico, si è trasformato in breve tempo in un mostro che non esita a gasare il suo popolo per impedirne la libertà di espressione. Potrei continuare.

Meglio di no.

Il giornalismo dovrebbe sempre tener presente la corrispondenza tra la notizia e la realtà dei fatti. La verità non guarda in faccia buoni e cattivi, ma ha a che fare con l’oggettività, non con presunte considerazioni morali.

Ha fatto incazzare anche gli juventini con quella battuta sull’occupazione dei Var.

(Ride) Quella battuta mi è piaciuta da pazzi. Io ho fatto L’Appello del martedì e considero il calcio materia di scherzo. Invece ho capito che è roba serissima. Infatti: il rigore contro la Sampdoria non c’era, mentre c’erano quelli non dati al Torino nel derby. Gli juventini sono belli, ricchi e famosi; sopportino qualche malignità. Sopportatela! Il potere esige il buffone di corte. Noi che non siamo juventini siamo una moltitudine di buffoni.

Magalli non la adora.

Invece mi è simpatico. È il più grande battutista rimasto della vecchia tv. Era amico di Gianni Boncompagni, di Luciano Salce e di tutti i grandi autori comici, per cui lui può dire quello che vuole e io lo esalto.

Chiudendo I fatti vostri?

No, dev’essere solo ridotto nei costi. Michele Guardì è uno degli uomini più ricchi d’Italia. Non può pretendere la Siae, faccia un sacrificio…

Quante cose può fare in un anno?

Pensi quante ne ho fatte in un mese… Il piano editoriale, lo speciale su Celentano, ho inventato un programma di approfondimento. Il 18 febbraio Enrico Lucci incontrerà Gianfranco Funari in Paradiso. Poi Bernardo Bertolucci sarà vendicato dei magistrati oscurantisti. Il 4 febbraio, per i 30 anni di Crêuza de mä, darò il concerto di Fabrizio De André con la presentazione di Dori Ghezzi. Il 25 febbraio ripartirà Made in sud con Stefano De Martino. Ho ridotto Ncis per riproporre le serie italiane. Arbore farà una serata dedicata a Gianni Boncompagni. Night tabloid diventerà Povera patria con la sigla di Battiato preceduta da una comica imitatrice. Poi c’è la trasformazione di Nemo con il ritorno alla conduzione di Alessandro Sortino. Ho messo a punto The Voice con Simona Ventura che partirà il 16 aprile e dove spero di avere in giuria Asia Argento e Morgan.

Non verranno mai.

Lo spero, è un sogno. Non si può sognare? (alzando il tono)

È vero che ha bocciato la seconda stagione del Supplente prodotto da Carlo Degli Esposti?

Vero, non mi piace. Mi aspetto proposte più interessanti e geniali, come Degli Esposti sa essere.

Resterà solo un anno o spera in una proroga?

Niente proroghe. Già arrivare a fine novembre 2019 sarà una fatica enorme. Chissà se questo entusiasmo creativo durerà fino allora.

È una specie di servizio civile gratuito?

Esatto. Come quello che faccio in carcere.

Cosa fa in carcere?

Tengo un corso di televisione nel carcere di Marassi sulle serie americane per la facoltà di Scienze dell’informazione. Ho cominciato lunedì scorso con The Wire. Naturalmente, con tutti questi impegni gratuiti, spero che il 2 giugno il presidente Sergio Mattarella mi conferisca il cavalierato.

Per avvicinarsi a Berlusconi?

Purtroppo non sono diventato come Urbano Cairo. Lui sì che è riuscito a imitarlo quasi in tutto.

Gli manca la discesa in campo.

Sì, ma avverrà in tempi relativamente brevi. Alle prossime elezioni politiche, quando saranno.

Lo suppone o lo sa?

Lo suppongo. Per la carenza di leader, per la tv che fa e per la voglia di rifare il percorso berlusconiano. Manca solo la politica.

Quanti detenuti seguono il suo corso?

Una trentina. Ma non parliamone troppo perché non vorrei che Presta, i giornalisti mainstream e i concorrenti delle altre reti convincessero la direttrice Maria Milano a tenermi dentro.

Tornare qui è chiudere un cerchio?

Certo, si chiude una stagione. Ma magari poi se ne apre un’altra… Devo dire che la vecchiaia dà una grande libertà. E anche la capacità di non avere paura di rischiare.

Per esempio richiamando Luttazzi? Qualche dettaglio?

L’ho sentito tre o quattro volte al telefono e lo incontrerò in Spagna in febbraio.

Probabilità di rivederlo davvero?

Dipende da lui, da quello che vuol fare.

Attaccare Salvini e Di Maio?

Molto probabile.

Glielo lasceranno fare?

Io vado via a novembre, lui dovrebbe iniziare a ottobre. Per due mesi…

Copiava le battute dai comici americani.

Vuol dire che sapeva copiare bene, altri copiano i format e molte volte male. Copiare una battuta è diffondere intelligenza.

Altri ritorni a Rai 2, magari Santoro?

Vorrei tanto incontrare lui, Piero Chiambretti e anche altri. Ma in un mese non sono riuscito a far tutto.

Ha detto che farà tornare la satira perché è finita l’èra di Berlusconi e Renzi. Perché li accomuna?

Perché appartengono allo stesso discorso politico. Siamo nell’epoca dei gilet jaunes non in quella degli azzimati e dei millennials, di Publitalia e della Leopolda. Siamo una moltitudine di gilet jaunes alla ricerca di un nuovo discorso economico e politico.

Condivide il pensiero di Alain de Benoist secondo il quale all’asse orizzontale destra-sinistra si è sostituita una prospettiva verticale élite-popolo?

Bene. Allora… I gilet jaunes sono nati per opporsi al potere. Già nel dopoguerra in Francia ci fu una strana mescolanza tra pensiero di destra e frange di sinistra contro il parassitismo delle classi rentiers (che vivono di rendita ndr). Ha ragione de Benoist, oggi il conflitto è verticale. Perché questo cambiamento? Molto semplice: perché il mondo del lavoro combatte il mondo della finanza, produzione contro speculazione. Il fronte della resistenza oggi va dal padrùn delle brache bianche al proletariato e sottoproletariato. È un fronte unico contro il vampirismo della finanza.

Dice che Trump si poteva prevedere, ma è un bene o un male con quei muri?

Si poteva prevedere perché la Clinton era ancora peggio di Trump.

 

Panorama, 16 gennaio 2019

 

Politico batte divulgatore e Firenze diventa Firenzi

Lo sapevate che Firenze è una delle città d’arte più belle d’Italia, d’Europa e forse del mondo? Che in 750 metri sono racchiusi Palazzo Pitti, Palazzo Vecchio uniti dal Corridoio del Vasari, il Giardino di Boboli, il Museo degli Uffizi e Piazza della Signoria? E che tutti questi siti traboccano di opere d’arte, testimonianze del Rinascimento, una delle stagioni più feconde della storia dell’umanità? Un po’ lo sapevamo, diciamo la verità. Stavolta però ce lo dice Matteo Renzi nel primo dei quattro episodi di Firenze secondo me, il documentario prodotto dalla Arcobaleno tre di Lucio Presta e andato in onda ieri sera sul Nove del gruppo Discovery.

Con tanta ricchezza d’immagini e forme, il programma si fa da solo. È, dunque, apprezzabile il coraggio del senatore semplice di Scandicci alle prese con le trame precongressuali nel Pd ben più nefaste di quelle della corte dei Medici, è apprezzabile, si diceva, il coraggio del conduttore nel tentare di restituire con aggettivi e iperboli la grazia della Venere del Botticelli o il mistero della Battaglia di Anghiari di Leonardo Da Vinci. Renzi ce la mette tutta; soprattutto mette le mani avanti, ci si augura perché consapevole della sproporzione: «Io non sono un esperto, io non sono un critico letterario, io non sono uno storico dell’arte…». Però, siccome la bellezza è l’antidoto «all’ignoranza e alla volgarità, seguitemi», invita l’ex premier. Che subito dopo si trova davanti a un bivio chissà quanto metaforico delle sue scelte personali: la politica o la carriera televisiva, il solito Pd o il nuovo partito personale. Qui il bivio è fra il Giardino di Boboli come esempio dell’espansione dei Medici o come meta dello studente Matteo quando bigiava. Lo straniamento del telespettatore è inevitabile perché in quel «secondo me», oltre alle fughe scolastiche nel giardino più bello del pianeta, esorbita anche il politico sul divulgatore. È un dato di fatto, una questione di credibilità, prima ancora che di parole e di modi. Mentre conciona del Salone dei Cinquecento «culla della democrazia», il pensiero dello spettatore schizza sulla rinuncia di Marco Minniti alla corsa da segretario causa mancato appoggio del buon Matteo. Certo, potrebbe essere tutta una Calunnia come racconterebbe il Botticelli nell’opera che raffigura il sovrano indotto in errore dal sospetto e dall’ignoranza, mentre la verità viene «messa da parte». Che potrebbe pure essere «il quadro delle fake news», perché La Calunnia riguarda «anche il mondo politico di oggi», garantisce l’ex premier neo conduttore tv. Ma qualche domanda alla fine sorge spontanea: perché l’avrà fatto? E quale sarà la verità messa da parte? Inventarsi un nuovo futuro o pagare il mutuo della nuova casa?

La Verità, 16 dicembre 2018

«Ancora non si sa chi ha chiuso il talk di Paola»

Nei giorni caldi del licenziamento di Paola Perego l’aveva promesso: «Prima o poi faremo, chi c’è più irregolare di me?». E ora, a proposito di giorni caldi, Lucio Presta, calabrese di 57 anni, uno dei manager dello spettacolo più influenti (Roberto Benigni, Paolo Bonolis, Antonella Clerici e Belén Rodriguez, tra gli altri), risponde dal set del concerto di Vasco Rossi di Modena: «Non le dico la temperatura… Giusto perché eravamo d’accordo…». Dopo la clamorosa chiusura di Parliamone sabato, nella prossima stagione Paola Perego condurrà 14 prime serate.

Lucio Presta è più un marito protettivo, come dice sua moglie, o un marito potente?

«Un marito protettivo. Paola ha un vantaggio: essendo civilmente sposati, mi vede in più ruoli».

Molti propendono per il marito potente.

«In questo mondo non ci sono manager potenti, ma professionisti solidi che difendono con passione i propri artisti».

Sua moglie è stata riabilitata.

«Mia moglie non doveva essere riabilitata. Ha semplicemente riallacciato un rapporto professionale con la rete e l’azienda che l’avevano ingiustamente sospesa».

Paola Perego con Lucio Presta, manager e marito

Paola Perego con Lucio Presta, manager e marito

Come sono andate le cose in quella puntata di Parliamone sabato?

«Tutti erano informati di quello che sarebbe andato in onda. Tutti gli autori, da Paola fino a Gregorio Paolini, il capostruttura, il produttore, il regista, il direttore. Nessuna conduttrice riesce a mettere in onda o a invitare qualcuno senza che tutta la filiera ne sia informata».

Si è gridato allo scandalo per la lista di pregi delle donne dell’Est, ma anche gli aneddoti di Fabio Testi erano sconvenienti.

«L’unica cosa davvero sconveniente è stata il racconto fatto dall’ospite. Ma, come in tutte le trasmissioni in diretta, ogni ospite firma un contratto nel quale si assume la responsabilità di ciò che dirà. Paola l’aveva stoppato immediatamente. Anche su questo non c’era niente da dire. Non è stata la più alta pagina di tv, ma nemmeno la più bassa. Tant’è vero che non era successo niente né il sabato né la domenica».

Quindi come si spiega la faccenda?

«Non me la spiego. Dopo che era stato chiuso il programma, il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto mi aveva mandato un messaggio nel quale mi diceva che Paola non era responsabile. Continuo a chiedermi che cosa sia successo, chi abbia voluto chiudere il programma e perché. Ovviamente avevo girato il messaggio al legale che stava preparando la causa all’azienda».

Campo Dall’Orto era già in forte difficoltà.

«Io ho smesso di sentirlo da subito, non da quando si è dimesso come han fatto tanti. Ho maturato la sensazione che sia stato spinto a chiudere il programma».

Ipotesi suffragata o suggestione?

«Suggestione, che però non ho avvertito solo io. Anche altri, come Maria De Filippi, hanno trovato che non era giustificabile la chiusura del programma».

Esclude che sia stata un’altra grana per mettere ulteriormente in difficoltà Campo Dall’Orto?

«Non credo, ma sicuramente non gli ha portato bene, da quel giorno è iniziata a non brillare più la sua stella. Il mio giudizio su di lui resta lo stesso di prima. Un grande teorico che non ha compreso il mondo Rai, sbagliando lo staff che ha portato da fuori».

La ripresa del rapporto con Paola è merito del nuovo direttore generale, Mario Orfeo?

«La ripresa del rapporto tra Paola e la Rai è combaciata con il suo arrivo. Al momento c’è un accordo editoriale, non ancora una trattativa economica né un’intesa contrattuale».

Improvvisamente, molte cose si sono appianate. A cominciare dalla querelle sui cachet delle star. Come la pensa in proposito?

«Le soluzioni erano lì ad un passo, ma forse non si volevano trovare, per non assumersi responsabilità. Il tetto per le star è un errore perché agiscono nel mercato, nel quale le star fanno la differenza».

Come si difende dall’accusa che Paola lavora perché è moglie di un manager influente e con un sostanzioso portafoglio di star?

«Non rispondo a questa domanda perché manca di rispetto a una persona che lavorava ben prima di conoscere me. E non giocava in nessuna squadra di Serie A, visto che all’epoca suo marito era un calciatore (Andrea Carnevale, ndr)».

A proposito di star, è stato un colpaccio piazzare Paolo Bonolis alla conduzione del concerto di Vasco Rossi su Rai 1.

«Niente di nuovo. Paolo è un conduttore di grandi eventi. Nel 2014 ha presentato su Rai 1 la Festa dello sport per il centenario del Coni. Due anni fa ha condotto la serata d’inaugurazione dell’Expo. È stato un’artista della Rai. Abbiamo trattato a lungo con Campo Dall’Orto il suo possibile ritorno. Non ci sono più queste barriere».

Le sue serate in trasferta si fermeranno qui o è ancora in lizza per il Festival di Sanremo?

«Non è possibile che Paolo conduca Sanremo».

Aveva chiesto come condizione per rinnovarlo lo spostamento dall’Ariston e poche settimane dopo il Comune ha deciso una nuova location.

«Vuol dire che ancora una volta abbiamo dato una buona idea che altri sfrutteranno».

Che rapporto c’è tra lui e Vasco?

«Nel 2005 Vasco tornò a Sanremo per aprire la 55ª edizione del Festival, il primo condotto da Paolo. Evidentemente si rispettano e si stimano».

Paolo Bonolis con Vasco Rossi a Sanremo nel 2005

Paolo Bonolis con Vasco Rossi a Sanremo nel 2005

Lei adesso segue anche Michele Santoro?

«Ho un rapporto personale e di affetto e in alcune circostanze gli ho dato una mano. Però

Michele ha una società che si occupa delle sue attività».

Quindi non sa cosa c’è di vero nelle indiscrezioni che lo danno in pianta stabile su Rai 3?

«Esatto, non lo so».

Abbiamo parlato di Paola, di Bonolis, di Santoro. Roberto Benigni che cos’ha in mente?

«È un grande artista, capace di idee e performance meravigliose. Quando ha qualcosa di pronto mi chiama e me lo dice, ma fino a prima è tutto top secret anche per me».

Lavora meglio con Mediaset o con la Rai?

«Lavoro bene con tutte e due le aziende. Qualche volta mi trovo meno bene con alcuni uomini di Rai o di Mediaset. Per esempio, ricordo forti litigate con Maurizio Carlotti di Mediaset».

Che ora è in Spagna. E litigate in Rai?

«Ne ricordo una forte con Lorenza Lei durante il Festival di Sanremo di Gianni Morandi: avevamo vedute molto diverse. Ma una delle prime persone che mi ha chiamato quando è successo il fatto di Paola è stata proprio Lorenza Lei. Altri momenti di attrito ho avuto con Mauro Masi, con il quale ora ci frequentiamo anche in vacanza. Ho avuto rapporti meravigliosi con Flavio Cattaneo, con Claudio Cappon e Luigi Gubitosi. In Mediaset li ho avuti con Mario Brugola e li ho con Alessandro Salem».

Se dico Monica Maggioni?

«Preferisco far finta di non sentire. Condivido perfettamente l’amarezza di Paola per gli attacchi subiti da una donna che non la conosce né come persona né come professionista».

Da fiero salesiano Presta twitta spesso frasi di don Giovanni Bosco

Da fiero salesiano Presta twitta spesso frasi di don Giovanni Bosco

Un mestieraccio il manager delle star. Somiglia a quello dei procuratori dei calciatori (che non attraversano un gran momento)?

«Quello è un mondo di soli affari, il nostro è un mondo editoriale e di scelte artistiche. Un procuratore non può incidere sulle qualità di un calciatore. Mentre noi siamo in grado di aiutare ad accrescere il talento degli artisti».

I suoi li sottopone a un regime quasi monacale.

«Se lavoriamo insieme è perché abbiamo idea e gusti della vita simili: poca mondanità, molto lavoro e sacrificio. E profilo basso».

Secondo il detto di Bibi Ballandi, maestro degli agenti: «Volare bassi per schivare i sassi»?

«In un certo senso. Ma nel nostro caso è proprio uno stile di vita, più che un atteggiamento per non farci notare. Cioè, siamo proprio fatti così».

Perché le interessava diventare sindaco di Cosenza e perché ha rinunciato?

«Amo profondamente la mia città e avrei voluto fare qualcosa di buono».

Invece?

«Ho rinunciato perché quell’impegno è combaciato con alcuni nuovi problemi familiari. Comunque, avrei rinunciato di lì a poco perché avevo scoperto che i problemi politici li avevo non con lo schieramento avversario, bensì con gli alleati».

Questioni di primarie nel Pd. A proposito, come si spiega che uno come lei lo si immaginava di più posizionato a destra?

«Questa è una buona notizia, perché se qualcuno mi vede a destra mentre il mio pensiero è un altro, vuol dire che sono bravo a non farmi catalogare. Sono stato attaccato dall’Espresso e da Panorama: significa che sono davvero un uomo libero».

Chi è il «meno uno» che non saluta quando dà la buonanotte a tutti su Twitter?

«Lui lo sa perfettamente».

Vorremmo saperlo anche noi.

«Tanti mi chiedono: “Sono io per caso?”. “Ma avete la coda di paglia?”, rispondo. Un giorno o l’altro lo svelerò».

San Paolo dice: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira».

«Io dico un’altra cosa: meglio conservarsi dei nemici per la vecchiaia, per tenersi allenati e belli svegli».

Comunque, uno sarebbe ancora poco, visto che ha litigato con Antonio Ricci, Beppe Grillo, Campo Dall’Orto. È lo spirito calabrese un po’ fumantino o cos’altro?

«Non sono fumantino, vado per la mia strada. Ma se qualcuno cerca di farmi inciampare difficilmente tiro dritto».

Non conosceva la frase di San Paolo, ma posta frequentemente massime di don Bosco.

«E certo! Sono un salesiano nell’anima. Chi ha studiato in collegio come convittore interno lo è per tutta la vita».

Che eredità le ha lasciato quell’esperienza?

«La capacità di sopportare la fatica. Don Bosco raccoglieva i ragazzi dalla strada, quelli che avevano problemi seri. La strada è l’università migliore che si possa frequentare per capire il bene e il male. Se hai la capacità di riconoscerli, fai le scelte giuste. Io ho sempre saputo da che parte del marciapiede stare. Dalla parte della legge, dell’etica e della morale».

 

La Verità, 25 giugno 2017