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Il verbo green sale sul pulpito con l’ok dei preti

Lo sapevamo già che l’ecologismo estremo è una nuova religione. Ora ne abbiamo un’ulteriore tangibile prova. L’escalation è il verbo green che conquista gli altari, i pulpiti, si sostituisce alle omelie. Non più e non solo l’interruzione della vita civile con i blocchi estemporanei del traffico nelle vie del centro o nelle tangenziali all’ora di punta, come ormai avviene con una frequenza che non può non istigare le brusche reazioni dei comuni cittadini. Non più e non solo l’imbrattamento di monumenti storici e luoghi sacri come avvenuto tre giorni fa, solo per citare il caso più recente, con getti di fango e cacao sulle facciate del Duomo di San Marco a Venezia. Ora siamo all’interruzione della celebrazione della messa solenne durante la quale alcuni giovanotti manifestano e argomentano contro «la crisi climatica». Il salto di qualità è palese. È l’usurpazione del pulpito, l’esproprio ecologista. È l’onda dell’ambientalismo corretto che inizia a scendere dalla scalinata di Piazza San Pietro. Dalle encicliche e dalle esortazioni papali alle chiese sul territorio il passo è breve.

Ora, il fatto desolante è che, anziché fermare la brillante trovata giovanilistica, sacerdoti e celebranti cedono di buon grado il proscenio ai manifestanti nell’unica ora settimanale dedicata al rito. Prego, accomodatevi. E gli attivisti dei gruppi ambientalisti, confusi tra i fedeli, si alzano per inscenare i loro sit-in per la «Casa che brucia», come ammonisce Greta Thunberg. Nell’ultima settimana è già successo due volte e, secondo l’antica legge, non tarderà ad aggiungersi la terza. E poi?

L’altro ieri, festa dell’Immacolata dedicata alla Madonna, durante la funzione religiosa curata dai Vigili del fuoco nella chiesa del Pantheon di Roma, dopo il segno della pace tre militanti di Ultima generazione si sono piazzati davanti all’altare esponendo manifesti con lo slogan: «Soldi per la vita, non alla guerra». Facendo seguire la rivendicazione per il clima: «Alluvioni incendi siccità uccidono». Lo stupore si è insinuato tra i presenti allorché, invece di mettere a tacere i militanti, dicendo loro che l’attenzione verso l’emergenza climatica è già molto diffusa e avvolgente tutti i giorni della settimana, il celebrante, monsignor Alberto Frigerio, li ha accolti di buon grado consentendo loro di sostare presso l’altare con gli striscioni anche durante la distribuzione dell’Eucaristia: «Ringrazio anche i nostri amici con i cartelli. Siamo dalla stessa parte. Forse siamo meno irrequieti, ma anche noi preghiamo per la pace», ha detto il sacerdote al termine della messa, dopo aver effettuato la benedizione e la premiazione dei Vigili del fuoco. Non pochi dei quali si sono allontanati perplessi.

Domenica scorsa qualcosa di simile era avvenuto nel Duomo di Torino, durante la messa celebrata da monsignor Roberto Repole. Qui la dimostrazione ha avuto caratteri diversi. La sigla protagonista era Extintion rebellion. Al termine della proclamazione del vangelo, prima dell’inizio dell’omelia dell’arcivescovo, una ragazza si è alzata in piedi iniziando a leggere brani dall’enciclica Laudato si’, seguita da altre due lettrici che hanno attinto all’esortazione Laudate Deum diffusa da papa Francesco in apertura del Sinodo sulla sinodalità. La performance si è conclusa con altri brani tratti dall’intervento scritto da Bergoglio per la Cop28 e letto dal segretario di Stato, cardinale Paolo Parolin, appositamente inviato a Dubai, nei quali il pontefice invita i governi a interrompere i finanziamenti alle guerre e le devastazioni ambientali e a prendere accordi «efficienti, vincolanti e facilmente monitorabili». Anche in questo caso, tra lo sconcerto dei presenti, i militanti hanno potuto inscenare la loro esibizione, solamente sollecitati a concludere da monsignor Repole per far terminare la messa, un momento che «dev’essere rispettato soprattutto da chi fa professione di voler operare nel rispetto di tutti». Solo a cose avvenute, il cardinale ha precisato di avere «grande stima per chi si mobilita a difesa del creato e accoglie gli appelli di papa Francesco. Apprezzo l’impegno delle attiviste di Extintion rebellion, ma mi è dispiaciuto che abbiano ritenuto di prendere la parola in Duomo senza prima volermene parlare». Fortunatamente, l’arcivescovo ha almeno sottolineato che «a messa si prega spesso per la salvaguardia della pace e del creato, ma la celebrazione eucaristica non è un momento idoneo a ospitare interventi pubblici». Tuttavia, l’arrendevolezza con cui si consentono questi sit-in rimane scoraggiante. Forse in ossequio all’inclusione e a un falso concetto di dialogo, non c’è nessuno che si alzi e inviti i militanti ad attendere i fedeli al termine della celebrazione per sensibilizzarli alla loro causa sul sagrato della chiesa. Del resto, se, come si legge nella Laudate Deum, a certe azioni provocatorie dei movimenti ambientalisti viene concessa una certa legittimità perché «occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta a ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli», c’è poco da meravigliarsi.

La nuova religione dell’ecologismo corretto scala i gradini e conquista i luoghi sacri.

«Papa Francesco riduce la Chiesa all’irrilevanza»

Il suo blog Duc in altum è una delle voci più seguite nel mondo cattolico conservatore. A lungo vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli è autore di saggi e interventi sulla Chiesa italiana e mondiale. La quale, ha scritto di recente, non vive solo una crisi, ma una vera rivoluzione che può portarla all’estinzione. Secondo lui, per scongiurare simile apocalisse, i cattolici devono diventare controrivoluzionari.

Aldo Maria Valli, che cosa pensa della Nota con cui l’ex Sant’Uffizio, retto dal cardinal Victor Manuel Fernández, e controfirmata da papa Francesco, stabilisce che chi cambia sesso può accedere al battesimo come pure i figli di genitori gay concepiti con l’utero in affitto?

«Penso che il documento costituisce una nuova tappa nel percorso di allontanamento dalla dottrina cattolica. E ciò avviene nel modo abituale, con ben scarsa chiarezza, forte ambiguità e strizzando l’occhio alla mentalità dominante. Ciò che interessa è unicamente dare l’idea di un’apertura. Infatti, tutti i media hanno titolato: “Il Vaticano apre a trans e gay”. Il peccato è nascosto sotto una coltre di parole. Nessuna preoccupazione pastorale: si vuole normalizzare un comportamento che la Chiesa in realtà non può accettare. È una strategia che Bergoglio persegue con determinazione».

Tuttavia il battesimo è il più democratico dei sacramenti e la Nota stabilisce le condizioni per accedervi.

«Il battesimo non è un diritto, ma un sacramento. Chi lo chiede per un piccolo s’impegna a far conoscere Dio e a seguire i suoi insegnamenti».

Qualche giorno fa è stato annunciato un nuovo libro intervista di papa Francesco a Fabio Marchese Ragona, vaticanista di Mediaset.

«Dicono che sarà un’autobiografia e che il Papa si toglierà sassolini e sassoloni dalle sue umili scarpe nere. Un altro passo verso la “normalizzazione” della figura papale».

In che senso?

«Penso che questa autobiografia sarà utilizzata per accreditare ancora di più la figura di Bergoglio come quella del Papa della gente e della misericordia. E per regolare qualche conto con tutti quelli che in un modo o nell’altro sono entrati in rotta di collisione con lui».

Perché le interviste e i dialoghi di Bergoglio con i media sono così frequenti?

«Per protagonismo, perché Bergoglio è consumato dall’ansia di piacere alla gente che piace: vuole mostrarsi come uomo fra gli uomini, come colui che non giudica ma accompagna. Gli interessa eliminare dalla figura papale ogni residuo elemento divino per appiattirla sul mondo».

Non è il suo modo di evangelizzare, di essere missionario?

«No, è un modo di esaltare il personaggio. Con questi interventi non conferma i fratelli nella fede, ma i lontani nella loro lontananza. Non a caso, applausi e complimenti arrivano proprio dai lontani, da quelli che sono sempre pronti a puntare il dito contro la Chiesa».

Cosa pensa dei pronunciamenti del Pontefice sulle guerre in Ucraina e in Israele, la «Terza guerra mondiale a pezzi»?

«A proposito della guerra in Medio Oriente Francesco ha chiesto di cessare il fuoco, di percorrere ogni via per evitare l’allargamento del conflitto, di liberare gli ostaggi, di garantire spazi per gli aiuti umanitari. Ha detto e ripetuto che la guerra, ogni guerra, è una sconfitta. Ha anche detto che è diritto di chi è attaccato difendersi. Riguardo all’Ucraina, ha mandato in missione il presidente della Cei, Matteo Zuppi, a Kiev, Mosca e Washington per tentare una mediazione».

Con quali risultati?

«Praticamente nulli. Sia Kiev sia Mosca hanno detto no. E Putin si è ben guardato dall’incontrare l’inviato papale».

Perché le frequenti richieste di cessare il fuoco sono poco considerate?

«La voce del Papa ormai non spicca sulle altre. Ha perso autorevolezza e prestigio. Nel 1962 l’intervento di Giovanni XXIII fermò la minaccia della guerra nucleare fra Usa e Urss per i missili installati a Cuba. Dopo l’apertura degli archivi sovietici abbiamo potuto conoscere l’importanza di quell’appello del Papa. Sappiamo anche che, sebbene sopravvalutata da certa storiografia, l’azione di Giovanni Paolo II ebbe certamente un ruolo nell’indebolimento dell’orso sovietico e nella caduta del muro di Berlino. Ma era un altro Vaticano, con un’altra diplomazia. È significativo che per l’Ucraina il Papa si sia affidato a Zuppi. Zuppi vuol dire la Comunità di Sant’Egidio. La Segreteria di Stato è stata saltata».

Dopo l’ingiustificato atto terroristico di Hamas la Santa Sede avrebbe potuto esprimersi in modo più nitido?

«Avrebbe potuto fare e dire tante cose. Resta il fatto che la voce del Papa ha perso rilevanza, così come la diplomazia della Santa Sede».

La Chiesa potrebbe esprimere una posizione più chiara sulla nuova ondata di antisemitismo?

«Idem come sopra. Prendiamo atto che la voce del Papa è ormai una fra le tante».

Che cosa pensa del fatto che qualche giorno fa, a causa del cattivo stato di salute, Francesco ha preferito far distribuire il discorso anziché leggerlo ai rabbini europei durante l’udienza a loro riservata?

«Una volta in questi casi si parlava di raffreddore diplomatico. Bergoglio al mattino non ha parlato ai rabbini perché “malato”, ma nel pomeriggio è miracolosamente guarito e si è intrattenuto con migliaia di bimbi, rispondendo a una raffica di domande».

Qual è la sua valutazione sul Sinodo sulla sinodalità?

«Aria fritta in dosi esorbitanti. A nessuno interessa un fico secco. Il Papa ripete che la Chiesa non deve essere autoreferenziale e poi escogita un Sinodo che è il massimo del clericalismo. Ciò che gli interessa è disarticolare la Chiesa dall’interno e introdurre un falso metodo “democratico” funzionale a questo progetto. Al grido di “È il popolo che lo chiede” può innescare i processi da lui desiderati. Anche il ridimensionamento del ruolo dei vescovi serve a questo. Ma ovviamente è tutto fumo, perché le decisioni sono già state prese in anticipo».

Una visione molto negativa. Un Sinodo così è un segnale di ripiegamento?

«Manifesta quello che dicevo prima: fumo negli occhi per nascondere il vero fine, che è disarticolare la Chiesa. Non sono d’accordo con chi dice che siamo di fronte a una profonda crisi della Chiesa. Non è una crisi, è una rivoluzione. Bergoglio vuole una nuova Chiesa, funzionale a una nuova religione ecologista e mondialista. E il Sinodo è uno degli strumenti di cui si serve».

Che esiti potrà produrre nel tempo?

«L’obiettivo di questo Sinodo, che definisco “il Sinodo truffa”, è far penetrare nella Chiesa alcune idee. Circa, per esempio, il sacerdozio femminile e la benedizione delle coppie omosessuali, al Papa non interessa tanto il risultato concreto e immediato, quanto innescare un processo. L’obiettivo è quello di tutti i modernisti: mettere la Chiesa al passo con il mondo. Il relatore del Sinodo, il cardinale Jean-Claude Hollerich, ha più volte affermato che l’assemblea non ha l’autorità di prendere decisioni: quello che può fare è solo “discernere”. Ma questa è una furbata, perché già il modo in cui si discute serve ad allineare la Chiesa a certe tendenze. Il metodo è il messaggio. Ciò che più mi disgusta è che per giustificare tutto questo i modernisti tirano in ballo lo Spirito Santo».

Che segno sta lasciando l’esortazione apostolica Laudate Deum?

«Zero, nulla. A otto anni dalla Laudato si’, l’enciclica dedicata alla “cura della casa comune”, il Papa ha voluto tornare in campo per rinnovare le sue “accorate preoccupazioni”, ma lo ha fatto in modo totalmente ideologico e con una superficialità e una partigianeria che lasciano stupefatti. Qualcuno ha detto che se un testo simile fosse stato presentato da uno studente universitario avrebbe meritato una sonora bocciatura per quanto è inconsistente. Intendiamoci: nessuno discute il diritto-dovere di Francesco, in quanto vicario di Cristo sulla terra, di occuparsi di questi problemi. Il problema è che Bergoglio parla come una Greta Thunberg qualsiasi. In questo modo, paradossalmente, il Papa che non vuole essere dogmatico “dogmatizza” l’ideologia ecologista, e il Papa dell’ascolto rivela una totale intolleranza verso chi la pensa diversamente, definendo “irragionevoli” le opinioni di chi, anche nella Chiesa, non concorda con la sua valutazione. Inquietante è il fatto che ancora una volta dipinga l’uomo bianco e occidentale come nemico della natura, che si schieri apertamente dalla parte dei gruppi ambientalisti radicali e che chieda “di stabilire regole universali ed efficienti”, così da imporre “norme vincolanti di transizione energetica”. Vuole un governo mondiale, qualcosa che appartiene al repertorio massonico, non alla linea della Chiesa cattolica».

Perché la rilevanza del magistero sembra inversamente proporzionale alla quantità dei pronunciamenti?

«Troppi interventi, troppe interviste, troppe parole superficiali e ambigue, troppa chiacchiera da bar. Ma tutto ciò è voluto: l’obiettivo è ridurre la Chiesa all’irrilevanza. Bergoglio è stato scelto per questo e sta portando a termine la missione».

Addirittura. Che cosa pensa della pastorale in atto sui movimenti?

«Non ne penso nulla. Bergoglio è totalmente indifferente ai movimenti, se non nella misura in cui possono intralciare i suoi progetti».

È sufficientemente nei pensieri dei vertici ecclesiali la realtà fotografata da Euromedia Research per Il Timone da cui risulta che solo il 13% degli italiani frequenta la messa domenicale?

«I vertici ecclesiali sono stati impegnati per un mese in un Sinodo inutile. C’è da aggiungere altro? Sembrano l’orchestra che suona sulla tolda del Titanic».

La crisi delle vocazioni preoccupa quanto dovrebbe?

«Vuole scherzare? Con l’eccezione di qualche vescovo e qualche bravo sacerdote, la Chiesa non se ne cura minimamente. Il Sinodo ne è la prova».

Cosa pensa del fatto che il presidente della Cei Matteo Zuppi ha criticato l’accordo tra Italia e Albania sui migranti?

«È una frecciata al governo, non stupisce. Forse sarebbe meglio se si occupasse dello stato comatoso della Chiesa, con la continua perdita di fedeli e vocazioni».

Nei suoi ultimi interventi lei afferma che siamo di fronte a una rivoluzione nella Chiesa più che a una crisi della Chiesa. Che cosa vuol dire essere controrivoluzionari?

«Ristabilire l’ordine che è stato infranto. A tutti i livelli, secondo una visione gerarchica che è propria della Chiesa e non può essere sostituita da nessun meccanismo sinodale. Prima di tutto occorre rimettere Dio al posto che gli spetta, perché i neo-modernisti lo vogliono detronizzare, per lasciare campo libero alle idee del mondo».

 

 La Verità, 11 novembre 2023

Cattelan cerca la felicità cazzeggiando

Tanti anni fa, forse troppi perché Alessandro Cattelan possa ricordarlo, c’era un gioco per bambini che si chiamava «Fuoco fuochino». Considerato il suo linguaggio pop ludico, è un gioco che all’eterno golden boy della tv italiana potrebbe piacere. Consisteva nel nascondere un oggetto e farlo trovare al rivale, guidandolo con espressioni come «acqua» «diluvio» «alto mare» quando si era distanti dal tesoro, o «fuochino» e «fuoco» se ci si stava avvicinando. In Una semplice domanda (Fremantle) su Netflix, Cattelan cerca la felicità ponendo una serie di domande e cercando risposte dialogando con persone che potremmo definire realizzate (Roberto Baggio, Paolo Sorrentino, Gianluca Vialli, Geppi Cucciari, Elio, Francesco Mandelli). L’idea non è male e il modo di realizzarla ha tratti divertenti perché la cifra di Cattelan è il cazzeggio e anche qui riesce a parlare di argomenti tosti buttandola sul ridere. A casa di Baggio (la sua malinconia), dopo essersi sottoposto a una breve seduta di meditazione buddista si fa confidare la difficoltà di ricominciare una vita dopo la fama, il successo e qualche rimpianto. La cornice sono migliaia di stampi di anatre da caccia di cui il Divin codino è collezionista. In un altro episodio Cattelan si chiede con aria compunta se «nei momenti bui possiamo davvero trovare la felicità in Dio?». E subito dopo, da ragazzo cresciuto a pane e tv, annuncia euforico: «Benvenuti a 4 religioni», un mini talent con rappresentanti dell’islam, dell’ebraismo, dell’induismo e un prete, che aggiudica il titolo di miglior religione. Dal canto suo, Sorrentino (la sua ironia) rivela che gli piace «la religione cattolica» perché è ben congegnata in quanto i divieti e le regole creano le premesse di una vita rassicurante. Poi certo, «credere in Dio è un’altra cosa». Già… Fuochino o annegamento imminente? Ma ecco «la prova Aldilà». C’è felicità nel dolore? chiede Cattelan a Vialli mentre giocano a golf, «grande metafora della vita». Da quando ha scoperto di avere il cancro, Vialli (la sua ritrovata ingenuità) ha realizzato che il tempo è molto più prezioso, che alle sue figlie vuole trasmettere ciò  che conta e che è arrivato il momento di «fare le cose che mi piacciono, lasciando perdere le stronzate». Annunciando di aver imparato la lezione, Cattelan si butta in piscina con cinque ragazze per fare la sirena con una monopinna di nylon. Fate voi… Poi, con Geppi Cucciari, si chiede se l’amore renda felici. Due le ipotesi considerate: un corso per fidanzati in vista del matrimonio in chiesa e una coppia di attori porno. Buttarla in ridere è anche un po’ buttarla in vacca?

 

La Verità, 23 marzo 2022

«Tv e giornali sono pieni di tronisti della letteratura»

Uno scrittore selvatico. Un autore che sceglie il margine. Solitario, fiero, iconoclasta. Posseduto da una furia lucida e distruttiva. Contro la religione e tutte le chiese, compresa quella dell’editoria e dei salotti letterari. La politica l’ha abbandonata svariati decenni fa. La televisione la evita. La tecnologia e i social li usa il meno possibile. Originario del Polesine, vive a Desenzano del Garda, dov’è stato a lungo bibliotecario comunale (quella biblioteca affacciata sul lago è un posto eletto). I suoi libri sono sassate, gorghi neri, storie di perversioni ordite in una cornice grottesca che svela una satira mostruosa e amara. Sto parlando di Francesco Permunian: «Ho compiuto 70 anni e non devo fare alcun esercizio di paraculaggine perché non appartengo ai tre ambiti che sostengono la produzione letteraria in Italia».

Quali sono?

«Le università, le scuole di scrittura e i media. L’emblema di queste sinergie era Umberto Eco. Anni fa Ferdinando Camon, che gentilmente aveva presentato un mio libro, mi disse che per imporsi serve un buon editore e la collaborazione con un giornale. Invece il mio istinto mi porta a starmene fuori dalla pista del circo. Se entro anch’io nella pista non posso più scrutare le maschere. Poi c’è l’orgoglio di chi è nato in un paesino tra l’Adige e il Po nel 1951, anno della grande alluvione».

Come si esprime questo orgoglio?

«Se riuscirò ad affermarmi lo farò solo per il valore della mia scrittura, della mia qualità letteraria. Questa è stata la sfida di tutta la mia vita. In un diario di Valentino Zeichen, il poeta muto della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, ho trovato questa riflessione: “In una società come l’attuale, dove tutti hanno ambizioni letterarie, che centuplica di anno in anno gli autori, la probabilità di venire letti in un futuro prossimo è pressoché nulla. Poiché il mercato suddivide la notorietà passeggera fra tanti autori, interscambiabili, è preferibile che l’eccezione non si manifesti per non essere d’intralcio”».

Cosa voleva dire?

«Zeichen viveva orgogliosamente al margine, come uno spatriato nella patria delle belle lettere. E non si manifestava per non essere d’intralcio all’andazzo letterario generale».

Il suo ultimo libro, Giorni di collera e di annientamento, pubblicato da Ponte alle grazie, è un anti-romanzo?

«È un romanzo che disobbedisce alle regole delle scuole di scrittura oggi tanto in voga: quindi, sì. Non è un ovetto confezionato secondo i loro dettami da manuale scolastico. Non è il frutto di una ferita di plastica e senza sangue, anche se tecnicamente perfetta».

Dove nasce la sua furia contro il mondo dell’editoria e la religione bislacca?

«La storia inizia e finisce con le anguane, figure palustri mostruose della mitologia. Le immaginavo nella grande palude in cui si era trasformato il Polesine dopo l’alluvione. Appartengono a quel sacco amniotico adolescenziale che mi ha influenzato psichicamente prima che letterariamente. Queste anguane, silenti nel percorso del libro, rispuntano per partecipare al sabba finale. Dalla palude del Polesine a quella dell’editoria, anch’essa popolata di mostriciattoli, il passo è breve».

E la religione?

«È l’altro bersaglio. Tuttavia, in questo libro nichilista dalla prima all’ultima pagina, c’è un barlume, un chiarore antelucano che il protagonista intravvede in lontananza, scrutando la Strada dei crocefissi che i pellegrini percorrevano a piedi nel secolo scorso. Come fece David Herbert Lawrence con la sua compagna prima di fermarsi sul Garda ad abbozzare L’amante di Lady Chatterley. È la mia idea giansenista di religione, pura e lontana dal potere clericale. Altrettanto, vorrei la letteratura immune dalla corruzione dell’editoria».

Il protagonista del libro, un crooner di provincia che vorrebbe diventare il nuovo Fred Bongusto, vince il Premio Strega cui lo iscrive il suo manager. Cosa vuole esprimere con questo corto circuito?

«La casualità e l’arbitrarietà dei premi. Roberto Vecchioni fa parte della giuria del Campiello, Walter Veltroni ne è il presidente. È l’esempio plateale di come la letteratura sia ridotta a mondanità e marketing editoriale».

Da dove ha tratto la storia di don Fifì che rinuncia alla carriera canora dopo aver vinto il premio Strega?

«Eravamo al Castello Sforzesco per la presentazione di La terra della prosa – Narratori italiani degli anni zero di Andrea Cortellessa. Con me c’era Eugenio Baroncelli, un autore molto apprezzato che pubblica da Sellerio, che m’invitò a Ravenna. Dove scoprii che era un cantante di un gruppo rock. È lui, in un certo senso, ad aver ispirato la figura del mio protagonista».

Le scuole di scrittura sono posti così meschini?

«Sono centinaia in Italia. Anche a causa dei bassi compensi dei giornali, ho diversi amici che ci lavorano per arrotondare. Non ne possono più, loro per primi vedono che è inutile. Non si diventa scrittori perché ti danno il diploma della scuola. La voce per cantare o ce l’hai o non ce l’hai. Pietro Citati diceva che la grande scrittura non si insegna, tuttalpiù si può insegnare a scrivere decorosamente».

Sbertuccia i vincitori dello Strega che diventano pastonisti dei grandi quotidiani.

«Sono la maggior parte, devono mantenere visibilità. Se lo sai gestire bene lo Strega è un’assicurazione sulla vita. Come lo Zecchino d’oro o il Festival di Sanremo».

Un editor che va a Predappio sul sidecar di fabbricazione teutonica di una naziprostituta è il peggior sberleffo alla letteratura da talk show della domenica sera?

«È una presa per il culo che manda a ramengo tutta l’intellighenzia radical chic. Io prendo in giro il potere, la politica e la religione, salvo solo la scrittura. Non mi ammorbidiscono né i salotti della sinistra né quelli che sono contro i salotti della sinistra».

Però non tutti i vincitori dello Strega sono malvagi, Emanuele Trevi elogia la sua scrittura nella fascetta promozionale del romanzo: è una contraddizione?

«No, assolutamente. Il suo apprezzamento non ha a che fare con lo Strega vinto nel 2021, Trevi è un estimatore della mia scrittura da 20 anni. Fu il primo a lodare Cronaca di un servo felice, il mio primo romanzo rifiutato da una trentina di editori. In caso di ripubblicazione si è detto pronto a scriverci un saggio».

Cosa intende per librificio?

«È la produzione sfrenata di romanzi e romanzetti. E un romanzificio, soprattutto. Le piccole editrici sono con le spalle al muro e quindi investono sulla quantità. Chi resta a galla dopo due o tre settimane viene ripubblicato, gli altri scompaiono. Vellicando il narcisismo imperante, le scuole di scrittura hanno trasformato l’editoria in un reality di massa. Come i telespettatori i lettori non vogliono più fare il pubblico, ma salire sul palco come avviene nei reality».

Che cosa pensa delle classifiche di vendita?

«Alberto Arbasino diceva che valutare la letteratura in base alle classifiche è come valutare i ristoranti in base al numero dei coperti. Vincerebbe sempre un Motel Agip dell’autostrada».

Sono farcite di volti tv e di autori del giornalismo militante?

«È il trionfo del fazismo di massa, di cui i tronisti della letteratura sono i corifei. È la società di massa delle lettere».

Un dispositivo indistruttibile?

«Gli editori non sono benefattori, ma imprenditori che devono far quadrare i conti. È inutile arrabbiarsi. Se incassano con i libri di cantanti calciatori e giocolieri, poi magari riescono a pubblicare qualche buon romanzo. Ma non tutti sono Roberto Calasso o Elvira Sellerio che combinavano la qualità con il bilancio».

Mischiando devozioni e perversioni la sua farsa tocca i vertici del grottesco?

«Se guardiamo agli scandali degli ultimi anni, non mi pare di aver inventato nulla. La Chiesa è devastata dalla pedofilia ed è un miracolo che Cristo riesca ancora a tenere in piedi la cattedra di San Pietro. Poi c’è una cosa più sottile: l’ipocrisia del perbenismo cattolico, il quieto vivere piccolo borghese che riduce il messaggio a pratica devozionale. È difficile da smascherare. Io osservo da fuori anche questo spettacolo, forse il più bello e potente, una macchina di potere, preghiere e grida infernali».

Preti stravaganti, prostitute naziste, dentisti sposati con bambole di plastica: è così infernale la provincia?

«È la mia percezione. Rendo tutto paradossale e parodistico per far deflagrare quei personaggi, che altrimenti diventerebbero macchiette».

Non rischiano di esserlo già?

«Il prossimo lavoro sarà intitolato I demoni beati, da una frase di Gottfried Benn, contenuta nel suo saggio Invecchiare come problema per artisti. E sarà ancora peggio! Alzando al massimo il voltaggio rischi infatti di stonare, ma è un rischio da correre».

Nella sua opera, si sente in sottofondo una risata mostruosa e disperata.

«Onestamente è così. Il nichilismo passa per la lotta con il demone, per la paura d’impazzire. Sono le ossessioni con cui devo fare i conti. Uso la scrittura come terapia. Perciò la mia è una letteratura di sopravvivenza, di vita e di morte».

Per l’uomo contemporaneo la salvezza viene dalla tecnologia e dalla finanza.

«Sono cose estranee al mio mondo. Ho altre ossessioni, leggo poesie e diari. La tecnologia e i social li frequento il minimo indispensabile, con l’aiuto di mia figlia. Resto nel sacco amniotico della mia provincia».

Dal quale evade con internet.

«Certo. Oggi, per esempio, ho saputo che nel 2023 l’editore Francisco Magallanes di Buenos Aires pubblicherà il mio libro».

 

La Verità, 6 novembre 2021

«Noi siamo romantici, ma Instagram ci inganna»

Confortevole e conformista, ma con un grande avvenire davanti. Però non è chiaro se dobbiamo rallegrarcene o no: perché il più attraente dei social, il più cool, nel verbo dei suoi adepti, oltre un miliardo, un po’ ci ruba l’anima. Ci seduce e banalizza, ma anche ci educa. E quindi difficile emettere una sentenza univoca. Lasciando perdere Tik Tok, prateria per adolescenti, Instagram è l’avanguardia, la frontiera del meglio, il club delle élite. A svelarne tutti i segreti è da poco in libreria Instagram al tramonto (La nave di Teseo), ultimo saggio di Paolo Landi, autorevole advisor di comunicazione che ha lavorato a lungo per Benetton e oggi cura l’immagine di Bologna fiere, Ovs e numerosi altri marchi. Nel 2006 il suo Volevo dirti che è lei che guarda te – La televisione spiegata a un bambino, pubblicato da Bompiani con prefazione di Beppe Grillo, preconizzava il declino della vecchia tv. Ora questo Instagram al tramonto è talmente anticipatore da risultare controintuitivo.

Quando l’ho visto in libreria mi ci sono tuffato.

«Pensi che il titolo originario era Instagram spiegato alla Ferragni».

Non male neanche questo.

«Già, ma avrebbe potuto risultare presuntuoso».

Perché Instagram al tramonto?

«È un titolo volutamente ambiguo. All’imbrunire, mentre si torna dal lavoro o si è da poco arrivati a casa, Instagram registra il picco di like perché tutti fotografano tramonti».

Il picco deriva dall’orario o dal soggetto?

«Le due cose coincidono. Al tramonto si postano suggestive foto di tramonti. A quell’ora Instagram è molto frequentato».

Instagrammer romantici?

«Molto, si direbbe».

Come Volevo dirti che è lei che guarda te anche questo saggio smonta la nostra illusione di essere protagonisti mentre siamo manovrati, orientati, addomesticati?

«Crediamo di usare un mezzo liberamente e invece ne siamo usati. Nel libro del 2006 intuivo che la televisione sarebbe stata superata da altri media. Instagram ha futuro, anche se potrebbero esserci evoluzioni e mutamenti».

Niente tramonto, quindi?

«Mi sembra presto, siamo ancora nella fase ascendente. Pochi anni fa Avatar, un film su Second life, fece il record d’incassi e sembrava che tutti dovessimo avere un alter ego virtuale. Oggi chi parla più di avatar? Credo che con Instagram dovremo fare i conti ancora per un po’».

Che vantaggio ne trarremo?

«Lo capiremo meglio più avanti. A un certo punto al cervello umano non son più bastate la scrittura e la televisione, la letteratura e il cinema, e ha ideato un modo di comunicare più veloce e istantaneo. Mi chiedo che cosa cerchiamo con queste innovazioni? Come le altre invenzioni hanno migliorato la nostra vita, spero che anche i social la migliorino».

Instagram sta per?

«Fonde i concetti di instant camera e telegram: un’immagine veloce pubblicata sul momento».

Il social dell’attimo fuggente?

«Il primato dell’istante».

Senza memoria?

«La sua forza è l’immagine usa e getta. Quando arriva un post nuovo quello precedente non si guarda più. Dopo 24 ore le storie si cancellano».

Niente archivio?

«Non si ritrova nulla. L’altro giorno avevo letto una frase che diceva… Un attimo che la cerco… L’avevo vista proprio su Instagram e adesso – a proposito di archivio inesistente – non riesco a ritrovarla. Eccola su Google: “Non dialogare mai con un idiota perché ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza”. È Instagram».

Si dice «siamo» e non stiamo su Instagram o su Twitter: i social ci fanno essere e se non ci sei non sei?

«Ci costringono a essere qualcuno e ad avere un’identità».

Non esistono la contraddizione e il contrasto: in tempi in cui si parla molto di odio e di haters è un fatto positivo?

«Direi di sì, è un social borghese. Non mi pare che gli haters aiutino a illuminare il dibattito politico o sociale».

Invece Instagram è educato?

«Più di Twitter certamente. Anche se alcuni profili cattolici attirano odiatori e i commenti sono pieni di bestemmie».

Con il cristianesimo perde il suo aplomb?

«È un fenomeno strano. Sui profili dei testimoni di Geova o del Dalai Lama non è così. Solo la religione cattolica attira aggressività e blasfemia. È difficile capire le cause, il cattolicesimo innesca la bestemmia, che invece non esiste nelle religiosità orientali».

Perché sono più di moda?

«Le star di Hollywood non le vedo a recitare il rosario, mentre partecipano ai riti buddhisti tibetani. Forse è anche una forma di provincialismo, non so cosa c’entriamo noi italiani con il Dalai Lama».

Cosa vuol dire che Instagram «rende metafisica l’economia, la spiritualizza»?

«Per esempio omologa tutte le professioni. Un parrucchiere, un dogsitter, un avvocato, un blogger e un promotore finanziario sono tutti sullo stesso piano. Se il lavoro perde potere di distinzione siamo in un sistema economico diverso da quello vissuto finora. Il lavoro è dematerializzato».

Un social del superfluo?

«Tutto scorre in superficie, rapporti umani compresi. Ma la visione che dai di te stesso non è veritiera».

Non è troppo definire l’economia digitale la rivoluzione industriale del XXI secolo?

«Siamo ancora in una stagione pionieristica, non sappiamo bene cosa ci aspetta. Convivono le generazioni che hanno assistito al cambiamento e i nativi digitali. Possiamo intuire che il lavoro cambierà e cambierà anche il rapporto con i beni di consumo, dei quali ci si può appropriare molto facilmente. Se ti piace un abito, vai sul profilo di un influencer e lo compri pagandolo con lo smartphone, senza bisogno di strisciare la carta di credito».

Gli influencer cambiano il concetto di tempo, di prestazione d’opera e di competenza?

«Mentre tutti giocavano con i like, loro hanno capito che potevano fare i soldi, Chiara Ferragni per prima. Le modelle andavano nello studio fotografico, si vestivano, si truccavano, destinavano il loro tempo a quell’occupazione. L’influencer è insieme pienamente ozioso e pienamente occupato. È sé stesso quando si veste, viaggia, sorseggia un vino, indossa un orologio. La competenza non è richiesta, forse è utile un po’ di gusto. Anzi, molti non hanno nemmeno quello, cosa c’è di più opinabile del gusto?».

Dietro l’apparenza patinata si nasconde l’ipermercato di un capitalismo più sfumato e invasivo?

«È un ipermercato che vende merci ed emozioni insieme. Se clicchi su un bel tramonto spunta il resort dal quale goderselo, se clicchi sul sorriso di un bambino ecco il più soffice dei pannolini. Instagram fonde emozioni e merci e le vende insieme».

Anche gli spot lo fanno.

«Con gli spot guardi, ma non partecipi. Persuasione e acquisto sono due atti distinti. Su Instagram clicchi sul tramonto e compri subito la vacanza».

Perché non è ancora stato conquistato dalla politica?

«Perché non è adatto. La politica viaggia su Twitter perché richiede sarcasmo, intuitività, vis polemica. Instagram è soprattutto immagine e l’immagine dei politici non è così accattivante».

Riflettendo sui social, finora si è parlato di narcisismo ed esibizionismo. Perché lei insiste sullo snobismo?

«Si mettono i like per entrare in un club che non ci appartiene. È un meccanismo di ascesa sociale, se sono un tifoso di calcio vorrei che Ronaldo mi mettesse il cuoricino. Invece, anche se accadesse, non sarebbe di certo lui a farlo, ma chi cura il suo profilo. Instagram mantiene distinte le classi sociali».

A forza di consumare continuamente, l’unica cosa che consumiamo è Instagram stesso?

«La sua grande raffinatezza è di essere un prodotto, un brand. Come la Playstation. Crediamo di goderci le foto dei nostri amici, invece in quel momento qualcuno ci profila e ci inserisce in un database».

È il social più conformista e omologante?

«Mentre ti illude di essere libero di postare le foto che ti piacciono ti uniforma. E finisci per postare le foto che postano tutti. Di sera i tramonti, in spiaggia i piedi, quando ci si fa i selfie le linguacce. Instagram è un propulsore di conformismo».

L’ultimo dei 15 screenshot fotografati da Oliviero Toscani è il suo.

«Ci sono dentro in modo critico».

Pentito?

«No, ma medito di uscire».

Quindi è pentito?

«Se vivi nella contemporaneità devi usare ciò che la contemporaneità ti offre. Non demonizzo Instagram e non biasimo chi ama esserci, ma mi piace farne un uso consapevole. Mi chiedo chi sarà la nuova classe dirigente: la massa che sta lì a postare tramonti o qualcun altro? L’élite del futuro emergerà dagli Instagrammer o da qualche altra cosa che ancora non sappiamo? È un fenomeno massificante, ma finora tutti i media hanno favorito il progresso dalla specie umana».

Io continuo a diffidare, se ci si pensa un attimo prima di postare un’opinione o un sentimento alla fine non si posta. Le cose preziose restano fuori.

«Le cose che ritenevamo preziose, la pancia di tua moglie incinta, il neonato, sono corrotte dalle immagini che mettiamo su Instagram. Le custodivamo nel privato e ora sono schiaffate davanti a milioni di persone. Instagram appartiene al nostro tempo, ma non è obbligatorio».

Ce la faremo? O vincerà l’omologazione?

«È difficile capire come finirà. È come se Instagram ci educasse ad avere una dimestichezza digitale. Penso che alla fine ci sarà qualcuno che dirà che il gioco è finito e adesso fate quello che dovete fare, cioè comprare. Secondo me si arriverà a un sistema più raffinato di domanda e offerta dei bisogni. Indotti o meno».

 

La Verità, 15 dicembre 2019

 

«La casta dei chierici che negano Dio»

Un filosofo al telefono. Un filosofo che vola alto, ma si rende accessibile. Il colloquio con Sergio Givone, docente di Estetica all’Università degli Studi di Firenze, è la metafora di qualcosa o qualcuno, lontano, che azzera le distanze e si fa prossimo. 74 anni, cattolico, studioso del nichilismo e di Fëdor Dostoevskij, allievo di Luigi Pareyson e scrittore, Givone ha appena pubblicato da Solferino Quant’è vero Dio (sottotitolo: Perché non possiamo fare a meno della religione), un saggio nel quale sostiene che la religione è necessaria e che, poco alla volta, il mondo contemporaneo, intellettuali a parte, se ne sta accorgendo. Il titolo del libro un po’ inganna perché, pur tratto da un’espressione comune, nasconde riflessioni elevate.

Fin troppo, professore?

«È altissimo l’argomento: parliamo di Dio, dell’essenza della religione. Ma spero che sia anche basso, nel senso che ci riguarda tutti perché riguarda la vita dell’uomo. Se le altezze restano astratte sono inutili».

Da qualche parte ho letto che avrebbe voluto diventare scrittore: com’è finito a fare il filosofo?

«Qualche romanzo l’ho scritto… Sono arrivato alla filosofia passando dalla letteratura, greca in particolare. Al liceo di Vercelli ebbi la fortuna di avere come professore Dario Del Corno, poi tra i maggiori grecisti del secondo Novecento. Fu lui a mostrarmi come i grandi problemi della filosofia fossero immersi nella grande letteratura. Fare lo scrittore doveva servire ad affrontare i temi della vita. Sono diventato filosofo non per occuparmi di dispute astratte, ma delle problematiche dell’esistenza».

Oggi gli scrittori sono star della comunicazione.

«In qualche caso. Personalmente, non cercavo una via più gratificante per incontrare il pubblico, ma le risposte alla domanda su “che senso ha ciò che ci sta capitando?”. Ero convinto che questo senso si potesse rintracciare nelle storie vissute e narrate. Così, mi sono lasciato guidare dalla letteratura come luogo altamente problematico».

Com’era quella di Dostoevskij?

«È sempre stato qualcuno con cui dialogare. Dostoevskij ripeteva di non essere filosofo, ma tutta la filosofia russa successiva prende le mosse dal suo pensiero».

A cominciare dalla sua Leggenda dell’Inquisitore e poi dal Racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, con quel dialogo tra l’imperatore e lo starets.

«E non solo quello. Tutta l’opera di Nikolaj Berdjaev e di Solov’ëv deriva da Dostoevskij».

Il titolo del suo ultimo libro, Quant’è vero Dio, cita un’espressione che si usava come rafforzativo di un’affermazione o di una minaccia di una sanzione verso un figlio disobbediente.

«I nostri genitori volevano responsabilizzare il nostro agire. Ma quell’espressione significa anche che Dio o è in rapporto stretto con la verità oppure non è. Se non è tutt’uno con la verità, Dio è un fantasma, un’invenzione per placare l’angoscia della morte. Se invece è tutt’uno con la verità, la vita diventa seria».

Proprio Dostoevskij però diceva che tra Gesù Cristo e la verità avrebbe scelto Gesù Cristo.

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