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«Foa chiuso dalla Rai perché privo di affiliazioni»

Luca Ricolfi è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, insegna Analisi dei dati all’università di Torino ed è stato collaboratore di Giù la maschera su Radio 1 ideato e condotto dall’ex presidente della Rai Marcello Foa.
Professore, che cosa pensa della chiusura del programma?
«Sono sconcertato, non ne capisco le ragioni. Ma l’aspetto più inquietante è il silenzio che è immediatamente calato sulla vicenda. Nessuna spiegazione da parte dei vertici aziendali, nessuna presa di posizione pubblica da parte del mondo politico. Come già accadde nel caso del professor Marco Bassani, punito dall’Università per un tweet politicamente scorretto, la solidarietà verso il censurato arriva solo per vie private, da colleghi o amici che, però, di prendere una posizione pubblica non se la sentono proprio. Possiamo leggere tutto questo come indice di vigliaccheria, conformismo, opportunismo. Ma come sociologo mi sembra di poter dire che la radice non è individuale – ognuno fa i conti con la dotazione di coraggio e indipendenza di cui dispone – ma sociale: negli ultimi 5-6 anni, complice il Covid e due guerre drammatiche, nelle nostre civilissime società democratiche si è instaurato un clima di intimidazione e di paura che ci rende tutti più prudenti, timorosi di assumere posizioni che qualcuno potrebbe giudicare inaccettabili, con conseguente emarginazione di chi le professa. Anche in una cena privata, siamo tutti più guardinghi di un tempo. E se ci invitano a firmare un appello, troviamo difficile sottrarci, perché il clima è intimidatorio e manicheo».

Lei è stato tra gli opinionisti fissi del programma: ha interrotto la collaborazione perché si era trovato male?

«Assolutamente no, mi ero trovato benissimo, il mio ritiro è stato dovuto soltanto a ragioni personali, di scarsa compatibilità con altri impegni.

Che cosa apprezzava di più e cosa di meno del programma?

«Due cose apprezzavo più di altre. La prima è che, pur avendo a disposizione un’ora di tempo, Foa non è mai caduto nella tentazione del <minestrone> di argomenti, come fanno tanti programmi. E sa come mai poteva reggere un’intera ora su un unico argomento? Perché dietro quell’ora c’era tantissimo lavoro dello staff – Nancy Squitieri, Mauro Convertito e altri – che permetteva al conduttore di approfondire il tema, anziché toccarlo superficialmente per poi passare ad altro. Senza contare il valore aggiunto della sondaggista Alessandra Ghisleri, una miniera di informazioni sugli atteggiamenti della popolazione. La seconda cosa che apprezzavo è la scelta dei temi, compresi i tre tabù di questi anni: Covid, Ucraina, Gaza (per non parlare dei tabù minori come Vannacci e l’annullamento delle elezioni in Romania. Ora che ci penso, forse è questo che è stato fatale al programma. Perché Giù la maschera non solo non evitava gli argomenti tabù, ma li affrontava senza la pretesa di indicare il punto di vista corretto».

Mentre collaborava, e anche dopo se ha continuato a seguirlo, immaginava che avrebbe potuto incontrare degli ostacoli?

«Non mi è mai venuto in mente, il programma era ok e Foa un ex presidente Rai».

Cosa pensa del fatto che i dirigenti della Rai non abbiano spiegato all’interessato il motivo della decisione?

«Non mi stupisce, a me sono capitate cose consimili: quando il tuo interlocutore non vuole darti retta, preferisce sparire piuttosto che dire dei no espliciti. È il classico mix italiano di maleducazione, sciatteria, superficialità. Però il caso di Foa va oltre, perché è stato presidente della Rai. Liquidarlo senza una parola è un gesto di arroganza che la dice lunga sui tempi che vive la tv pubblica. E pure sui tempi che viviamo in generale: succede anche all’università, quando un professore sta per andare in pensione – e quindi non conterà più nulla nei concorsi – spesso la deferenza si tramuta repentinamente in indifferenza».

Foa dice che il programma è stato chiuso perché troppo indipendente, concorda?

«Temo che la ragione sia più sottile: non è il suo programma ad essere troppo indipendente, è lui che è troppo libero. Può sembrare la stessa cosa, ma non lo è. Il problema di Foa è che non è organico né alla destra né alla sinistra, e quindi non ha la protezione che deriva dall’appartenenza. Penso che se avesse avuto una affiliazione, non importa se a destra o a sinistra, il suo programma sarebbe stato difeso con le unghie e con i denti».

Disturbava poteri e ambienti che non potevano tollerarlo?

«Non più di altri scrittori, studiosi o conduttori tv. Il nodo non sono le sue idee, ma la non affiliazione, la non organicità. Possiamo mettere la cosa anche in altro modo. Prendiamo il caso dell’Ucraina. Posizioni anti-occidentali, o ben lontane dalla fedeltà atlantica, sono state più volte espresse anche da persone di sinistra: Massimo Cacciari e Luciana Castellina, ad esempio. Ma nessuno li ha mai lapidati con l’accusa di putinismo, che invece implacabilmente colpisce tanti altri».

Perché?

«Ma è semplice: perché sono dei nostri, appartengono alla cerchia dei progressisti, la loro fede democratica è fuori discussione. Quindi possono dire quel che vogliono, nessuno li accuserà di alcunché. Se invece le stesse cose o cose consimili le dice, o permette che vengano dette, una persona di destra, o accusata di sovranismo, o semplicemente non schierata, scatta la demonizzazione. Che rimane relativamente sopportabile se quella persona ha una contro-appartenenza (ad esempio è iscritta alla Lega, o a Fratelli d’Italia), ma diventa un macigno se quella persona non ha una cerchia che la protegge. Detto brutalmente: nel clima attuale, essere liberi è molto più pericoloso che essere di destra».

Condivide la riflessione di Foa quando dice che poteva aspettarsi un trattamento di questo tipo da una Rai con una dirigenza di sinistra ma non da una Rai con una governance di destra?

«No, su questo la penso diversamente. Non credo che, sul piano culturale, la destra sia più liberale della sinistra. Semmai è meno organizzata, e ha meno truppe».

TeleMeloni, ammesso che ci sia visto che rinnova poco rispetto alle gestioni precedenti, fa notizia perché cancella un irregolare di destra?

«La notizia sarà già sparita dai radar quando questa intervista verrà stampata».

Hanno ragione quegli osservatori che si aspettavano un cambio di passo più netto nella gestione della tv pubblica?

«Direi di no. Quegli osservatori hanno confuso le loro speranze con la realtà».

A suo avviso, questa vicenda è sintomo di qualcosa di più generale?

«Sì, ma è qualcosa di generico e composito: l’arroganza del potere, il disprezzo per la cultura, forse anche il ricambio generazionale negli enti pubblici. Tutte cose di cui la trasmissione Giù la maschera non è l’unica vittima».

Nella gestione dei fondi ministeriali del cinema e nella direzione di alcuni enti culturali qualche segnale di novità si inizia a vedere. È ancora troppo poco?

«È ancora troppo poco, ma è comunque un inizio. Del resto fare peggio del centrosinistra era quasi impossibile».

Alcuni commentatori hanno apprezzato il discorso tenuto da Giorgia Meloni al Meeting di Rimini, qualcun altro ha osservato che il premier è più efficace quando parla di quando opera in concreto. Lei che cosa ne pensa?

«Penso che Giorgia Meloni sia altrettanto efficace quando parla davanti a un grande pubblico e quando agisce. Semmai il problema è che i media si occupano molto di quel che dice, pochissimo di quel che fa. Specie se quel che fa è poco spettacolarizzabile, come i primi passi del piano Mattei, o le innumerevoli micro-misure in campo economico-sociale».
Nel contesto di apparati e burocrazie anche internazionali controllati dalla sinistra, bisogna concedere a questo governo un margine di tempo maggiore perché possa essere incisivo?

«Sì, 5 anni non bastano. Ma il problema non sono solo gli apparati e le burocrazie internazionali controllate dalla sinistra, c’è anche il problema delle piccole guerre fra alleati di governo, lo stillicidio di polemiche minori senza che emerga in modo chiaro qual è il disegno del centrodestra, quali sono gli ostacoli da superare, quali sono gli obiettivi realistici».

Se dovesse dare un consiglio non richiesto a questo governo che cosa suggerirebbe?

«Di non nascondere o negare quel che ancora non è stato fatto, e di usare precisamente il non-fatto per chiedere un secondo mandato. Come fece a suo tempo – con successo – il premier riformista Tony Blair».

 

La Verità, 31 agosto 2025

«A forza d’includere tutti ci siamo esclusi noi»

Maneggiando magistralmente il bisturi della ragione, nel suo nuovo saggio Il follemente corretto (La Nave di Teseo), Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, viviseziona la nuova patologia contemporanea: «l’inclusione che esclude» e ha portato all’«ascesa della nuova élite».

Professore, il «follemente» del titolo è sinonimo di eccentricità o di vero impazzimento, come se vivessimo in una distopia dolce?

È vero impazzimento, purtroppo, ma la distopia che ne è venuta fuori non è affatto dolce. Il follemente corretto ha le sue vittime: la libertà di espressione, le donne, i ceti popolari.

Le propongo un gioco: se dovesse comporre il podio delle follie corrette nelle quali si è imbattuto a chi assegnerebbe i tre posti?

Mi mette in imbarazzo, perché di follie clamorose ce ne sono almeno 10-15, su 42 episodi selezionati. L’eventuale graduatoria dipende dal criterio. Se ci interessa il grado di demenzialità, segnalerei (1) la proibizione di salutare con il «care signore e cari signori» (per non escludere chi non si sente né maschio né femmina), (2) la censura di espressioni come «elefante-nano» e «l’evoluzione è cieca» (per non offendere nani e ciechi), (3) il regolamento dell’università di Trento che obbliga a declinare tutti i ruoli al femminile. Se invece ci interessa l’impatto sociale, ovvero la capacità di opprimere o discriminare, segnalerei  (1) l’invasione degli spazi femminili  nelle carceri e nello sport (2) le persecuzioni delle donne gender-critical, (3) le discriminazioni nei confronti dei bianchi eterosessuali nelle università e più in generale nelle politiche di assunzione.

Il follemente corretto è una fenomenologia o un’ideologia, aggiornamento del progressismo?

Il follemente corretto è tante cose, ma fondamentalmente è una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali. In un certo senso è un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime. Ne abbiamo avuto un esempio recente, quando l’assessore alla cultura del comune di Livorno, Simone Lenzi, è stato sottoposto alla gogna e costretto alle dimissioni per alcuni post ironici sugli aspetti più ridicoli della dottrina woke. Il sindaco che l’ha licenziato ha illustrato in modo mirabile che cos’è il bullismo etico: ti caccio e ti punisco per mostrare a tutti la mia superiore moralità.

Com’è capitato che l’eguaglianza, stella polare della sinistra, sia stata sostituita dall’inclusione?

La storia di questa metamorfosi non è mai stata ricostruita accuratamente. Se guardiamo alla teoria, direi che un contributo importante l’ha dato Alessandro Pizzorno, uno dei più illustri sociologi italiani, che a metà anni ’90 ha esplicitamente proposto la sostituzione della coppia uguaglianza/disuguaglianza con la coppia inclusione/esclusione. La sua idea, energicamente e saggiamente contrastata da Bobbio, era che – con la nuova coppia – sarebbe diventato più facile per la sinistra presentarsi come paladina del bene, perché pro-inclusione, e bollare la destra come incarnazione del male, perché pro-esclusione.

È l’unica molla di questa metamorfosi?

No, se guardiamo ai meccanismi sociali, la spiegazione più convincente è di natura economica: le battaglie sui diritti delle minoranze sessuali hanno costi bassissimi perché – a differenza di quelle per l’eguaglianza – non richiedono di cambiare la distribuzione del reddito, e in compenso permettono di reclutare chiunque, perché a tutti piace sentirsi dalla parte del bene. Tutto questo è diventato tanto più vero dopo il 2010, quando l’esplosione dei social ha permesso davvero a tutti di partecipare al concorso di bontà e ai riti di lapidazione del dissenso con cui i buoni rafforzano la propria autostima. Un processo magistralmente ricostruito da Jonathan Haidt ne La generazione ansiosa.

Perché, in un certo senso, la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi è stata un momento di svolta nell’espressione del follemente corretto?

Per almeno due ragioni. Primo, perché ha sancito il disprezzo delle élite che controllano le istituzioni per i sentimenti del pubblico, che ovviamente non poteva essere tutto pro-woke e pro-gender. Secondo, perché ha portato anche dentro lo sport una tendenza da anni presente nell’arte, ovvero l’ambizione di indottrinare il pubblico. Con la scusa della «sensibilizzazione», da anni la letteratura sta facendo prevalere i messaggi etico-pedagogici sulla qualità artistica. Dopo Parigi sappiamo che analoga opera di snaturamento è destinata a colpire lo sport.

Chi maneggia la neolingua sono docenti, magistrati, operatori dell’industria culturale, giornalisti: in forza di cosa un’élite vuole pilotare il linguaggio comune?

In forza del suo potere e, soprattutto, della propria autoriproduzione. Esattamente come succede con la burocrazia, che proprio attraverso l’uso di una lingua specializzata e esoterica riproduce sé stessa e si immunizza rispetto a qualsiasi potere esterno. Ne sanno qualcosa i politici, i cui piani sono spesso vanificati o deviati dal controllo che i burocrati esercitano sulle procedure.

Perché siamo così preoccupati che le comunità musulmane si offendano se a scuola si fa il presepio?

Perché siamo malati di eccesso di zelo e sottovalutiamo il buon senso di tanti musulmani.

Che cosa ha causato l’inimicizia che si è instaurata fra i rappresentanti del mondo transessuale e il femminismo storico?

La prepotenza del mondo trans, o meglio delle lobby che lo hanno monopolizzato.

I casi del ministro Eugenia Roccella e dei giornalisti Maurizio Molinari e David Parenzo ai quali, in occasioni diverse, è stato impedito di presentare un libro o di parlare in università, mostrano che certi custodi del correttismo scarseggiano di basi democratiche?

Il vizietto di non lasciar parlare gli altri è, da sempre, la tentazione dell’estrema sinistra, anche quando non era woke.

Nella Carmen di Leo Muscato al Maggio fiorentino del 2018 la gitana ammazza don José perché non si perpetri un altro femminicidio. Il maschicidio è meno grave?

Agli occhi dei cultori del follemente corretto sì, a quanto pare.

Perché, come evidenziato dal silenzio sul caso di Saman Abbas, la ragazza uccisa per aver rifiutato di sposare il prescelto dal padre, le femministe tacciono sulla grave subalternità delle donne arabe?

Perché le femministe hanno riflessi condizionati di sinistra, e la sinistra – almeno dai tempi di Bettino Craxi – ha un occhio di riguardo per il mondo islamico.

Come si spiega il silenzio delle sigle femministe sulla partecipazione della pugile intersessuale Imane Khelif al torneo femminile di boxe delle ultime Olimpiadi?

Veramente qualche femminista, per esempio Marina Terragni e il suo gruppo, non è stata in silenzio. Ma la realtà è che il femminismo classico boccheggia, sopraffatto dal cosiddetto femminismo intersezionale.

Perché si attribuiscono al patriarcato tante violenze contro le donne se il principio d’autorità e la figura del padre sono da anni realtà in via d’estinzione?

Perché uno dei tratti distintivi di larghe porzioni del femminismo è la pigrizia intellettuale, in parte dovuta alla mancanza di strumenti sociologici di tipo analitico.

Individuare la causa sbagliata della violenza sulle donne implica che tante energie per la loro difesa sono sprecate?

In realtà, una spiegazione non fumosa e non ideologica della violenza sulle donne non esiste ancora.

Che cosa pensa della «lotta agli stereotipi» espressa dal pullulare di «mammi» negli spot pubblicitari?

Mi diverte molto, ma è un segnale che mette a nudo il conformismo dei creativi.

Perché chi va a vivere in un paesino di montagna rinuncia alla spiaggia vicina, ma molti omosessuali maschi vorrebbero piegare la legge al loro presunto diritto di avere figli?

Perché il rifiuto di ogni limite, quello che i greci chiamavano hybris, è il tratto fondamentale del nostro tempo. Un tratto che, combinato con la cultura dei diritti, genera rivendicazioni surreali; penso alla coppia gay che si sente discriminata perché nata senza utero.

Il diffondersi della cultura woke negli Stati Uniti assomiglia a una nuova forma di maccartismo?

Sì, sono simili, ma è come paragonare una tigre a un gatto: il wokismo è un maccartismo al cubo.

Perché la destra fatica a organizzare una resistenza efficace al follemente corretto?

Perché la destra è minoranza nelle istituzioni fondamentali: magistratura, quotidiani, università, scuole, case editrici, associazioni e fondazioni più o meno benefiche.

Il follemente corretto ha punti deboli che ne causeranno il declino o diventerà la religione del futuro?

Il follemente corretto dà già segni di declino, specie negli Stati Uniti. I suoi punti deboli sono l’incoerenza logica e il fatto che toglie voti alla sinistra. Kamala Harris l’ha capito, Elly Schlein no. O non ancora?

 

Panorama, 23 ottobre 2024

«La sinistra mi ha cacciato perché non sa più ridere»

Quello di Simone Lenzi, l’assessore alla Cultura di Livorno che si è dimesso a causa di un paio di post su X che hanno provocato la sconfessione del sindaco Pd Luca Salvetti, anziché spegnersi come una querelle di periferia, sta diventando, man mano che passano i giorni, uno di quei casi rivelatori di una patologia profonda. Ovvero: la mancanza di libertà di critica nella quale è precipitata una certa sinistra. In questa vicenda, l’ipocrisia è condita da un linguaggio distorto e da accuse fasulle di omofobia e transfobia. Che, letteralmente, significherebbero paura degli omosessuali e dei transessuali. Trattandosi poi di Livorno, la città dove nel 1921 fu fondato il Partito comunista italiano, la faccenda assume anche contorni simbolici. Andiamo, però, con ordine, dando la parola a un divertito Lenzi. Scrittore riconosciuto, sceneggiatore, front-man dei Virginiana Miller, rock band con un discreto seguito, e autore di canzoni, una delle quali (Tutti i santi giorni) vinse nel 2013 il David di Donatello come miglior brano originale del film omonimo di Paolo Virzì, per altro derivato da un suo romanzo.
La polemica non cessa: se l’è presa anche con Pierluigi Bersani, santone intoccabile della sinistra-sinistra.
«Ma no, non me la sono presa con Bersani… Solo che ha fatto un post sul libro di Piero Marrazzo riconoscendo che a volte si è più duri con chi si prende delle libertà sessuali che con chi ruba all’Inps. Naturalmente sono d’accordo con lui. Però gli ho fatto notare che non sono stati fatti grandi passi verso il pluralismo visto che il sindaco di Livorno, appoggiato dalla maggioranza Pd, mi ha fatto fuori per un commento estetico su una statua della Biennale d’arte contemporanea».
La stupisce che la accostino a Piero Marrazzo sebbene la sua vicenda sia parecchio diversa?
(Ride) «Personalmente, mi sono limitato a un commento estetico su una statua che giudicavo molto didascalica e, come tutta l’arte didascalica, profondamente noiosa».
Riavvolgiamo il nastro dall’inizio: lei si è dimesso o è stato fatto dimettere?
«Mi è stato chiesto di dimettermi e, per evitare al sindaco di rischiare una mozione di sfiducia, gli ho consegnato le mie dimissioni. Ho sempre pensato che il bene pubblico venga prima di quello privato».
Il motivo è il post contro la vignetta di Natangelo sul Fatto quotidiano sul massacro del 7 ottobre ordito da Hamas o sono i post precedenti, definiti transfobici?
«Quello contro la vignetta ha scatenato tutto. Poi sono andati a frugare nella timeline di X e hanno trovato cose vecchie per impacchettare il dossier».
Aveva scritto: «Ho uno champagne in frigo, pronto per quando chiuderà, sommersa dai debiti, la fogna del @fattoquotidiano, laboratorio di abiezione morale, allevamento di trogloditi, verminaio del nulla». Un po’ forte, lo riscriverebbe?
(Ride) «Visto che ha prodotto il mio licenziamento, magari no».
Sperava in un po’ più d’ironia dei suoi interlocutori?
«La cosa che più mi dispiace, non tanto per questo ma per gli altri post, è il fatto che la sinistra abbia smarrito la capacità di prendersi in giro, che era la sua più grande forza».
Si potrebbe pensare che lei sia scomodo in un momento in cui si lavora alla nascita del campo largo?
«Credo che lei sopravvaluti la mia influenza. Se poi me lo chiede, a me il campo largo non piace».
Questo mi era chiaro. Invece Elly Schlein le piace?
«Domanda tosta. È molto pop, come lo era Matteo Renzi ai suoi tempi. Ci sa fare. Resta però ancora indefinito quale popolo rappresenti».
Perché sono andati a ripescare il post in cui criticava la statua della Biennale che raffigura una donna con il pisello?
«Perché volevano costruire il dossier per procedere alla character assassination: prendi uno e lo metti alla gogna».
Sotto quella statua c’era una didascalia lapidaria: woman.
«Non mi piace l’arte che ti dice come devi pensarla su qualunque tema, non solo su questo».
Quell’unica parola era la provocazione?
«Infatti, ho scritto che non sono il borghese scandalizzato, ma il borghese annoiato da questa pedagogia».
Fobia significa paura e l’accusano di transfobia e omofobia: ha paura di trans e omosessuali?
«L’accusa di omofobia è assolutamente cretina, ma pure quella di transfobia. Perché: a) non ho paura di nulla; b) sono liberale e libertario e per me ogni adulto può fare ciò che vuole del proprio corpo».
A volte dando dell’omofobo si vuol dire che si odiano gli omosessuali: lei li odia?
«Assolutamente no».
Possibile che il sindaco Salvetti e Irene Galletti, capogruppo alla regione Toscana del M5s, non abbiano colto la sua autoironia sulle 28 identità sessuali?
«Infatti. A 56 anni provo sollievo nel non dovermi identificare in qualcuna di quelle 28 categorie. M’interessa più la buona cucina, ormai».
Livorno è sempre la città del Vernacoliere?
«Evidentemente non più».
È la città di Paolo Virzì e dei film in cui sbertuccia lo snobismo della sinistra?
«Speravo lo fosse ancora. Il problema è che quando prendi tutto sul serio, passa il bambino e dice “il re è nudo”. Ringrazio per la solidarietà Virzì, esponente di una sinistra che sa ancora prendersi in giro».
Nella lettera di dimissioni ha scritto che «alla sinistra, che avevo visto fin qui come la roccaforte di ogni libertà, della libertà autentica non interessa affatto». Giudizio pesante.
«Sì. Per sintetizzare ho coniato l’espressione “narcisismo etico”, che è quell’atteggiamento per cui è importante sembrare buoni e giusti, senza preoccuparsi di esserlo davvero».
Può precisare, sempre per l’importanza delle parole?
«L’unica cosa che conta è andare a letto la sera sentendosi parte della schiera dei buoni e dei giusti, anche se magari non abbiamo cambiato il mondo di una virgola».
Sostituendo all’eguaglianza l’inclusione come stella polare questa sinistra tende a escludere chi non si allinea al nuovo verbo?
«La metterei così: prima seguivamo grandi principi universalistici, venuti meno i quali è subentrato una sorta di tribalismo. E il tribalismo ha continuamente bisogno di capri espiatori».
Il narcisismo è un autocompiacimento, in fondo inoffensivo, nel quale ci si crogiola in una presunta superiorità?
«Esattamente questo».
Se fosse così i danni sarebbero contenuti: non le pare che la patologia della sinistra sia piuttosto l’esibizionismo etico?
«L’esibizionismo è una componente fondamentale del narcisismo».
Il sindaco che l’ha costretta a dimettersi l’ha fatto per avere l’approvazione dell’opinione pubblica?
«Questo andrebbe chiesto a lui. L’unica cosa che gli dico, con un po’ d’affetto, è che forse poteva gestire la conferenza stampa in un modo umanamente più… inclusivo anche nei miei confronti».
Narcisismo, esibizionismo: questo si può chiamare bullismo etico?
«Mmmh. Variazioni sul tema ce ne sono tante. Diciamo così: siccome nel tribalismo il capro espiatorio si sente in colpa e vorrebbe rimanere in un angolo sperando che tutti si dimentichino di lui, per carattere, io sono il capro espiatorio sbagliato».
Quindi gliela farà pagare?
«No. Continuerò a essere me stesso e a godere della mia libertà di pensiero e di espressione».
Lei ha parlato di psico-polizia del pensiero, un comportamento messo in atto anche da lei quando due anni fa vietò una conferenza sull’Ucraina al professor Alessandro Orsini dicendo «abbiamo denazificato» il teatro Goldoni?
«Anche quella era una battuta».
Però Orsini non parlò al Goldoni.
«Il punto è diverso e glielo spiego a mia volta con una domanda. Comunque la si pensi, Orsini ha parlato al Regio di Parma, alla Fenice di Venezia o alla Scala di Milano? No. Per questo non ha parlato nemmeno al teatro Goldoni, che è un antico teatro di tradizione».
Quello dove si svolgeva il congresso socialista dal quale uscirono Antonio Gramsci e compagni per fondare il Pci.
«Proprio quello. Per altro, qualche tempo prima Orsini aveva fatto un post pesantemente offensivo della memoria di Gramsci. Motivo in più per non farlo parlare al Goldoni».
Non mi ha convinto, lei non è un libertario?
«Al Regio di Parma o alla Fenice, Orsini non ha parlato».
Ma non ha chiesto di farlo.
«Se l’avesse fatto glielo avrebbero negato. Comunque, parlò al teatro Quattro Mori di Livorno, a mio avviso più adatto. Non concordo su nulla di quello che dice Orsini, ma sono un libertario e ritengo che ogni voce debba avere l’ambito adeguato».
Si aspettava che qualcuno dei vertici del partito si pronunciasse sulla sua vicenda?
«Qualcuno l’ha fatto, Pina Picierno mi ha espresso solidarietà».
In privato o in pubblico?
«In un post su X. Anche altri esponenti, non del Pd, l’hanno fatto. Ivan Scalfarotto, Anna Paola Concia e Chiara Valerio, che è una paladina dei diritti Lgbtq+».
Nessuno di loro è un dirigente Pd.
«Lo è la Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo. Comunque, il fatto è curioso perché poi fanno eleggere in Europa Marco Tarquinio che sull’aborto ha posizioni più vicine a quelle della destra, e defenestrano me per una battuta».
Livorno è la città dov’è nato il Pci: spera in un esame di coscienza, come direbbe Tarquinio, della sinistra su questa vicenda?
«Spero che si apra un reale dibattito».
Paolo Rumiz su Repubblica ha scritto che la sinistra si è fatta scippare dalla destra parole come patria, identità, tradizione. Concorda o queste sono sempre state parole di destra?
«Vorrei dire un’altra cosa che la sinistra si è fatta scippare dalla destra almeno su alcuni temi: il buonsenso. Che poi la destra usa come un randello».
La sua vicenda mostra che si toglie la parola a chi non parla come vogliono i custodi del pensiero?
«La mia vicenda è nota, poi ognuno ne trae le conclusioni che ritiene».
Adesso che farà? Scriverà un libro, magari il seguito ancora più sofferto del precedente In esilio?
«Credo che lo farò. Questa vicenda mi piacerebbe raccontarla e ora ho tutto il tempo per farlo. Per il resto, usando un’espressione che piacerebbe a Rumiz: Dio provvede».
Oltre alle dimissioni indotte dalla giunta, sta riflettendo a dimissioni spontanee dalla sua appartenenza storica?
«La verità è che ero un cane sciolto prima e un cane sciolto resto ora».

 

La Verità, 19 ottobre 2024

«Ho usato “gnocca” contro i dogmi antifamiglia»

Insomma, che volgarità, Marco Rizzo.
«Purtroppo, oggi, per far capire certi concetti, bisogna ricorrere anche a qualche espressione colorita. Mi pare abbia funzionato, visto che ne stiamo parlando».
Riassumiamo brevemente per chi avesse perso l’antefatto.
«In un intervento di 18 minuti ho provato a spiegare come sta girando il mondo, dalla guerra allo schiacciamento della classe lavoratrice, dal cambiamento epocale nelle abitudini all’attacco alla famiglia, fino alle nuove ideologie che irrompono nella nostra vita. Per spiegare questo cambiamento ho intercalato una frase, pronunciata con grande serietà: “Mi piace la gnocca”. Sapevo che mi sarei scontrato con il totalitarismo del pensiero unico. Perché, un conto è essere contro ogni discriminazione di gusti sessuali, di razza e di ogni tipo, un altro è voler imporre i desideri e le preferenze di una minoranza a tutta la popolazione».
Marco Rizzo è un politico difficilmente classificabile. Un po’ novecentesco, molto pacifista, larvatamente complottista, trasversale agli schieramenti. Fino a qualche tempo fa era segretario del Partito comunista, di cui poi è divenuto presidente onorario. Adesso è candidato alle regionali in Umbria del 17 e 18 novembre con la lista Democrazia sovrana e popolare di cui è fondatore. Anche il suo linguaggio può risultare eccentrico: parla di classe lavoratrice e di operai. E non solo…
Ha usato un’espressione esecrabile, come le è stato fatto notare.
«Sono finito sulla prima pagina del Corriere della Sera, non avveniva da anni. Uno come Massimo Gramellini, a cui sono legato solo dalla fede calcistica – anche se lui va certamente in tribuna mentre io ai popolari – mi ha attaccato duramente per il linguaggio da taverna, addirittura scomodando la lingua italiana. Forse non sa che la parola gnocca si trova anche nella Treccani».
L’ha usata perché è a caccia di visibilità?
«No. Conosco i meccanismi della cosiddetta informazione italiana che ogni giorno tenta di turlupinare l’opinione pubblica. Faccio un esempio fra i tanti possibili: qualcuno pensa davvero che lo yacht affondato nel porto di Palermo sia stato vittima di un nubifragio?».
E di che cosa?
«Di una resa dei conti tra ricconi collegati ai servizi segreti».
Lo deciderà la magistratura.
«Sì, certo. Ma mica abbiamo l’anello al naso».
La prima pagina del Corriere della Sera comunque è un bel successo.
«Essere attaccati dal mainstream è sempre una medaglia».
Nel suo intervento contestava la dittatura delle minoranze, un argomento anche del generale Roberto Vannacci.
«Se piove io dico che piove, non vado a vedere chi lo sta dicendo. Premesso questo, ricordo di essere stato il primo a dire che Vannacci è stato attaccato per il suo libro perché aveva denunciato la morte dei soldati a causa dell’uranio impoverito. Un uomo controcorrente, rispetto al servilismo diffuso alla politica e all’establishment».
È diventato di moda prendersela con il politicamente corretto?
«Dire che è una moda è uno stratagemma per non affrontare l’argomento e nascondersi dietro un dito. Oggi la pratica mostruosa dell’utero in affitto e i laboratori nelle università pubbliche destinati ai bimbi trans dai 5 ai 14 anni come quello di sabato scorso presso l’università Roma 3 sono normalità. Così come lo è l’attacco costante e forsennato alla famiglia, che non è più quella descritta come prima cellula della società borghese da Friederich Engels 150 anni fa. Oggi senza le famiglie che svolgono la funzione dello Stato sociale avremmo 11 milioni di poveri in più. Questa è la normalità propugnata sempre dai soliti potenti».
Chi, per la precisione?
«I rappresentanti della grande finanza che ci vuole obbligare a mettere il cappotto termico alle case, che non vuole più farci girare con la nostra automobile, che sdogana la guerra nucleare. Ma che soprattutto continua a prenderci in giro dicendo queste cose in lussuosi convegni, dove arrivano a bordo di inquinantissimi jet ed elicotteri privati».
Il politicamente corretto è una forma di bon ton, un galateo o cos’altro?
«È un’ideologia. Le faccio un altro esempio. Ha mai provato ad andare in uno di quei negozi di abbigliamento di catene multinazionali? Provi a vedere che orientamento ha la maggioranza dei commessi. Anche quella è una politica di marketing, una forma di discriminazione al contrario verso gli eterosessuali. Dico di più: se si smembra la famiglia le grandi multinazionali ci guadagnano. Me l’ha spiegato un importante manager del food: una famiglia composta da due persone consuma per due, ma se queste due persone le dividi, compreranno due monoporzioni che costeranno 1,3 e i grandi marchi guadagneranno il 30%».
Le multinazionali ci vogliono single?
«Single, privi di relazioni sociali, di protagonismo, di libertà e spirito critico. Ma collegati al nostro cellulare con cui ordinare pessimo cibo e cattivi oggetti che ci verranno recapitati da schiavi in bicicletta».
Che basi ha l’ideologia politicamente corretta?
«Quelle che oggi interpreta alla perfezione il Pd. Basta vedere cos’era il Pci nel 1980, quando Enrico Berlinguer andava a parlare con gli operai di Mirafiori ai cancelli della Fiat. 44 anni dopo, con Elly Schlein il Pd balla sul carro del gay pride».
Gli operai non ci sono più.
«C’è un ceto medio fatto di commercianti, artigiani e partite Iva che precipita verso il basso e che, in un certo senso, si proletarizza. Per questo bisogna sviluppare il sovranismo popolare».
Ci arriviamo. Una volta si diceva parla come mangi, adesso ci insegnano la neolingua preconizzata da George Orwell?
«L’élite che ha in mano la comunicazione riserva privilegi per sé e costrizioni per noi. Così sentiamo parlare di “flessibilità in uscita” invece che di licenziamenti, di “peace-keeping” invece che di guerra, di carenza di integrazione, invece che di delinquenza. Ci siamo rotti le palle».
Perché si candida governatore della regione Umbria?
«Per un motivo: vogliamo cominciare ad assaltare i fortini di questo partito unico che sono la destra e la sinistra, due facce della stessa medaglia, iniziando dal luogo dove la sovranità viene cancellata per prima: le regioni. E vogliamo cominciare dalla sanità pubblica che, nelle mani di politici incapaci e corrotti, nega il diritto alla salute del nostro popolo. Marco Rizzo in Umbria e Francesco Toscano in Liguria vogliono fare la stessa cosa che Afd (Alternative für Deutschland ndr) e Sahra Wagenknecht (leader del Bsw, il partito omonimo ndr) hanno fatto alle elezioni della Turingia e della Sassonia».
Lei che è torinese doc in Umbria?
«Il cognome è calabrese, del quadrisavolo che venne al Nord con i garibaldini. Mio padre era piemontese e mia madre romagnola. Adesso vivo a Rovereto, prima ho vissuto a Torino e a Roma».
Democrazia sovrana e popolare è una denominazione tautologica?
«Vi è racchiusa la sostanza della nostra Costituzione, tanto bella quanto disattesa».
«La sovranità appartiene al popolo» occorre ribadirlo?
«Sì, perché la sovranità può essere del re o del popolo. Io propendo per la seconda idea, visto che oggi il re è rappresentato da Bill Gates, così come, in Italia, dagli Elkann e dai Benetton. Mentre il popolo è incarnato dall’operaio della Stellantis e dal ristoratore di Piazza Augusto Imperatore nel centro di Roma che rischia di essere sfrattato proprio dai Benetton. Sto dicendo un fatto reale».
Democrazia sovrana e popolare è una sigla da elezioni amministrative o da movimento di opinione?
«Ha una forza intrinseca. Pensi che con queste elezioni lanciamo la proposta che la sanità venga riaffidata ai medici e ai cittadini».
Come?
«Tornando ad avere le Usl invece delle Aziende sanitarie locali, per ricostruire l’universalismo della prestazione sanitaria, togliendone il governo alle regioni, il cui bilancio è costituito all’80% proprio dalla sanità, mal gestita».
L’approvazione dell’autonomia differenziata migliorerebbe la situazione?
«Ne dubito. Questa autonomia è la stessa che voleva Massimo D’Alema con la riforma del titolo V studiata da Franco Bassanini. Favorirebbe il moltiplicarsi dei centri di potere di cui faremmo volentieri a meno. Il Pd la contesta solo perché non se la intestano loro».
Fino a qualche anno fa sanità, scuola e lavoro erano al centro della politica, perché non lo sono più?
«Perché la lotta di classe l’hanno vinta i super ricchi. Non è un caso che il Pd sia il partito della Ztl e che Maurizio Landini, leader della Cgil, si fa mettere la mano sulla spalla dal banchiere Mario Draghi».
Quelle priorità sono scalate nella classifica a vantaggio di che cosa?
«Basta guardare la lista degli investimenti del Pnrr e si troverà la sanità all’ultimo posto. Scavalcata dagli investimenti per le politiche in favore della teoria gender. Cose da pazzi. Al primo posto delle priorità c’è la digitalizzazione e al secondo il pessimo green».
Sono le priorità dell’Unione europea.
«Infatti, siamo l’unica forza politica che non ha alcuna remora ad affermare che vogliamo l’uscita dall’Ue, dall’euro, dalla Nato e anche dall’Oms, una struttura privata che fa gli interessi delle multinazionali del farmaco».
Scuola, lavoro e sanità erano temi prioritari della sinistra: che fine ha fatto il suo vecchio Partito comunista?
«Oggi, se ci fosse Antonio Gramsci starebbe con noi. Per quanto riguarda la sinistra ricordo che negli anni Sessanta e Settanta hanno provato a batterla con Gladio, con la strategia della tensione e le stragi. Poi si sono accorti che era più facile conquistarla dall’interno con gli Achille Occhetto, i Massimo D’Alema, i Walter Veltroni e i Piero Fassino».
L’alleanza con Gianni Alemanno?
«In realtà, non c’è mai stata. Insieme abbiamo dato vita a un’iniziativa importante contro la guerra e sarei pronto a ripeterla. Così come, viste le sue recenti parole sull’argomento, mi piacerebbe animare un confronto con Roberto Vannacci su come contrastare la guerra».
Lavoro, scuola e sanità possono essere il programma del campo largo?
«Il campo largo andrebbe arato da persone che almeno sanno usare la zappa, ma questi leader della sedicente sinistra non saprebbero da che parte impugnarla».
Che impressione le fa Elly Schlein che canta con gli Articolo 31?
«Mi dà l’idea di un partito finito, almeno rispetto alle motivazioni sociali e di passione che dovrebbe avere. Non sarà un caso se il Pd, invece di scegliere un segretario al suo interno, ha preso una passante dell’alta borghesia».

 

La Verità, 12 ottobre 2024

La Mostra e l’inscalfibile egemonia della sinistra

E poi dicono che «la destra vuole prendersi il cinema» (Stefano Cappellini, Repubblica, 29 agosto). O, al contrario, parlando della solita egemonia culturale, che «non c’è nessun cambio di passo, nessuna svolta, nessun cambiamento reale». In una parola, «nessuna discontinuità» (Marcello Veneziani, La Verità, 6 settembre). A suo modo, la faccenda è semplice: in materia di cinema e di cultura, può succedere che, anche nelle riflessioni di commentatori abitualmente illuminati, la realtà sfochi a vantaggio delle opposte visioni e opinioni. Quella realtà che riappare, invece, in tutta la sua solidità e la sua testardaggine al momento dei verdetti delle giurie, nei palinsesti dei festival, nei comizi gratuiti e frequenti dei veneratissimi maestri.
Sabato sera l’81ª Mostra d’arte internazionale del cinema di Venezia ha licenziato un palmarès inequivocabile. Il Leone d’oro per il miglior film è andato a The Room Next Door (La stanza accanto) di Pedro Almodóvar, opera apprezzata da gran parte della critica, che afferma la necessità di una legge sull’eutanasia: «Porre fine alla propria vita è un diritto dell’essere umano. Chi deve fare le leggi deve tenerne conto», ha dettato il regista spagnolo ricevendo il premio. «Bisognerebbe però rispettare e non intervenire in queste decisioni», ha intimato a chi non condivide il suo dogma. Il Leone d’argento – Gran premio speciale della giuria è stato assegnato all’italiano Vermiglio di Maura Delpero, una pregevole storia ambientata alla fine della Seconda guerra mondiale in una famiglia montanara con un padre maschilista. Il Premio speciale della giuria, presieduta da Isabelle Huppert, l’ha conquistato l’estenuante e desolante April della regista georgiana Dea Kulumbegashvili che l’ha presentato come «un film femminista, sugli aborti clandestini». Premiato per Ecce Bombo, miglior restauro della sezione Classici, Nanni Moretti ha invece colto l’occasione, davanti al neoministro della Cultura Alessandro Giuli, per chiamare alla militanza registi e produttori che dovrebbero essere più «reattivi nei confronti della nuova pessima legge sul cinema». Cioè: la riforma sul tax credit che ha rivisto i criteri di assegnazione dei fondi pubblici, la migliore fatta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, andrebbe cancellata per consentire al cinema schierato dalla solita parte di continuare a produrre, come con Dario Franceschini, opere che non arrivano in sala o spariscono dopo un weekend. Tutto questo, solo per stare alla serata finale conclusa dalla proiezione di L’orto americano di Pupi Avati, film di chiusura della manifestazione e, dunque, allarmante sintomo dell’incipiente controllo della destra sul cinema italiano.
Scorrendo invece a ritroso il cartellone della Mostra si scopre che era farcito di denunce di militanze di destra: sempre estrema, prevaricatrice, totalitaria. A cominciare dalle trame più intime ed esistenziali, come in Jouer avec le feu, il bel film francese di Delphine e Muriel Coulin (Coppa Volpi a Vincent Lindon) che racconta l’impotenza di un padre nel fermare la deriva nazista di uno dei due figli; o come in Familia di Francesco Costabile, ispirato alla vicenda reale di Luigi Celeste, anch’egli militante di estrema destra, che uccise il padre per proteggere la madre vittima di continue violenze. Per proseguire con storie politiche in senso stretto, come in film e documentari che stigmatizzano autocrati, leader sovranisti e dittatori: su tutti, 2073 dell’inglese Asif Kapadia, che compone una galleria di responsabili dell’apocalisse globale con Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán, Narendra Modi, Javier Milei e Giorgia Meloni. E per finire con il vero evento di questa edizione, ciliegina sulla Mostra: l’anteprima mondiale di M – Il figlio del secolo che si apre con un Mussolini che si rivolge ai posteri: «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi, cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». Dello stesso tenore il comizio in sala stampa di Antonio Scurati alla presentazione della sua creatura: «Lo spettro del fascismo si aggira per l’Europa, ma non siamo noi a evocarlo, non è il mio romanzo, non è questa serie. Sono altre forze che hanno questa responsabilità».
Ecco. Questo è lo stato delle cose. Questo è l’assetto del «potere culturale preesistente e persistente» (Veneziani) per cui non si trova in giro, non solo in Italia, un regista o un autore cinematografico che si definisca «di destra». Nei giorni scorsi mi è parso sintomatico non esser riuscito a individuarne uno che potesse sostenere un’intervista distaccata e autorevole su «destra e cinema». Sarà perché non esistono due mondi più distanti tra loro di questi? Consiglio a tutti, da una parte e dall’altra, di mettersi il cuore in pace. La traversata da compiere si profila bella lunga. Ci vuol altro che la nomina di qualche direttore e di qualche manager per scalfire e ancor più per ribaltare la pluridecennale egemonia della sinistra.

 

La Verità, 9 settembre 2024

Alain, l’icona ribelle che spiazzava la rive gauche

Le ragazze erano tutte innamorate di lui. Il dolce emigrato meridionale di Rocco e i suoi fratelli. Lo sfrontato assassino di Delitto in pieno sole. L’affascinante principe Tancredi di Il Gattopardo (Palma d’oro a Cannes nel 1963). Il glaciale sicario di Frank Costello faccia d’angelo. L’inafferrabile gangster di Borsalino. Il tenebroso professore di La prima notte di quiete. Questo per stare ad alcuni ruoli incarnati a inizio carriera in film che, tra ieri e oggi, le televisioni di tutto il mondo stanno riproponendo.
Per Alain Fabien Maurice Marcel Delon, semplicemente Alain Delon, nato l’8 novembre 1935 a Sceaux, pochi chilometri da Parigi, sex symbol è definizione quanto mai restrittiva. Mostro sacro. Icona del cinema. Uomo dei sogni. Forse il più grande attore francese di sempre – ci sono pure Jean Gabin, suo idolo, Ives Montand, Jean Paul Belmondo, con cui recitò spesso, e Gérard Depardieu. Sicuramente il più popolare. Perché era come in quelle parti: dolce, sfrontato, affascinante, glaciale, inafferrabile, tenebroso. Aggettivi buoni pure per l’uomo affamato di vita, di donne, di avventure. E, pure, mai appagato, mai quieto. Al punto di cadere, più in là negli anni, nella malinconia, cui aveva dato volto interpretando il barone di Charlus in Un amore di Swann tratto da Marcel Proust. Un uomo coraggioso e, a suo modo, indomito. Anche nelle prese di posizione politiche che turbavano i benpensanti della rive gauche. Come quando, difendendo l’eurodeputato Nadine Morano sottoscrisse le parole di Charles De Gaulle: «È ridicolo polemizzare contro una persona che dice che “la Francia è un Paese di razza bianca”. Il Kenya è un Paese bianco? No, lì le persone sono nere. E allora? Qual è il problema?». Oppure quando, lo interrogarono sull’amicizia con Jean-Marie Le Pen e gli chiesero della vicinanza al Fronte national: «E se anche lo fossi? Uno può essere di estrema sinistra, ma non può essere di estrema destra? Il Fn in Francia rappresenta milioni di persone. Sono milioni di idioti? Uno ha il diritto di pensarla diversamente, ma non deve mancare il rispetto delle posizioni degli avversari».
La notizia della morte l’hanno data i figli a un’agenzia di stampa: «Alain Fabien, Anouchka, Anthony, oltre che il suo cane Loubo, hanno l’immensa pena di annunciare la dipartita di loro padre. Si è spento serenamente nella sua casa di Douchy, con accanto i suoi figli e i suoi familiari… La famiglia vi chiede di rispettare la propria intimità in questo momento di lutto estremamente doloroso». È significativo che tutti tre l’abbiano annunciato insieme, considerato che Anouchka si era opposta alla volontà di Anthony di predisporre l’eutanasia, sembra su indicazione del padre. «Non sarà Dio a decidere il momento della mia morte», aveva confessato anni fa a Paris Match. Chiuso e solitario, nella sua villa sul lago Lemano in Svizzera, aveva svelato il proposito del suicidio: «Ci penso spessissimo. Vivo davanti ai miei occhi la scena di quel momento. Il difficile è non farlo».
Tutto veniva dal passato di «bambino infelice», assicurava. Dopo la separazione dei genitori, la madre lo affida a una famiglia adottiva, ma trascorso qualche anno, è assegnato a un collegio di suore a Issy-les-Molinaux. Il dolore germina il temperamento ribelle. Cambia parecchie scuole, abbandona gli studi e si arruola paracadutista in un corpo militare destinato alla guerra in Indocina, dove trascorre cinque anni (di cui 11 mesi in prigione per indisciplina). Tornato in Francia, fa il cameriere, il facchino ai mercati di les Halles, il commesso, l’attore marginale. S’invaghisce di Brigitte Auber, anche lei giovane attrice, che gli presenta Jean-Claude Brialy, con il quale va al Festival di Cannes, dove il suo aspetto viene notato. Era già «un pericoloso veicolo di disordine, tradimenti e tentazione», scrivono di lui. Arrivano le prime proposte. Si trasferisce a Roma presso il fotografo Gian Paolo Barbieri. Nel 1958, sul set di L’amante pura, conosce Romy Schneider, il grande amore della sua vita. Con lei interpreta una mezza dozzina di pellicole di successo come La piscina e Delitto in pieno sole (dal Talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith). Nei primi Sessanta sono la coppia più bella e invidiata del cinema. Si rompe con l’avvento della modella Francine Barthelémy, che si spaccia per sua sorella, prende il nome di Nathalie Delon e sarà la madre di Anthony. A Romy, Alain annuncia l’addio con un biglietto: «Mi dispiace. So che ti avrei reso infelice. Parto per il Messico con Nathalie. Ti auguro ogni bene». Le avventure si susseguono. Ma quando recita una prima volta con Brigitte Bardot la scintilla non scocca. Lui è troppo preso da sé stesso, sostiene lei: «All’epoca non pensava che ai suoi occhi azzurri e alla sua faccina d’angelo». Nel 1968, sul set di Tre passi nel delirio, «avremmo potuto amarci… ma non successe niente». L’unione con Nathalie, invece, naufraga dopo quattro anni. Mireille Darc resiste al suo fianco più a lungo, ma l’elenco dei flirt è infinito: Dalida, Sidney Rome, Dalila Di Lazzaro, Anne Parillaud, la Nikita di Luc Besson, Catherine Pironi. Fino a quando si lega alla modella olandese Rosalie von Bremen, dalla quale ha Anouchka e Alain Fabien. Quando il Novecento tramonta, declina anche il suo protagonismo cinematografico. E, come per Paul Newman, anche per lui, fioccano i premi alla carriera, quasi una riparazione della critica internazionale, disposta a ripagare un interprete cui, in parte, hanno fatto velo le doti estetiche.
Nel 2019 è colpito da ictus. Nel gennaio 2023 si annuncia che soffre di un linfoma a evoluzione lenta. «Faccia d’angelo», lo si capisce, non si rassegna alla vecchiaia: «Invecchiare fa schifo. Non puoi farci niente, l’età si fa sentire. Non riconosci la faccia, perdi la vista», dichiara. «Lascerò questo mondo senza sentirlo. La vita non ha più nulla da offrirmi, ho visto tutto, ho sperimentato tutto. Ma soprattutto odio l’era attuale, mi fa male. Tutto è falso, tutto è stato sostituito, non c’è rispetto per la parola data, ora tutto ciò che conta sono soldi e ricchezza. So che lascerò questo mondo senza dispiacermi».
La prima notte di quiete è appena trascorsa.

 

La Verità, 19 agosto 2024

«Sinistra progressista? No, difende lo status quo»

Dopo aver scelto di starsene defilato e di calmare l’astinenza dalla politica con qualche video omeopatico inviato ai destinatari della sua newsletter, ora Claudio Velardi è tornato in prima linea per dirigere Il Riformista. Un marchio che è anche il biglietto da visita dell’ex Lothar dalemiano che, da tempo, ha scelto posizioni più moderate.
Che cosa ti ha fatto abbandonare la tranquillità del buen retiro?
«La crisi evidente nella quale si è trovato Il Riformista dopo l’abbandono di Matteo Renzi e quello successivo del direttore Alessandro Barbano. Quando l’editore Alfredo Romeo, che insieme a me lo fondò nel 2002, mi ha chiamato al suo capezzale non potevo che accettare. Come sappiamo, fare un giornale è la cosa più bella del mondo. Ti svegli la mattina e pensi: oggi come e a chi posso rompere le scatole?».
Ottima definizione del giornalismo. Perché ti senti sollevato a non essere francese e non dover votare domani?
«Perché mi sembra un voto pesantemente condizionato da visioni estreme della politica che oggi non condivido. Nell’età matura tendo a vedere le sfumature, non appartengo ad alcuna tifoseria e cerco soluzioni di buon senso».
Per venire al dilemma francese?
«Soluzioni di buon senso in Francia non ne vedo perché Emmanuel Macron ha scelto di radicalizzare lo scontro. Forse non poteva fare diversamente, ma la forzatura di queste elezioni anticipate non giova a far maturare l’opinione pubblica nella maniera giusta. Perciò, mi sentirei in grande difficoltà: trovo che la polarizzazione che si sta producendo in Francia e altrove sia una caricatura infantile del bipolarismo».
In che senso?
«Sono i bambini che non sanno andare al di là del sì o del no perché non conoscono le sfumature e la complessità. Da adulti non possiamo ridurre lo scontro delle idee a “o di qua o di là”».
Domenica scorsa avresti votato per Renaissance di Macron?
«Sì, sebbene veda i limiti di questo centrismo elitario. Il problema di Macron, e di tanti moderati non solo in Francia, è di pensare di essere il sale della terra».
La parola più gettonata da quando c’è lui è «pedagogia».
«Un’altra espressione che si è un po’ persa era “le spinte gentili”. Capisco che, davanti a scelte difficili, bisogna un po’ accompagnare per mano le persone, ma senza fare i maestrini. Perché in quel caso la gente si ribella».
Macron chiede di votare France insoumise di Jean Luc Mélenchon per impedire che vinca il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella. Condivide?
«Non sono Macron, ma capisco che voglia garantirsi una gestione meno conflittuale possibile e quindi lavori perché non ci sia una maggioranza Le Pen, ma una situazione d’incertezza politica».
Questo gioverebbe al Paese?
«Nel sistema francese forse questo è il modo per cercare governabilità. Quanto giovi non lo so. Da un punto di vista più globale, quando scoppiano delle bolle e si manifestano eruttazioni sociali è bene che si misurino con il governo. Era il mio pensiero persino quando sono esplosi i 5 stelle, quanto di più lontano da me. È inutile creare barriere e trincee».
Anche se fermando i «barbari» si salva la democrazia?
«Sono motivazioni sbagliate. Se i “barbari” sono cresciuti, evidentemente la democrazia non ha dato risposte adeguate».
Democrazia è anche scegliere Rn?
«Certo che sì. La democrazia dev’essere in grado di assorbire le spinte antisistema. Altrimenti lo è solo quando i cittadini votano i buoni? Se la democrazia è in grado di assorbire la spinta antisistema deve contemplare la possibilità che governi. Anche perché quando queste forze si cimentano con le compatibilità di governo entrano di più nel gioco del sistema».
Anche la sinistra italiana, come quella radicale francese, coccola l’antisemitismo delle proteste giovanili e dei pride che respingono gli omosessuali ebrei.
«Nella sinistra italiana il fenomeno ha radici meno solide, è legato a mode politiche. Le organizzazioni che coinvolgono militanti Pro-Pal non sono del tutto consapevoli che portano dritti diritti all’antisemitismo».
Come spieghi che, invece, in Gran Bretagna dopo 14 anni di governo dei Tory hanno vinto i laburisti?
«Quando la sinistra riformista parla al centro dell’elettorato moderato, affronta i problemi dello sviluppo, non fa demagogia e non si rifugia nelle ideologie, vince».
Da noi si pensa di riprodurre il Fronte popolare. Cos’hai pensato vedendo la foto di Elly Schlein, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni e Giuseppe Conte sul palco di Bologna?
«Ho pietosamente sorriso. Che cosa vuoi fare, vedendo che tra il radicale Magi e il democristiano Conte, c’era il comunista Maurizio Acerbo che saluta la folla a pugno chiuso, se non sorridere pietosamente?».
Anche pensando ai precedenti?
«Che sono illuminanti. Con le grandi ammucchiate si può vincere alle urne, ma il giorno dopo si straperde al governo. È già successo e succederebbe ancora».
Perché anche in Italia, come in Francia, le classi deboli si spostano a destra?
«Malgrado il racconto che fa di sé stessa, la sinistra è la forza che nell’ultimo secolo ha vinto. Nel senso che ha contribuito a realizzare nei paesi occidentali una serie di conquiste sociali sul fronte del lavoro, dell’assistenza sanitaria, delle pensioni e dei diritti civili…».
Ahimè.
«Ma l’esito di questa vittoria è che oggi difende la società esistente. Tutti coloro che ne sono esclusi, le sacche di emarginazione sociale, i nuovi poveri, gli immigrati delle periferie, i lavoratori non protetti e i rider, vanno a destra. Mentre i garantiti, dai professionisti ai docenti universitari fino ai pensionati, stanno a sinistra proprio perché difende gli equilibri attuali. C’è stata un’eterogenesi dei fini, un rovesciamento lessicale: oggi la sinistra difende lo status quo».
È un rovesciamento che subisce o capisce?
«Secondo me, fa finta di non capirlo. Concretamente, non potendo tutelare sia il pensionato che il rider, la sinistra sta con il pensionato perché gli interessi di quest’ultimo convergono su grande scala con i suoi».
Per questo alza lo sbarramento alle politiche di governo, tipo il premierato e l’autonomia differenziata?
«Si oppone a qualsiasi cosa mini lo status quo, compresa la riforma delle istituzioni che, in alcuni momenti di apertura e di espansione dopo vittorie elettorali, ha pensato di promuovere».
Vedi il programma di Achille Occhetto del 1994 e la proposta di Matteo Renzi.
«Oppure la bicamerale di Massimo D’Alema. Cioè, i rari momenti in cui la sinistra non si arrocca su posizioni conservatrici dell’esistente».
Adesso ci si prepara al referendum sull’autonomia differenziata. Sembra che i limiti riscontrati finora debbano bloccare qualsiasi iniziativa propulsiva.
«Penso che il referendum sia sbagliato perché non farebbe altro che accrescere la divisione culturale tra Nord e Sud, che è il fatto che più mi preoccupa. Inevitabilmente, la campagna sarebbe tra Nord produttivo e Sud assistito. Non farebbe bene a nessuno, soprattutto al Sud che, invece, secondo me deve far sentire il suo orgoglio, accettando la sfida dell’autonomia, rifiutando di essere etichettato come la parte del Paese che dipende dai fondi pubblici e non sa nemmeno utilizzarli bene. Questa sfida si raccoglie solo se si fa crescere una nuova classe dirigente che prende in mano la bandiera del Mezzogiorno per farlo crescere in autonomia».
Fuori dalle aule parlamentari, la strategia principale della sinistra è la delegittimazione dell’avversario, vedi l’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale?
«La delegittimazione è l’involucro valoriale di questa strategia conservatrice. Quando chiami il tuo elettorato su posizioni conservatrici devi vestirle con un apparato simbolico molto forte. E cosa c’è di più forte del richiamo alla resistenza e all’antifascismo, i cosiddetti valori fondanti della Repubblica? Questa è l’operazione. Il conservatorismo strutturale e sociale di sinistra ha questa veste valoriale per far risultare nobile e imprescindibile la campagna intrapresa».
Per questo si susseguono gli
allarmi al fascismo e le abiure di Giorgia Meloni non bastano mai?
«Certo. Nel momento in cui si dicesse che la Meloni ha finalmente chiarito, crollerebbe il castello di carte e la sinistra si ritroverebbe a volto scoperto con il suo conservatorismo sociale e istituzionale».
Una sinistra che si propone come anti destra e boccia premierato, autonomia, persino il ponte sullo stretto, può definirsi progressista?
«È il contrario del progressismo che, per definizione, riguarda il cambiamento. Quando non vuoi nessun cambiamento non hai niente a che fare con il progressismo».
In conclusione, la sinistra sa perdere o, come la nostra Nazionale, anziché ammettere la sconfitta e ripartire da un bagno di umiltà, ripete che non si può lasciare campo libero alle destre come se il governo le spettasse per diritto divino?
«È la presunzione di considerarsi superiori agli altri sul piano dei principi e dei valori. O dici che perdi perché non sai giocare a calcio, oppure devi cercare altre ragioni. Se c’è sempre qualche nemico esterno che attenta alle ragioni del Bene puoi evitare la necessità di un ricalcolo e di fare i conti con i tuoi errori. E, anche se perdi, puoi raccontare al tuo popolo che la ragione è dalla tua parte».
Torniamo a Bertolt Brecht: «Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo bisogna nominare un nuovo popolo»?
«Certo, le sindromi sono sempre le stesse».
Per finire, considerando lo stato di salute di Macron in Francia e di Renzi e Calenda in Italia, qual è la diagnosi sul riformismo europeo?
«Non vive tempi buoni perché nello statuto del riformismo c’è il cambiamento. Mentre ora viviamo un momento di “dissonanza evolutiva”, come viene chiamata».
Ovvero?
«La grande trasformazione tecnologica in atto ci sopravanza. Gli esseri umani non stanno al passo del cambiamento che loro stessi hanno prodotto. Questo genera resistenze conservatrici sia a destra che a sinistra. Perciò, il riformismo, che invece è cambiamento, è obiettivamente minoritario. Se, poi, agisce per via tecnocratica o pedagogica, diventa ancor più minoritario. La vera scommessa è far diventare il riformismo popolare ed empatico».
In Italia l’impresa è nelle mani di Luigi Marattin ed Enrico Costa che hanno promosso un’iniziativa per scalzare i vecchi leader del Terzo polo.
«Il problema è enorme e si esprime a livello internazionale. C’è bisogno di personalità che sappiano tracciare un sentiero. Stiamo a vedere se saranno loro due le figure giuste per iniziare a farlo».

 

La Verità, 6 luglio 2024

«La sinistra non ha più l’egemonia culturale»

Con un nonno partigiano e l’altro che ha fatto la marcia su Roma, Alessandro Giuli ricerca la conciliazione degli opposti. E, ora che siede alla presidenza della Fondazione MAXXI, opera affinché il dialogo tra destra e sinistra si realizzi. La summa di questo tentativo si trova in Gramsci è vivo, dotto pamphlet appena pubblicato da Rizzoli.
Che cosa tiene ancora in vita Antonio Gramsci?
«La lezione che ci ha offerto come testimone di una libertà conculcata da un regime e l’aver rotto lo schema pseudoscientifico del marxismo-leninismo, mettendo la cultura al centro del discorso rivoluzionario».
Più precisamente?
«Con Gramsci la rivoluzione, il progetto sbagliato della dittatura del proletariato, non avviene solo in base al mutamento dei rapporti socio-economici, ma attraverso la cultura. Non si lasciano tracce durevoli se non si passa per la cultura».
In che modo è ancora attuale il teorico dell’egemonia culturale e della conquista delle casematte del potere?
«Quello è uno schema invecchiato male perché tipico del partito-Stato dei Soviet. Oggi l’egemonia non si crea dall’alto, ma dalla società civile, con i romanzi, le sceneggiature, le pièce teatrali, l’accademia. Se sei bravo e fortunato ti ritrovi in una comunità di persone che rappresentano la sensibilità conservatrice, maggioritaria in Italia, come si vede quando si vota. Tuttavia, questo processo non si realizza per volontà di un partito, dev’essere uno schema condiviso, altrimenti è una distopia».
Come quella in cui abbiamo vissuto negli ultimi decenni, nei quali l’egemonia culturale aveva un colore diverso dal sentire della maggioranza?
«In questo mezzo secolo si è consolidata una divaricazione tra consenso e potere che neanche il lungo intermezzo berlusconiano è riuscito a scalfire se non nelle nomenclature. Abbiamo dovuto aspettare un ministro come Gennaro Sangiuliano per avere un titolare della cultura non frenato nel modificare l’esistente».
Perché un libro che racconta quasi due anni di presidenza della Fondazione MAXXI teorizza il dialogo come caratteristica della cultura di destra?
«Perché i monologhi sono noiosi. Ne abbiamo ascoltati per decenni e ora preferiamo mettere la nostra identità a disposizione della contesa delle idee. Tanto meglio se producendo anche buoni risultati».
Scrivi che «alla retorica irrazionale del barbaro alle porte, che nasce da un malriposto suprematismo e sfocia nel disprezzo antropologico, si può e si deve contrapporre la forza della persuasione e del confronto».
«Esatto. Spesso ci si aspettano dei quadrumani con il lanciafiamme nei luoghi delle istituzioni più alte come il MAXXI e poi ci si stupisce di trovarvi dei bipedi ragionanti».
Il dialogo rispettoso e costruttivo è un obiettivo ottimista?
«No, magari ha una venatura di strategia. Parto dal presupposto che una buona visione del mondo di chi viene da destra può e deve contenere anche schemi e formule di una sinistra che ha abdicato alla propria funzione. La destra vince nelle urne perché soddisfa un bisogno di sicurezza e di identificazione. Non mi interessa piacere a quelli che chiamiamo salotti della sinistra, le idee sono plurali per definizione».
Quindi, non c’è un bisogno di legittimazione?
«Dal Foglio in poi ho sempre lavorato senza cercare approvazioni. Oggi sono gli stessi intellettuali di sinistra a voler dialogare con il mondo che idealmente personifico».
Nel tuo saggio fai l’esempio di Roma che diventa comunità universale spostando i confini e includendo le province. Più che includere non sarebbe corretto dire che ingloba o annette?
«Una corrente di pensiero di sinistra ritiene addirittura che “includere” sia espressione aggressiva perché significa chiudere dentro. In realtà, significa racchiudere. La lezione di Roma è trasformare genti diverse in un’unica comunità».
Questa inclusione così di moda significa che si assorbe una diversità?
«Non c’è dubbio. Cicerone, che odiava Cesare, scriveva al suo amico Attico che Cesare aveva appena conquistato le Gallie e già aveva fatto senatori alcuni di loro. Nel momento in cui hai un’idea di diritto e di sacralità della vita puoi includere chiunque sottoscriva i tuoi canoni, a patto che lo faccia davvero. Noi i canoni li abbiamo».
Ma pochi li sottoscrivono?
«Quelli che non lo fanno vivono male nella nostra comunità. Accade anche a molti con il passaporto italiano, bianchi, biondi e con gli occhi azzurri che pure non meriterebbero la cittadinanza. Se sei fuori dai canoni della Costituzione, non rispetti la sacralità della vita e l’altro da te, compresa la sovranità che appartiene al popolo, sei fuori da questa comunità».
Chi non rispetta la Costituzione dovrebbe andare in galera, quanto al rispetto della sacralità della vita potremmo scrivere un’enciclopedia.
«Se fai l’infibulazione a una donna è evidente che non rispetti né la donna né la vita, ma se ti comporti da razzista e vuoi decidere chi è italiano e chi no, come il generale Vannacci, non rispetti la sacralità della vita e la Costituzione. Il che vale pure per l’ambiente, anche se vediamo molti estremismi e fanatismi, di cui parla l’articolo 9 della Costituzione insieme al rispetto del paesaggio e alla promozione della ricerca scientifica».
Vannacci ha fatto una considerazione inerente ai tratti somatici di Paola Egonu non rappresentativi dell’italianità, non ha detto chi può o non può essere italiano.
«Accetto questa definizione a patto di immaginare che fra 100 anni ci sia un pronipote nero di Vannacci che dica che il mio pronipote bianco non rappresenta l’ideal-tipo dell’italiano».
Fra 100 anni ne riparleremo. Cosa significa che la cultura può fare per la politica quello che la politica non riesce a fare per la cultura?
«Che la politica vive di confronti, che a volte sono conflitti, con pensieri spesso biodegradabili, mentre la cultura ragiona con una gittata più lunga e sorregge le leadership politiche che si succedono. Se creo MAXXI Med a Messina ci sarà un premier che un giorno se lo ritroverà e ne beneficerà come buon esempio di diplomazia culturale rivolta al Mediterraneo, mentre noi come persone fisiche saremo altrove. Questo a prescindere dal colore di chi sarà al governo».
Citi Emilio Isgrò che sostiene che nell’arte non c’è destra e sinistra perché l’arte è come il ciclismo e tutti pedaliamo allo stesso modo. Cosa vuol dire esattamente?
«Vuol dire che l’arte proviene da artisti che possono avere o no idee politiche personali, ma non è quella l’unità di misura dell’opera d’arte. Per questo la sinistra divora Céline e pensa che sia il più grande scrittore del Novecento».
È un obiettivo ingenuo, pur appellandosi a Norberto Bobbio, rigettare la polarizzazione degli intellettuali in rossi e neri?

«Ho goduto molto quando il ministro Sangiuliano in un’intervista alla Stampa di Torino, tempio del pensiero azionista, ha citato proprio Bobbio ritorcendo le sue categorie contro chi a sinistra ragiona ancora con il bianco e nero anziché con i colori».
Che cosa pensi di ciò che è accaduto in occasione delle scelte per la rappresentanza italiana alla Fiera del libro di Francoforte anche dopo l’invito di Mauro Mazza a Roberto Saviano?

«Premesso che è un perseguitato dalla camorra e che a mio parere dopo Gomorra Saviano non ha scritto nulla di altrettanto interessante, mi piacerebbe che fossero valorizzati altri scrittori come, per esempio, Sergio Claudio Perroni. Il quale, purtroppo, è morto, ma il suo peggior libro vale quanto il miglior libro di Saviano».
Altra obiezione al dialogo è l’espansione della cancel culture e della cultura woke, che partono dalla superiorità del presente sul passato e delle élite sul popolo?
«Il suprematismo antropologico e la violenza distruttiva della cancel culture sono un’abiezione. Ma se la si guarda da vicino, come per esempio ha fatto Piergiorgio Odifreddi nel suo libro in cui ha ridicolizzato la scwha, si capisce che la cancel culture morirà di autofagia, perché tutti i suoi protagonisti non fanno che trovare elementi inibitori da cancellare. Finché non cancelleranno anche loro stessi».
Ci vorranno decenni?
«La fase di rigetto della cancel culture inizia a coinvolgere anche la sinistra».
Perché sostieni che creare occasioni di dialogo sia un discorso di destra?
«Perché la sinistra vive con le cuffiette e ascolta solo la propria musica. Ma ora una destra matura e avanzata cambia spartito e fa scoprire anche alla sinistra una musica migliore».
Gli intellettuali di Capalbio o con l’attico a New York sono davvero meno ascoltati?
«All’intellettuale di Capalbio, dove ha appena vinto la destra, che sopravvive come categoria dello spirito, non vorrei contrapporre l’intellettuale di Coccia di morto. Anziché attaccare i radical-chic che si stanno estinguendo, dovremmo essere un po’ più chic noi, imparando le buone maniere».
A me pare che siano ancora riveriti, accolti come oracoli nelle televisioni e premiati all’estero, dove esibiscono sussiego e disprezzo per chi non si allinea. Questo zoccolo è ancora duro?
«È duro e spesso anche abbastanza qualificato e ben sostenuto dal sistema culturale. Ma questo lo sosteneva già Giuseppe Berto. Appena diventeremo tutti come Giuseppe Berto li annienteremo perché valgono la metà dei suoi coetanei. Ma la vera domanda è: diventeremo come Giuseppe Berto?».
Secondo te?
«È un compito più che una certezza. Penso che siamo pieni di Giuseppe Berto potenziali che stanno suggendo il latte della mamma e noi dovremo farli crescere».
Il primo anno di gestione della tv pubblica fa ben sperare?
«È stato un anno di transizione. Confido che la nuova dirigenza saprà dare il meglio di sé una volta che l’assetto sarà consolidato e talune incertezze, come quelle che abbiamo tutti, serviranno da lezione».
Nel mondo ideale ipotizzato da Daniel Salvatore Schiffer «l’intellettuale del ventunesimo secolo sarà prismatico o non sarà. Sarà artistico prima che politico, amante del dubbio e nemico del dogma, impegnato ma non militante, e qualsiasi sua adesione a una rivoluzione sarà sempre metafisica e mai ideologica, libera e non partigiana, critica e non fanatica». Chi può realizzare questa utopia?
«Un’idea del genere è talmente liberale che la può esprimere solo una destra illuminata».
Una visione realistica evidenzia il prevalere dell’intolleranza, soprattutto a sinistra.
«Parlando di coloro che vivono nella realtà senza consapevolezza Eraclito li definiva presenti assenti. Al contrario, gli intellettuali di destra sono stati assenti presenti. Ora è arrivato il momento di essere presenti presenti».

 

La Verità, 22 giugno 2024

 

«Più che un diritto l’aborto è una tragica necessità»

Tornare ai fondamentali» sono le prime parole di «Ma io ti ho sempre salvato», il nuovo libro di Luciano Violante, sottotitolo: La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri). Un centinaio di pagine dense e commoventi soprattutto nel capitolo finale, dedicato a «Le mie morti». I «fondamentali», infatti, sono la vita e la morte. Alla cui dialettica inesauribile l’ex magistrato, già presidente della Camera e attuale responsabile della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, dedica la sua attenzione più ancora che all’altra coppia di categorie, guerra e pace, solitamente ritenuta prioritaria.
Presidente Violante, questo libro è una riflessione filosofica, civile o esistenziale?
Soprattutto civile.
Mossa da cosa?
Dalla mia età. Hai la possibilità di guardare attorno. Viviamo circondati dalla morte, sia a causa delle guerre sia per gli annegamenti dei migranti. C’è una grande campagna per la dignità della morte; ne manca una analoga per la dignità della vita.
Chi era sua madre?
Una donna di grande determinazione e forza di volontà. Garbo e fermezza nel rapporto con gli altri.
Che cosa vuol dire il titolo del saggio «Ma io ti ho sempre salvato»?
È una frase che mi ha detto negli ultimi giorni di vita quando sono stato con lei in ospedale. Dai suoi deliqui ho capito le aggressioni che ha subito, prima nel campo di concentramento inglese in Etiopia dove sono nato, e poi nel percorso da Napoli al paese di mio padre, in Puglia, quando lui, comunista,  era ancora prigioniero degli inglesi. Mi guardava, sorridendo: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva. Nel campo di Dire Dawa  alcune amiche l’avevano invitata ad abortire, «Vuoi far nascere tuo figlio in questo immondezzaio?». Ma lei mi aveva salvato, facendomi nascere. Allora penso a tutte le madri che non possono dirlo perché hanno perso i loro figli, magari annegando in mare. Mi ha colpito molto sapere che sui fondali marini si trovano cadaveri di madri stretti a quelli di bambini piccoli.
Perché, mentre incombono due conflitti che turbano il mondo invece che sul dualismo guerra-pace si dedica a quello tra vita e morte?
La dialettica tra guerra e pace riguarda gli Stati, quella tra vita e morte riguarda le persone, quindi è più profonda. Se ci battessimo per la vita piuttosto che per la pace saremmo ascoltati di più.
«Le questioni della vita e della morte andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo»: ammette che può stupire scritto da lei, uomo di diritto?
Chi conosce il diritto, ne conosce anche i limiti.
Li conosceva anche 20 o 30 anni fa?
Con l’andare del tempo matura una visione più profonda delle cose grazie alle esperienze su cui la vita ci fa riflettere.
Che cos’è la «biopolitica» e come può rinnovare l’impegno per il bene comune?
La biopolitica si compone delle riforme che favoriscono la dignità della vita. Noi abbiamo una politica degli asili diversa da quella della scuola, a sua volta diversa da quella del lavoro e della salute. Un governo dovrebbe saperle promuovere insieme, collegandole organicamente le une alle altre.
Che cosa pensa del fatto che la sinistra, un’appartenenza che non so se per lei è ancora valida… Anzi, si considera ancora un uomo di sinistra?
Assolutamente sì.
Che cosa pensa del fatto che aborto, eutanasia, suicidio assistito, i diritti per cui si batte la sinistra, hanno a che fare con la morte?

Non si batte solo per questi, ma anche per il salario minimo e per una sanità efficiente.
Ma i diritti civili sembrano avere questa inclinazione.
Noto un allargamento importante ai diritti sociali.
Cosa pensa dell’impegno del presidente francese Emmanuel Macron, il leader intellettuale dell’Unione europea, nell’introdurre l’aborto come diritto nella Costituzione continentale dopo averlo fatto in quella del suo Paese?
Non credo che l’aborto possa definirsi  un diritto;  può essere in alcune circostanze una tragica necessità. Comunque noi uomini su questo tema dovremmo lasciare la parola alle donne.
Concorda con la convinzione diffusa che, siccome incombono conflitti, catastrofi ambientali e pervasivi domini tecnologici, è meglio non procreare?
Non concordo. È una forma di egoismo che ci fa consumare tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
C’è anche chi ipotizza un contenimento delle nascite per non peggiorare lo stato del pianeta.
Il problema è gestire la presenza umana in modo tale che non provochi danno all’ambiente. Se ci sono meno esseri umani, ma ci si comporta male ugualmente, la situazione non migliora.
I giovani di «Ultima generazione» lamentano l’eco-ansia: oltre a causare nuovi protagonismi, i toni apocalittici causano anche nuove patologie?
Mi colpiscono le rivendicazioni dei giovani attorno ad alcuni grandi temi. Che a Gaza sia in corso un massacro è difficile negarlo. Apprezzo anche la mobilitazione dei ragazzi che in Georgia si ribellano alla legge russa che pretende di controllare le associazioni culturali.
Si può parlare davvero di un nuovo Sessantotto?
No. Il Sessantotto esprimeva una teoria generale contro il potere, oggi siamo di fronte a mobilitazioni su fatti specifici attorno ai quali si costruisce consenso e dissenso.
Anche se in alcuni casi il dissenso è poco tollerato da questi giovani.
Chi esercita un potere politico si espone e sa che può essere oggetto di critiche. Anche a me è capitato. Una volta, a Genova, un gruppo che dissentiva da quello che dicevo mi svuotò una bottiglia d’acqua in testa.
Non piacevole, però dissentivano da qualcosa che era riuscito a dire. Oggi accade che s’impedisca di parlare.
I comportamenti che abbiamo visto attuare nei confronti del ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, che conosco e stimo, sono sbagliati. Tuttavia il politico deve mettere in conto la critica anche aggressiva. Ma impedire di parlare a chi la pensa diversamente è inaccettabile.
Secondo lei l’inverno demografico è causato dalle scarse politiche di sostegno alle famiglie o da un’idea disimpegnata della vita delle giovani coppie?
Credo che il costo della crescita di un bambino, calcolato in 600 euro al mese, sia in molti casi insostenibile.
Perché negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in condizioni di maggior povertà, si è comunque verificato il boom demografico?
Eravamo più abituati a essere poveri perché lo eravamo tutti. Non ci sentivamo obbligati a possedere una certa automobile, una certa tv, un certo frigorifero.
Quindi il mantenimento di un certo tenore di vita c’entra.
Reggere un normale tenore di vita e in più spendere 600 euro per un bambino non è alla portata di tutti. Quanto costa oggi in carburante e in trasporti spostarsi quotidianamente dalla periferia al centro?
Scrive che essere intellettuali non è un privilegio, ma una responsabilità. Qual è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea?
Dare un senso a quello che accade.
Un compito ben diverso da come viene interpretato da quelli più gettonati dai media.
Certo, è una cosa diversa. In quei casi siamo nel campo dello spettacolo.
Che cosa pensa del sistema Liguria? Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli?
Vorrei capire un po’ tutto. Da qualche stralcio di intercettazioni abbiamo intuito che qualcosa di marcio c’era. Quanto, lo capiremo quando avremo tutti gli elementi in mano.
Troverà mai un equilibrio stabile il rapporto tra politici e magistrati?
È un equilibrio per sua natura instabile. In America Donald Trump è sotto processo, la giustizia francese ha condannato Nicolas Sarkozy e in Spagna è stato fatto il governo grazie all’amnistia, azzerando decine di  condanne.
È ovunque un rapporto travagliato.
Per sua natura: giustizia e politica sono due sovranità in perenne tensione, che hanno i confini in comune.
È favorevole alla riforma per la separazione delle carriere?
È inutile perché sono già separate. In alcuni paesi si ritiene positivo che si passi da una competenza all’altra.
Magari dove la magistratura è meno militante.
In Francia non scherza.
Quando morì una zia ultracentenaria lei disse «è calato il sipario», mentre una suora sussurrò «forse si è sollevato». L’eternità la spaventa?
No. Il punto è questo: come può un qualunque essere umano pretendere di cogliere la  complessità del divino?
Sicuramente non può circoscriverlo come ipotizzava il razionalismo illuminista.
Con la pretesa di spiegare tutto. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti.
Presidente, lei cancella dalla rubrica del cellulare i numeri delle persone che non ci sono più?
Quello di mia moglie certamente non lo cancellerò.

 

Panorama, 22 maggio 2024

«Porto a Francoforte l’Italia ignorata finora»

«La cultura che unisce». È questo il contributo che Mauro Mazza vuole dare con il suo mandato di Commissario straordinario dell’Italia ospite d’onore della prossima Fiera di del libro di Francoforte (dal 15 al 20 ottobre), il più prestigioso appuntamento internazionale di letteratura e imprenditoria editoriale. Dopo anni, forse decenni, di proposta orientata dalla solita parte, con la nomina di Mazza, voluta nel giugno scorso dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, le cose cambiano. Ci si apre al confronto e a una rappresentanza più larga e articolata. È la svolta del nuovo commissario, giornalista e scrittore di lungo corso, già direttore del Tg2, di Rai 1 e di Rai sport, autore di saggi, romanzi e brevi recensioni su Instagram. Che, in questa intervista con La Verità, si pronuncia sullo stato della cultura oggi in Italia.
Definiti il titolo, «Radici nel futuro», e gli ambasciatori, Susanna Tamaro, Stefano Zecchi e Carlo Rovelli, quali sono le prossime tappe di avvicinamento a Francoforte?
«Ieri sono stato all’inaugurazione della Fiera di Varsavia che, come altri appuntamenti, per esempio quello di Tunisi qualche settimana fa, ha l’Italia ospite d’onore. Il 28 maggio presenteremo 100 autori per altrettanti appuntamenti. Un’alternanza di incontri degli scrittori con il pubblico e alcuni assolo che riserviamo a tre autori rappresentativi come Dacia Maraini, Claudio Magris e Alessandro Baricco. Il mio obiettivo è caratterizzare il programma con la pratica del confronto».
Come ci si prepara a essere monitorati dalla cultura mondiale?
«Quando, nel 2018, grazie all’accordo tra la Fiera e l’allora ministro della Cultura Dario Franceschini, si stabilì che quest’anno il nostro sarebbe stato il Paese ospite, si immaginava di rappresentare un’altra Italia».
Invece?
«Non è che portiamo in Fiera il governo Meloni, ma ci impegniamo a proporre, accanto alle culture che sarebbero comunque state presenti, altre opzioni, altre voci, altri mondi. Che, posso dirlo con certezza, se ci fosse stata l’Italia politica di ieri, non si sarebbero visti. Il nostro lavoro è aggiungere, non sottrarre».
C’è continuità o discontinuità con l’ultima volta che, 36 anni fa, il nostro Paese è stato ospite d’onore:?
«Al recente Salone del libro di Torino ci siamo confrontati sulle due epoche con Stefano Rolando, mio omologo nel 1988. Quello di allora era un altro mondo, con un’altra Italia e un’altra Germania; che, anzi, erano due. Il nostro ministro degli Esteri era Giulio Andreotti, per dire. Quest’anno torneranno Maraini e Magris che ci rappresentavano anche allora, ma per fortuna ci saranno anche scrittori che 36 anni fa non erano ancora nati. “Radici nel futuro” significa anche questo».
Un evento, un’idea su cui punti?
«Puntiamo sulla cultura che unisce. Unisce attraverso confronti, laddove la politica è condizionata da pregiudizi e dal rifiuto di un vero dialogo. La cultura unisce in Europa, laddove l’Ue è troppo condizionata da interessi nazionali che si contrappongono. La cultura unisce Europa e Russia, laddove le armi dettano legge purtroppo ben più delle comuni radici culturali che da sempre legano i due popoli».
Un’anticipazione concreta?
«Ci chiederemo se questa Europa che ha scientemente tagliato le proprie radici giudaico-cristiane abbia fatto una scelta saggia o miope e suicida. Lo faremo con l’aiuto di testimoni molto autorevoli delle culture cattolica ed ebraica».
Nomi?
«Ancora non li posso anticipare. Ma al di là dei protagonisti, ormai definiti, vorrei farti un esempio di quanto quella rinuncia si propaghi nel presente».
Prego.
«In queste settimane sto leggendo i libri finalisti al premio Strega. Finora ne ho letti nove su 12 e mi colpisce che in tutti questi romanzi non spunti mai un accenno all’anima e al divino. Un’invocazione, un grido. O una bestemmia, una denuncia della distrazione di Dio. Niente. Eppure si parla di morti, di nascite, di amori, di amicizie di ogni tipo, di natura. Ma mai ci si rivolge al trascendente, a qualcosa che superi la dimensione terrena e materiale della vita. Dio, se c’è, non c’entra; non mi riguarda. Domina l’ateismo pratico: l’uomo, la vita, e anche la letteratura, sono ridotti alla dimensione orizzontale».
Una proposta moderata italiana è mancata finora a Francoforte perché manca anche nella nostra cultura?
«Un vero pluralismo nella cultura italiana non c’è da 100 anni. Dai tempi di riviste come La Voce di Giuseppe Prezzolini che lavorava con Giovanni Papini, Antonio Gramsci, Piero Gobetti, Giovanni Amendola e tanti altri. Dopo il fascismo, la Dc ha fatto la spartizione con il Pci: a noi la politica a voi la cultura. Infine, anche Silvio Berlusconi non si è preoccupato di comprendere la cultura nella sua rivoluzione liberale. Non ha alterato i cataloghi Mondadori e Einaudi nemmeno di un titolo».
Ma ai tempi delle elezioni del 1996 ingaggiò Lucio Colletti, Saverio Vertone, Giorgio Rebuffa, Piero Melograni e Marcello Pera.
«Tutti nomi importanti e anche culturalmente lontani dal centrodestra. Però, a distanza di tempo, a eccezione del presidente Pera, mi chiedo quale traccia abbiano lasciato con quella loro esperienza oltre la conquista degli scranni parlamentari».
Il governo attuale e il ministro Sangiuliano lavorano per avvicendare l’egemonia culturale di sinistra?
«Il ministro Sangiuliano sta tentando meritoriamente di realizzare un vero pluralismo in cui nessuno si senta escluso, ma tutti abbiano lo spazio e le tribune per esprimersi».
Riequilibrio è la parola usata da Giorgia Meloni a proposito della Rai che invece è stata ribattezzata TeleMeloni. Cosa ne pensa uno che ci ha lavorato per 26 anni?
«Parlo da telespettatore che viene invitato a dire la sua in qualche talk show. Non mi è mai capitato di trovarmi in un programma in cui fossero maggioritarie posizioni di centrodestra. E parlo di tutte le reti, indifferentemente. Sia a Mediaset che in Rai può capitare di far parte di un panel in cui siano rappresentate le diverse opzioni. Mentre capita spesso in Rai, che dovrebbe essere TeleMeloni, di essere in netta minoranza. Per non parlare di La7 dove… che te lo dico a fa’».
Quindi TeleMeloni?
«Può essere che il Tg1, che è il giornale più autorevole e sempre storicamente favorevole al governo in carica, abbia un sommario ispirato a questo suo Dna. Ma ricordiamoci che una volta i direttori del Tg1 non cambiavano con le elezioni politiche, ma con i congressi democristiani, a seconda della corrente vincitrice».
Cosa pensi dell’esodo di alcuni professionisti importanti dalla Rai?
«Penso che sta nascendo un terzo polo con cui tutti gli editori televisivi dovranno misurarsi. E che questo esodo, chiamiamolo così, ha poco a che vedere con una presunta epurazione politica. Ma somiglia piuttosto a quello che accadde negli anni Ottanta quando Berlusconi a suon di miliardi strappò alla Rai i vari Mike Bongiorno, Raimondo Vianello, Raffaella Carrà e Pippo Baudo».
Solo che allora Biagio Agnes chiamò Adriano Celentano.
«E rivolto a Berlusconi disse: chillo ha da murì».
Concordi con chi pensa che finora il nuovo corso Rai non abbia prodotto volti e formati significativi?
«La stagione che finisce è stata transitoria e di rodaggio perché gli incarichi apicali saranno rinnovati nelle prossime settimane, mentre il Cda è rimasto lo stesso di prima. Per Viale Mazzini è stato un anno zero. La prossima stagione sarà quella della verità».
Se i lamenti sono stati così alti durante l’anno zero, cosa succederà nell’anno uno?
«Spero che la Rai, patrimonio nazionale, faccia scelte produttive efficaci. Al di là delle convenienze politiche è un bene pubblico che va tutelato. Sono sicuro che un uomo di cultura e di televisione come Giampaolo Rossi farà molto bene».
C’è una difficoltà a costruire una proposta culturale moderata apprezzabile dal grande pubblico? E qual è la causa di questa difficoltà?
«Per la cultura moderata non c’è mai stata l’opportunità concreta di manifestarsi. Questa è la difficoltà. Tuttavia, non va nemmeno coltivata l’illusione che, qualora ci fosse la pari opportunità, esplodano geni che finora non hanno potuto esprimersi. È una semina in profondità che darà frutti, forse, fra qualche anno. Ma se non si semina, di sicuro non li darà mai».
Se a sinistra si esagera in amichettismo, che è un modo magari antipatico di fare rete, a destra si pecca di individualismo?
«Il far parte per sé stessi è il vizio connaturato all’intellettuale di destra. Il risvolto positivo è non appartenere a consorterie, mentre quello negativo è non saper fare squadra».
Perché, parlando di case editrici, in quell’area ci sono tanti piccoli marchi, ma non c’è l’Einaudi o la Feltrinelli di destra?
«Perché dal dopoguerra la cultura è orientata a sinistra».
Si potrebbero realizzare fusioni e creare marchi più competitivi?
«Torniamo all’individualismo di cui sopra. Per pensare in grande ci vogliono grandi finanziatori e grandi idee».
Mancano più i primi o le seconde?
«Nell’ambito culturale che un tempo si definiva anticonformista tanta buona volontà è rimasta e buone idee circolano. Quanto ai finanziatori, bisogna aspettare che il quadro d’assieme si consolidi, a suon di elezioni».
È vero che la classe politica di destra pecca di vittimismo come dicono i grandi giornali?
«È una strana classe giornalistica quella che lamenta che la Meloni scelga i suoi interlocutori e disdegni le conferenze stampa. È lo stesso gruppo di giornalisti che si sperticava per il premier Mario Draghi al quale non ricordo siano state poste domande scomode. Noto, invece, che certi giornalisti si lanciano in ruoli di supplenza dei politici di opposizione che, a loro detta, non farebbero bene il loro mestiere».
È una reazione a quella che si ritiene l’usurpazione di un potere detenuto dalle solite élite?
«Proprio la Rai è l’emblema di questo meccanismo. Lo disse Giuliano Amato negli anni Novanta quando dichiarò che la sinistra italiana la concepiva come cosa sua, e perciò inattaccabile, intoccabile, intangibile. È la stessa logica che, spesso, porta a rigettare il responso elettorale di due anni fa e a reagire opponendosi a tutte le azioni figlie di quel risultato».
Mi dici un’idea guida non come commissario italiano a Francoforte, ma come Mauro Mazza?
«Mi viene in mente una frase di Pietro Nenni: “Fai quel che devi, accada quel che può”».

 

La Verità, 25 maggio 2024