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Nazionale? Il nostro calcio ha minato l’idea di nazione

Perché le nostre squadre di club disputano finali europee e, in qualche caso, come quello dell’Atalanta, le vincono, e la nostra Nazionale colleziona figuracce in serie? La domanda sorge spontanea e, subito, ne chiama un’altra: che tipo di Nazionale vuoi mettere in campo se, negli anni, il tuo movimento calcistico ha demolito il concetto di nazione?
I processi al commissario tecnico Luciano Spalletti e ai nostri modesti giocatori sono già iniziati, ma rischiano di pagare dazio a un errore di prospettiva. Forse serve uno sguardo più lungo per individuare le ragioni dell’ennesima débâcle azzurra. Da otto anni la Nazionale non si qualifica ai Mondiali, l’ultima volta estromessa dalla medesima Svizzera, allenata da Murat Yakin, tecnico turco con una testa dotata di idee e di un’invidiabile chioma. La Svizzera, che non ha mai vinto nulla. Anche la Spagna, di un gradino superiore, ci aveva annichilito e solo la prestazione di Gigio Donnarumma aveva evitato il risultato da pallottoliere. Il pareggio all’ultimo secondo contro la Croazia aveva sciaguratamente illuso i numerosi analisti che si erano spinti a scrutare il tabellone oltre lo scoglio elvetico. È bastata l’incursione di Remo Freuler, che milita nel Bologna, a sgretolare le euforie che allignavano nel nostro spogliatoio e negli studi televisivi della teleparrocchietta, preoccupati dell’ombelico dell’audience. Quanto all’umiliazione finale hanno provveduto le geometrie di Garin Xhaka (Bayer Leverkusen) che ha guardato dall’alto in basso i nostri smarriti mediani e, a inizio ripresa, il destro a giro di Ruben Vargas (Augsburg) che ha concluso un’azione da manuale, indisturbata dal nostro presepe difensivo. Lo abbiamo visto tutti anche se la nostra Nazionale era inguardabile e la tentazione di cambiare canale cresceva con il passare dei minuti. Dunque, il bilancio di Euro2024 è terrificante e ora gli smarrimenti sono diffusi e incontrollati. Vedremo se si trarranno conseguenze adeguate. Tuttavia, sarebbe ancora fuorviante limitarsi a un’analisi di breve periodo. Perché le nostre squadre sono competitive nelle coppe e la Nazionale naufraga? La vittoria agli Europei di tre anni fa, era post Covid, ci aveva illuso, ma guardandola in prospettiva appare sempre più come il frutto di una serie di convergenze favorevoli.

Dai mondiali in Brasile del 2014, quando non superammo la fase a gironi, a Cesare Prandelli sono succeduti quattro commissari tecnici (Antonio Conte, Giampiero Ventura, Roberto Mancini fino a Luciano Spalletti), mentre il capo della Federazione Gabriele Gravina è inamovibile dal 2018. La nostra crisi viene da lontano. Da quanto non abbiamo campioni di livello mondiale? All’inizio del ritiro Spalletti aveva convocato i numeri dieci storici, Gianni Rivera, Giancarlo Antognoni, Roberto Baggio, Alessandro Del Piero e Francesco Totti per motivare la truppa. Da quanto tempo non abbiamo difensori (Claudio Gentile, Antonio Cabrini, Beppe Bergomi, Paolo Maldini, Franco Baresi), centrocampisti (Marco Tardelli, Salvatore Bagni, Carlo Ancelotti) e attaccanti (Aldo Serena, Luca Toni, Gianluca Vialli, Filippo Inzaghi, senza scomodare l’immortale Gigi Riva) di qualità? Ognuno faccia la propria lista inconfrontabile con lo status quo nel quale il primo italiano della classifica dei cannonieri è Gianluca Scamacca, undicesimo.
Il nostro movimento calcistico ha cancellato l’idea di Nazione, le squadre sono quasi interamente composte da stranieri: 8 titolari su 11 la Juventus e il Napoli, 10 su 11 il Milan, 6 su 11 l’Inter che infatti ha fornito la quota maggiore alla Nazionale suggerendo a qualcuno il patetico neologismo InterNazionale. Al contrario, solo due azzurri giocano all’estero: Gigio Donnarumma al Psg e Jorginho all’Arsenal (dimenticando Sandro Tonali, squalificato, al Newcastle). Questo è il termometro: i calciatori italiani nelle squadre italiane sono in stragrande minoranza, e il senso di appartenenza non può che difettarne. Il risultato si vede quando questi calciatori residuali vengono assemblati nelle competizioni che ancora si chiamano «per nazioni». L’intenzione di questa nota non è un rigurgito di anacronistico nazionalismo, quanto una riflessione pragmatica sull’impegno e la cura dei nostri vivai, sulla necessità di contingentare l’ingresso dei giocatori stranieri e sull’imperativo di ripristinare un minimo grado di umiltà negli spogliatoi giovanili (dove invece serpeggiano noia e vacuità, come i casi di ludopatia hanno di recente evidenziato, e senza aprire qui il capitolo di ciò che accade nelle tribune e nei campetti dei tornei per ragazzi). Urge ricominciare dall’abc dei fondamentali e subordinare alla tecnica gli apprendimenti di natura tattica che, invece, predominano. Perché, poi, quando ci si confronta a livello di nazionali, serve a poco conoscere le alchimie del 4-3-3 o del 3-5-2 se poi non si sa stoppare il pallone e completare tre passaggi di fila.

C’è molto da lavorare, dunque, e possibilmente in fretta, se si vuole invertire la rotta e provare a qualificarci per il mondiale americano del 2026. Le riforme e i cambiamenti difficili sono quelli che iniziano dalla mentalità e, solo di conseguenza, riguardano gli organigrammi. È da qui che bisogna ripartire, da un cambio di passo che cominci nei vivai, e che, forse, dovrebbe essere guidato da ex campioni, modelli in campo e fuori dal campo. Il precedente delle dimissioni di Roberto Baggio da presidente del settore tecnico della Figc, anno 2013, non fa ben sperare. Però, ugualmente, buon lavoro.

 

La Verità, 1 luglio 2024

«Spalletti è l’uomo giusto per la nostra Nazionale»

Pur avendo girato il globo e seguito nove Mondiali, Paolo Condò ama tornare alle origini. «La domenica sera», racconta, «vado sempre a vedere che cos’ha fatto la mia Triestina che adesso milita in Serie C. E anche se non so a memoria la formazione, quando scopro che ha vinto qualche endorfina si sveglia». Opinionista principe di Sky Sport ed editorialista di Repubblica, dal 2010 Condò è l’unico giornalista italiano presente nella giuria che assegna il Pallone d’oro, il premio organizzato dalla prestigiosa rivista France Football.

L’invasione araba è un evento positivo o negativo per l’Europa e l’Italia?

«Come tutti gli eventi, all’inizio non è facile da interpretare. Non sappiamo se essere contenti perché stanno affluendo soldi per colmare i buchi dei bilanci delle società o se, come avvenuto in passato, i nostri club ne creeranno altri di ancora più profondi. Un fatto simile è già accaduto quando la Premier league ha iniziato a prendere i nostri giocatori migliori, riempiendo di assegni i club, senza però che i loro bilanci migliorassero granché».

Per qualcuno è un’occasione di crescita per altri l’inizio della fine.

«In questi ultimi dieci anni l’Uefa ha imposto il fair play finanziario. Ma anche se società come il Manchester City o il Paris Saint-Germain hanno trovato i modi per dribblarlo, ci siamo accorti che applicando le regole si riesce a fermare la tendenza a indebitarsi e a salvare molti club. Come provocazione un po’ utopistica ho proposto che Uefa e Fifa insieme invitino due squadre della Saudi league a partecipare alla Champions, in cambio della loro adesione al fair play finanziario».

A che scopo?

«Di evitare che spendano senza limiti. Ricordiamoci che i Sauditi hanno un piede nei loro campionati e un altro in quelli europei, soprattutto in Premier league. Se possiedo una società in Europa che deve sottostare al fair play e un’altra in Arabia che non ha vincoli, come il Public investment fund (Pif ndr) proprietario del Newcastle e dell’Al-Nassr di Cristiano Ronaldo, posso spostare tutti i debiti nella seconda, creando una forte anomalia sistemica».

Considerando i contrasti tra Uefa e Fifa non c’è da essere ottimisti, ma in passato il calcio europeo ha retto alla scoperta del mercato americano e di quello cinese.

«C’è un precedente storico che risale al 1949, quando la Colombia cominciò a prendere giocatori del calibro di Alfredo Di Stefano senza che le squadre argentine potessero tutelarsi. In quei quattro anni il campionato colombiano divenne il più importante al mondo e solo quando la Colombia rientrò nella Fifa le cose si sistemarono. Più che la scoperta del calcio americano o cinese, che comunque seguivano regole comuni, ciò che sta accadendo oggi con l’Arabia ricorda l’El Dorado colombiano».

Quello arabo è determinato dalla sconfinata liquidità dei fondi?

«Che per di più non devono ottemperare al fair play finanziario. Mi auguro che l’invasione araba sia l’occasione per ridisegnarlo in modo restrittivo affinché anche le squadre-Stato come il Psg o il City non riescano a dribblarlo».

Firmando con l’Al-Hilal Neymar ha detto che ha sempre desiderato essere un «calciatore globale»: la frontiera araba esaspera questo processo?

«Lo estremizza. Oggi l’Europa rischia di diventare un continente produttore di giocatori sfruttato da altri come il Sudamerica. Fortunatamente credo che piazze come Madrid, Barcellona, Londra, Manchester, Monaco, Milano, Roma o Napoli troveranno risorse per resistere».

Cosa la fa essere così ottimista?

«Siamo specializzati nel prendere gli scarti dei campionati maggiori, raggiungendo comunque ottimi risultati. La finale Champions di quest’anno si è disputata tra un club che ha investito un miliardo di euro, e un club italiano costretto tutti gli anni a vendere il proprio uomo migliore per restare in equilibrio. In campo si è sempre 11 contro 11, e comprare i 25 giocatori più forti del mondo non sempre fa questa gran differenza».

È inevitabile che il tifo, riserva di appartenenza, contesti il calcio mercenario alla Neymar?

«I tifosi sono giustamente critici. Io la domenica sera guardo il risultato della mia Triestina… Neymar è un caso di scuola perché è un giocatore che, avendo dato la precedenza ai soldi, ha vinto meno di quanto facevano prevedere le sue grandi potenzialità. Solo andando al Psg sembrava aver fatto una scelta da campione, perché si era accorto che al Barcellona sarebbe sempre stato nell’ombra di Messi. Ma poi è arrivato Mbappé che è più forte di lui. Ora, anziché andare in Premier o venire più umilmente in Italia, si congeda dal calcio europeo senza aver lasciato il segno, e ripara in Arabia».

Una volta ci andavano i giocatori a fine carriera oggi ci va anche chi potrebbe essere ancora competitivo.

«Sfido a dire i nomi delle squadre che hanno preso Milinkovic-Savic, Koulibaly, Brozovic. Capisco la decisione di Cristiano Ronaldo a 37 anni, ma quella di tanti altri mi appare una scelta malinconica. Il nostro campionato è il più colpito dal vento d’Arabia perché, dopo un’esperienza modesta all’estero, giocatori come Koulibaly o Kessie avrebbero potuto tornarci».

Ieri Gianni Rivera ha compiuto 80 anni, l’esaltazione e l’attaccamento ai campioni appartiene alla sfera della nostalgia?

«No. Tuttora, non soltanto i campioni ma anche i giocatori normali, creano legami profondi. Il calcio trasmette emozioni. Sono le emozioni a far acquistare abbonamenti alle pay tv, comprare giornali e biglietti dello stadio. Le azioni dei giocatori hanno a che fare con l’aspetto eroico della vita perché loro sono i nostri eroi».

Un po’ meno se si pensa alla cessione di Tonali al Newcastle, al caso Lukaku o all’acquisto di Cuadrado da parte dell’Inter?

«Sono rimasto sorpreso quando la Juventus non ha rinnovato il contratto a Cuadrado perché lo ritenevo un giocatore con benzina nel serbatoio. Quando entra in area, i difensori devono stare attenti perché è uno che cerca il rigore… Ho trovato molto divertente che alcuni tifosi interisti abbiano detto: lo prendiamo, ma lo rieduchiamo. Succederà che Cuadrado continuerà a giocare con il suo stile e a procurarsi rigori generosi, ma i tifosi dell’Inter, esattamente come facevano quelli della Juve, vedranno un rigore solare. È l’automatismo del tifo. Che non è disonestà, ma una sorta di simpatica malattia».

Cosa pensa delle dimissioni di Roberto Mancini?

«Ci sono alcune cose che continuo a non capire. Personalmente, mi ha intristito che, pur avendo uno storico rapporto con lui, non mi abbia suggerito nessuna pista sulla quale lavorare, mentre mi congratulo con i colleghi che l’hanno avuta».

È stato giusto chiedere di togliere la clausola che prevedeva il licenziamento in caso di mancata qualificazione agli Europei?

«Direi di no. Ho sostenuto che fosse suo diritto rimanere Ct malgrado l’eliminazione dai Mondiali perché, per me, quella dell’Europeo 2021 è stata una vittoria fantastica, mentre quell’eliminazione è l’esito di una concomitanza di sfighe incredibili. Detto questo, dopo aver subito quel fallimento, non puoi trovare penalizzante una clausola che cessa il contratto se non riesci nuovamente a qualificarti per un grande evento. Sono convinto che in quel caso sarebbe stato lui per primo a dimettersi».

Il presidente della Figc Gabriele Gravina ha sbagliato a inserire Barzagli e Buffon e a ventilare l’innesto di Bonucci nello staff di Mancini?

«Trovo che Gravina abbia agito con leggerezza nella ristrutturazione dello staff. So che Mancini è abituato a lavorare con i suoi fedelissimi. Già la perdita di Gianluca Vialli, da sempre una sponda per lui, lo aveva molto provato. Quando è stato comunicato il nuovo staff, mi è sembrato strano che avesse accettato l’allontanamento di Lombardo, Evani e Nuciari. Non a caso qualcuno ha notato la sua assenza al momento della comunicazione del nuovo organico».

Che cosa pensa dell’operato di Gravina in tutto il suo mandato? C’è chi ne chiede le dimissioni.

«Trovo che abbia lavorato molto bene durante la pandemia. E che questo sia stato il problema più grosso durante i suoi mandati. Certo, ci sono diverse cose che non vanno, ma ricordo che all’epoca il ministro dello Sport Carmine Spadafora non mi dava affidamento. Perciò, continuo a dar credito a Gravina per l’operato di allora».

Spalletti è l’uomo giusto per la Nazionale?

«Sì, per definizione. Ha gli anni e la credibilità che gli deriva dalla vittoria di uno scudetto meraviglioso. Credo che farà molto bene».

Che cosa pensa del finale di partita tra Bonucci e la Juventus?

«Penso che si rovina una grande storia, la fine di un rapporto così lungo si gestisce e si concorda».

Bonucci non è uno da miti consigli?

«Ha fatto una carriera straordinaria, partecipando alla vittoria di otto scudetti consecutivi. Non si può andare in Paradiso a dispetto dei santi. Del Piero andò a giocare in Australia, Chiellini è andato nell’Mls, Buffon al Psg e poi al Parma».

Stasera lei sarà nello studio di Alessandro Bonan dopo gli anticipi della prima giornata: chi è il suo favorito per lo scudetto?

«Il Napoli. Quando si vince in quel modo il campionato precedente e si perde solo Kim e sì, anche Spalletti, è difficile che le altre azzerino il divario in una sola estate. Mettiamola così: Rudy Garcia è seduto sulla panchina più scomoda perché eredita una gran bella macchina e deve dimostrare di saperla tenere in pista».

Giovedì ci sarà il sorteggio delle coppe europee: che cosa augura alle nostre squadre?

«Si è detto che l’anno scorso sono state fortunate per i sorteggi favorevoli ma, pur riconoscendolo, va aggiunto che hanno fatto un ottimo lavoro. Le tre finali non devono essere considerate una vacanza fra i ricchi, ma un punto di ripartenza per restare nell’élite».

Al timone di Sky Champions Show cambia il pilota.

«Federica Masolin prende il testimone da Anna Billò che a sua volta l’ha ereditato da Ilaria D’Amico, due conduttrici che a loro modo hanno segnato un’epoca. Federica è il volto emergente di Sky e io sono pronto a sostenerla, anche perché è friulana e, da triestino, sarò suo complice».

Gli altri componenti sono tutti confermati, squadra che vince…

«Ci saranno Fabio Capello e Billy Costacurta e Cambiasso si alternerà con Di Canio e Del Piero. Sono orgoglioso di essere l’unico giornalista seduto a quel tavolo».

Il miglior giocatore del nostro campionato?

«Osimhen».

E il miglior italiano?

«Barella, per quello che ha fatto finora, e Chiesa, per quello che deve tornare a fare».

 

 La Verità, 19 agosto 2023 

 

«Vedo sempre Napoli, sirene arabe per Mancini»

Maurizio Pistocchi, volto storico dello sport di Mediaset, posta sui social video di spiagge da sogno che scatenano l’invidia di chi lo segue. Calette sarde, da dove, in attesa della ripresa del campionato, si gode gli ultimi giorni di vacanza e il successo di vendite di Juventopoli. Scudetti falsati & altre storie poco edificanti (Piemme), il libro che ha scritto con Paolo Ziliani, collega del Fatto quotidiano con il quale ha a lungo collaborato nei programmi della tv commerciale.

Pistocchi, che cosa sta succedendo nel calcio?

«Il calcio italiano è nella stessa situazione del Paese: senza risorse e senza idee».

I petrodollari si stanno comprando tutto?

«La Saudi league fa quello che facevamo noi negli anni Novanta, quando i migliori calciatori venivano in Italia non perché avessimo il campionato migliore del mondo, ma perché avevamo i soldi. Lo stesso si può dire della Premier league di adesso. I calciatori vanno dove sono pagati meglio e di più».

Cinquant’anni fa il calcio ha scoperto l’America e poi la via della Cina: che cos’ha di diverso il vento d’Arabia?

«Arriva da un Paese ricchissimo che ha investito in tutti i business più importanti del pianeta. Saudi Aramco, promotore della Saudi league, possiede più di 500 miliardi di dollari e un progetto di sviluppo sia della Lega calcistica che dell’intero Paese. È un progetto molto ambizioso, in vista dell’organizzazione dei Mondiali».

Ostacoli sul percorso?

«Certamente si scontrerà con tanti pregiudizi. Nonostante le offerte ultramilionarie, molti giocatori hanno declinato l’invito a causa di un ambiente che limita le abitudini dei calciatori occidentali. Le mogli, spesso protagoniste dello star system, non si sentono a proprio agio in un Paese in cui la donna ha un ruolo diverso».

È stupito che il segno della croce con cui Cristiano Ronaldo ha festeggiato il gol che ha qualificato la sua squadra alla finale della Champions non abbia causato contestazioni?

«Ronaldo è stato scelto come front-man di tutta la Lega, perciò non mi aspetto limitazioni ai suoi comportamenti. Se gliele imponessero se ne andrebbe. Credo abbia chiarito fin dall’inizio le sue libertà».

Fino all’anno scorso l’Arabia attraeva giocatori a fine carriera, come mai ci sono andati Koulibaly, Milinkovic Savic o Kessie?

«Gli ingaggi sono di gran lunga più alti. Finora nella Saudi league sono stati investiti 600 milioni di euro, ma per una realtà così ricca sono briciole. Se Mohammad bin Salman vuole costruire una Lega tecnicamente forte e seguita dal grande pubblico questa strada è giusta solo in parte. Servono scuole e centri di istruzione dove i migliori allenatori del mondo possano insegnare calcio. Sono partiti dall’alto, chiamando giocatori già affermati, ma perché non resti un fatto episodico adesso devono costruire le fondamenta».

Di fronte a una realtà così potente è romanticismo difendere storia e identità dei club?

«Sarebbe bello che in un mondo dove la valutazione professionale delle persone è determinata dal denaro il calcio si distinguesse. Le storie alla Gigi Riva o alla Giacinto Facchetti non esistono più. L’ultimo dei mohicani è stato Francesco Totti. Alcuni anni fa, quando passò dal Barcellona al Real Madrid, Luis Figo fu soprannominato pesetero, da peseta. Oggi sono tutti peseteros».

Che cosa pensa del caso Lukaku?

«Penso che si stia esagerando. Nel mondo, tutti i giorni, centinaia di professionisti lasciano un team o un ufficio per guadagnare di più o perché non si sentono valorizzati. Lukaku ha diritto di andare a giocare dove crede. Dopo che si è esposto con dichiarazioni smentite dai fatti, potrà spiegare il perché oppure no. Penso che la sua volontà sia stata determinata dalla gestione di Simone Inzaghi: se uno è un giocatore davvero fondamentale non lo si tiene in panchina nella partita più importante della stagione».

Quanto influiscono in queste decisioni i procuratori?

«I procuratori guadagnano dai trasferimenti dei giocatori, ma chi decide sono sempre i giocatori. A volte sono le società a spingere per le cessioni perché servono a sistemare i conti. Il calciatore può rifiutarsi, con il rischio di produrre una frattura difficilmente sanabile».

Zlatan Ibrahimovic che ha giocato in tutti i club europei più titolati non ha mai vinto la Champions league.

«Ibrahimovic è un campione straordinario, ma individualista. Il povero Mino Raiola ha fatto un grande lavoro per valorizzarlo, fin dai tempi dell’Ajax. Ma nel calcio il talento dev’essere funzionale alla squadra. Messi e Ronaldo si mettono a disposizione della squadra, Ibrahimovic è enorme per forza fisica e tecnica, ma la squadra dev’essere al suo servizio».

Cosa pensa della cessione al Newcastle di Sandro Tonali che doveva essere il perno del Milan del futuro?

«È una di quelle situazioni un po’ obbligate nelle quali il club caldeggia l’affare per finanziare parte della ricostruzione. Il Milan sta allestendo una squadra molto interessante, con giocatori di talento come Reijnders, Loftus-Cheek e Chukwueze. Vedremo se Pioli saprà darle un’identità e renderla protagonista dopo la delusione dell’anno scorso».

E dell’Inter che ha acquistato Cuadrado, il più inviso degli avversari?

«Cuadrado è uno dei giocatori più forti della Juventus degli ultimi cinque anni. Credo che sul piano tecnico sia un’operazione ottima. Però parliamo di un calciatore che ha avuto comportamenti poco sportivi. Sta a lui essere intelligente e togliersi di dosso la fama di simulatore e provocatore».

Il caso Lukaku, la cessione di Tonali e l’acquisto di Cuadrado: questo calcio procede a dispetto dei tifosi?

«Il tifoso oggi non può più essere quello degli anni Ottanta o Novanta. Oggi si tifa la maglia, la squadra, lasciando perdere se possibile l’aspetto affettivo del rapporto con i giocatori».

C’è troppo poca considerazione dei tifosi nel sistema calcio?

«I tifosi sono come il parco buoi della Borsa. Pagano gli abbonamenti allo stadio e alle tv e acquistano il merchandising. Invece si dovrebbero inserire nell’azionariato delle società come ha fatto il Bayern Monaco».

Si aspettava che fossero giudicati diversamente i comportamenti che con Paolo Ziliani raccontate in Juventopoli?

«Sì. Con Paolo, professionista che stimo da molti anni, abbiamo fatto un gran lavoro. Mi auguravo che una volta tanto la legge fosse davvero “uguale per tutti”. Perché il Chievo è sparito, invece in questo caso sono state fatte valutazioni diverse? Detto ciò, rispetto i verdetti e credo nel superiore interesse della giustizia. Ma chi legge il nostro libro si renderà conto che quanto è successo quest’anno ha avuto un epilogo per certi versi sconcertante».

Siccome la Juventus è il vero potere forte della Serie A si finisce sempre per condonarla?

«Quest’anno c’è in ballo il rinnovo dei contratti tv. Essendo gli juventini in maggioranza tra i tifosi, lo sono anche tra gli abbonati di Sky e Dazn e tra i lettori dei giornali. Sono una quota irrinunciabile. Tanto più considerando che il nostro calcio, con un fatturato di 4 miliardi e debiti per 6, dovrebbe portare i libri in tribunale. Rinnovare i diritti tv in un momento così spaventava al punto che le varie offerte sono state secretate e saranno svelate solo a ottobre. Questa situazione è stata la premessa per giungere a una sentenza politica».

La Juventus ha un bilancio in rosso ma, per fare un esempio, dopo aver bocciato Arthur, Paredes, Zakaria e McKennie ora Allegri vuole Amrabat.

«L’allenatore dovrebbe essere un manager che, come in tutte le aziende, non può licenziare a destra e a manca senza ottenere risultati».

Cosa pensa dell’informazione sportiva italiana?

«Di informazione vera e propria se ne fa poca e si contribuisce molto poco alla crescita della cultura sportiva del Paese».

Perché Luciano Spalletti si è fermato dopo aver vinto lo scudetto?

«Per la mancanza di feeling con Aurelio De Laurentiis e per il timore di deludere i tifosi. A Napoli è particolarmente difficile vincere, l’ultima volta era accaduto con Diego Armando Maradona. Molti segnali facevano pensare che la squadra non si sarebbe rinforzata. Spalletti ha fatto qualcosa di straordinario, penso che alla fine abbia fatto la scelta giusta».

Carlo Ancelotti fa bene ad andare ad allenare il Brasile?

«Ad Ancelotti, persona fantastica e grandissimo allenatore, manca vincere con una nazionale. Il Brasile spesso non ha vinto perché ha interpretato alcune competizioni in maniera goliardica. Ma ricordiamoci che è pentacampeão, ha vinto più di tutti. Vedo bene Ancelotti alla guida di una nazionale che pratica un calcio giocato con allegria e divertimento».

La convince di più Stefano Pioli o Simone Inzaghi?

«Nessuno dei due».

Chi la convince?

«Maurizio Sarri, Luciano Spalletti, Roberto De Zerbi, Davide Ballardini».

Cosa pensa delle difficoltà delle nostre nazionali?

«Molti anni fa Roberto Baggio preparò un progetto che voleva riqualificare tecnicamente il calcio italiano partendo dai centri di formazione come quelli attivi in Germania e in Francia. Quella relazione giace nel cassetto dei presidenti federali che si sono succeduti da allora. Si sa che le rifondazioni mettono in discussione posizioni consolidate. Perciò si continua a vivere di improvvisazioni».

Pochi giorni fa sono stati ampliati i poteri di Roberto Mancini.

«Mancini ha dovuto lavorare in una situazione di grande difficoltà. Basta considerare che, a parte Immobile, la classifica dei cannonieri è tutta composta da calciatori stranieri. Non abbiamo più attaccanti di livello mondiale come ai tempi di Vieri, Inzaghi, Totti, Del Piero e Luca Toni. Fonti ben informate mi assicurano che per Mancini sia pronto un contratto molto danaroso nella solita Arabia».

Le piace Gianluigi Buffon capo delegazione?

«Siamo passati da Gigi Riva a Gianluca Vialli a Buffon, che è stato un grandissimo portiere. Non altrettanto si può dire di lui sul piano etico e comportamentale».

Cosa pensa di squadre come il Milan o l’Atalanta con uno o due calciatori italiani?

«È triste, ma è la conseguenza di una situazione generalizzata. Una volta la Juventus dava sei o sette giocatori alla Nazionale, oggi ha un portiere polacco, tre difensori brasiliani e solo due calciatori italiani, Chiesa e Locatelli».

La sua griglia per lo scudetto?

«È composta dal Napoli, dal Milan che ha preso giocatori interessanti, dall’Inter che è forte ma per me gioca con un sistema che la limita, dalla Juve che si può concentrare sul campionato. Questa è la mia griglia, con il Napoli un gradino sopra se tiene Osimhen».

 

La Verità, 12 agosto 2023

Totti contro il tempo, il più difficile da dribblare

Scommessa vinta, e non era per niente facile. Troppe le insidie disseminate sul percorso. Troppi i pericoli. Speravo de morì prima – La serie su Francesco Totti, sei episodi da venerdì su Sky Atlantic, era un rebus impegnativo. Un discreto esercizio di equilibrio e di dosaggi. Innanzitutto, doveva essere una storia scritta e recitata in romanesco, ma in grado di catalizzare un pubblico largo, oltre i colori del tifo, i dialetti e le generazioni. Poi doveva appassionare alla figura di un campione già molto illuminata dai media. Le trappole in agguato erano parecchie, a cominciare dal «rischio monumento», ovvero il bagno retorico che avvolge le grandi personalità sportive. Per finire con il «rischio giù le mani da», ovvero lui non si tocca perché è solo nostro. Insomma, c’era più da perdere che da guadagnare a raccontare con la fiction un campione che, di norma, è oggetto di documentari. Ma era un rischio da correre, considerato che, come dimostrano Il miracolo, Diavoli, Petra, Romulus e Cops – Una banda di poliziotti, per citare qualche titolo alla rinfusa, da un paio d’anni l’obiettivo della piattaforma tv più adulta del sistema è allargare il pubblico attraverso storie più generaliste e popolari. Esattamente come quella incarnata dalla bandiera della Roma, «l’Ottavo re», il campione amato da tutti oltre gli schieramenti del tifo.

Scommessa vinta, dunque. Insieme ai produttori Wildside (Fremantle), Capri Entertainment e The New company e agli autori Stefano Bises, Michele Astori e Maurizio Careddu che hanno attinto da Un capitano (Rizzoli), l’autobiografia di Francesco Totti e Paolo Condò, firma di Repubblica e commentatore di Sky Sport. E qui i giochi di specchi tra le diverse sezioni dell’offerta Sky sono più che mai evidenti. Non a caso la campagna promozionale ha battuto tutti i record di pervasività.

La mossa vincente di produttori e sceneggiatori è stata scegliere un’angolazione attraverso la quale narrare l’intero personaggio. Un Totti privato e incerto, fra il tinello della casa di famiglia, la nuova residenza dov’è costretto a trasferirsi per allentare la morsa dei tifosi, la villa del fuoriclasse. Irrequieto e ombroso, «l’uomo dietro il campione» sente avvicinarsi come una sciagura il momento in cui dovrà appendere gli scarpini al chiodo. Il problema è «che ci pensi come uno che deve morire. Pensarci significa prepararsi mentalmente», lo smaschera e rimprovera ad un tempo Ilary Blasi. «Io mi devo preparare a entrare in campo, il resto sono chiacchiere», replica più che mai riluttante lui. Quando, dopo l’esonero di Rudi Garcia, si annuncia il ritorno in panchina di Luciano Spalletti (un credibile Gian Marco Tognazzi), gli amici storici lo allarmano con un presentimento: è venuto per farti smettere. Francesco non ci crede. In fondo, tra loro c’è sempre stata grande complicità, un’alleanza per il bene della Roma. Eppure, ben presto in spogliatoio iniziano gli attriti. Impuntature sugli orari, divieti pretestuosi. «Lo vuoi capire che non sei più insostituibile?», gli dice a brutto muso il coach. Le mancate convocazioni e le panchine radicalizzano lo scontro. Spalletti diventa l’antagonista da battere, bersaglio di un’improvvida intervista al Tg1. «Uno ha la storia più bella del mondo, ma se gli rovini il finale la butti tutta», riflette Francesco chiacchierando con suo figlio. In fondo, la storia è tutta qui: come e quando finire. Perché, a ben vedere, dietro la sagoma dell’allenatore si cela il vero nemico: il tempo. Chi glielo dice al «Capitano», al «Re di Roma», che a quarant’anni si è fatta una certa? «Sul trono mio c’è scritta la scadenza»: pian piano il dubbio inizia a farsi strada. È Ilary ad avere l’idea giusta e a mandargli Antonio Cassano, compagno di scorrerie dentro e fuori dal campo, che ha già smesso di giocare. «Anche il mondo è rotondo, ma è più grande della palla», gli dice. «Non c’è niente di più grande della palla», ribatte lui. «Io sono 100 volte più felice adesso senza la palla». «Io senza la palla non so chi cazzo sono». Dialoghi semplici, ma diretti. Efficaci nel raccontare la discrepanza tra il desiderio di perpetrare un grande sogno e il fare i conti con il limite ineluttabile. Una faccenda che riguarda tutti, anche chi gioca in prima categoria. Nel fine carriera incombente prende corpo la metafora del tempo che passa, impietoso. È la storia di una bandiera sportiva che smette di sventolare, la fine di un grande sogno. Ma è anche la storia di ogni uomo alle prese con la propria finitudine, con la vita che declina in un soffio. Un fatto al quale non ci si vorrebbe mai rassegnare.

Il regista Luca Ribuoli sceglie un linguaggio scanzonato, da commedia pop, per rendere questo travaglio profondo. Si affida all’uso del fermo immagine per presentare i personaggi, alla voce fuori campo, al romanesco che sdrammatizza, ma che a volte rimane incomprensibile, soprattutto in bocca a Pietro Castellitto, il protagonista, che appare meno spontaneo di Greta Scarano, molto naturale nel ruolo di Ilary, la moglie che vede più lontano. Come a dire che il primattore, chi è dentro, chi è immerso nel proprio travaglio, fatica ad avere la distanza critica necessaria per giudicarlo. E allora è una fortuna avere vicino le persone giuste, quelle che ti fanno aprire gli occhi. E ti aiutano a correggere le impuntature, le miopie e le bravate, nelle quali può impantanarsi persino un bravo ragazzo capace di tenere i piedi sempre ben attaccati a terra, di nome Francesco Totti.

 

La Verità, 16 marzo 2021