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Breve apologo sui buoni che ci guardano dall’alto

I buoni digrignano i denti. I buoni schiumano rabbia. I buoni inarcano il sopracciglio. I buoni sanno che gli altri sbagliano. Perché, loro, la sanno lunga. Più lunga. Perciò hanno una risposta per tutto.

I buoni non restano spiazzati. I buoni sono pronti a resistere. A lottare ancora. Alla fine, vedrete, avranno ragione loro.

E, comunque, un po’ se lo aspettavano.

I buoni osservano con aria di sufficienza. I buoni non si scompongono. I buoni sono dalla parte giusta della storia. Che all’ultimo li premierà.

I buoni non sono volgari. Parlano bene. Hanno un vocabolario esteso. Moderno. Un vocabolario che ha fatto l’ultimo aggiornamento. Espungendo certe espressioni sfacciate, certe parole sconvenienti.

I buoni sono pensosi. Appoggiano la mascella tra il pollice e l’indice aperti a squadra. Hanno la montatura degli occhiali all’ultima moda e le lenti sempre pulite.

I buoni hanno letto i libri giusti. Delle case editrici giuste. Vanno ai festival che fanno tendenza. Sono abbonati alle piattaforme chic.

I buoni frequentano i locali giusti. Viaggiano verso nuove mete. Fanno diete salutari.

I buoni sono vaccinati a tutto. E contro tutto.

I buoni non si sporcano le mani. Non si confondono con certe storie. Restano a una certa distanza. Scuotono il capo per commiserazione.
I buoni tirano le fila. Hanno le carte in regola. Uniscono i puntini. Hanno sempre l’ultima parola.
I buoni scrivono sulle testate importanti. I buoni fanno opinione. Fanno tendenza. Dettano le mode. E gli argomenti di conversazione degli aperitivi.
I buoni sono letti e ascoltati dalle persone che contano. Ma disdegnano il potere, loro.

I buoni hanno in mano i nuovi media. I buoni sono smart. Sono sexy. Sono trendy. Sono green. Sono cool.

I buoni influenzano. Persuadono. Scolpiscono i pensieri. Forgiano il pensiero.
I buoni sono democratici. Democraticissimi. Sono pronti a immolarsi perché anche gli altri possano esprimersi. Ma qualche volta no, se non la pensi come loro non ti fanno parlare. Per un bene superiore, s’intende. Il bene della democrazia.

I buoni sanno come devono andare le cose. Per loro, ma anche per gli altri. Perché sono dei bravi pedagoghi. E se le cose non vanno come dovrebbero, non è colpa loro ma di chi non ha capito.

I buoni sanno che cosa è giusto desiderare. Cosa è meglio auspicare. Cosa augurarsi. Per il bene di tutti.

I buoni volano alto. Molto alto. A volte troppo. La realtà è qui e ora, un po’ più in basso? Fa niente.
Quando questa roba che sta in basso si presenta, improvvisa, «qualcosa dev’essere andato storto». Sì.

Però i buoni non arretrano. Non demordono. Sono indomiti.

Il fatto è che i buoni sono superiori. Veramente superiori. E ti guardano da lassù.
Perché sono i migliori. E hanno una parola buona per tutti. Cioè, soprattutto per quelli come loro. Un po’ come i Farisei…

Come dite? I buoni sono sempre stati così. Certo. Ma adesso lo sono un po’ di più. Sono ancora più buoni. Ancora migliori di prima. Però, forse, nemmeno loro sono contenti di questa vita schifosa. Già.

Ma, come diceva un vecchio burlone, «potrebbe essere peggio. Potrebbe piovere».

«L’uomo che ha portato il sorriso nella politica»

Pietrangelo Buttafuoco, mi dice la sua prima reazione alla morte di Silvio Berlusconi?

«Mi è tornata in mente come un presagio un’immagine che ho visto poco fa. Scendevo le scale di Palazzo Grazioli dove c’è il mio ufficio e, giunto sul pianerottolo dove si trova l’appartamento nel quale ha abitato Berlusconi, ho visto il portone spalancato. Mi ha subito ricordato il rituale di addio dei santi tipico del Sud».

Com’è questo rituale?

«Quando muore qualcuno in casa, il primo gesto dei famigliari è spalancare porte e finestre e mormorare le formula del viatico: “Va a buon luogo”. È il modo in cui si accompagna l’anima del defunto verso il cielo».

Una casualità premonitrice o a Palazzo Grazioli già sapevano?

«No, oltretutto non è più il suo appartamento. I misteri dell’invisibile sono imperscrutabili. Col senno del poi ha confermato quanto fosse forte la sua natura sciamanica».

Proviamo a descriverla?

«Berlusconi ha introdotto nella politica, intesa come polis, il sorriso. A questo riguardo, l’immagine che era solito usare, “abbiamo il sole in tasca”, è più che mai emblematica. Come Mary Quant con la sua minigonna ha cambiato il costume, così lui ha cambiato per sempre la nostra contemporaneità».

Il linguaggio, la politica, la possibilità di sognare…

«Solo studiandolo nella distanza potremo capire l’unico personaggio che l’Italia consegna alla storia e alla memoria. Pensiamo a quante nuove parole sono state coniate a causa sua. Anche chi l’ha osteggiato ha sempre trovato la sorpresa di vedersi ricambiare con un sorriso».

Lei non è mai stato suo collaboratore, ma gli porta affetto.

«L’ho studiato perché, come tutti, mi sono trovato immerso nell’Italia disegnata e costruita da lui. La mia formazione e i miei gusti non rientrano in quelli che sono i suoi prodotti culturali. Ma riconoscerne la grandezza coinvolge tutti noi suoi contemporanei, compresi coloro che lo avversavano. Le giovani generazioni che non conoscono gli altri protagonisti della politica italiana lui lo riconoscono immediatamente. Anche la nostra memoria, diciamo così, di addetti ai lavori, ne resterà segnata mentre non conserverà nulla di coloro che ci sembravano fondamentali».

Che epoca era quella che ora si dice finita?

«Berlusconi è stato il nuovo capitolo della grande commedia italiana. Intendo l’opera che descrive la nostra identità, e alla quale si aggiunge l’aggettivo divina».

In che senso?

«Se si va a sfogliare il capolavoro di Dante si troveranno tanti personaggi sovrapponibili ai vari Paolo Bonolis, Giuliano Ferrara, Lucio Colletti, Maria De Filippi, Antonio Martino, Giulio Tremonti, Antonio Ricci, Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Adriano Galliani, Sandra Mondaini e Raimondo Vianello… E poi nel Malebolge, l’ottavo cerchio dell’Inferno, si possono trovare tutti i seminatori di discordia, i fraudolenti e i profittatori che non sono mancati».

Una personalità più grande di tutti i moralismi?

«Assolutamente. Uso apposta la categoria della commedia perché in lui si compendiano Carlo Goldoni, Gioacchino Rossini, Gaetano Donizetti, quella vena viva che fa dell’Italia il luogo specialissimo della commedia come romanzo universale».

Ora si comincerà a dividere la biografia tra l’imprenditore, il tycoon, il presidente del Milan e il politico un po’ pasticcione?

«È un’unica performance perché incarna un affastellarsi di scene, la verità e il suo esatto contrario».

È sbagliato frazionarlo?

«Certo, se dobbiamo raccontarlo attraverso il metro della critica letteraria, il suo riferimento è Niccolò Machiavelli che è contemporaneamente l’autore sì del Principe, ma anche della Mandragola. Che è la satira più acre della corruttibilità dell’anima umana».

Negli ultimi anni l’hanno rivalutato anche i suoi più feroci detrattori.

«C’è più sincerità d’affetto nei suoi nemici che in molti suoi finti amici, quelli che lo abbracciavano come si abbraccia una cassaforte».

Soprattutto le donne?

«Gran parte delle donne s’innamoravano sinceramente perché non era certo un Dominique Strauss-Kahn, ma il Paride vezzoso dell’Elisir d’amore di Donizetti che della seduzione possedeva tutte le alchimie».

Tutti argomenti per un grande libro che lei, se non ricordo male, sta scrivendo.

«Si è provato a raccontarlo con la politologia, la cronaca giudiziaria, la sociologia e col cinema, dove non si contano i fallimenti, compresi quelli di venerati maestri come Paolo Sorrentino e Nanni Moretti. L’unico che è riuscito a renderlo nel suo essere sia popolo che nicchia è Franco Maresco con Belluscone».

Il suo libro?

«È un saggio di critica letteraria. S’intitola Beato lui – Panegirico dell’arcitaliano Silvio Berlusconi ed esce la prossima settimana da Longanesi. Era già in distribuzione ad aprile quando lui entrava in ospedale e nessuno poteva sapere come sarebbe uscito. Abbiamo quindi deciso di posticiparlo e proprio perché mi sono avvalso della verità letteraria, mi sono trovato delle pagine che raccontavano ciò che non osavo immaginare: laddove c’era una folla che lo abbracciava nell’addio di un funerale, ho ricostruita la moltitudine che lo applaudiva nell’ingresso al Quirinale, finalmente eletto Capo dello Stato».

Qualche difetto ce l’aveva, però?

«Una cattiveria geometrica che, però, sapeva trasferire nell’intelligenza».

Per esempio?

«Quando gli proposero di fare il libro delle barzellette di Berlusconi dopo quello di grande successo delle barzellette di Totti si chiese: “E se poi vendo meno di Totti?”. E fermò le rotative».

Che cosa mi dice della sua generosità?

«Vorrei dire soprattutto dell’ingenuità. Nell’Italia che si spertica in elogi della doppiezza gesuitica lui aveva l’ingenuità gioiosa dell’allievo salesiano. Basta ricordare la sua espressione immediatamente dopo essere stato colpito al volto dalla statuina del modellino del Duomo. Era l’espressione di un interrogativo attonito: come posso non essere amato?».

Sapeva scegliersi i collaboratori?

«Mi è capitato di ascoltare il pianto di tanti e tante».

Molti bracci destri amputati perché non sapeva e voleva preparare la successione?

«Quella non la poteva preparare. Tra i tanti possibili eredi lui guardava senza dubbio con simpatia a Matteo Renzi».

Che si è suicidato.

«E la vecchia talpa della storia gli ha apparecchiato la sorpresa di trovare l’unico successore in una donna, quella Giorgia Meloni presso la quale la maggioranza silenziosa ha trovato casa».

Forza Italia rischia di sparire?

«Sicuramente domani resteranno e si studieranno Mediaset e Milano 2 che sono il frutto dell’ingegno. Mentre il frutto del genio è la sua avventura politica che si chiude con lui. I voti di Forza Italia erano i voti per Silvio Berlusconi».

 

La Verità, 13 giugno 2023

«Il tentativo di purgare la storia è insensato»

Massimo Luigi Salvadori è nato a Ivrea nel 1936. Quando suo padre, impiegato all’Olivetti, morì che lui aveva cinque anni, dato che la madre non era in grado di provvedere a lui e suo fratello, «la ditta», come Salvadori la chiama in un suo libro autobiografico, li fece entrare in un convitto. Con la guerra di mezzo, ha vissuto quella che si dice un’infanzia difficile. Lo fu anche l’adolescenza. Contro il volere della madre che avrebbe preferito Legge, si laureò in Lettere e filosofia. È stato membro del Pci, dal quale uscì nel 1956. Docente di Storia delle dottrine politiche, deputato del Pds dal 1992 al 1994, è nel Comitato scientifico della Fondazione Einaudi. Ha appena pubblicato In difesa della storia. Contro manipolatori e iconoclasti (Donzelli).

Professore, perché ha sentito la necessità di scrivere un libro in difesa della storia? Da chi e da cosa è minacciata?

«L’impulso a scrivere mi è venuto dal desiderio di contrastare la tendenza nella scuola secondaria, non solo quella italiana, a considerare lo studio della storia in maniera troppo marginale. Al contrario, per me, storico, è fondamentale per la comprensione del mondo in cui viviamo e per una formazione critica e aperta all’analisi della molteplicità delle esperienze di vita che ci vengono trasmesse dal passato. Una trasmissione che non sia improntata ad approcci pregiudizialmente unilaterali e a propositi propagandistici».

Negli attuali piani di studio scolastici la storia è sottodimensionata? A cosa si deve questa tendenza?

«Ritengo di sì: occorrerebbe darle uno spazio maggiore. Questa convinzione non proviene dall’avere personalmente fin da ragazzo amato lo studio della storia e poi dedicato la mia intera esistenza professionale al suo insegnamento, bensì dal fatto che esso è alla base della formazione del cittadino, la quale inizia sui banchi di scuola. È nel passato che sono state formulate le categorie di dispotismo, tirannide, oligarchia, democrazia, demagogia, populismo, monarchia, repubblica, interesse privato e interesse pubblico, liberalismo, comunismo, socialismo, liberismo e statalismo, società aperta e società chiusa…».

C’è un modernismo che tende a relativizzare il passato da cui provengono le comunità e i loro principi e di cui siamo la prosecuzione?

«Le categorie che costituiscono l’alfabeto della politica ancora oggi hanno la loro genesi nella storia e le loro radici nella cultura dell’antichità e nei suoi successivi sviluppi. I Platone, gli Aristotele, i Machiavelli, gli Hobbes, i Locke, i Montesquieu, i Rousseau, i Voltaire, i Marx, i Weber… sono a pieno titolo, in quanto grandi classici, dei nostri contemporanei. Studiarli non significa cedere al piacere dell’erudizione, ma meglio dotare giovani e adulti degli strumenti per comprendere e affrontare i dilemmi che ci stanno di fronte nel presente».

Oggi, sotto la spinta della tecnica, prevale una tendenza a privilegiare discipline scientifiche?

«Sarebbe insensato mettere in competizione lo studio della storia con l’importanza delle discipline scientifiche e tecniche. L’utilizzazione delle scienze e delle tecniche non è neutra, come mostra in maniera esemplare il Novecento. Esse sono nelle mani di noi uomini, che possiamo servicene per i fini più nobili e per quelli più ignobili, a seconda di quel che dettano le menti, in conseguenza della nostra coscienza morale e delle nostre tendenze in campo politico e sociale».

Che cosa pensa quando sente usare l’espressione «governo dei migliori» molto in auge in questi mesi a proposito del nostro paese?

«Da Platone in poi tutti sostengono che il “governo dei migliori” è quello che piace a loro. È un’espressione tanto bella quanto suscettibile di essere riempita con i più opposti contenuti. A ciascuno la responsabilità delle proprie scelte».

I regimi totalitari puntavano a una rivoluzione antropologica. Anche la globalizzazione, sotto la spinta della new technology e del politicamente corretto, punta a creare un nuovo umanesimo. Lo studio della storia può risultare in qualche modo un ostacolo a questo processo?

«L’ambizione di creare uomini nuovi è stata ricorrente nella storia: è stato il fine del cristianesimo, dell’islamismo, dell’umanesimo rinascimentale, dell’illuminismo, del liberalismo, del socialismo, dei regimi fascisti, di quelli comunisti, dei molteplici fondamentalismi religiosi. Gli esiti sono stati e sono alcuni positivi e innovativi, altri catastrofici. Non credo che la globalizzazione economica possa essere il veicolo di un nuovo umanesimo. Là dove produce avanzamento sociale e civile di popolazioni in passato condannate alla miseria e all’emarginazione può essere un fattore da salutare; là dove causa abissali diseguaglianze, marcia in senso inverso. Quanto al politicamente corretto, anche ammantato di velleità progressiste, mi fa venire l’orticaria».

Cosa pensare delle manipolazioni della storia e delle omissioni dei capitoli più scomodi, per esempio in Italia il consenso di cui godette il fascismo tra gli intellettuali, le rappresaglie dei partigiani?

«Nel mio saggio ho dedicato molte pagine alle manipolazioni e alle omissioni dei capitoli scomodi della storia italiana, che hanno riguardato, in misura maggiore o minore tutte le parti in lotta. Furono numerosi gli intellettuali che diedero il loro consenso convinto al fascismo, e numerosi occorre non dimenticarlo, furono coloro che si piegarono alla coercizione operata nei confronti degli oppositori, dei tiepidi, dei “nicodemiti”; gli eroi furono pochi perché, come ci ha insegnato Don Abbondio, di fronte al potere prevale la cura del proprio particulare. Ci furono anche le rappresaglie dei partigiani – le guerre civili sono quel che sono – ma furono certo minori rispetto a quelle messe in atto dai seguaci repubblichini dell’ultimo Mussolini. Anche a questo proposito la buona storia non deve tacere nulla e dare a ciascuno quel che gli spetta».

Come giudica i movimenti della cancel culture? Perché sono nati e si sono espansi nei Paesi anglosassoni e nelle loro università?

«Per uno studioso solo l’idea che si voglia cancellare la storia suona come un’insensatezza. La storia, una volta che ha scritto le sue pagine, non richiede altro che di essere compresa. È immodificabile e non resta che indagare i dove, i quando, i come e i perché. Possiamo dispiacerci che certe pagine siano andate in un modo anziché in un altro, ma questo non cambia nulla del corso delle cose come ci è stato consegnato dal passato. Le approvazioni o le condanne pronunciate nel presente dipendono dal tipo di valori e di principi propri di ciascun individuo o delle molteplici collettività e manifestano i loro progetti di vita; ma non possono cancellare proprio niente. Il motivo per cui i movimenti della cancel culture hanno trovato un terreno particolarmente fertile negli Stati Uniti e in Gran Bretagna mi pare riconducibile al fatto che in questi paesi sono particolarmente forti le radici di un puritanesimo di matrice religiosa, trasferitosi in campo ideologico e politico e sfociato nella pretesa prima di giudicare il passato e poi di oscurarne i capitoli ritenuti indegni. Questi movimenti si sentono investiti di una missione progressista, ma in realtà marciano in direzione contraria».

Se si applicassero i criteri dei nuovi giudici che contestano Aristotele, Shakespeare, Hume, Voltaire, Rousseau e via dicendo, e abbattono le statue di Cristoforo Colombo i secoli passati si trasformerebbero in cimiteri culturali?

«La pretesa di cancellare la storia che non ci piace è antica quanto il mondo. Si pensi ai gruppi di cristiani che nell’antichità si armarono di scalpelli e si diedero a cancellare dai monumenti della civiltà egizia i segni che consideravano blasfemi, ai roghi di libri delle tante inquisizioni che si sono susseguite nel tempo, per arrivare a ciò che fecero i regimi totalitari per affermare la buona contro la cattiva storia, fino alla barbarie distruttiva ad opera di talebani e seguaci dell’Isis di monumenti di incommensurabile valore. Si potrebbe continuare».

Si può dire che questa volontà di raddrizzare la storia contenga una buona intenzione purificatrice?

«I movimenti della cancel culture sono espressioni di una sorta di innocenza, ma nel loro Dna c’è il marchio palese di una pericolosa distorsione intellettuale. La loro pretesa di purificare la storia ricorrendo al bisturi è inquietante. Se vogliamo che il presente eviti ciò che la nostra coscienza giudica brutto del passato, dobbiamo agire di conseguenza. Ripeto: nei confronti della storia il nostro compito è comprendere le ragioni del suo essere stata ciò che è stata, in relazione allo sviluppo delle civiltà e delle persone che hanno agito sotto il peso dei relativi condizionamenti».

Perché qualche anno fa uno storico come lei ha scritto un libro autobiografico intitolato Cinque minuti prima delle nove (Claudiana)?

«Ne stesi il testo poco dopo la morte nel 1972 di mia madre, con la quale avevo avuto rapporti difficili. Avvertii il bisogno di sottopormi ad una sorta di riflessione psicoanalitica. Esitai molto prima di decidermi a pubblicarla. Mi convinse a farlo, parecchi anni dopo averla stesa, la scrittrice Marina Jarre, mia maestra e amica, la quale mi disse: “Massimo, ormai sei vecchio e puoi permetterti quel che vuoi”. Così mi decisi».

Che cosa le dà speranza oggi?

«La speranza, come si dice, è l’ultima dea. Ho ottantacinque anni e sono perciò prossimo alla fine della mia parabola. La speranza appartiene ai più giovani che hanno davanti il futuro. Ciò che prevale in me è l’inquietudine. Come non essere inquieti osservando un mondo in cui, tra i tanti pericoli che lo insidiano, grandeggia la minaccia di soccombere pagando il prezzo di avere compiuto le peggiori violenze nei confronti di madre natura?».

 

La Verità, 27 novembre 2021

Domina, un gioco di ruolo della «confuse culture»

La Roma di Cesare Augusto raccontata come un grande gioco di ruolo. È questo il senso di Domina, la serie Sky original italo-britannica visibile su Sky e Now dal 14 maggio. Otto episodi di un’ora ciascuno ideati e scritti da Simon Burke (Fortitude, Strike back) e interpretati da un cast internazionale che vede Kasia Smutniak nel ruolo della protagonista Livia Drusilla, figlia di Druso Claudiano (Liam Cunnigham) e consorte di Cesare Augusto (Matthew McNulty), mentre Ben Batt è Agrippa, suo generale. Già dalla sigla lo spettatore è catturato dall’imponenza visionaria e dall’atmosfera dark che avvolge alleanze e tradimenti orditi dalla machiavellica protagonista per conservare e accrescere il suo potere. Che cosa sei in grado di escogitare per annientare i nemici e issarti al vertice dell’impero? Sfarzosa nei costumi e potente nelle scenografie, l’intenzione molto mainstream dell’opera è illuminare la figura di Livia – «l’uomo più intelligente di Roma», secondo Mecenate – e il suo ruolo di consigliera di Gaio Ottaviano (Augusto), tanto astuta da influenzarne tutta l’azione. Per alcuni studiosi, Livia è la prima first lady della storia. Ma ben oltre la storia vista dalla parte delle donne, come già in Rome e Spartacus, Domina ci mostra la capitale della civiltà come una sentina di corruzione e depravazione, ignorando figure coeve come Vitruvio e Virgilio, solo per citarne alcune.

Dopo il suicidio del padre in seguito alla sconfitta nella battaglia di Filippi e l’esilio in Sicilia, Livia fa ritorno a Roma e sposa Gaio Ottaviano per garantire a Druso e Tiberio, figli di primo letto, un avvenire al vertice della repubblica. Per essere realizzato, il piano richiede la maturazione degli acerbi eredi e soprattutto l’eliminazione, spesso violenta, dei tanti rivali che si frappongono. La dimora di Ottaviano, in conflitto con una parte del Senato e le donne gelose di Livia, diviene così crogiolo di cospirazioni, intrighi e dissoluzioni, consumate con l’aiuto della devota Antigone (Colette Tchantcho), ancella di colore promossa libera cittadina ed esecutrice del lavoro sporco per conto dell’amica e padrona. Una figura di cui non si hanno conferme dagli storici. Ma alla quale gli sceneggiatori fanno replicare a Livia che vuole proteggerla: «Io non voglio essere protetta, voglio essere inclusa». Sarà questa l’agognata contemporaneità della narrazione? Magari rafforzata dal moderno intercalare dei patrizi romani condito di «Cazzo!» e «Sono cazzate!»?

Dopo il Leonardo targato Rai, con Domina di Sky prosegue la marcia nella fiction popolare della «confuse culture».

 

La Verità, 25 maggio 2021

«Nella storia ci sono le ricette contro le crisi»

Essendo stato corrispondente da alcune metropoli e megalopoli – Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino e New York, dove ora vive – Federico Rampini può esercitare uno sguardo distaccato e globale sul presente. Se poi, a queste postazioni privilegiate, si aggiungono le buone letture sulle grandi catastrofi nel corso dei secoli, ecco che l’editorialista di Repubblica, spesso ospite di Stasera Italia di Barbara Palombelli, può consegnarci I cantieri della storia (Mondadori), istruttiva carrellata di come l’umanità abbia reagito a pandemie, crolli di imperi, guerre epocali, ripartendo, ricostruendo, rinascendo attraverso quelli che spesso sono stati chiamati «miracoli». «La buona notizia», dice Rampini, è che «siamo capaci di farlo».

Le rinascite dopo le crisi più tragiche sono opera innanzitutto di grandi leader o di grandi popoli?

«I leader fanno la storia quando riescono a mobilitare le energie dei loro popoli, a ispirare sforzi collettivi, a ricostruire l’autostima, la coesione, la solidarietà dei cittadini. Un altro tratto comune dei leader che racconto nel libro – Franklin Delano Roosevelt o Charles De Gaulle, George Marshall o Deng Xiaoping – è il pragmatismo. Copiare chi ha avuto risultati migliori, cambiare ricetta quando la propria non funziona».

Dopo la caduta dell’Impero romano, archetipo dei crolli delle superpotenze, i monaci riuscirono a mettere le basi del Rinascimento perché erano un soggetto con una vocazione speciale?

«Molti monaci venivano dal profondo Nord, erano di origini irlandesi, celtiche. Studiare il latino e il greco era stato così arduo che sentivano quel patrimonio culturale come una conquista preziosa. Conservarono Aristotele, la matematica e l’astronomia greca, senza le quali non avremmo avuto il Rinascimento».

Lei scrive: «Tutti vorrebbero un nuovo Roosevelt», a me è tornato in mente un vecchio motivetto popolare: «Si è rotta la macchinetta». È così?

«Una qualità dei Roosevelt è diventata introvabile: Theodore, Franklin, Eleanor appartenevano a una élite che pagava di persona per servire la nazione. I loro figli morivano in guerra, anziché imboscarsi da raccomandati».

In America, nel pieno della crisi del 1929 iniziò la costruzione dell’Empire state building. Le rinascite avvengono con le grandi opere pubbliche, vedi Autostrada del Sole. Quanto può ostacolare il fatto che uno dei partiti di governo teorizza la decrescita?

«La decrescita felice è un vecchio mito malthusiano, caro agli ambientalisti fin dalle origini. L’abbiamo sperimentata nel 2020, se l’economia si paralizza scende l’inquinamento, rallenta la crescita delle emissioni carboniche, e si rischia la depressione. L’unico paese ricco che ha trovato un suo equilibrio in una decrescita apparente è il Giappone. In realtà il suo reddito pro capite sale grazie al calo della popolazione. E vorremmo tutti avere le infrastrutture giapponesi».

Parlando di New Deal, il nostro governo, debitore della Rivoluzione francese, ha convocato gli Stati generali e annunciato, in inglese, il Green New Deal. Ma con le formule non si risolvono i problemi perché, alla prima pioggia, i ponti continuano a cadere in italiano.

«Da italiano espatriato vent’anni fa negli Stati Uniti, quello che mi colpisce nell’approccio del governo Conte alla ricostruzione è la prevalenza dei burocrati. Il Green New Deal potrebbe ammodernare il paese e le sue infrastrutture con un’attenzione alla sostenibilità. Ma se viene affidato alla pubblica amministrazione così com’è, la burocrazia saprà sabotarlo».

La più incompleta tra le ricostruzioni che analizza è quella in tema di razzismo dopo la guerra civile americana?

«Abraham Lincoln voleva ricostruire il Sud dopo averlo sconfitto. Capiva che i perdenti andavano trattati con magnanimità per non alimentare vittimismi, rancori, revanscismi. Dopo il suo assassinio la ricostruzione del Sud ebbe un’impronta diversa: da quel cantiere mezzo fallito derivano i problemi irrisolti oggi».

Proprio questo 2020, con la morte violenta di George Floyd, il movimento Black Lives Matter e il successivo abbattimento delle statue di Lincoln e Theodore Roosevelt, campioni dell’antischiavismo, ci fa capire che rimane molta strada prima di comprendere la storia?

«La storia è maestra di vita se non la manipoliamo per le battaglie politiche di oggi. La piaga del razzismo è reale in America. Ma Black Lives Matter ha voluto riscrivere tutta la storia americana come un unico romanzo criminale. È assurdo, e ha portato voti a Trump».

I cantieri del futuro possono essere costruiti sotto l’impulso di rigurgiti ideologici come quelli che hanno portato alle epurazioni in alcune testate liberal americane di chi non pensa in modo conforme?

«Nel mio libro paragono le purghe operate dalla sinistra radicale dei campus universitari ad altri fanatismi di massa: la rivoluzione culturale di Mao, i talebani. C’è anche un’eredità del puritanesimo protestante, che ha conosciuto dei “risvegli” integralisti a ondate ricorrenti. Quando si censura il dissenso, come avviene nell’industria culturale progressista in America, non si costruisce nulla di nuovo».

Dal suo osservatorio privilegiato conferma che l’Italia è un modello virtuoso di risposta al coronavirus mentre l’America di Trump, incentrata sulla sanità privata, è un esempio nefasto?

«No. L’Italia come modello virtuoso è stata una leggenda creata quest’estate da un paio di articoli del New York Times. Io, al contrario, mi sono stupito che tanti italiani ci abbiano creduto. I numeri dei contagi e dei decessi smentivano quel mito, ancor prima che giungesse la seconda ondata. Gli unici modelli sono in Estremo Oriente: Giappone, Corea del Sud, Taiwan. Quasi nessuno li studia».

Spesso si confronta il Recovery fund con il Piano Marshall che aiutò la ripresa degli sconfitti della Seconda guerra mondiale. Anche il ritardo e l’approssimazione dell’Italia nella capacità di spesa è paragonabile a quella di 70 anni fa?

«Quel Piano Marshall finanziamenti a fondo perduto, mentre quelli del Recovery fund sono prestiti, tuttavia le dimensioni teoriche di quest’ultimo sono molto superiori. Potrebbe dare un contributo alla rinascita italiana, ma i problemi sono gli stessi di 70 anni fa. Nel 1948-50 gli americani lamentavano ritardi dell’Italia nel presentare progetti validi perché temevano corruzione e assistenzialismo».

Considerato che in questi mesi il risparmio privato italiano è salito a 1.680 miliardi perché è indispensabile il ricorso al Mes e al Recovery fund? Non si può agire attraverso l’emissione di titoli di Stato?

«Il problema non cambia. Se non abbiamo progetti convincenti, capacità di spesa, e uno Stato efficiente nel realizzare i progetti, i risparmiatori italiani saranno ancora più diffidenti di Bruxelles».

Le rinascite sono anche frutto del lavoro delle élite come mostra la storia di Amedeo Giannini, italiano fondatore della Bank of Italy poi divenuta Bank of America, fondamentale durante la Grande depressione. Le élite di oggi sono all’altezza del compito che la pandemia impone?

«Le élite economiche in questa crisi si arricchiscono e distanziano gli altri: penso agli azionisti di Amazon, Apple, Microsoft, ai giganti della finanza di Wall Street. Molte élite hanno perso i contatti con un mondo del lavoro che soffre. L’Italia ha un problema specifico: l’élite pubblica, l’alta dirigenza dello Stato, è tra le più scadenti d’Occidente».

Perché la sinistra mondiale che per decenni ha contestato le ambizioni di superpotenza dell’America ora ne critica l’autoriduzione nei propri confini accusandola di isolazionismo?

«C’è sempre stata una vena antiamericana, per cui lo Zio Sam sbaglia a priori: quando s’impiccia degli affari degli altri, o quando si fa i propri».

Crede che Joe Biden riporterà gli Stati uniti a un diverso interventismo internazionale, magari puntando sull’industria bellica?

«Con Biden ha vinto l’establishment, comprese le correnti più tradizionali delle forze armate e della diplomazia americana, affezionate a un ruolo globale. Però Biden deve pensare a uscire dalla pandemia e ad aiutare i disoccupati; la politica estera non sarà la sua priorità. Nel 2021 l’America affronterà un mondo nuovo, con una Cina più forte. Se qualche tensione può creare le premesse di una nuova guerra, la situerei nel Mare della Cina meridionale, nei dintorni di Taiwan».

 

Panorama, 16 dicembre 2020