«Il tentativo di purgare la storia è insensato»

Massimo Luigi Salvadori è nato a Ivrea nel 1936. Quando suo padre, impiegato all’Olivetti, morì che lui aveva cinque anni, dato che la madre non era in grado di provvedere a lui e suo fratello, «la ditta», come Salvadori la chiama in un suo libro autobiografico, li fece entrare in un convitto. Con la guerra di mezzo, ha vissuto quella che si dice un’infanzia difficile. Lo fu anche l’adolescenza. Contro il volere della madre che avrebbe preferito Legge, si laureò in Lettere e filosofia. È stato membro del Pci, dal quale uscì nel 1956. Docente di Storia delle dottrine politiche, deputato del Pds dal 1992 al 1994, è nel Comitato scientifico della Fondazione Einaudi. Ha appena pubblicato In difesa della storia. Contro manipolatori e iconoclasti (Donzelli).

Professore, perché ha sentito la necessità di scrivere un libro in difesa della storia? Da chi e da cosa è minacciata?

«L’impulso a scrivere mi è venuto dal desiderio di contrastare la tendenza nella scuola secondaria, non solo quella italiana, a considerare lo studio della storia in maniera troppo marginale. Al contrario, per me, storico, è fondamentale per la comprensione del mondo in cui viviamo e per una formazione critica e aperta all’analisi della molteplicità delle esperienze di vita che ci vengono trasmesse dal passato. Una trasmissione che non sia improntata ad approcci pregiudizialmente unilaterali e a propositi propagandistici».

Negli attuali piani di studio scolastici la storia è sottodimensionata? A cosa si deve questa tendenza?

«Ritengo di sì: occorrerebbe darle uno spazio maggiore. Questa convinzione non proviene dall’avere personalmente fin da ragazzo amato lo studio della storia e poi dedicato la mia intera esistenza professionale al suo insegnamento, bensì dal fatto che esso è alla base della formazione del cittadino, la quale inizia sui banchi di scuola. È nel passato che sono state formulate le categorie di dispotismo, tirannide, oligarchia, democrazia, demagogia, populismo, monarchia, repubblica, interesse privato e interesse pubblico, liberalismo, comunismo, socialismo, liberismo e statalismo, società aperta e società chiusa…».

C’è un modernismo che tende a relativizzare il passato da cui provengono le comunità e i loro principi e di cui siamo la prosecuzione?

«Le categorie che costituiscono l’alfabeto della politica ancora oggi hanno la loro genesi nella storia e le loro radici nella cultura dell’antichità e nei suoi successivi sviluppi. I Platone, gli Aristotele, i Machiavelli, gli Hobbes, i Locke, i Montesquieu, i Rousseau, i Voltaire, i Marx, i Weber… sono a pieno titolo, in quanto grandi classici, dei nostri contemporanei. Studiarli non significa cedere al piacere dell’erudizione, ma meglio dotare giovani e adulti degli strumenti per comprendere e affrontare i dilemmi che ci stanno di fronte nel presente».

Oggi, sotto la spinta della tecnica, prevale una tendenza a privilegiare discipline scientifiche?

«Sarebbe insensato mettere in competizione lo studio della storia con l’importanza delle discipline scientifiche e tecniche. L’utilizzazione delle scienze e delle tecniche non è neutra, come mostra in maniera esemplare il Novecento. Esse sono nelle mani di noi uomini, che possiamo servicene per i fini più nobili e per quelli più ignobili, a seconda di quel che dettano le menti, in conseguenza della nostra coscienza morale e delle nostre tendenze in campo politico e sociale».

Che cosa pensa quando sente usare l’espressione «governo dei migliori» molto in auge in questi mesi a proposito del nostro paese?

«Da Platone in poi tutti sostengono che il “governo dei migliori” è quello che piace a loro. È un’espressione tanto bella quanto suscettibile di essere riempita con i più opposti contenuti. A ciascuno la responsabilità delle proprie scelte».

I regimi totalitari puntavano a una rivoluzione antropologica. Anche la globalizzazione, sotto la spinta della new technology e del politicamente corretto, punta a creare un nuovo umanesimo. Lo studio della storia può risultare in qualche modo un ostacolo a questo processo?

«L’ambizione di creare uomini nuovi è stata ricorrente nella storia: è stato il fine del cristianesimo, dell’islamismo, dell’umanesimo rinascimentale, dell’illuminismo, del liberalismo, del socialismo, dei regimi fascisti, di quelli comunisti, dei molteplici fondamentalismi religiosi. Gli esiti sono stati e sono alcuni positivi e innovativi, altri catastrofici. Non credo che la globalizzazione economica possa essere il veicolo di un nuovo umanesimo. Là dove produce avanzamento sociale e civile di popolazioni in passato condannate alla miseria e all’emarginazione può essere un fattore da salutare; là dove causa abissali diseguaglianze, marcia in senso inverso. Quanto al politicamente corretto, anche ammantato di velleità progressiste, mi fa venire l’orticaria».

Cosa pensare delle manipolazioni della storia e delle omissioni dei capitoli più scomodi, per esempio in Italia il consenso di cui godette il fascismo tra gli intellettuali, le rappresaglie dei partigiani?

«Nel mio saggio ho dedicato molte pagine alle manipolazioni e alle omissioni dei capitoli scomodi della storia italiana, che hanno riguardato, in misura maggiore o minore tutte le parti in lotta. Furono numerosi gli intellettuali che diedero il loro consenso convinto al fascismo, e numerosi occorre non dimenticarlo, furono coloro che si piegarono alla coercizione operata nei confronti degli oppositori, dei tiepidi, dei “nicodemiti”; gli eroi furono pochi perché, come ci ha insegnato Don Abbondio, di fronte al potere prevale la cura del proprio particulare. Ci furono anche le rappresaglie dei partigiani – le guerre civili sono quel che sono – ma furono certo minori rispetto a quelle messe in atto dai seguaci repubblichini dell’ultimo Mussolini. Anche a questo proposito la buona storia non deve tacere nulla e dare a ciascuno quel che gli spetta».

Come giudica i movimenti della cancel culture? Perché sono nati e si sono espansi nei Paesi anglosassoni e nelle loro università?

«Per uno studioso solo l’idea che si voglia cancellare la storia suona come un’insensatezza. La storia, una volta che ha scritto le sue pagine, non richiede altro che di essere compresa. È immodificabile e non resta che indagare i dove, i quando, i come e i perché. Possiamo dispiacerci che certe pagine siano andate in un modo anziché in un altro, ma questo non cambia nulla del corso delle cose come ci è stato consegnato dal passato. Le approvazioni o le condanne pronunciate nel presente dipendono dal tipo di valori e di principi propri di ciascun individuo o delle molteplici collettività e manifestano i loro progetti di vita; ma non possono cancellare proprio niente. Il motivo per cui i movimenti della cancel culture hanno trovato un terreno particolarmente fertile negli Stati Uniti e in Gran Bretagna mi pare riconducibile al fatto che in questi paesi sono particolarmente forti le radici di un puritanesimo di matrice religiosa, trasferitosi in campo ideologico e politico e sfociato nella pretesa prima di giudicare il passato e poi di oscurarne i capitoli ritenuti indegni. Questi movimenti si sentono investiti di una missione progressista, ma in realtà marciano in direzione contraria».

Se si applicassero i criteri dei nuovi giudici che contestano Aristotele, Shakespeare, Hume, Voltaire, Rousseau e via dicendo, e abbattono le statue di Cristoforo Colombo i secoli passati si trasformerebbero in cimiteri culturali?

«La pretesa di cancellare la storia che non ci piace è antica quanto il mondo. Si pensi ai gruppi di cristiani che nell’antichità si armarono di scalpelli e si diedero a cancellare dai monumenti della civiltà egizia i segni che consideravano blasfemi, ai roghi di libri delle tante inquisizioni che si sono susseguite nel tempo, per arrivare a ciò che fecero i regimi totalitari per affermare la buona contro la cattiva storia, fino alla barbarie distruttiva ad opera di talebani e seguaci dell’Isis di monumenti di incommensurabile valore. Si potrebbe continuare».

Si può dire che questa volontà di raddrizzare la storia contenga una buona intenzione purificatrice?

«I movimenti della cancel culture sono espressioni di una sorta di innocenza, ma nel loro Dna c’è il marchio palese di una pericolosa distorsione intellettuale. La loro pretesa di purificare la storia ricorrendo al bisturi è inquietante. Se vogliamo che il presente eviti ciò che la nostra coscienza giudica brutto del passato, dobbiamo agire di conseguenza. Ripeto: nei confronti della storia il nostro compito è comprendere le ragioni del suo essere stata ciò che è stata, in relazione allo sviluppo delle civiltà e delle persone che hanno agito sotto il peso dei relativi condizionamenti».

Perché qualche anno fa uno storico come lei ha scritto un libro autobiografico intitolato Cinque minuti prima delle nove (Claudiana)?

«Ne stesi il testo poco dopo la morte nel 1972 di mia madre, con la quale avevo avuto rapporti difficili. Avvertii il bisogno di sottopormi ad una sorta di riflessione psicoanalitica. Esitai molto prima di decidermi a pubblicarla. Mi convinse a farlo, parecchi anni dopo averla stesa, la scrittrice Marina Jarre, mia maestra e amica, la quale mi disse: “Massimo, ormai sei vecchio e puoi permetterti quel che vuoi”. Così mi decisi».

Che cosa le dà speranza oggi?

«La speranza, come si dice, è l’ultima dea. Ho ottantacinque anni e sono perciò prossimo alla fine della mia parabola. La speranza appartiene ai più giovani che hanno davanti il futuro. Ciò che prevale in me è l’inquietudine. Come non essere inquieti osservando un mondo in cui, tra i tanti pericoli che lo insidiano, grandeggia la minaccia di soccombere pagando il prezzo di avere compiuto le peggiori violenze nei confronti di madre natura?».

 

La Verità, 27 novembre 2021