«I veri politici studiavano oggi improvvisano»

Buongiorno professore, quanti processi ha fatto nella sua carriera?

«Tanti, ma giuro che non li ho contati».

Fra gli altri ha difeso Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi: qual è il ricordo più significativo di una vita nelle aule giudiziarie?

«È difficile da dire, anche perché su molte vicende permane il riserbo. Sul piano umano sono tutte esperienze importanti».

Le è mai capitato di veder condannato qualcuno che sa innocente?

«Più di una volta. Porto in me il dolore di non essere riuscito a farne riconoscere l’innocenza. Ma mi faccio forza con la speranza di poter essere ancora di aiuto a questo scopo».

È difficile convivere con questo sentimento?

«Non ci dormo la notte. Come per il caso di Sabrina Misseri e della mamma Cosima, a mio avviso condannate ingiustamente e in carcere da quasi dieci anni».

Franco Coppi è l’avvocato delle difese disperate. Se le probabilità di essere assolti sono scarse o minime ci si rivolge a lui. Penalista di luminosa fama, professore emerito alla Sapienza di Roma, decano della categoria, oltre ad Andreotti per concorso esterno in associazione mafiosa e a Berlusconi nel processo Mediaset e in quello relativo a Ruby Rubacuori, Coppi ha difeso l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro per i fatti della caserma Diaz, l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio nello scandalo della Banca Antonveneta e una montagna di altri, timorosi, imputati. Abitualmente si esprime senza impennate polemiche, forte della saggezza accumulata. Ma qualche giorno fa ha recuperato l’iperbole di un vecchio criminalista, Francesco Carrara, che disse: «Se mi accusassero di aver rubato la Torre di Pisa scapperei immediatamente».

Sputi il rospo professore, dove l’ha nascosta?

«La Torre di Pisa sta ancora lì e spero che i magistrati inquirenti ne siano convinti».

Un senso d’insicurezza aleggia nel cielo della giustizia italiana?

«Purtroppo il rischio di finire sotto processo oggi spaventa. Tenendo conto dei tempi della giustizia e delle difficoltà che incontra la difesa nello svolgimento del suo compito, non è una bella posizione nella quale trovarsi».

La presunzione di colpevolezza ha sostituito quella di innocenza?

«A volte si ha questa impressione. Quando si sente un importante magistrato asserire che un imputato assolto è, in realtà, un delinquente che l’ha fatta franca, il ribaltamento dell’onere della prova è palese».

È una mentalità che deriva da Mani pulite?

«Direi che sono tanti i fattori che hanno portato a questa situazione».

Quali?

«Mi sembra ci siano minore tensione morale e minore passione nelle cose della giustizia. Anche tra gli addetti ai lavori vedo un affievolimento di tanti principi, compreso quello della presunzione di non colpevolezza».

Che impressione le fa vedere Piercamillo Davigo sostenere in televisione che «l’errore italiano è sempre stato dire: aspettiamo le sentenze»?

«Già prima facevo riferimento a lui: Davigo è una persona simpaticissima e gradevole. Ha osservato che se vede un ospite uscire di casa con la sua argenteria non aspetta la sentenza per non invitarlo di nuovo a cena. Il riferimento è alla polemica riguardante l’applicazione della pena già dopo la sentenza d’appello senza aspettare il verdetto della Cassazione».

Un ospite pescato mentre scappa con l’argenteria è in flagranza di reato. Per non reinvitarlo basta anche meno…

«Sono di vecchia scuola e aspetto le sentenze. È impensabile che il provvedimento di custodia cautelare sia equiparato alla pena di una sentenza definitiva. Detto questo, l’esecuzione della sentenza dopo l’appello, anche in presenza del ricorso in Cassazione, è un tema molto discusso».

Il governo in carica è guidato da un suo collega che si era proclamato avvocato del popolo.

«Avvocati e magistrati sono stati spesso protagonisti in politica. Pur non avendo avuto esperienze precedenti l’attuale premier ha dimostrato che la preparazione da giurista può servire a svolgere bene queste funzioni».

Non crede che di fronte a una crisi tanto drammatica sarebbe stato utile un approccio più pragmatico?

«Bisognerebbe valutare caso per caso. In passato le carriere politiche godevano di una formazione specifica. I vecchi leader democristiani crescevano alla scuola della Fuci e dell’Azione cattolica. I politici del partito comunista si formavano alle Frattocchie. La politica non è qualcosa che si improvvisa».

Le pare che ci sia stata adeguata considerazione dello scandalo delle intercettazioni tra magistrati rivelate dalla Verità nelle quali si insultavano politici sgraditi e si prefiguravano attacchi a prescindere dal diritto?

«Per il momento la risposta è stata promessa, attendiamo di vedere quale sarà. Certamente il fatto è grave e la merita».

Lei ha invocato un gesto forte del presidente della Repubblica, il quale, se non può scioglierlo, potrebbe dire che non intende presiedere questo Csm. Ha avuto qualche riscontro questo suo invito?

«Non posso pretendere riscontri a una battuta che voleva sottolineare la delicatezza della posizione del presidente della Repubblica, che ha l’onere di presiedere il Csm in una situazione che si può definire disperata».

Quindi riscontri dal Quirinale non ne ha avuti?

«Neanche potrò averne».

E da altri ambienti?

«In genere non ricevo approvazioni o dissensi alle mie interviste. Volevo sottolineare l’imbarazzo di presiedere un organo esposto a fortissime tensioni, immaginando che potrebbe venir voglia di non presiederlo. Non certo ipotizzare che il presidente Mattarella possa tirarsi indietro davanti a obblighi istituzionali».

Se queste intercettazioni avessero rivelato trame ai danni della sinistra pensa che avrebbero avuto più risalto nei media?

«Forse sì, ma non sono sicuro. Mi pare che sia stata colta la gravità dei fatti».

È riformabile il sistema della magistratura?

«Tutto nella vita lo è. Mi auguro che ciò avvenga non in peggio, com’è accaduto per il Codice di procedura penale».

La cui riforma doveva servire a sveltire i processi e invece…

«La riforma del codice ha fallito tutti gli obiettivi. Lo dico in base alla mia esperienza nelle aule giudiziarie. Poi potrà esserci qualche statistico che mi smentisce. Ma sul piano della velocità dei processi, confrontando il codice attuale con quello precedente, è difficile non dire che ha fallito».

Perché la magistratura è l’unica categoria nella quale la carriera si sviluppa per anzianità senza verifiche su qualità e deontologia professionale?

«È un argomento che va certamente approfondito. Credo vadano introdotte forme di controllo e di verifica su come i magistrati svolgono la loro professione, riducendo lo sviluppo automatico delle carriere».

C’è chi propone il sorteggio nell’elezione del Csm.

«Anche in questo campo non esiste la soluzione perfetta. Il sorteggio puro eliminerebbe alcuni problemi, ma ne introdurrebbe altri. Per esempio, un magistrato di fresca nomina potrebbe diventare membro del Csm».

Intanto, la riforma continua a slittare. Crede che un governo come questo se ne faccia prima o poi carico?

«Per ciò che abbiamo visto finora non c’è da essere ottimisti. Però voglio sperare che, superata la fase acuta dell’epidemia, si radunino poche persone esperte, invitandole a studiare i rimedi alle storture dell’attuale codice. Voglio essere fiducioso».

Settori di questo governo hanno un filo diretto con i vertici della magistratura: che cosa la fa essere così fiducioso?

«Tutti i giorni indosso la toga, pensando di avere davanti un giudice imparziale. Vedo i problemi e posso immaginare che sia come dice lei, ma non mi hanno mai molto interessato le dietrologie».

Non le sembra che le intercettazioni lascino poco spazio all’immaginazione?

«Non posso rispondere a questa domanda».

Cosa pensa a proposito del fatto che Luca Palamara ha detto da Bruno Vespa che non si dimette perché ama la magistratura?

«Abbiamo parlato di presunzione di non colpevolezza: anche Palamara ha diritto di difendersi dalle accuse che gli vengono mosse. Cosa poteva rispondere a Vespa? Mi auguro che il processo venga istruito rapidamente. Quando in un’inchiesta l’indagato è un magistrato o un politico, quel processo dovrebbe avere la precedenza ed essere celebrato nel minor tempo possibile. Perché il cittadino deve sapere se è giudicato da una persona per bene o se a capo di un partito c’è una persona corretta. Dovremmo sapere subito, e non tra otto o dieci anni, se Palamara ha commesso reati o no. Anche a costo di far cadere in prescrizione qualche altro processo».

Cosa che non accadrà, considerata l’abolizione in arrivo.

«La riforma della prescrizione è la prova del fallimento della giustizia penale sottoscritta dal governo. Vuol dire ammettere di non essere in grado di applicare una giustizia rapida ed efficace. Per il resto, è una riforma che mi trova assolutamente dissenziente».

Parlando dell’operato del ministro Alfonso Bonafede, come giudica il trasferimento agli arresti domiciliari di centinaia di condannati per reati di criminalità organizzata a causa del timore dei contagi?

«Credo che il ministro c’entri poco. Un conto è l’incompatibilità con la carcerazione per ragioni di salute – per la quale, se un detenuto è affetto da tumore, lo si manda dove può essere curato – un altro conto è il carattere farsesco del timore del contagio, che dovrebbe valere per tutti i detenuti. Li mandiamo tutti a casa in attesa del passaggio dell’epidemia?».

Qual è il suo giudizio sull’azione del governo durante l’emergenza sanitaria?

«Quando facevo il professore dicevano che ero molto severo. Invecchiando sono diventato più buono, perciò darei la sufficienza, nella speranza che possa migliorare».

Anche perché ci attende una difficile ricostruzione. Pensa che la deroga al Codice degli appalti attuata per il ponte di Genova potrebbe essere estesa a tutte le grandi opere? E che una certa cultura inquisitoria ostacoli questa possibilità?

«Concordo con la sua riflessione e la necessità di accelerare le procedure. Anche se a volte la cronaca svela situazioni che tendono a rimettere tutto in discussione».

 

La Verità, 6 giugno 2020