«Dopo 100 film Avati mi ha donato una donna inedita»
Sono a sua disposizione, ma se possibile evitiamo di parlare delle solite cose. Di vite ne ho una decina, ho cominciato a 15 anni…».
Oltre cento film, diretta da tutti i maggiori registi italiani, molto teatro e negli ultimi anni parecchia fiction di successo, Stefania Sandrelli è all’altro capo del cellulare con la sua voce festosa. Dall’8 febbraio potremo vederla sui canali Sky nei panni di Rina Cavallini, protagonista, con Giuseppe «Nino» Sgarbi (Renato Pozzetto in un inedito ruolo non comico), di Lei mi parla ancora, il film che Pupi Avati ha tratto dai mémoire del padre di Elisabetta e Vittorio. Il cast è completato da Isabella Ragonese, Fabrizio Gifuni, Chiara Caselli, Lino Musella, Alessandro Haber, Serena Grandi, Nicola Nocella e Gioele Dix.
Signora Sandrelli, com’è andato il primo film con Pupi Avati?
«È uno dei registi che ho sempre ammirato, perciò avrei voluto lavorare con lui molto prima. Credo che insieme abbiamo fatto un bellissimo film».
È un regista che mancava alla sua ricca collezione.
«Lo aspettavo da tanto, molti suoi film mi sarebbe piaciuto interpretarli».
E con Renato Pozzetto aveva mai lavorato?
«Mai. Però quando ci siamo incontrati a serate o a teatro abbiamo sempre simpatizzato perché ammiro le persone ironiche. In più, è un grande attore, ça va sans dire».
Le è piaciuta Rina Cavallini?
«È una figura frastagliata, resa bene anche da Isabella Ragonese, negli anni giovanili. Il film comincia con la mia morte e, più che seguire il corso della vita, racconta il temperamento di Rina. Una donna che si butta, scappa, poi torna e perciò potrebbe sembrare insicura delle proprie emozioni. Invece è una donna forte e lo è fino alla fine».
Credeva che l’amore e la fedeltà all’amato fossero un anticipo d’immortalità.
«Pupi Avati ha voluto rappresentare questa idea con leggerezza, quasi per gioco, attraverso la lettera che lei consegna a Nino il giorno del matrimonio. E che nel film scompare e riappare, quasi come una carta da gioco».
Ma non è un bluff.
«No, perché contiene una promessa. Se esiste davvero un amore così totalizzante allora, forse, si può dire che è immortale. È un’idea che si può rappresentare in tanti modi. Quella di Avati è una scelta coraggiosa, è un film che può sembrare crepuscolare».
Invece?
«Invece, anche a causa dei momenti drammatici che stiamo vivendo, ci aiuta a comprendere l’importanza dei sentimenti e il fatto che possono essere salvifici, nella loro grandiosità».
La forza del film Pozzetto, è nella sua ingenuità?
«Sì, è così».
Nino e Rina sono figure d’altri tempi?
«Possono essere attuali. In un sentimento così grande tutto è concesso. Fanno lo stesso lavoro e condividono anche l’amore per l’arte. Non credo che lui sia succube di lei, Rina è una donna volitiva e passionale. Se si ama davvero, è inevitabile esserlo».
Il «per sempre» che Nino ripete oggi è un’ambizione anacronistica?
«Il per sempre può valere per molte cose. Si può prendere spunto dall’amore, ma per esempio può valere per la musica, che è la più alta delle arti. Se amo un brano musicale, lo posso sentire un miliardo di volte con lo stesso trasporto».
Le sue storie avevano questa ambizione?
«Avrei voluto che fossero per sempre, i miei compagni lo sanno… Le storie d’amore importanti, Gino Paoli, mio marito (Nicky Pende ndr), Giovanni Soldati, sono nate con questa presunzione. Ho fatto di tutto per dedicarmi totalmente e ho sofferto molto delle loro fini non volute. Non sono mai stata pronta alla fine. Mi sono sempre trovata come sperduta dentro un bosco, sola e nuda, preoccupata di coprirmi. Ma senza sapere dove andare e cosa fare».
Che cos’è l’amore per Stefania Sandrelli?
«Un mistero, lo dico col cuore in mano. È un mistero anche quando a un certo punto finisce».
È qualcosa che viene donato e può essere tolto?
«È anche un atto di coraggio, perché può esserci l’altra faccia della medaglia. Tutti noi sappiamo di rischiare, anche se magari non ci aspettiamo che possa finire».
I giovani hanno l’aspirazione al «per sempre»? O come si può trasmetterla loro?
«Io credo molto nell’esempio, perché l’ho avuto dalla mia famiglia. Da mio padre che porto dentro di me, anche se l’ho conosciuto per poco tempo. Quando i miei figli mi hanno detto che sono stata un esempio per loro, mi sono commossa… E mi commuovo anche adesso, anche se non dovrei perché mi aspetta un set fotografico…».
Diceva dei suoi figli.
«È il regalo più grande che potessero farmi… Non ho mai vissuto per essere un esempio e ho dato anche pochi consigli. Però, forse, il mio modo di amarli e condividere la vita è servito. Anche nel casino… e con il lavoro che facevo».
Oggi accade troppo spesso che si rinunci alla prima difficoltà?
«Sì, è possibile. Perché l’amore è comunque una cosa che va costruita».
Come diceva Ivano Fossati.
«Parlo guardandomi indietro. Se questa intervista me l’avesse fatta vent’anni fa probabilmente non sarei stata pronta. Quando senti che qualcosa che ami puoi perderla devi lavorarci, per quanto sia possibile».
Tra quelle che ha interpretato c’è un’altra donna che si avvicina a Rina Cavallini?
«Forse proprio questo, un personaggio inedito, è il regalo più prezioso che mi ha fatto Avati. E anche se, per com’era la storia, muoio all’inizio, mi sono sentita dentro la sua vita fino alla fine».
È strana una donna così protagonista in cui non ci sono rivendicazioni femministe?
«È magnifico, ed è un piccolo segno che dice tutto».
In che senso?
«Perché significa avere un carattere pari a quello di un uomo. Senza questo, secondo me non si riesce a condividere un tubo. Perciò ai miei dico sempre: cerchiamo di camminare uno a fianco dell’altro, non io davanti e tu dietro o viceversa. È più semplice camminare insieme».
In tanto parlare di generi vede troppo antagonismo tra uomini e donne?
«Sì, ed è squallido per ciò che conosco di uomini e donne. Trovo riduttivo ragionare in termini di genere e di quote. È vero che noi donne dobbiamo fare squadra sennò veniamo calpestate, però c’è modo e modo di farlo».
Cosa intende per riduttivo?
«Le quote rosa, per esempio. È un’espressione che un po’ mi spaventa, mi sembra senz’anima».
Qual è la figura femminile che le è rimasta più nel cuore?
«Le dico la verità, ho sempre cercato una corrispondenza alla donna italiana. Perciò preferisco i film corali, meno quote e meno genere. Ho accettato parti che non spiccavano, ma che erano ugualmente importanti. In un film ci sono cose che non si vedono e non si dicono. Il cinema corale è quello che mi piace».
La parte che ha più segnato la sua carriera è Teresa, la moglie disinibita della Chiave di Tinto Brass?
«Non direi. In Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola ho interpretato un personaggio talmente struggente che non posso non preferirlo a tutti gli altri. Una ragazza dolce e dolente che… anch’io conoscevo bene».
Anche il cinema come l’amore può aiutare a superare i nostri limiti e regalare un pizzico d’immortalità?
«Immortalità non credo. Lei ha citato La chiave e non me l’aspettavo: di sicuro quel personaggio mi ha liberato e quindi, in qualche misura, mi ha sostenuto».
Lì, i limiti si superano?
«Un attore lavora con il proprio cervello e il proprio corpo. Non ho avuto timore a mostrarmi nuda perché il corpo è uno strumento di lavoro».
È stata diretta dai più grandi registi italiani. Da chi ha imparato di più?
«È difficile… Le assicuro, ognuno di loro non mi ha mai fatto rimpiangere il precedente».
A chi è rimasta più legata?
«A Ettore Scola perché ha creduto molto in me. In ogni mio bel ricordo, un premio, un riconoscimento, lui c’è sempre».
C’è qualche ruolo di cui si è pentita?
«No, per fortuna. Però ho ben presente i film che avrei voluto interpretare».
Quali?
«Sono due. Il primo è Il giardino dei Finzi Contini, uno dei più bei film del cinema italiano. Giorgio Bassani e Vittorio De Sica volevano me, c’erano già i costumi pronti. Poi, per esigenze di produzione, furono fatte altre scelte».
E l’altro?
«È La ragazza di Bube con George Chakiris, un bravissimo attore».
Lo interpretò Claudia Cardinale.
«Anche se aveva qualche anno più di Mara, un personaggio bellissimo. Anche lì fu decisiva la produzione di Franco Cristaldi».
Come vive questi strani giorni? C’è qualcosa che la conforta?
«Sì. Intanto, mangio qualche dolce in più, anche se non dovrei. Poi mi abbandono alla musica. Credevo di leggere di più, invece quando apro un libro presto lo chiudo. La musica mi avvolge e mi piace muovermi seguendola e ascoltandola anche a un volume un po’ eccessivo. È qualcosa che mi sostiene».
Che musica predilige?
«Ne ascolto tanta. Il jazz, l’opera, la classica. A Viareggio ho assistito a tanti concerti… Ella Fitzegerald, Chet Baker, Stevie Wonder, Ray Charles, Aretha Franklin. Mio fratello era un concertista, mio nonno un melomane e mi cantava le arie di Puccini».
Ha paura del virus?
«Credo di essere una persona coraggiosa. Ma seguo in modo viscerale le prescrizioni e il corso dei vaccini che in passato hanno già salvato il mondo e dovrebbero continuare a farlo».
È giusto che le sale cinematografiche continuino a restare chiuse?
«Finché non c’è una sicurezza importante e vera sì. È una pandemia».
Della crisi di governo che idea si è fatta?
«Mamma mia… Ho sempre pensato che le persone che fanno politica, di qualsiasi orientamento, dovrebbero essere migliori di noi cittadini. Invece accade molto di rado. E questo mi fa incavolare e mi addolora».
Che sogno coltiva per il futuro?
«Mi piacerebbe dedicarmi a qualcosa nel cinema, un personaggio o un copione che mi dia speranza. Lo dico anche scaramanticamente».
La Verità, 6 febbraio 2021