Fenomenologia dei coach nell’estate della rivoluzione
Panchine bollenti. Allenatori inquieti. Psicodrammi pallonari. Il domino dei tecnici risucchia anche l’inguardabile Nazionale. È impensabile, inammissibile che non si vada ai Mondiali per la terza volta consecutiva, strillano i commentatori. Se gli avversari giocano meglio, è pensabilissimo. Un po’ di umiltà, please. Inutile stupirsi, la crisi della Nazionale è specchio fedele del nostro sistema, dai vivai alle rose imbottite di stranieri agli stadi da Dopoguerra. Fosse una persona seria, Gabriele Gravina dovrebbe dimettersi (come un Maurizio Landini qualsiasi, ops). Che quello dei tecnici – uomini potenti ma fragili, in un soffio da maghi a bluff – sia un mestiere difficile e questa sia un’estate particolare, lo provano certi clamorosi dinieghi. Porte in faccia alla Juventus da Antonio Conte e Gian Piero Gasperini. Nazionale respinta da Claudio Ranieri e Stefano Pioli. Lo scherzo del destino è che Brasile e Turchia hanno Ct italiani. E, intanto, al capo della Fgic che dovrebbe nominarlo sfugge ancora la differenza tra selezionatore e allenatore.
IL DESIGNATO
Gennaro Ivan Gattuso. Detto Ringho. Dopo i rifiuti eccellenti, in Via Allegri sperano che sia il profilo giusto. Motivatore. Martello. Dispensatore di grinta. Da giocatore ha vinto tutto quello che si poteva, Mondiali compresi. Da tecnico, insomma. Sion, Palermo, Creta, Pisa, Milan, Napoli, Fiorentina, Valencia, fino all’Hajduk Spalato: diversi esoneri. Perplessità: i suoi spigoli si modelleranno sulle diplomazie di Coverciano? Detto guida: «Se uno nasce quadrato non muore tondo».
TRA COVERCIANO E RYIAD
Luciano Spalletti. Ottimo allenatore, ma prototipo dell’anti Commissario tecnico. Profeta di tatticismo esasperato. Uomo dogmatico dall’eloquio criptico, «dobbiamo passare dal calcio perimetrale al calcio relazionale». Concetti che necessitano di decodifica, fortunato chi ci riesce, e di prove e riprove per essere applicati. Morale: giocatori paralizzati. Il miracolo di Napoli è frutto di convergenze astrali. «Volevo dare il meglio, sono deluso da me stesso», è l’autocritica di uno che se ne va senza buonuscita. Attenuante: l’assenza di giocatori importanti. «Tiferò per il mio successore (se si troverà), perché non sono come tanti altri». Signore.
Roberto Mancini. Capello morbido, è il più stiloso del bigoncio. Gli dobbiamo l’ultimo successo azzurro, Europei 2021, arrivato grazie al fuorigioco di Arnautovic scovato dal Var contro l’Austria, e ai miracoli di Donnarumma ai rigori, in finale contro l’Inghilterra. Poi il buio, nonostante la scoperta di Retegui, e la fuga dietro ai dollari degli sceicchi. Esonerato causa risultati modesti. Poco stiloso invece il like al post anti Spalletti di Francesco Acerbi, dopo il quale ha ammesso: «Lasciare la Nazionale è stato un errore». Pentito.
Stefano Pioli. Maestro di «transizione e calcio verticale». Cementatore del gruppo. La sua carriera è segnata dalla morte di Davide Astori, capitano della Fiorentina. Diventa paterno e capace di gestire le psicologie di ragazzi spesso viziati. Theo Hernandez e Rafa Leao con lui hanno dato il meglio. Due secondi posti, una semifinale Champions e lo scudetto 2022, vinto contro pronostico. Dopo un anno in Arabia a guidare l’Al-Nassr di Cristiano Ronaldo, ha le tasche piene non solo di dollari. Ma molto meglio il ritorno sulla panchina viola che su quella azzurra. Rispettato.
GURU VERI O PRESUNTI
Antonio Conte. Talebano. Maniacale. Vincente. Meno integralista di qualche anno fa. Sembrava già sulla strada della Continassa dove Lele Oriali non l’avrebbe seguito. Poi i lavori in corso a Torino e i ponti d’oro a Piedigrotta, leggi mercato scintillante, lo hanno convinto a rimanere nel cast di De Laurentiis. Ha vinto l’ennesimo scudetto con una squadra meno attrezzata dell’Inter e soprattutto del Napoli di Osimhen, Kim Min-jae e Kwaraskelja. Ha scommesso su McTominay e Lukaku e ha vinto. Ossesso.
Simone Inzaghi. Resterà nella storia interista come il tecnico del «triniente». E di due scudetti regalati a squadre con rose inferiori. In un mondo con mille variabili, il gap tra trionfo e umiliazione è un capello. Sembrava il nuovo Guardiola, rischia di passare agli archivi come un altro Maifredi. È arrivato a fine stagione con la squadra sgonfia, ha gestito male la rosa, pareggiando partite già vinte e perdendo tutto. Dopo un’annata così, difficile ricominciare. Ha scelto l’Arabia; tra quanto arriverà la nostalgia? Spiaze.
Gian Piero Gasperini. Taumaturgo, autore di miracoli in serie. Prodigi costruiti sul lavoro e l’applicazione maniacali. Dittatore della preparazione. La controprova? Il rendimento inferiore dei suoi giocatori in altre squadre. Sull’Atalanta è stato scritto tutto. «Giocargli contro è come andare dal dentista», Pep Guardiola dixit. Di sangue bianconero, ha mantenuto la parola data alla Roma, dove adesso è chiamato a confermare lontano da Bergamo la sua statura. Carismatico.
Massimiliano Allegri. Sembrava diretto a Napoli, poi Conte non si è schiodato e lui ha messo la freccia per Milanello. Lo descrivono contento, motivato e al centro di ogni decisione per togliere il Diavolo dall’inferno in cui s’è cacciato. Chissà se, oltre che per rimpiazzare le giacche scaraventate a terra, l’anno sabbatico gli è servito per studiare qualche sistema di gioco più moderno. Si attende il primo confronto con Lele Adani. Mantra: corto muso.
PADRI (NON) DELLA PATRIA
Claudio Ranieri. L’aggiustatutto. Un papà di calciatori, da Leicester al Colosseo. Ma non un padre della patria. Sir Ranieri e sor Claudio. Candidato alla panca azzurra dalla Rosea. Tentato dall’avventura, pur da consulente giallorosso. Troppi colori. Dopo aver portato la Roma a un soffio dalla qualificazione Champions, perché infilarsi nel labirinto di Coverciano? Cosa sarebbe successo se avesse convocato o sconvocato un romanista di troppo? Meglio restare appollaiato a Trigoria a veder crescere i lupi di Gasp. Contropiedista su whatsapp: «Non me la sento, grazie del pensiero».
Carlo Ancelotti. Il più vincente è nato a Reggiolo. 5 titoli nei principali campionati europei, 5 Champions League, 2 con il Milan 3 con il Real Madrid. E dire che la Juventus lo lasciò andare perché lo riteneva un perdente. Gestore di campioni, assemblatore di fuoriclasse, inventore di moduli. Dopo una stagione deludente con i Blancos è andato a guidare il Brasile, subito qualificato per il Mondiale 2026. Annunciando l’accordo, ha detto: «L’Italia non mi ha mai chiamato perché in questo momento ha un grande allenatore». È proprio un buono. Quando non inarca il sopracciglio.
STELLE CADUTE
Thiago Motta. Da mago a apprendista stregone in 6 mesi. Dopo la stagione con il Bologna portato in Champions, era il più ambito d’Italia, ma si era già promesso alla Juventus. Ha dato il benservito a mezza squadra e allestito un mercato deluxe. Ma ha contratto la pareggite. Nel tempio del «vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta» non ti perdonano se dici che non hai «l’ossessione della vittoria». Altro passo falso, l’intervista estrai sassolini concessa a Walter Veltroni. In lista d’attesa.
Sergio Conceiçao. Monaco dello spogliatoio. Il suo Porto vincente era una via di mezzo tra l’Ordine supremo di Cristo e la Guardia nacional. Difficile potesse funzionare con Theo Hernandez e Alex Jimenez. Soprattutto se non hai le spalle coperte dalla filiera dei dirigenti. Ha dettato un decalogo di regole. Invano. Quel sigaro fumato a Riyad lo ha ingolfato. Un mese dopo il Milan era fuori da quasi tutto. Frase chiave: «Il calcio non è un hobby». Aveva annunciato che alla fine avrebbe parlato lui. Desaparecido.
LEGIONE STRANIERA
Roberto De Zerbi. Per gli esteti dei salotti buoni è il migliore. In effetti, il suo Sassuolo divertiva e infilava vittorie sorprendenti. Shakthar Donetsk, Brighton, Olympique Marsiglia: le sue squadre giocano per fare un gol in più dell’avversario. Solo che, curando poco la parte difensiva, a volte succede che lo facciano i rivali. Fa pensare a quei tennisti che eseguono i colpi più spettacolari, ma poi la partita la vince l’altro. Atteso alla prova di un grande club. Promessa da confermare.
Vincenzo Montella. Centravanti tecnico e rapinoso sebbene non dotato di gran fisico, da coach di Fiorentina, Milan e Siviglia ha avuto una carriera altalenante. È protagonista di una second life in Turchia. Nel 2021, dopo due anni di stop, accetta di allenare l’Adana Demirspor, club neopromosso nella massima serie, portandola al nono posto e, l’anno successivo, al quarto. Rescisso il contratto, dal settembre 2023 guida la Nazionale turca con risultati soddisfacenti. Tenace.
DA OSCAR
Luis Enrique. In finale contro l’Inter, il Paris Saint-Germain sembrava il Milan di Sacchi. Ha tentato 539 passaggi con una percentuale positiva del 91%. Com’è riuscito a vincere un trofeo inseguito e sfuggito a una formazione che aveva Messi, Neymar e Mbappè? Lui l’ha spiegato con «la legge della minima informazione. Spesso l’allenatore tende a parlare molto per sentirsi tranquillo», ha premesso. «Noi cerchiamo di dare ai giocatori il minor numero d’informazioni possibile in modo che in campo sappiano cosa fare. Che senso ha che io proponga cinque idee se poi non saranno in grado di interpretarle? C’è un bel detto di Blaise Pascal che riassume il nostro lavoro: “Se avessi avuto più tempo, ti avrei scritto una lettera più breve”». Chissà se a qualcuno dei nostri coach fischiano le orecchie.
La Verità, 12 giugno 2025