L’onda lunga di Costanzo nella cultura pop

Maurizio Costanzo è passato ad altra vita, ma il suo show è ancora in questa e lotta insieme a noi. Beh, lotta… Più che un campo di battaglie, il Mcs è stato una palestra di relativismo. Di se e di ma. È questa la lezione del costanzismo. Volendo fondere i due termini, potremmo parlare di «costanzivismo». Come fosse una confessione religiosa. Un fenomeno avvolgente e subliminale. La placenta mediatica nella quale ci agitiamo. Costanzo è stato il più potente e mimetico influencer di costume dell’ultimo mezzo secolo. Prima che comparissero internet e i social. E prima che la professione esaltata da Chiara Ferragni diventasse uno status, un modello, una nuova parola del vocabolario. Oggi il costanzivismo ramifica nella pubblicistica – eviterei di chiamarla letteratura – nel giornalismo, nel cinema e ovviamente in televisione. Ne abbiamo avuto un saggio nella beatificazione laica durata una settimana tra palinsesti stravolti e selfie alla camera ardente con la moglie da poco rimasta sola, ma docile alle discutibili richieste. Un’esibizione conclusa con i funerali a reti unificate, la sfilata di volti noti e la più evitabile sigla del programma storico all’uscita del feretro, come a chiudere in una simbolica parentesi la cerimonia religiosa.

Giornalista, conduttore, uomo di televisione, autore e sceneggiatore, Maurizio Costanzo è «stato un grande innovatore del linguaggio» (Stefano Zecchi). Pur mutuata da David Letterman, la vera, radicale e, a suo modo, rivoluzionaria novità era già nel titolo del talk più famoso: Maurizio Costanzo Show. Uno spettacolo nel nome e cognome. Per significare che al centro della scena c’è la persona. Meglio, l’individuo. L’individualità. Che poi diventerà individualismo. Quando compaiono gli antenati di quello show, Bontà loro e Acquario, l’Italia è sprofondata nel decennio del «tutto è politica», con le esasperazioni e le degenerazioni tragiche che si porta. Costanzo lavora ancora per l’editore pubblico e gli ospiti sono due o tre, ascoltati singolarmente e messi a confronto. È la nascita del talk show, il brevetto che tutti gli riconoscono. La messinscena della parola, dell’opinione, della chiacchiera (con le derive che seguiranno). Qualche anno dopo, nelle reti commerciali, mette a punto la formula che lo consegna alla storia della televisione e del costume. Nel frattempo ci siamo inoltrati nel decennio del riflusso. Della riduzione della dimensione collettiva. Comunitaria. Si realizza la rimozione dell’idea di popolo aggregato attorno alle grandi visioni della storia, il socialismo e, nella nostra Italia, il cristianesimo. È la grande, chissà se inconsapevole, operazione di sradicamento. Dal canto suo, Costanzo riesce a essere contemporaneamente, e tranquillamente, bastione delle televisioni di Silvio Berlusconi e consulente di Francesco Rutelli, sindaco di Roma, o di Massimo D’Alema, segretario dei Ds. E sulla prateria senza radici della fine delle ideologie può impiantare i brevetti che ci accompagnano tuttora.

La sera del debutto su Rete 4 distilla l’immagine dell’«Orient Express, dove la varia umanità s’incontra e parla». E anche quella di «un grande minestrone». L’Mcs è da subito portatore di alcune piccole rivoluzioni. Sul palco del Parioli si realizza la preveggenza di Andy Warhol sul quarto d’ora di fama che sarebbe toccato a chiunque. Costanzo convoca persone affermate e totali sconosciuti, che noti e famosi diventeranno proprio in virtù di quella convocazione. Li mischia in una disposizione indistinta e senza gerarchie, come appaiono per decenni ai telespettatori della seconda serata di Canale 5. È una disposizione democratica, vista a posteriori, non diversa dall’accezione grillina dell’uno vale uno. È il secondo dei suoi brevetti. Su quel palco sono equiparati magistrati e casalinghe, comici dilettanti e registi da Oscar, viaggiatori immaginifici e massaie veraci che non si muovono dal quartiere Prati. Figure schierate orizzontalmente, in un campionario di eccentricità dove tutti sono caratteristi, perché l’unico protagonista, il vero burattinaio, è l’uomo con i baffi. Consigli per gli acquisti.

Esaltando le storie individuali, Costanzo pone le basi dello storytelling. La sua messa cantata quotidiana corre sull’onda. È vero, il Muro di Berlino è ancora in piedi, il Web è pura fantascienza e si telefona con i gettoni. Ma al cinema e nella produzione letteraria il narcisismo, già stanato da Christopher Lasch nel 1979 (La cultura del narcisismo), sposa lo storytelling e insieme partoriscono l’autofiction, alla quale si rifanno schiere di scrittori, registi, attori, conduttori, macchiette, intrallazzatori, maghi e tirapiedi tuttora in servizio.

«Costanzo è stato anche anticipatore dei social media», analizza Carlo Freccero, e siamo all’ennesimo brevetto. I racconti del Parioli sono la rivincita della dimensione privata sul tutto è politica. Con le storie individuali il privato diventa pubblico. La propaggine più avanzata del fenomeno sono le interviste dei magazine di costume intrise di rivelazioni, outing, confessioni intime di traumi, ingiustizie e torti subiti. Il «vanityfairismo» imperversa a tutte le ore nei talk, nelle serie, nei programmi confidenziali, paradossalmente proprio ora che si continua a parlare di difesa della privacy. I social esasperano la tendenza. Nel loro livello basico, ecco l’infinita galleria fotografica di piatti al ristorante, di camerette addobbate, di make up in intimo… Nel livello alto degli influencer, il privato diventa affare e commercio. Il costanzismo affiora in Chiara Ferragni, nelle sue emule e varianti.

Alla fine di una puntata dell’Mcs il pubblico avrebbe potuto votare con il pollice per ogni singolo ospite come avveniva per i gladiatori nei teatri dell’antica Roma. Anche quella era società dello spettacolo. Chissà se, con i suoi collaboratori, Costanzo lo facesse pensando agli inviti successivi…

L’uomo con i baffi non c’è più, ma la sua lezione è viva e relativizza insieme a noi.

 

Il Timone, 3 aprile 2023