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Non venero i cantautori, ma se si convertono…

Uffa, ancora i cantautori. È stata questa la mia reazione alla doppietta di interviste del Corriere della Sera a Francesco Guccini e Roberto Vecchioni. Un mese e mezzo prima c’era stata quella, un po’ diversa, a Jovanotti, da cui tutto è partito. Megainterviste, doppie pagine dense e ricchissime. Al netto del fatto che a un giornale come il nostro mai la concederebbero – non si sa se per snobismo o per pregiudizio ideologico – tuttavia continuo a chiedermi perché nella terza decade del Terzo millennio continuiamo a regalar loro cattedre magistrali. I cantautori storici, come Guccini e Vecchioni, hanno conquistato il successo in una stagione precisa, un decennio disgraziato di violenza e terrorismo, eppure pontificano tuttora su canzoni di mezzo secolo fa da pulpiti argentati: programmi tv, case editrici, testate giornalistiche, tutto molto chic.
Perdonerete la digressione: musicalmente, non sono mai stati la mia preferenza. In casa, con un fratello e una sorella maggiori, si ascoltavano di più Mina, Lucio (Mogol) Battisti e «i complessi». Poi, grazie a un amico, mi avvicinai al rock progressivo dei Jethro Tull e della Premiata Forneria Marconi da Impressioni di settembre in poi e, da lì, alla fusion e al jazz, sempre per il primato della musica sulle parole cariche di implicazioni ideologiche. E se qualcuno dei cantautori mi emozionò, fu il Lucio Dalla visionario ed esistenziale di L’ultima luna, Caro amico ti scrivo, Anna e Marco, prima della scoperta dell’intelligenza anarchica e abrasiva di Giorgio Gaber, tuttora attualissimo. In ogni caso, erano ascolti che non avevano nulla di assoluto. Perché buona parte di quel decennio lo trascorsi impegnato in altre faccende – frequentando da fuori sede e privo di attrezzature musicali dignitose, la facoltà di Scienze politiche di Padova, egemonizzata da Toni Negri – essendomi imbattuto, senza meriti, in una storia che aveva riferimenti ben diversi dai cantautori. Non essendolo stati allora, meno ancora li venero maestri oggi. Anche quando, nelle serate tra amici, qualcuno ci invita a riflettere su una frase di un loro brano con l’enfasi degna di una lirica lepoardiana, ne riconosco la qualità, ma senza riuscire a sperticarmi. Così come mi è accaduto leggendo le interviste di cui sopra.
Devo dire che Jovanotti non parlava da un po’, causa il grave incidente di cui è rimasto vittima. E chissà, forse per la travagliatissima esperienza, me l’ha fatto trovare diverso da come lo ricordavo. Meno allineato al mainstream. Più coraggioso su temi come fede e ragione: credere «è una scelta, ed è anche un lavoro, dettato dal destino. Sono un illuminista riluttante… Ho una formazione razionale. Ma lascio la porta aperta al mistero, anzi spalancata. E ci passa una corrente travolgente. Una volta Saviano mi invitò in una sua trasmissione a cantare Imagine. Dissi di no… Non voglio cantare un mondo in cui non esista la religione. Un mondo senza religioni sarebbe peggiore, perché la fede è la cosa più umana di te». Su papa Francesco: «Umanamente, Francesco mi piace, mi diverte, mi emoziona. Gli si vuole bene. Ma l’idea che la Chiesa si debba trasformare in una onlus non mi pare del tutto condivisibile». Su Donald Trump e la sinistra: «Trump è un fenomeno del nostro tempo, e come tutti i fenomeni, anche i più inquietanti, è un’occasione per distinguere cosa Trump non è, e farla fiorire. Ha vinto nettamente, e gli elettori meritano rispetto. Dall’altra parte gli altri non sono riusciti a darsi una leadership forte, che si occupasse dei temi che davvero interessano… Gli eccessi della cultura woke sono controproducenti». Jovanotti con quell’intervista è stato la molla delle successive perché ha avuto l’azzardo di dire che non lo convince «la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Gloria di Umberto Tozzi non ha nulla da invidiare alla Locomotiva di Guccini». Proprio questo non si perdona a Lorenzo Cherubini: la pari dignità alla cultura bassa rispetto a quella alta. Così le interviste successive sono nate per rimarcare la differenza di lignaggio. «Al Corriere stavamo pensando a una serie di interviste ai grandi artisti italiani, per farci raccontare la “loro” canzone. Inevitabile a questo punto cominciare da lei e dalla Locomotiva. Quali libri ci sono dietro?», ha stuzzicato Guccini, Aldo Cazzullo. Adombrato, il «maestrone» di Pavana, che pure iniziò come cantante e chitarrista di orchestrine da balera, ha evidenziato tutta la filigrana del suo inno all’anarchia. Ora non vi tedierò con un’altra raffica di citazioni gucciniane salvo quella in cui si stupisce che il cardinal Matteo Zuppi, presidente della Cei, sia «un amico, per quanto mi sembra impossibile avere un amico cardinale», con cui va persino in pellegrinaggio in Vaticano (ma questo al Corriere non l’ha detto). «Pensi se un giorno fossi amico di un Papa… Ma forse sarebbe troppo grossa», ha messo le mani avanti.
Vecchioni, invece, arrivato a stretto giro, ha condito con citazioni di Orazio Luci a San Siro e di Somerset Maugham e del Talmud babilonese Samarcanda. Ma la sua intervista è densa di rivelazioni dolorose, il suo alcolismo e il suicidio del figlio, affetto da sindrome bipolare, e bisogna inchinarsi davanti alla generosità di Vecchioni, forse in parte debitrice alla moda dell’oversharing, l’eccesso di condivisione, di cui sono fatte queste confessioni (lo dico da parte in causa, dedicandomi al genere) contenenti traumi ed esperienze drammatiche che non sempre si sa dove sfocino. Nel caso di Vecchioni, sembra in modo più esplicito e consapevole rispetto a Guccini, a uno sguardo di fede, che ha ben «tre motivi», e che l’ha portato qualche mese fa a tenere un concerto in piazza San Pietro, alla presenza di papa Francesco.
Ecco, curiosamente si finisce sempre lì. Tuttavia, la mia irritazione di partenza, lungi dallo sparire perché non amo la facile distribuzione di patenti magistrali della società dello spettacolo, è solo compensata da quello che sembra l’arrivo degli esponenti della «cultura alta» allo stesso approdo del più popolare e umile Enzo Jannacci. Il cantore dei perdenti e dei disperati che diceva che «abbiamo tutti bisogno della carezza del Nazareno» (la prima volta quando si parlava di Eluana Englaro).
Dunque, cari cantautori, benvenuti tra noi.
Post scriptum Se vi capita di andare su Spotify, provate ad ascoltare i podcast ricavati per Chora Media dalle lezioni di don Luigi Giussani

 

La Verità, 8 gennaio 2025

«La fede è una bomba, ma il dolore dei bambini…»

Ciao Rosa, vorrei intervistare Verdone sul Natale. Rosa Esposito (ufficio stampa di Carlo Verdone): «In questi giorni sta girando la quarta stagione della serie. Non ha un minuto, è regista e attore». Proprio perché non ho perso un episodio voglio vedere se sono l’unico a cui riesce a dire di no. «Va bene, Maurizio: glielo chiedo…». Un paio d’ore dopo, su whatsapp: «Carlo prova a chiamarti oggi».
Com’è il Natale nella vita di Carlo?
«Nell’infanzia e nell’adolescenza fino a quand’ero universitario sono stati natali felici perché eravamo una famiglia molto unita. C’era la tradizione di trovare un regalo sotto l’albero, da bambino la pistola di Pecos Bill o, dopo, i racconti di Anton Cechov che mio padre mi regalò a 23 anni. Un libro che poi mi servì, perché al saggio di regia del Centro sperimentale portai proprio un racconto di Cechov».
E più avanti negli anni?
«Mi sono divertito, e mi diverto, a far trovare i regali sotto l’albero a Giulia e Paolo, i miei figli. Mi spiace quando sento dire: “Il Natale che tristezza, non vedo l’ora che passi”. Dovrebbe essere una festa che dà serenità e pacifica. Oggi le famiglie sono cambiate e non c’è più quel momento di aggregazione in casa, una volta la cena insieme era quasi una legge».
È stata una festa caciarona o intima?
«Non amo il Natale caciarone. L’ho trascorso con i miei figli e mio fratello. Una serata semplice. Ho la fortuna di avere una casa che sta in alto e di godermi il panorama del Gianicolo».
Ha una particolare tradizione di famiglia che ha mantenuto?
«Andavamo a messa nella chiesa di San Salvatore in Onda e continuo a farlo anche se adesso abito più lontano. Quando stavamo nella casa sopra i portici in Lungotevere dei Vallati, il palazzo dava su Via dei Pettinari, dove si trova quella chiesa importante per la mia famiglia perché, durante la guerra, i preti Pallottini nascosero mio zio che, avendo sposato una donna ebrea, era ricercato».
Importante.
«È anche la chiesa dove si sono sposati i miei genitori e anch’io sono stato battezzato lì. È piccola, elegante. Mia madre, che era di idee progressiste ma anche molto cattolica, aveva la devozione del primo venerdì del mese e amava che la condividessi con lei, come per un po’ ho fatto. Quindi quella chiesa mi ricorda mia madre, e anche il presepio dei Pallottini. In questi giorni lei ci portava a vedere i presepi e alla fine del giro facevamo insieme la classifica di quello più poetico».
Adesso i presepi non si fanno per non irritare i non cristiani.
«Non capisco molto questi problemi. Se andassi in un Paese islamico non contesterei le loro tradizioni».
Spesso siamo noi ad autocensurarci.
«È un’ipocrisia intellettuale, una cautela dei salotti, non una cosa che parte dal proletariato».
Negli ultimi anni il suo è un Natale più religioso?
«Forse lo era di più qualche anno fa, quando speravo che il mondo seguisse strade meno tormentate, con meno guerre, meno tensioni. Andando avanti con gli anni si prova un grande dolore se alcune persone alle quali si è voluto un bene dell’anima, persone che non hanno mai fatto male a nessuno, improvvisamente se ne vanno e magari sono più giovani di te. Questo fatto mi sconvolge… Ma ce n’è un altro che mi turba ancora di più».
La ascolto.
«Sono rimasto due giorni intristito dopo aver visitato i bambini affetti da tumore all’istituto oncologico. Con che coraggio diciamo che la vita è meravigliosa? La vita dipende dalla buona sorte. Sì, poi c’è una democrazia perché tutti dobbiamo morire. Ma quando vedi un bambino di sei anni che non riesce a parlarti perché ha un tumore ai polmoni, non reggi… Mi sono inventato una scusa per uscire dalla stanza e non mostrare che piangevo… Perché accanirsi con un bambino? I suoi genitori sanno bene che non ce la farà. Se fossi il Padreterno avrei risparmiato loro questo supplizio».
Il dolore dei bambini è un mistero inspiegabile.
«Insopportabile. Manda in crisi la mia fede. Poi, magari rifletti, e pensi che siamo nati con il certificato di morte in mano. Ma non si può dire a cuor leggero che la vita è meravigliosa».
La misura di Dio è diversa dalla nostra?
«Una volta, dopo che aveva visto un mio film, andai a trovare monsignor Ersilio Tonini, un sacerdote vero. Mi disse: “Caro Verdone, non si lasci prendere dallo sconforto. Avete un’arma che usate male: la preghiera. Telefoni a Gesù…”. “Io lo chiamo, ma non sento nessuna voce”, replicai. “Ma lui ascolta tutto. Avrà una bella sorpresa quando finirà questo cinematografo che è la vita”».
Di recente ha detto che quando si diventa maturi e qualche persona cara non c’è più «esplode ’sta bomba della fede». Che tipo di esplosione è?
«Senti la necessità di pregare di più. Non importa se in chiesa o prima di dormire, importa che sia una preghiera che viene dal cuore, non a macchinetta come alle scuole elementari. Anche se non avviene quello che chiedi, ti aiuta a non mollare e ti trasmette serenità, dopo. Non è una suggestione».
Questa fede riguarda l’aldilà?
«Non so com’è l’aldilà, però credo di avvertirlo nella presenza delle anime dei miei genitori, un padre e una madre molto speciali, che ancora mi aiutano».
È una fede dettata dalla paura della morte?
«Certo. Anche un non credente prima o poi finisce per dirla una preghiera. Avevo un caro amico che faceva dell’ateismo la sua bandiera. Un giorno si è ammalato e gli furono diagnosticati due anni di vita. Una volta, entrando in una chiesa me lo sono trovato inginocchiato sul primo banco. Gli ho voluto ancora più bene vedendo quella sua disperazione aggrapparsi all’ultima fune».
Senza aspettare il tempo che si accorcia si può credere pensando che, se tutto finisse, chi ci ha dato la vita ci avrebbe fatto uno scherzo crudele?
«Sì, sarebbe un teatro dell’assurdo. Nulla nasce dal nulla. Da pagani possiamo dirla anche con Seneca: nulla si estingue, ma tutto si decompone per ricomporsi in una forma che a noi ancora non è chiara».
Quindi, è fiducioso sul dopo?
«È l’ultima speranza che mi rimane. Seguo l’esempio di mia madre che, nell’orrenda malattia che la colpì, nonostante i mancamenti e i vuoti di memoria, continuava a dire il rosario anche negli ultimi giorni. Non sbandierava il suo essere cattolica. Quelli che m’infastidiscono sono i cattolici di professione, che vivono i dogmi senza riflettere. E poi credo un’altra cosa. Abbiamo il calendario dei santi: penso che di santi ce ne siano tanti nel mondo, non solo delinquenti, ladri, opportunisti… Voglio raccontarle una storia».
Prego.
«Per molto tempo dalla mia finestra, ho visto una vecchia salire curva verso il Gianicolo, trascinando un carrello pesante anche sotto il sole a picco dell’estate. Una donna molto povera che poteva dormire per strada o in un centro per anziani. Ogni volta mi chiedevo quanti anni avesse, come facesse a salire, piegata come Cristo verso il Calvario. Un giorno che si era fermata per prendere fiato sono sceso con 50 euro in una busta: “Lei non mi conosce, ma io la vedo spesso passare di qua e le voglio fare un piccolo dono…”. “Questi soldi li dia a chi ne ha più bisogno di me”, mi ha risposto gentile, con la sua asma. “Mi offende, lo faccio col cuore. Mi farebbe piacere se accettasse”, ho replicato. “Guardi che c’è chi sta peggio di me”, ha ribadito, ferma. Ho dovuto rimettere i soldi in tasca e tornarmene a casa a pensare».
A Francesca Fagnani che gli ha chiesto se potesse riportare in vita qualcuno per pochi minuti chi sarebbe e che cosa gli direbbe, Jovanotti ha risposto: «Chiunque… per chiedergli com’è di là, dopo la morte».
«A me non interessa sapere cosa c’è di là, se si chiama paradiso o no… Mi basterebbe rivedere tre minuti mia madre e dal suo volto, dal suo sorriso, capirei se è serena e in armonia. E se mi segue nella vita, come credo sia».
Questa bomba della fede vale anche per l’aldiquà?
«Se ne avessimo di più forse non ci sarebbero tante brutte situazioni. Mi vengono in mente le pubblicità sui bambini africani, ci sono zone dove il 60% sono ciechi. Perché non facciamo qualcosa? Elon Musk parla di andare su Marte… Chi se ne frega di andare la quarta volta sulla luna con i problemi che abbiamo qui? Basta… Userei quelle risorse per aiutare quei bambini, per ridar loro la vista».
In Vita da Carlo il fatto più divertente è la sua generosità che la rende vittima di sé stesso.
«È una questione di rispetto… L’ennesima richiesta d’intervista sulla Roma e Claudio Ranieri la respingo. Qualcuno mi rimprovera che do troppe interviste, ma oggi un ragazzo prende 15 euro ad articolo. Se mi fa una proposta intelligente e posso aiutare il suo curriculum perché non devo farlo?».
Dopo il film d’autore, il sindaco di Roma e il Festival di Sanremo quale sarà la sfida della quarta stagione?
«Paramount mi chiede di non dare anticipazioni. Posso solo dire che desideravo interagire con molti giovani, un gruppo di studenti pieni di passione per il cinema e la cultura».
Il Giubileo appena iniziato è grazia o disgrazia?
«Per hotel, ristoranti, Uber e tassinari sicuramente una grazia».
Da romano?
«Roma è ridotta a un posto di aperitivi, ristoranti giapponesi, thailandesi, vinerie. Un’immensa Capri. Dalla città degli imperatori e dei grandi monumenti siamo passati alla città culinaria, con i funghi a calore per riscaldare chi cena all’aperto».
E da credente?
«Può essere una grazia. Viviamo un momento così complicato… Se afferriamo il senso della speranza di cui continua a parlare il Papa possiamo recuperare l’etica che abbiamo perso. Per chi ha questa sensibilità può essere un’occasione e per chi non ce l’ha, anche».
Avrebbe fatto cantare Tony Effe al Concertone?
«Non ho seguito tutte le polemiche però sì, l’avrei fatto cantare».
Tanto più che andrà a Sanremo…
«Vasco Rossi quando ci andò la prima volta aveva scritto Portatemi Dio, una canzone che diceva: “Metteteci Dio sul banco degli imputati”. Poi si è rivelato una persona generosa…».
Questo politicamente corretto ci sta facendo andare fuori di testa?
«Su alcune cose si può capire, ma è sbagliato non contestualizzare le situazioni. Via col vento dovrebbe essere bruciato perché la mami è nera? Suvvia. Il Sorpasso è maschilista, ma è un capolavoro. Con i criteri di oggi, quanti film di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi o Vittorio Gassman dovrebbero andare al rogo? E i miei? In Acqua e sapone vado a letto con una ragazzina che non ha ancora 18 anni, ma è una fiaba. Sette otto miei film dovrebbero essere eliminati. È una moda fastidiosa, diffusa sempre dai soliti salotti intellettuali, il popolo non si pone questi problemi».

 

La Verità, 28 dicembre 2024

Intrighi, spie e terroristi: riecco l’action movie

Durante un evento all’ambasciata britannica a Parigi, ospite d’onore il ministro della Difesa francese (Nathan Willcocks), un gruppo di terroristi fa scattare la vendetta dell’ex capo della Legione straniera Jason Pearce (Sean Harris). È la prima scena di Attacco al potere – Paris has fallen, spin off seriale della saga cinematografica con Gerard Butler (in preparazione un quarto film), prodotto da Studiocanal e diffuso da Canal+ con ottimi ascolti (lunedì sera su Italia 1 i primi due episodi hanno ottenuto il 6,2% di share con 1,2 milioni di telespettatori). Senza tanti preamboli, ci si trova nel vortice di uno spettacolare action movie adatto a un pubblico adulto, che intreccia agenti segreti dalla doppia vita, terrorismo e politici mediamente corrotti.

Per i sei anni in cui è stato nelle carceri dei talebani, lo spietato Pearce ha pensato solo a cosa avrebbe fatto, una volta uscito, a quelli che l’hanno abbandonato nelle mani dei torturatori: «E ora sono uscito», annuncia minaccioso. L’intervento di Vincent Taleb (Tewfik Jallab), guardia del corpo del ministro, e di Zara Taylor, (Ritu Arya), agente dell’Mi6 sotto copertura, riesce a sventare il blitz e a mettere in salvo il politico. Solo momentaneamente, però, perché la rappresaglia del nucleo terroristico attua un piano alternativo ancora più cinico, rapendo la figlia e imponendo un ultimatum definitivo. Parigi è sotto assedio e i cecchini mettono nel mirino altri politici e ambigui affaristi, costringendo il presidente della Repubblica Juliette Levesque (Emmanuelle Becort), che ha una relazione nascosta con Taleb, a diramare un appello alla nazione. Anche Zara Taylor ha nella liaison con la tossicodipendente Théa (Camille Rutherford) una non trascurabile complicazione privata. Alla guardia del corpo francese e all’agente segreta inglese non resta che allearsi, anche contro l’insidia di una talpa annidata nella squadra.

Realizzata con robusto impegno di budget, sebbene per il genere action risulti più adatta la visione sequenziale, la serie in otto episodi appare ben ritagliata sul pubblico maschile e mediamente giovane di Italia 1.

***

Sarà stato l’eccesso di familiarità a consigliare a Fabio Fazio di non chiedere a Jovanotti, nell’ultimo Che tempo che fa, che cosa pensi dell’elezione di Donald Trump, della fuga di alcuni suoi colleghi da X e persino della Chiesa ai tempi di papa Francesco? Chissà. Tutti argomenti su cui nell’intervista al Corriere della Sera il cantautore ha espresso vedute, come dire, poco mainstream. A volte, anche gli amici hanno opinioni divergenti.

 

La Verità, 4 dicembre 2024

Il talento di Fiorello riporta alla goliardia del liceo

La cosa difficile sarà tenere il livello della puntata d’esordio. Qui, ogni mattina all’alba tocca ricominciare da zero e appellarsi al talento di Rosario Tindaro Fiorello. Che è enorme. L’idea di fondo è riproporre la goliardia di certe classi affiatate, capaci di cazzeggiare su tutto: non i fatti della scuola, ma le notizie del giorno. E, al di là di qualche puntata più o meno smagliante, Fiorello tornerà a essere il compagno che fa divertire…

Già nei primi minuti di Viva Rai2 ci sono tre o quattro gag che la Rai di solito ci mette 15 giorni. Dopo la finta assenza, troviamo Fiore a letto con Amadeus che, fra il detto e il suggerito, getta un paio di sassolini nell’attualità: «Sì, parlavi delle primarie del Pd e piangevi… E poi volevi pagare una caramella con la carta di credito. Io ti avevo detto che non si poteva fare… E tu piangevi. Ciuri! Non ho chiuso occhio tutta la notte». La sigla è by Lorenzo Jovanotti: «Viva Rai 2, c’è Fiore con il buonumore». Poi, dentro il Glass box, ecco la presentazione della classe, Fabrizio Biggio e Mauro Casciari, poi Carolyn Smith («Complimenti per Ballando con le stelle! Sai cosa mi piace? L’atmosfera fra voi… un’atmosfera, amichevole. Sembra di stare a casa dei Soumahoro, con la moglie, la suocera…»), il pensionato Ruggiero Del Vecchio, «lo spoiler delle vostre vite». Apre l’agenda vera di Giorgia Meloni – «non posso dire come l’ho avuta» – e legge gli appunti. «Rimuovere Coletta e Fuortes» è un piccolo capolavoro, prestandosi a svariate interpretazioni.

Chiama Matteo Renzi. «No, in questo momento si parla solo della Meloni. Tu stai con Calenda, ok. Qual è la battuta che devo dire? Che siete i Jalisse della politica. Ma non fanno niente da 26 anni. Come voi…».

Fuori dal Glass, Lillo fa la caricatura degli ambientalisti puri e duri, ma non sanno l’inglese e scrivono Save the Heart con l’acca nel posto sbagliato. Rispunta Amadeus per annunciare Francesca Fagnani, co-conduttrice per una sera, in quota mainstream, com’è, del resto tutto il cast del Festival. Ma può non esserlo?

A mo’ di presa in giro dei fanatici dei social e dei critici improvvisati, scorrono in basso sullo schermo i finti messaggi: «Comunque a me Fiorello piaceva di più quando faceva Stasera pago io». E via con la lista dei successi del passato, per concludere con «a me piaceva di più quando non faceva niente». La chiusura è una riflessione ad alta voce dello stesso Fiore: «Avrei voglia di dire arrivederci tra una settimana». Già, sarà dura tenere il livello…

 

La Verità, 6 dicembre 2022

 

«Grazie a Jovanotti ora la poesia svetta in classifica»

Breve storia di un’idea geniale. S’intitola Poesie da spiaggia. È un libriccino con la copertina bianca e due grandi consonanti beige, la C e la J, le iniziali dei due autori: Nicola Crocetti, editore raffinato, e Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, il cantautore positivo che conosciamo. Una strana coppia: nobilmente artigianale e incline al basso profilo il primo, estroverso e catalizzatore il secondo. Questa idea geniale ha già battuto tutti i record di vendite per una pubblicazione di poesia. Così, eccomi nella sede della Crocetti editore, il cui fondatore, nato a Patrasso, grecista e sofisticato traduttore (anche della ciclopica Odissea di Nikos Kazantzakis), ha fatto a lungo il giornalista. Come secondo lavoro, però, perché il suo cuore ha sempre pulsato per il marchio nato nel 1981. E che sette anni dopo ha partorito Poesia, la più apprezzata e diffusa rivista europea, che metteva in copertina i volti dei poeti. Era una scelta voluta «perché i poeti hanno dignità pari o superiore a quella degli attori e dei divi della tv che campeggiano sui settimanali che troviamo in edicola», rimarca Crocetti. Per il quale questa idea geniale ha un certo sapore di rivincita.

L’altra sera avete presentato il libro al Salone di Torino, com’è andata?

«Molto bene. C’erano 600 persone attente e partecipi per merito di Jovanotti».

Avete fatto altre presentazioni?

«Una ai Quartieri spagnoli a Napoli, nel monastero della Foqus (Fondazione quartieri spagnoli), dove delle suore accolgono figli di camorristi: c’erano 500 persone. Poi siamo stati ospiti del programma di Massimo Gramellini, io in studio e Lorenzo in collegamento».

Gramellini su Rai 3, gli elogi di Concita De Gregorio su Repubblica… Jovanotti apre tante porte?

«Avremmo dovuto andare anche da Fabio Fazio che però voleva una performance di Lorenzo. Invece lui avrebbe preferito parlare solo del libro, così ha declinato».

Jovanotti è un ciclone.

«È la prima volta che un libro di poesia entra nella top ten delle vendite, tanto più a pochi giorni dall’uscita. Le 20.000 copie della prima tiratura sono andate esaurite in un giorno. Dopo una settimana, è alla terza ristampa».

Com’è nata l’idea?

«L’ha avuta Jovanotti. Si è rivolto a Feltrinelli chiedendo di contattarmi. Gianluca Foglia, capo degli editor, temeva che dicessi di no invece abbiamo fatto un incontro online e ho accettato con entusiasmo».

Perché?

«Da anni Lorenzo segue il profilo su Facebook della Crocetti editore. Ogni giorno pubblichiamo una poesia, lui mette i like e commenta. Quando esce un nostro libro lo compra e lo consiglia. Perciò sapevo che ama e conosce la poesia».

Un buon socio.

«Assolutamente. Questa è un’antologia fatta da una persona competente come me e da un lettore forsennato di poesie come lui. Lorenzo conosce la poesia più di tanti poeti affermati».

Ha recitato versi di Mariangela Gualtieri all’ultimo Festival di Sanremo.

«Da cinquant’anni sento dire che la poesia non vende. Perché mai dovrebbe? Sui giornali nessuno ne parla se non occasionalmente e spesso a sproposito. In televisione solo Rai 5 fa dei programmi su Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, i classici del Novecento, ma quasi mai parla di poesia contemporanea. Quando nel 2017 diedero un tema alla maturità su Giorgio Caproni nessuno lo conosceva, non dico i ragazzi, nemmeno gli insegnanti. Dunque, se la scuola non ne parla, gli insegnanti, salvo rare eccezioni, non la conoscono, nelle librerie la poesia è relegata negli scaffali più remoti, come fa a vendere un prodotto che non si trova e di cui non si parla in tv?».

Abbiamo la prova contraria?

«Ogni volta che se ne parla in tv o c’è un film che cita un autore le vendite schizzano. Come avvenne con L’attimo fuggente e Capitano, mio capitano di Walt Whitman. Il libro con le sue opere vendette parecchio. Se con un cavallo di Troja si introduce la poesia nelle mura della fortezza, la fortezza cade. Il cavallo di Troja è stato Jovanotti con la sua performance a Sanremo e con questo libro».

Un contenuto elitario proposto in un contesto e con un linguaggio popolare. Quando l’ha visto recitare Bello mondo a Sanremo cos’ha pensato?

«Ho sempre sostenuto che la poesia ha bisogno della ribalta del primetime televisivo. Se le dai un palcoscenico importante vengono smentiti tutti i luoghi comuni sulla sua invendibilità».

Perché ci sono tanti lettori e aspiranti poeti?

«Se digita poesia su un motore di ricerca escono oltre 300 milioni di pagine. Se digita poetry ne escono 950 milioni. Di fronte a questi numeri è difficile dire che la poesia non interessa. Qualcuno obietta: se sul Web ci sono 300 milioni di pagine, i libri dovrebbero vendere decine di migliaia di copie. Invece, in Italia ci sono 3 milioni di poeti dilettanti che scrivono, ma non leggono».

È un fenomeno figlio del sentimentalismo e dell’egocentrismo dei social?

«È figlio dell’incultura che parte dalla scuola e arriva ai media. Negli Stati Uniti alla cerimonia di insediamento alla Casa Bianca i presidenti si fanno affiancare da un poeta. Cominciò John Fitzgerald Kennedy chiamando Robert Frost, l’ultimo è stato Barack Obama…».

Purtroppo Joe Biden ha chiamato Amanda Gorman…

«Giusto, c’è di meglio… In America i poeti insegnano nelle università, scrivono sui giornali e sono riconosciuti. In Grecia poeti come il premio Nobel Odysseas Elitis, Giorgos Seferis, altro Nobel, e Ghiannis Ritsos sono stati musicati da un musicista come Mikis Teodorakis».

In Italia la consideriamo un prodotto d’élite.

«Con l’eccezione di Alda Merini che era un fenomeno mediatico perché andava da Maurizio Costanzo, da noi prevale l’idea che i poeti siano degli straccioni, non degni di essere paragonati agli altri intellettuali».

La spiaggia è un posto di casino, la poesia predilige il tramonto o l’alba?

«Lorenzo ha detto proprio questo: voglio che insieme ai gialli o ai fumetti, negli zaini di chi va al mare o viene ai miei concerti, ci sia anche un libro di poesia».

Per essere apprezzata necessita di alcune condizioni?

«Che qualcuno la sappia porgere bene, cosa che in pochissimi sanno fare».

E di un contesto che aiuti la contemplazione?

«L’ascolto, la meditazione, virtù neglette».

Come avete scelto le 115 liriche dell’antologia?

«Volevamo fare un libro che costasse poco, con un numero contenuto di pagine. Foglia aveva chiesto 50 poesie a testa. Ognuno ha creato la propria playlist, ma ci siamo fatti un po’ prendere la mano. Pian piano ne abbiamo tolte alcune».

Ognuno ha scelto da solo.

«Quando ce le siamo scambiate abbiamo scoperto che metà degli autori scelti da Lorenzo coincidevano con i miei».

Avete discusso su qualcuno?

«Abbiamo fatto delle aggiunte quando ci siamo accorti che mancava qualche autore che meritava».

Non solo poesia contemporanea.

«Poesie di ogni tempo e di ogni Paese».

Poteva starci anche Giacomo Leopardi?

«Capisco, ma per me era troppo scontato».

Se è per questo c’è il Cantico delle creature, pur in una bellissima versione.

«È una scelta di Lorenzo. Volevamo proporre un’antologia che stupisse per i contenuti».

Il gusto della poesia va educato o si è predisposti?

«È frutto di lavoro e di educazione. Quelli che pensano che la poesia nasca spontaneamente davanti a un bel tramonto o quando si è afflitti dal dolore di un amore finito quasi sempre producono balbettii da dilettanti».

Siamo abituati a fruizioni istantanee a tutti i livelli: che spazio può avere la poesia oggi?

«La poesia ti fa fermare a meditare perché da sempre dà risposte ai grandi interrogativi della vita, come la filosofia».

Confina con il senso religioso, la ricerca delle risposte alle domande fondamentali?

«Certo, di questo si occupa. C’è un’opera di Aldo Nove, scelta da Lorenzo, che s’intitola Maria».

Un libro così fa svoltare il lavoro di una vita?

«Gli dà un senso. Da tutta la vita mi occupo di poesia, ma anche se ritengo di aver pubblicato ottimi testi non era mai accaduto che un mio libro diventasse un bestseller».

Quello con Capitano, mio capitano si era avvicinato?

«Sì, ma non avevo una distribuzione paragonabile a quella di adesso con Feltrinelli».

Ha fatto svoltare la sua attività anche l’ingresso in Feltrinelli?

«Naturalmente. Sono passato da una dimensione artigianale a una più contemporanea. Dopo l’acquisizione di Feltrinelli Crocetti editore ha raddoppiato il fatturato in un anno».

Aveva mai chiesto aiuto alla politica?

«Non mi sono mai occupato di politica. Questo è il motivo per cui non ho mai goduto di finanziamenti come la stragrande maggioranza degli editori che prendono o hanno preso finanziamenti a pioggia dallo Stato».

Non c’è mai stata considerazione?

«Alla politica non frega nulla della poesia. Mediamente i nostri politici sono ignoranti e disinteressati alla poesia. Se sono interessati alla cultura, lo sono ai musei e ai siti archeologici. È un po’ brutale, ma è così».

Abbiamo avuto come ministro della Cultura Sandro Bondi che era un poeta.

«Non ho memoria di sue azioni significative per la poesia».

Quante copie vende la rivista?

«Poche migliaia. Prima andava in edicola con una tiratura di 15.000 copie. Adesso è venduta nelle librerie Feltrinelli e in alcune altre, perciò è difficile raggiungere i numeri delle edicole. Il passaggio da mensile a bimestrale ha aumentato i costi da 5 a 13 euro».

Chi sono i poeti?

«La poesia è come l’acne, durante l’adolescenza viene a tutti, poi passa. Quelli a cui non passa e rimangono con la faccia butterata, quelli sono i poeti».

In una lirica intitolata Il poeta, Marina Cvetaeva li descrive come figure del margine.

«Sono quelli che dicono la verità. Prendiamo Osip Madel’stam, uno dei più grandi poeti russi del Novecento. Aveva scritto dei versi contro Stalin definendolo “il montanaro georgiano”. La lesse una sera davanti a un gruppo di amici fidati. Il giorno dopo fu arrestato, per dire quanto erano fidati quegli amici».

C’è qualche momento in cui ha realizzato che i poeti sono necessari?

«Tutti i giorni. È una consapevolezza che non è condivisa dalle istituzioni, ma dai veri poeti e basta. Distinguere tra quelli veri e chi ogni tanto va a capo, è un’arte che richiede studio e applicazione».

Ha mai provato a cimentarsi?

«No, perché mi sono posto come mission di diffondere la poesia, non di scriverla. Sono già troppi quelli che lo fanno».

 

La Verità, 21 maggio 2022

«Con la radiovisione sfidiamo Spotify»

«Il potere della nostra radiovisione. Il potere di essere umani». Le campagne di Rtl 102,5 hanno sempre qualcosa di spiazzante nel loro essere contemporaneamente semplici e originali. Avete presente «Very normal people»? Originalmente semplice. E con la forza di stare dalla parte della gente comune, di rappresentarla. Anzi, di esserla. Ne parliamo con Marta Suraci, responsabile marketing e comunicazione di Rtl 102,5, figlia di Lorenzo Suraci, gran patron di tutta la galassia che comprende Radiofreccia e Radio Zeta, rispettivamente l’emittente rockettara e quella generazionale del gruppo.

Ricominciamo dall’inizio: cos’è la radiovisione? A noi boomer sembra un ossimoro…

È un neologismo utile a identificare un format con regole precise e depositate.

Quali?

La principale è la contemporaneità. A comandare sempre è la radio, che viene diffusa su altri mezzi. La radio batte i tempi come il cuore li dà al resto dell’organismo. Gli schermi della tv, del tablet e dello smartphone sono i supporti video che recepiscono i contenuti della radio. Così la scaletta di Rtl si replica su tutte le piattaforme.

In onda in radio e in contemporanea sui vari dispositivi.

Per questo è riconosciuto come new media.

Non si fa prima a chiamarla televisione?

Noi facciamo tutto in diretta, è questa la nostra forza. La tv non può farlo. Per noi la parola viene prima delle immagini.

Perché siete partiti con una nuova campagna?

Perché abbiamo voluto sottolineare la nostra differenza. La radio è diventata radiovisione. La gente si è abituata a seguirci nei vari dispositivi. Vogliamo radicare questo concetto perché, paradossalmente, per noi questi due anni di pandemia sono stati un punto di svolta.

In che senso?

La radio si ascolta in movimento, in auto o sui camion, ma durante il lockdown tutti erano fermi a casa. Tutte le emittenti hanno perso ascoltatori e investimenti. Alla radio è successo quello che è successo al cinema. Invece, con la radiovisione il nostro pubblico a casa ha continuato a seguirci. Non abbiamo perso né ascolti né investimenti. Questo passaggio ha segnato un cambio di identità che ci ha permesso di continuare senza cambiare niente.

Parliamo della campagna.

È un passaggio importante, con tecnologia e linguaggio nuovo. La radiovisione la fanno le persone che tutti i giorni ci mettono la faccia, persone in carne, ossa e voce. Queste persone sono esseri umani.

«Il potere di essere umani» echeggia la canzone di Marco Mengoni?

A qualcuno la fa venire in mente. Ci pensiamo da un anno, non volevamo fare una campagna solo sul brand, bensì specificare cosa ci differenzia dai nostri competitor.

Cioè?

L’arena in cui ci muoviamo è sempre quella delle radio. Ma Deejay o Radio 105, che hanno ognuna il proprio target e la propria nicchia, non sono i nostri veri antagonisti. Noi vogliamo provare ad allargare la visione. La nostra competitor è la streaming intelligence, Spotify…

L’algoritmo, le piattaforme.

Delle quali abbiamo grandissimo rispetto. Dalla riflessione su che cosa ci differenzia da loro abbiamo tratto alcuni slogan.

Per esempio?

Il computer sbaglia, l’uomo impara; il computer ha programmi, l’uomo ha storie; il computer dà risposte, l’uomo fa domande; il computer si resetta, l’uomo si porta dentro tutto; il computer ha un protocollo, l’uomo ha un obiettivo; il computer calcola, l’uomo risolve. Da qui abbiamo concluso che solo l’umanità non va mai persa.

Qualcuno lo mette in dubbio?

Nessuno può davvero farlo. Oltre alla canzone di Marco Mengoni ci ha ispirato Tensione evolutiva di Lorenzo Jovanotti: l’uomo riesce ad affrontare ogni cosa. Si avvale della tecnologia, ma è la persona a comandare tutto. Il clock della radio è standard, ma tutto parte dall’uomo. Se c’è una guerra dobbiamo stare attenti a quello che viene messo in onda, nessuna macchina può sostituirsi a noi. Per questo i protagonisti della campagna sono tutti 60 gli speaker. Non solo i più rappresentativi. Finora protagonista era sempre stato il pubblico.

Come in «Very normal people»?

Tutto parte da lì. Rtl 102,5 è la radio più ascoltata d’Italia, questo oggi non lo dice più nessuno. Però la normalità evolve, non è mai banale. Così, con l’aiuto dei direttori creativi Stefania Siani e Federico Pepe, con cui collaboriamo da 15 anni, abbiamo identificato dieci emozioni, ridere, piangere, unire, raccontare, vivere, scherzare… Poi le abbiamo associate ad altrettante immagini del grande fotografo Tony Thorimbert, scegliendo 60 foto spontanee, non posate, tra migliaia di scatti.

«Il potere di essere umani» contiene una critica alla tecnologia?

Non denigriamo la tecnologia e i social media, i nuovi venuti nella galassia di comunicazione. Purtroppo la campagna è partita in contemporanea con l’esplosione della guerra. Ma proprio per questo forse la possiamo leggere come un invito a riflettere ancora di più. Qualcosa che va a toccare l’intimo delle persone.

Avrà dei momenti topici?

Il 9 giugno, giorno della fine della scuola, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, ci sarà il primo Festival della Generazione Zeta, con artisti come Mamhood, Achille Lauro, Blanco, Sangiovanni e molti altri. Finalmente, i teenagers, che dopo due anni di chiusure quasi non sanno cosa sia un concerto, potranno ritrovarsi ad ascoltare musica e ballare, speriamo senza mascherine. Il 31 agosto, invece, all’Arena di Verona Power hits premierà il tormentone dell’estate. L’anno scorso tra le guest star c’erano Ligabue, Gianna Nannini…

Vi seguono e apprezzano tutti i big: qualcuno preferirebbe più sperimentazione?

Nessuno ci snobba. Al Festival della generazione Zeta ci saranno i big, ma anche interpreti meno popolari come Massimo Pericolo, Ditonellapiaga, Gazelle. In questi due anni gli artisti hanno sofferto, ora avvertono il bisogno di incontrare il pubblico, non a caso una come Elisa è andata a Sanremo. La radio serve a unire le persone, una mission che la streaming intelligence non è in grado di assolvere.

Non temete di perdere le avanguardie creative e le nicchie più stimolanti di pubblico?

Anche normalità è un concetto che non va troppo definito, non è sinonimo di banalità. Noi sfruttiamo in pieno tutti gli strumenti tecnologici a disposizione senza stravolgerci. Consapevoli che è sempre meglio parlare di persona che attraverso uno schermo, è sempre meglio la realtà della virtualità. Perciò, un concerto non è sostituibile da una playlist di Spotify. Poi, certo: tutti la usiamo, ma ognuno è diverso dall’altro perché i gusti sono diversi. Mentre, purtroppo, la streaming intelligence e l’algoritmo tendono a uniformarci.

 

Panorama, 11 maggio 2022

Finito il Festival dei record, anche di pianti e gender

Il senso di liberazione è forte. Dopo la settimana di reclusione con vista sul Quirinale, finalmente ci siamo messi alle spalle anche la galera dell’Ariston; fiorita e scintillante quanto quella del Colle era rituale e polverosa, ma pur sempre galera. Le due liturgie vanno abbinate, non solo per la telefonata tra il bis-presidente e il tris-conduttore. Ma soprattutto perché, per i telespettatori anarchici, individualisti e viziati dal ventaglio di scelte, hanno entrambi il carattere dell’obbligo e, dunque, della tortura. Ora ci si butterà sulle Olimpiadi invernali, ma qui di obblighi non ce ne sono.

Intanto, mentre l’amministratore delegato Rai Carlo Fuortes, il «dottor Carlo» di Sabrina Ferilli, minaccia «una statua equestre di Amadeus» in Viale Mazzini e si conciona di una sua edizione quater, proviamo ad archiviare il ter.

Per il conduttore e direttore artistico quello appena concluso con ottimi ascolti (64,9% di share e 13,3 milioni di telespettatori per la serata finale) è un triplo capolavoro (voto: 7,5). Nell’era della (quasi) unità nazionale, come da mission annunciata, il Sanremo tuttifrutti ha accontentato (quasi) tutti, anche se, come vedremo, soprattutto alcuni. Amadeus si è consacrato, emancipandosi da Fiorello, dimostrando che il suo lavoro sta in piedi da solo. C’era un filo di scetticismo, dopo la prima serata. Invece, azzeccando gli ospiti delle successive, gli ascolti sono rimasti in quota e lo spettacolo pure. Ultima, ma altrettanto importante quadratura è quella musicale: un mix di generi, gender e generazioni che ha soddisfatto tutti i gusti. Mescolando mondo rap e canzone melodica ha completato l’opera di ringiovanimento del pubblico già iniziata da Claudio Baglioni. Un punto in meno nella valutazione si deve alla scelta delle partner femminili, non tutte azzeccate, e al lassismo consentito ai direttori d’orchestra. Oltre a legittimare la presunzione dei millennial, concedere il podio a Francesca Michielin (4) ha mostrato che per dirigere l’orchestra del Festival della canzone italiana non serve il diploma del conservatorio. Una lacuna non certo compensata dai look eccentrici di alcuni più assidui colleghi, ma quanto lei sprovvisti dei titoli necessari. Caso da risolvere.

Chi non ha bisogno di esibire pass di autenticità è Fiorello (7,5 per la presenza risicata), improvvisatore sopraffino («da sex symbol a ex symbol il passo è breve») e resiliente, con il medley di ballate tristi trasformate in samba tropicali. Tutto il contrario del meticoloso Checco Zalone (8), in grado di lanciarsi a tutta velocità, sul ciglio tra volgarità e raffinatezza a colpi di calembour, rime e parodie fulminanti, ma più cerchiobottiste di un tempo.

Nell’assemblaggio dei brani in gara la formazione da dejaay di Amadeus ha pagato. Il carisma di Gianni Morandi (7,5) è stato riconosciuto anche dai giovanissimi (Blanco: «Da grande voglio essere come lui»): chiusura del cerchio di mondi che sembravano non toccarsi. Invece energia, freschezza, eleganza hanno bucato il muro di separazione tra le generazioni. L’energia del Gianni nazionale, con o senza Jovanotti, la schiettezza  dell’ultra ottantenne Iva Zanicchi, il controllo espressivo di Elisa hanno finito per evidenziare le paturnie gender e le pennellate di smalto di Achille Lauro, Michele Bravi, Måneskin, Rappresentante di lista e di tutto il carrozzone fluido in trasferta all’Ariston (4 per il déjà vu). Terreno sul quale la distanza generazionale è tornata profonda.

Il Festival contrappuntato di gaiezza ha confermato i vincitori ampiamente annunciati (5) alla vigilia dalla critica (5), monoliticamente schierata. Blanco sarà anche una delle voci migliori della scena musicale contemporanea, ma la tonalità di Mahmood incarna il vittimismo lamentoso, per altro condensato nel ritornello della canzone: «Nudo con i brividi/ A volte non so esprimermi/ E vorrei amarti ma sbaglio sempre». Non a caso lo stesso impaccio espressivo ritorna in Ti amo non lo so dire di Noemi, l’altro brano firmato da Mahmood. Sull’emisfero opposto si trovano le due canzoni migliori del Festival (7 a entrambi) che sembrano dialogare tra loro, Forse sei tu di Elisa e Sei tu di Fabrizio Moro («La distanza fra un uomo che ha vinto ed un uomo sconfitto/ Sei tu/ Che attraversi il mio ossigeno quando mi tocchi/ Sei tu»), giustamente premiate come miglior arrangiamento e miglior testo della kermesse. Complessivamente, sulla modestia di gran parte degli interpreti in gara, è svettata l’esibizione di Cesare Cremonini (9) che ha inondato l’Ariston di canzoni ispirate e vitalità sorridente. Simile a quella trasmessa la sera dopo da Jovanotti (8), nella doppia veste – qualcuno ha cavillato – di partner di Morandi e di superospite. Anzi, di «superamico» capace di far sedere a disegnare l’ex compare di Radio Deejay, mentre lui recitava Bello mondo di Mariangela Gualtieri, riportandoci per un attimo sui banchi di scuola.

Si è dovuto invece aspettare la serata finale per avere sul palco una donna sia bella che intelligente: Sabrina Ferilli (8,5), testimonial della categoria Unodinoi per tanti motivi. L’ironia, la leggerezza, la veracità luminosa, il non metterla giù dura, grazie a Dio, scegliendo l’informalità di quel «vieni, sediamoci qui» sul gradino dell’Ariston, come sul muretto dell’adolescenza. Soprattutto per il suo geniale anti-monologo. Avrebbe potuto toccare tanti temi, le donne, il femminismo, il potere degli uomini, il riscaldamento globale, la disparità salariale… «Ma perché la presenza mia deve per forza essere legata a un problema grosso? Ci sono tante cose da cambiare, ma sto nella mia linea, ho scelto la strada della leggerezza». Applausi. Senza di lei, avremmo dovuto accontentarci di presenze femminili per un motivo o per l’altro, problematiche. La vallettosa Ornella Muti (5); la piagnucolosa Lorena Cesarini (4), che dopo aver detto al settimanale Oggi che «parlare di odio razziale per un paio di post mi sembra una montatura», l’ha messa puntualmente in scena; la più charmante, ironica e colta Drusilla Foer (7,5 per «unicità» al posto di «diversità») che ha il solo difetto di essere un uomo… E per le donne, come qualcuno ha notato, non è una buona notizia.

Se le premesse sono queste, forse una conduttrice donna arriverà insieme a una presidentessa della Repubblica…

 

La Verità, 7 febbraio 2022

 

Pif svela il lato comico di Battiato, ma non basta

Quando è arrivata Centro di gravità permanente, la canzone più attesa insieme a La cura, ho finalmente capito: Uacci uari uari / Uacci uari uari… Per tutta la serata omaggio al suo autore e interprete scomparso nel maggio scorso, Pierfrancesco Diliberto, alias Pif, conduttore e incursore di Caro Battiato (Rai 3, ore 21,30, share dell’11%, quasi 2,3 milioni di telespettatori) ci aveva raccontato una persona inedita. Un Maestro, come molti lo chiamavano. Uno studioso di musica e di esoterismo. Un uomo aperto al trascendente. Tutto vero e già noto. La parte poco conosciuta era il Franco Battiato che si divertiva e amava divertire. Che raccontava barzellette a raffica. Alcune un filo ermetiche, altre meravigliose come quella riproposta dal suo manager, Franz Cantini. Battiato barzellettiere è obiettivamente qualcosa di sorprendente. Diverso dal profilo dell’intellettuale enigmatico e irraggiungibile, perso nelle visioni della mistica sufi, al quale probabilmente ha pagato pedaggio lo stesso Pif che, prigioniero della regola autoimposta di non parlare con i suoi miti, ha mancato l’occasione d’incontrarlo. Peggio per lui. Ma peggio anche per noi che per tutta la sera abbiamo dovuto sintonizzarci sul rimpianto dell’opportunità mancata, espresso in una lunga lettera al Maestro, alla maniera di Caro Marziano. Davvero troppo autoreferenziale. Anche perché il suo meglio televisivo, Pif l’ha dato in Il testimone: telecamerina in spalla e curiosità in testa. Lo si è visto anche l’altra sera, quando, appunto, ha fatto raccontare ai tanti amici e collaboratori episodi e tratti meno conosciuti di Battiato. Così Gianni Morandi: un periodo suonava ininterrottamente la chitarra, poi si buttava sul violino per ore e ore, poi sul pianoforte, «adesso sto studiando il biliardo», infine la pittura: «Battiato era una cosa a parte, poi ci sono tutti gli altri». E Jovanotti: dove lo trovi uno che ti allarga gli orizzonti con «alberghi a Tunisi» e «studenti di Damasco», oggi siamo tutti chiusi nelle nostre stanze dell’eco… Proprio Morandi (Mesopotamia) e Jovanotti (L’era del cinghiale bianco), insieme ad Alice (La cura) e Max Gazzé (Un’altra vita), sono stati protagonisti delle interpretazioni del concerto (registrato il 21 settembre all’Arena di Verona) più degne di nota. Quasi quanto le barzellette, le telefonate all’alba agli amici («Giù dalle brande», lui che il militare l’aveva svicolato), il suo essere alla mano, l’autoironia ad accompagnare la ricerca e le idiosincrasie. Uacci uari uari / Uacci uari uari

 

La Verità, 7 gennaio 2022

Muccino controlla la saga famigliare di egoismi

Ma basta con questa farsa della famiglia perfetta. Ci siamo odiati tutta la vita, ma non lo vedi come siamo ridotti? Non c’è nessuno felice qui, Alba. Né io, né te, né i nostri figli…». Pietro Ristuccia, il capostipite della famiglia romana che da cameriere è diventato imprenditore, titolare del «San Pietro», uno dei ristoranti più rinomati della Capitale, parla alla moglie al termine della serata organizzata per il suo settantesimo compleanno e fornisce la chiave di lettura di A casa tutti bene. La serie, otto episodi in onda su Sky tratti dall’omonimo film campione d’incassi nel 2018. Come nel film, anche qui la regia è di Gabriele Muccino, mentre la sceneggiatura è firmata anche da Barbara Petronio, Andrea Nobile, Gabriele Galli, Camilla Buizza.

Dunque, i festeggiamenti del burbero capofamiglia (Francesco Acquaroli) sono l’occasione per riunire figli, compagne e compagni, sorelle, cognati e nipoti. Ad accogliere tutti c’è Alba (Laura Morante), preoccupata di smussare gli angoli del marito e conciliare le varie incompatibilità. Impresa ardua. Dietro i brindisi di facciata ogni componente custodisce un segreto, un progetto, un’idea per costruire il proprio futuro e farsi strada. Il figlio maggiore (Francesco Scianna) studia investimenti nel turismo in Sardegna. La figlia più piccola (Silvia D’Amico) è turbata dal precario rapporto con il marito (Antonio Folletto), spesso lontano per presunti motivi di lavoro. Dopo tanto tempo ricompare anche il secondogenito (Simone Liberati), gravato dall’incerta carriera di scrittore e dal matrimonio in crisi. Poi c’è l’altro ramo famigliare, quello dei Mariani, ancora più disfunzionale del ceppo principale, tra l’Alzheimer di Sandro (Valerio Aprea) e la dipendenza dal poker di Riccardo (Alessio Moneta).

Sono tutte solitudini che restano incollate al ménage famigliare per abitudine e interessi, nella speranza di cavarne un guadagno, una sistemazione. «Tutti chiedono», si lamenta ancora il patriarca: per un tornaconto, per la ricerca di un miglioramento, per svoltare. In sintesi, per trovare la felicità ognuno a modo proprio. Anche a costo di tradimenti, ipocrisie, manovre inconfessabili. Se le famiglie non hanno basi solide si trasformano in covi di egoismi impazziti. Il family drama è il terreno sul quale Muccino si muove meglio, mostrando di padroneggiare tempi, linguaggi, dialoghi e recitazione del cast, indovinato soprattutto nelle figure principali. Al di là della sigla cantata da Jovanotti, l’accompagnamento musicale risulta efficace nello svelare la gamma di sentimenti dei protagonisti.

 

La Verità, 23 dicembre 2021

Messner: «Greta? Tanta pubblicità. E su Jovanotti…»

Lorenzo Jovanotti è un grande musicista che va rispettato, «ma io chiedo rispetto anche per la montagna». L’impegno per l’emergenza climatica di Greta Thunberg «è lodevole, ma non cambierà niente…». Reinhold Messner è una grande star. Il più grande alpinista vivente, dall’alto dei suoi 14 «ottomila». Uno che non ha timore di prendere posizioni anche impopolari, quando servono. Se la ressa per i selfie e gli autografi sono un termometro di popolarità, bisogna riconoscere che, alla venerabile età di 75 anni con zazzera e barba pepe e sale, l’eccelso scalatore può competere con rapper famosi e grandi musicisti. Uno dei quali proprio il 24 agosto farà tappa con il suo controverso Jova Beach (o Mountain?) Party a Plan de Corones (2.275 m), poche centinaia di metri di dislivello dal Palaghiaccio di Dobbiaco, alta val Pusteria.

Dove, l’altra sera, l’appuntamento era alle 20 e l’inizio della proiezione del film documentario La Cima Grande era prevista alle 21. Invece, siccome alle 20.30 il palazzetto è già gremito da oltre un migliaio di persone, con gente seduta per terra, perché attendere?

L’occasione sono i 150 anni della prima ascensione alla famosa vetta dolomitica (2.999 m.), la più alta delle Tre Cime di Lavaredo, compiuta dal pioniere viennese Paul Grohmann insieme con le guide Franz Innerkhofler e Peter Salcher. È solo la prima di una serie di salite che illustrano l’eroismo con il quale si sono cimentati i migliori alpinisti da fine Ottocento ai giorni nostri. Centocinquant’anni fa si scalavano le Dolomiti con gli attrezzi dei contadini, vestiti con giacche di loden, aiutati da qualche corda e con approssimative scarpe chiodate, abbandonate nei passaggi più delicati affrontati solo con calzettoni di lana. Pian piano «l’arte dell’alpinismo», come la chiama Messner, si è evoluta, con l’introduzione di attrezzi più sofisticati, chiodi soprattutto, per superare le verticali come quella della Cima grande, ritenuta a lungo invalicabile. È una distinzione alla quale il grande scalatore tiene in modo particolare. La differenza rispetto a chi considera l’alpinismo «solo» uno sport è data dal fatto che l’obiettivo non è più la conquista della vetta, ma la ricerca di vie alternative, di percorsi più fantasiosi, nei quali entrano in gioco «la creatività e l’eleganza dei vari alpinisti».

Nel suo film, metà divulgazione didattica e metà excursus storico, metà eroismo e metà applicazione meticolosa, si susseguono le immagini delle ascensioni più ardite, interpretate da rocciatori giovani di oggi con tecniche e attrezzature d’epoca, chiodi, scalpelli e scarpe con la suola di feltro. Imprese vertiginose, riprese da brivido. Anche solo per girare poche immagini degli attori-scalatori appesi sulle pareti della verticale, nei panni di Emilio Comici nel 1933 e via via di tutti gli altri fino ad Alexander Huber, l’arrampicatore tedesco che per primo, nel 2002, conquistò la Cima in free solo, in solitudine e senza l’ausilio di attrezzature di protezione.

Tre quarti d’ora di documentario sottotitolato in italiano che hanno soddisfatto la platea dei frequentatori delle alte vie e, forse, spaventato ulteriormente chi ha un rapporto timoroso con le vette dolomitiche. Alla fine, dopo le domande agli attori e i saluti delle autorità, il bagno di folla di Messner. Per parlare con il quale si è dovuto aspettare la lunga coda di fotografie e dediche autografe. Sabato a Plan de Corones ci sarà la stretta di mano con Jovanotti e fine di tutte le polemiche? «Io non andrò al concerto, non sarò a Plan de Corones. Certo, ci incontreremo: non ho nulla contro Jovanotti e la sua musica, che rispetto. Anzi, lo ritengo un grande musicista». Ma? «Ho qualche perplessità riguardo al posto del concerto… Chiedo rispetto anche per la montagna, perché credo che sia il luogo del silenzio». Che idea si è fatto dell’impegno di Greta Thunberg per l’emergenza climatica del pianeta? «È un’iniziativa lodevole contro l’inquinamento e in favore dell’ambiente. Purtroppo, temo che non cambierà niente… Finché il presidente americano dice che non c’è il riscaldamento globale… E paesi come la Cina, l’India e il Brasile non fanno niente è difficile che le cose cambino». Che cosa pensa del suo viaggio in barca a vela per partecipare al simposio di Washington? «Mah…», riflette Messner, «non sono convinto che serva a ridurre le emissioni di Co2. Gli accompagnatori devono tornare in aereo. Mi sembra un po’ strano… Forse poteva andare lei con suo padre, senza troppa pubblicità». Sembra ci sia tanta parvenza. «Quando entrano in gioco gli interessi diventa tutto un affare… Ci sono di mezzo i genitori…». Più di così è difficile strappare alla star della serata, giustamente geloso di un po’ di tranquillità. Sarebbe stato stimolante interrogarlo sul superomismo e l’umiltà degli alpinisti. Chissà, magari arriverà l’occasione favorevole.

 

La Verità, 23 agosto 2019