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Una manina ripulisce la carriera truffa di Kaufmann

Un curriculum fasullo che qualcuno sta provando a cancellare. Una carrierona inesistente, servita per accaparrarsi denaro pubblico, che adesso si tenta di sverniciare. Altro che lo scandalo di certe lauree inventate e scoperte tardi. I titoli professionali di Francis Kaufmann sono una recita da premio Oscar. Un’opera da genio del male degno di grandi festival internazionali. Una pantomima da Academy awards. Peccato che nessuno se ne fosse accorto. Nessuno che avesse detto Kaufmann chi? Nemmeno nei felpati uffici del ministero della Cultura. Nemmeno coloro che, stando al curriculum, avrebbero dovuto essere compagni di set del grande cineasta, ora inquisito per l’omicidio della piccola Andromeda e di Anastasia Trofimova.
È una millantazione kolossal, la sua. Un piano minuziosissimo che lo ha fatto apparire collaboratore di Paolo Sorrentino, in Youth – La giovinezza. Presente nel cast tecnico di Heaven, regia di Tom Tykwer su sceneggiatura di Krzysztof Kieslowski (con Cate Blanchett e Remo Girone). Produttore esecutivo di Ridley Scott in Tutti i soldi del mondo e in Ore 15,17: attacco al treno di Clint Eastwood. Al fianco di Beyoncé e Idris Elba nel thriller Obsessed. Sceneggiatore e produttore di 3 metros sobre el cielo, adattamento spagnolo del romanzo di Federico Moccia. Una super carriera cinematografica, dunque.

Oggi, però, la notizia è un’altra, ancora più stravagante. «Se non fosse una tragedia sarebbe una commedia perfetta», ha detto Sergio Castellitto, commentando la bizzarria dei finanziamenti ministeriali a un film mai girato, per giunta da un presunto criminale. La notizia di oggi trasforma la tragicommedia in un thriller. Nelle ultime ore, qualcuno sta cancellando le tracce di questa carrierona. Una manina sta nascondendo i falsi titoli professionali con i quali lo Zelig dei set ha inventato il suo profilo da cineasta. Mentre Kaufmann è nelle carceri greche in attesa di estradizione per il duplice omicidio di Villa Pamphili, parecchio lavoro attende la polizia postale per smascherare l’azione di questa manina. A rivelarlo è Franco Bechis, il direttore della testata online Open, già autore dello scoop che qualche giorno fa ha rivelato il finanziamento di 863.000 euro ottenuti dal film Stelle della notte mai realizzato dal sedicente regista americano che si firmava Rexal Ford. Fondi pubblici ottenuti grazie all’assegnazione priva di controlli e di verifiche disposta dalla legislazione del tax credit attuata dal ministero della Cultura ai tempi di Dario Franceschini.
L’invidiabile carriera di Kaufmann nel cinema era stata messa a punto nella versione professionale del sito Imdb, una specie di Bibbia dell’industria cinematografica, di proprietà di Amazon. Lì, Rexal Ford, uno dei nominativi con cui il finto regista si era accreditato, compariva, insieme a Matteo Capozzi, attivo sui profili social, e a Michael Sterling, firmatario delle lettere di presentazione, come direttore esecutivo della fantomatica Tintagel films Llc, la società di produzione che non ha sede a Malta, bensì a Canterbury, in Gran Bretagna. Anche questo, però, risulta falso perché nessuna azienda con quel nome compare nel registro delle imprese del Regno unito. Tuttavia, il piano era studiato nei minimi dettagli. Con una sofisticata tecnica di hackeraggio, i nomi dei tre direttori della Tintagel erano stati inseriti nelle schede dei film citati e presentati come credenziali negli uffici giusti. Ma il falso è kolossal perché negli sterminati titoli di coda originali dei film ai quali Kaufmann millantava la partecipazione, dove si elencano anche i nomi degli elettricisti e dei fonici, né Rexal Ford né Matteo Capozzi né Michael Sterling comparivano mai.

Ora, nella notte tra il 24 e il 25 giugno le 48 collaborazioni eccellenti a film e lungometraggi si sono dimezzate. «Una manina evidentemente collegata alla rete di Kaufmann», scrive Bechis, «è intervenuta e ha modificato la scheda della Tintagel Films su Imdb pro. Rexal Ford è rimasto tra i direttori, ma nella sua scheda sono state cancellate la metà delle produzioni che erano indicate fino al giorno prima. Sparita la partecipazione da produttore esecutivo nella versione spagnola di Tre metri sopra il cielo. Ripulite le schede originali dei film che così non erano più hackerate». La stessa ripulitura è stata realizzata sul profilo di Matteo Capozzi, «sparito del tutto con tutti i film cui avrebbe partecipato. Cancellata la sua scheda, sparita ogni traccia».
È un lavoro di ripulitura sofisticato in corso d’opera. Le partecipazioni diminuivano col passare delle ore, cancellate una ad una, certosinamente. È stato fatto un hackeraggio al contrario, opposto a quello che in fase di costruzione della falsa carriera aveva infilato i diversi avatar di Kaufmann nelle opere da esibire. Un’operazione che svela l’esistenza di una rete tuttora attiva, in possesso di strumenti raffinati, complice della persona che, secondo gli indizi in possesso degli inquirenti, avrebbe ucciso la propria compagna e la propria figlioletta.
Secondo Pupi Avati, maestro di tutti i generi cinematografici, la tragicommedia con elementi thriller ha, purtroppo, anche amari risvolti horror: «Occorreva che un mostro uccidesse la propria figlia e la propria compagna perché i grandi media si occupassero del disastro in cui si trova il cinema italiano. Che fu grande fino a quando i politici non lo ritennero cosa propria».

 

La Verità, 26 giugno 2025

Leone, il maschilismo ha fatto anche cose buone

Fortuna che le neofemministe non guardano i western. Altrimenti, sai che bordello (è proprio il caso di dirlo). Maschilismo e machismo in tutte le sfumature di tossicità. Niente patriarcato, invece. Perché nessuno dei protagonisti è un padre e, anzi, l’unico che lo è finisce presto lungo disteso prima di essere serrato in una bara come la sua stessa prole. Insomma, una vera sorpresa, illuminante delle diverse accezioni tra le varie forme di mascolinità di cui tanto cianciamo oggidì. E pure con scorrettissimo colpo di scena finale. Motivo per cui l’autore del western in questione e, molto secondariamente, io stesso che ne parlo, ci attireremo gli anatemi, postumi nel suo caso, delle femministe e deI bel mondo arcobaleno.
Insomma, l’altra sera dopo l’ennesima libagione poco controllata, ho seguito uno dei consigli di Marco Giusti su Dagospia e ho rivisto su Rai Movie C’era una volta il west di Sergio Leone, anno domini 1968. Dopo la Trilogia del dollaro, è il primo film della Trilogia del tempo (con Giù la testa e C’era una volta in America). Opera con cast tecnico e artistico superbi. Il soggetto, per dire, fu scritto da Leone con Bernardo Bertolucci e Dario Argento, all’epoca ancora critico cinematografico di Paese sera. Bertolucci, invece, aveva visto Il buono, il brutto, il cattivo in un cinema di Roma allo spettacolo delle tre del pomeriggio e proprio lì aveva incontrato gli altri due. Qualche giorno dopo, il regista gli aveva telefonato per chiedergli se gli fosse piaciuto il film. Bertolucci disse che sì, gli era piaciuto e, alle insistenze di Leone sulle motivazioni, si era soffermato sulle riprese dei culi dei cavalli. «In generale», argomentò, «nei western sia italiani che tedeschi, i cavalli venivano ripresi frontalmente e di fianco. Ma quando li filmi tu mostri sempre i didietro; un coro di didietro. Sono pochi i registi che riprendono il retro, che è meno retorico e romantico. Uno è John Ford. L’altro sei tu». Nacque così la collaborazione fra i due. La sceneggiatura invece la scrisse Sergio Donati, già autore dei precedenti western di Leone.
Tralasciando gli antefatti del set, l’altra sera volevo soprattutto rivedere quel cast di attori. Henry Fonda, il preferito dal regista, per la prima volta nella parte del cattivo Frank (doppiato da Nando Gazzolo), con spolverino fino ai piedi e i suoi occhi azzurri (si era presentato con lenti a contatto marrone e barba scura, ma Leone glieli tolse entrambi, sicuro che il celeste originale gli avrebbe dato un’aria più spietata). Charles Bronson nei panni di Armonica, volto meticcio, sguardo da buono e modi da duro che, sebbene non sia quello di Clint Eastwood com’era nei desideri del grande cineasta, regge i primi piani di Fonda. Jason Robards nel ruolo di Cheyenne, il terzo della situazione (attore più volte citato da Quentin Tarantino che al western italico si è abbeverato). Lui è innamorato di Jill McBain (Claudia Cardinale), l’ex prostituta in procinto di diventare la seconda moglie di Brett McBain, con il quale avrebbe dovuto costruire una stazione ferroviaria perché proprio lì si trova la falda che può alimentare le locomotive a vapore, se non fosse arrivata dopo la strage perpetrata da Frank su mandato di Morton (Gabriele Ferzetti), il boss storpio che vive nel vagone di un treno. Volevo riascoltare la colonna sonora di Ennio Morricone, con le note taglienti dell’armonica. Rivedere le lentezze che qualche critico imputò al regista consacrato dalla precedente trilogia. Riassaporare i dialoghi scarni e pieni di sottotesti, ma subalterni ai primissimi piani dei volti e ai campi lunghi sulla cittadina immaginaria di Sweetwater. Volevo gustarmi due ore e mezzo di quell’epica primordiale: il sopruso violento, il riscatto della bella che per sopravvivere si lascia prendere dall’assassino del marito, la vendetta del giusto.
Quello che non mi aspettavo era l’azzardo maschilista di Leone. Il grande paradosso machista, rimosso per quanto all’epoca era considerato nell’ordine delle cose. Nessuna critica riguardò il passaggio, tutt’altro che marginale, che sto per enucleare. Sebbene non incassò quanto Il buono, il brutto, il cattivo, C’era una volta il west è classificato come capolavoro del genere, comparendo in tutte le classifiche dei migliori film del XXº secolo. Schiere di registi, oltre a Tarantino, Martin Scorsese, George Lucas e John Carpenter, ne sottolinearono l’influenza sul loro cinema. Il passaggio spericolato, la sorpresa che farebbe sclerare le neofemministe se solo riuscissero a vedere film così, Leone lo fa interpretare a Cheyenne, non a caso il più sentimentale dei tre uomini. Siamo verso la fine della storia, i cowboy lavorano alacremente per costruire la stazione e il binario per collegare il territorio. Cheyenne sorseggia il caffè preparato dalla bella vedova dal passato turbolento: «Mia madre lo faceva così, caldo, forte, buono», commenta. Poi si rivolge a lei: «Se fossi in te porterei da bere a quei ragazzi. Tu non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te. Anche solo vederla. E se qualcuno di loro ti tocca il sedere, tu fai finta di niente. Lasciali fare». Dice proprio così. E, poco dopo, prima di salutarla, compie lui stesso il gesto insolente, ripetendo: «Fai finta di niente».
Eravamo nel 1968. Per educarci, mia madre ci ripeteva: «Le donne non si toccano nemmeno con un fiore». Ma quello era un film western, apoteosi di mascolinità tossica, secondo la vulgata corretta odierna. Sempre visto oggi, Jason Robards sembra mortificare quell’ex prostituta mentre, in realtà, ne esalta il potere: «Non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te». Un paradosso sottile che a qualcuno può sembrare azzardato. Soprattutto, un passaggio da non decontestualizzare. Il maschilismo ha fatto anche cose buone.

 

La Verità, 29 dicembre 2024

L’ultimo Eastwood mette d’accordo pubblico e critici

Solido, concreto e asciutto, anche con questo Giurato numero 2 – speriamo non il suo ultimo film – Clint Eastwood ci fa un bel regalo. Innanzitutto, perché si tratta di grande cinema, sempre con il suo riconoscibilissimo stile. E poi perché ci invita a riflettere, grazie a Dio senza pedagogie, su un tema capitale: la verità coincide sempre con la giustizia? O c’è una verità che può rivelarsi ingiusta e parziale? È un interrogativo di grande attualità, degno di Fëdor Dostoevskij, affrontato con una essenzialità e una freschezza di sguardo insospettabili in un novantaquattrenne.
Le prime due scene dispiegano subito la dialettica che anima tutto il film. Dall’inquadratura sulla statua della giustizia, dea bendata, si passa a quella di una donna, anch’essa bendata che, se tutto andrà bene presto diventerà mamma (Zoey Deutch), e ora sta per scoprire la camera del figlio allestita dal marito. È lui (Nicholas Hoult) il protagonista della storia, un brav’uomo, ex alcolista che si è rifatto una vita, convocato dal tribunale della Georgia come giurato popolare in un processo di omicidio. L’imputato è un giovane con precedenti penali, accusato di aver ucciso la compagna in una notte di pioggia battente. La serata al pub era degenerata in un furioso litigio, al termine del quale la donna se n’era andata a piedi, seguita dal fidanzato che, secondo l’accusa, l’avrebbe investita con l’auto e poi spinta, esanime, in un dirupo. Per il procuratore con ambizioni di carriera (Toni Collette) è colpevole senza il minimo dubbio.
Nello schema del film processuale, Eastwood alterna con gran ritmo le versioni dell’accusa e della difesa, immedesimandosi nel travaglio del nostro brav’uomo. Il quale, mentre ascolta la ricostruzione del presunto omicidio, realizza che quella sera anche lui era in quel pub e che, tornando a casa, aveva urtato, proprio all’altezza di un segnale che indica la presenza di animali selvatici, quello che aveva pensato fosse un cervo. Che fare? Se si costituisse denunciando l’incidente dopo che era stato in quel pub, pur senza aver bevuto, chi crederebbe al racconto di un ex alcolista? Il dilemma è lacerante. La sua morale lo spinge a salvare quello che all’interno della giuria solo lui ritiene innocente. Ma così facendo si espone, rischiando di provocare nuove indagini che potrebbero smascherarlo. Non gli resta che provare a convincere i colleghi dell’inconsistenza delle prove su cui si regge l’accusa.

Man mano che l’attesa di un verdetto che sembrava scontato si allunga, i dubbi si insinuano anche nel procuratore. Che riflette: «Questo sistema per quanto imperfetto è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia». Nemmeno lei ha posizioni granitiche e interpreta dogmatismi inscalfibili, ma ricerca la verità consapevole dei limiti degli strumenti a disposizione. Anche la polizia non ci fa una figura eccelsa. Una volta individuato un colpevole credibile cerca solo prove a suo carico e ignora quelle che metterebbero in crisi l’imputazione. Così, a quello che in alcuni momenti sembra un remake di La parola ai giurati, insuperato film processuale di Sidney Lumet con un memorabile Henry Fonda, Eastwood aggiunge la variante del colpevole involontario annidato proprio nella giuria.

«A me piacciono le storie», ha rivelato in una famosa intervista il regista di Gran Torino e Million Dollar Baby. La persona viene prima dei sistemi, prima delle ideologie, prima delle istituzioni. Eastwood indaga i nodi irrisolti, le zone cieche, gli interstizi opachi del rapporto tra Stato e cittadini. Come in Richard Jewell, la storia vera del vigilante imbranato che sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta salvando centinaia di persone, ma venne tramutato in colpevole perché corrispondeva agli stereotipi degli inquirenti, anche qui si insegue una verità accettabile. «Ma a volte la verità non è giustizia», considera il giurato numero 2. Il rovello del film è l’imperfezione dei sistemi, l’ambiguità delle istituzioni, una certa ottusità anche dei nostri valori di fronte alle sfaccettature della realtà. Eastwood pone domande, iniettando dosi di realismo in chi è sicuro di incasellare la complessità in qualche teorema o in qualche ricetta legislativa.

Di tutto questo la Warner Bros che in America l’ha distribuito in sole 31 sale forse non si era accorta. O forse il motivo di una così clamorosa sottovalutazione dipende dagli incassi modesti dell’ultimo Cry Macho. Altri critici hanno collegato alle posizioni repubblicane di Eastwood, praticamente l’unico superstite conservatore di Hollywood, l’intenzione di censurare quello che potrebbe essere il suo ultimo lavoro. Fatto sta che lui ha platealmente disertato la prima del film. Comunque sia, sebbene uscito in sordina, i buoni incassi in quelle poche sale e in alcuni Paesi europei, dalla Spagna alla Francia, e il fatto che qualche critico inizi a parlare di capolavoro hanno fatto ricredere la Warner che ora sta pensando di sostenerlo in vista degli Oscar. Intanto, anche in Italia, dov’è appena uscito, è partito bene. Il vecchio Clint non molla.

 

La Verità, 17 novembre 2024

Quella volta che Gigi Riva disse no anche a me

Una decina d’anni fa, quando Gigi Riva era prossimo alla settantina, provai a intervistarlo per Rivista Undici di Giuseppe de Bellis. Lui mi ascoltò, ma declinò garbatamente, ribadendo la sua ritrosia in favore di quelle priorità che ne confermavano la statura. Da quel breve dialogo ricavai un ritratto per il sito di Rivista Studio che, forse, ha ancora qualche senso, oggi che ne piangiamo la morte.

Non leggeremo lunghe interviste a Gigi Riva in occasione del suo settantesimo compleanno, il prossimo 7 novembre. No: dovremo arrangiarci con quello che sappiamo e ricordiamo di lui, leggendario Rombo di Tuono. Raramente un soprannome è stato così aderente alla realtà e insieme così evocativo come quello coniato da Gianni Brera dopo Inter-Cagliari 1-3, 25 ottobre 1970, doppietta di Luigi Riva da Leggiuno, Varese. Quell’anno Gigi giocava con lo scudetto sulla maglia appena conquistato, l’unico mai vinto dal Cagliari. Nella squadra allenata da Manlio Scopigno, fumatore più accanito di lui e perciò tollerante, c’erano anche Albertosi, Cera, Domenghini, Gori: un concentrato di baldanza, applicazione, sacrificio e tecnica. Rombo di Tuono era un’immagine calzante, l’iperbole perfetta per descrivere la sua esuberanza fisica, la potenza del tiro da fermo e in corsa, la coordinazione nelle rovesciate, l’imperiosità dello stacco aereo, lo sconquasso che provocava irrompendo nelle aree affollate. Lo sapevano bene gli stopper (non «i centrali»)… Rosato, Castano, Burgnich. Giocavano con una scimmia sulle spalle. Dov’è Gigi? Da dove sbuca?

Riva è stato uno dei più grandi attaccanti di sempre del calcio italiano. Tuttora titolare del record di gol segnati in Nazionale, 35 in sole 42 partite, disputate nel corso di una carriera costellata di infortuni e interrotta dopo l’ennesimo, a soli 31 anni, durante Cagliari-Milan (1-3). Era il febbraio 1976. Il solito Brera gli dedicò una sorta di coccodrillo sportivo, un tributo innamorato. «Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».

Sei anni prima, in quel famoso 1970, oltre allo scudetto e alla classifica dei capocannonieri, vinta anche nel ’68 e nel ’69, aveva conquistato il secondo posto al Mondiale messicano – sconfitta in finale dal Brasile dopo la storica vittoria sulla Germania – e il terzo posto nella classifica del Pallone d’oro dietro Gerd Müller e Bobby Moore. L’anno prima invece aveva sfiorato il successo, superato di soli quattro voti da Gianni Rivera, primo italiano a vincerlo.

Un grande attaccante, dunque. Sicuramente il migliore a difendere la propria vita privata. Non leggeremo mega interviste. Niente celebrazioni. Niente monumenti. «No, guardi. Hanno cominciato a telefonarmi già qualche settimana fa… I maggiori quotidiani. Anche dall’estero, giornali francesi inglesi. E le radio…». La voce ha sempre quel timbro metallico che, abbinato al volto scavato solido prominente, ti spiazza quel tanto da costringerti ad ascoltare. Il carisma di una persona è fatto di tante piccole cose. Un tono di voce, lo sguardo, il parlare dosato, una garbata ma decisa ritrosia. «Ho detto di no a tutti, per non far torto a nessuno. Avrei dovuto passare ore al telefono». Non si è ammorbidito nemmeno davanti ai miei accenni personali: quell’Italia-Germania, prima partita vista a notte fonda, questioni di fuso, al fianco di mio padre, suo grande ammiratore.

Il no ai grandi giornali e alle televisioni di oggi riporta alla mente il gran rifiuto degli anni d’oro, quando Inter Milan e soprattuto Juventus tentarono in tutti i modi di accaparrarselo. Puntuale il tormentone arrivava come una malattia estiva da calciomercato. All’epoca negarsi alla Juve era praticamente impossibile. Incomprensibile. Cocciuto, quel Riva. Cocciuto e strano. «Quando giocavamo in trasferta, a Milano, a Torino, ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all’estero, in quell’Italia del nord». Erano pullman di tifosi che arrivavano dalla Germania o dall’Olanda, «nei loro occhi non leggevi la gioia dello sportivo, ma del sardo: era orgoglio». La Costa Smeralda non esisteva, l’Aga Khan non aveva ancora trasformato l’isola in una meta di moda. «E noi, che pure eravamo solo dei calciatori, le demmo un nome. Come potevo andarmene?». Così, come un «Bartleby, lo scrivano» del calcio, Gigi pronunciò il più definitivo dei suoi «preferirei di no». Era un uomo del nord che aveva scelto la Sardegna come terra d’elezione. Terra schiva, ombrosa e leale come lui.

Essere Gigi Riva non è il mestiere più facile del mondo. Non lo è da sempre. Quando il padre Ugo muore, 1953, Luigi ha nove anni. La mamma Edis lavora in una filanda e fa le pulizie per arrotondare. Ma le rinunce sono tante. A cominciare dalla spensieratezza. Gigi viene mandato in collegio dai preti, a Viggiù, a Varese, anche a Milano. Scappa più volte. Non sopportava «il peso, l’umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi». Direttori e presidi convocano la madre perché si riprenda quel ragazzo refrattario all’obbedienza, allergico allo studio, introverso, nostalgico dei boschi, degli amici e delle partite all’aria aperta.

Un altro no lo pronuncia a 16 anni, finalmente uscito dal collegio, quando i dirigenti del Laveno voglio acquistarlo dal Leggiuno. All’ultimo momento si sono fatti avanti i padroni del Varese, serie B, allenato da Ettore Puricelli, che oltre a un posto in fabbrica gli promettono un motorino. Ma è tardi, le donne di casa, la madre e Fausta, una delle tre sorelle, si oppongono e Gigi finisce al Laveno. Poi al Legnano, dal quale, nell’intervallo di Italia-Spagna juniores che si disputa all’Olimpico, il presidente Arricca lo acquista per 37 milioni, soffiandolo a Dall’Ara, patron del Bologna. È il 13 marzo 1963, il Cagliari milita in serie B e l’anno prima, ultima di una serie di disgrazie, se n’è andata anche la mamma, stroncata da un cancro. Il giorno del funerale, 5 luglio 1962, l’unica sorella sana rimasta è in ospedale a partorire. Così, men che diciottenne, tocca a Gigi accompagnare da solo il feretro al camposanto.

Nel decennio di grandi cambiamenti che inizia e che contagia anche il calcio, Riva è l’espressione di una forma di ribellione atipica, introversa. Non ha il tratto eccentrico e beat di Luigi Meroni, un comasco trapiantato a Torino, pittore e artista dandy, morto tragicamente in un incidente stradale. Né il carattere antisistema di Gianni Rivera, un piemontese integrato a Milano, leader della contestazione di regole e gerarchie sclerotizzate. La sua è una ribellione esistenziale, trattenuta, taciturna. Che affonda in quell’adolescenza di dolori e rinunce. E Cagliari è il posto giusto dove macerare quella ribellione orgogliosa che si sposa col temperamento schivo, ma solido e terragno di quei posti. Qualche anno dopo quello scudetto, Albertosi, Domenghini, Cera se ne vanno uno alla volta, chi al Milan, chi alla Roma, chi altrove. Se ne va anche Scopigno. Lui resta: «Mi piaceva la gente, mi piaceva la terra; potevi fare il primo bagno già ad aprile, andare a pesca, a funghi in campagna, non c’era lo stress della grande città né la noia e i pettegolezzi della provincia».

Nel 2001, in un’intervista al Giornale all’interno di una serie in cui alcune personalità svelavano il loro «film della vita», Riva raccontò del Dottor Zivago con Julie Christie. «Era un film in cui c’era tutto, vale a dire bravi attori, bei costumi, belle scene, una storia che ti prendeva. Un altro elemento era la natura. Come accompagnatore della Nazionale sono stato spessissimo nell’ex Unione Sovietica. Nei prossimi mesi andremo in Ucraina, in Lettonia, in Estonia… Lì gli spazi, le distanze, i paesaggi sono un qualcosa che ti lascia senza fiato. Aggiunga alla natura Julie Christie e il cerchio si chiude, è perfetto. Lei non era soltanto una brava attrice e una bella donna, era molto di più». La Nazionale l’ha abbandonata poco più di un anno fa con due parole: «Sono stanco». Le trasferte gli costavano, gli acciacchi lo limitavano, non voleva fare «il dirigente che zoppica». E poi c’era lo stress, la tensione di stare a bordo campo, il Lexotan per mantenere la calma. Anche ai tempi del Cagliari era così. Se era squalificato, la domenica pomeriggio, anziché andare in tribuna saliva in auto e andava a farsi un giro a Costa Rei. Poi s’informava sul risultato. Allo stadio continua a non andarci. Legge i quotidiani, il Corriere, la Gazzetta, l’Unione Sarda. Guarda la partita il giorno dopo. Frequenta qualche amico. Tutte le sere cena da Giacomo, «che ha un ristorante di pesce, ma a me fa il minestrone di verdure. Mangio da solo o, se capita, in compagnia». Prandelli aveva provato più volte a convincerlo a tornare nello staff della Nazionale. Ci fosse stato lui a parlare con Balotelli e Cassano magari qualcosa sarebbe andata diversamente. Di sicuro la gestione del disastro. In quell’intervista sul cinema raccontò che tra gli attori prediligeva Clint Eastwood: «Parla poco e non ti delude». Il suo ritratto. Il ritratto di gente più che mai indispensabile al calcio di oggi. Raccontò anche che non andava più al cinema da quando avevano vietato fumare nelle sale. Perciò, ora, ero curioso di sapere quante sigarette fuma. E quanto gli manca Gianni Brera. Ma lui ha preferito di no: «Festeggerò con i miei figli», ha detto gentile. »È la cosa che m’interessa di più».

 

Rivista Studio, 6 novembre 2014

Schiavone vorrebbe essere l’Eastwood dei poliziotti

È iniziata la quinta stagione della serie Rocco Schiavone tratta dai romanzi di Antonio Manzini, diretta da Simone Spada e interpretata da Marco Giallini. Il lancio di questi nuovi episodi si è avvalso del fatto che il personaggio del vicequestore trasferito per punizione ad Aosta sarebbe inviso «alla destra». Spesso attizzare una polemica è utile per incrementare l’attenzione e gli ascolti, ma quanto questa sia pretestuosa e creata ad arte lo dice la sua stessa genericità (Rai 2, mercoledì, ore 21,35, share dell’11,8%, 2,2 milioni di telespettatori). Schiavone non piace alla destra. «Ma che, davero?» direbbe il Neri Marcorè diretto da Uolter Veltroni in Quando. Alla destra, ormai entità metafisica come la Spectre, non piacerebbero le canne che il detective si rolla nell’ufficio con vista alpina e il frequente ricorso alla parolaccia nell’intercalare con i colleghi, molti dei quali di origine meridionale. Ognuno recita la propria parte in commedia, ha smorzato i toni lo stesso Giallini, ammettendo che trattandosi della Rai non è del tutto peregrina la critica alla sua etica borderline. Detto questo, se si guardano le serie delle varie piattaforme, «le canne cominciano a farsele in culla». E l’iperbolica osservazione non funga da attenuante.

Nell’episodio intitolato Il viaggio continua il cadavere di un uomo viene ritrovato sul Monte Bianco in territorio italiano, a pochi metri dal confine francese. Il vicequestore, però, si accorge che è stato spostato e così si vede costretto a collaborare nelle indagini con Isobel (Diane Fleuri) della polizia di Chamonix e sua alter ego al femminile. Come nei casi precedenti, sebbene questo citi spannometricamente l’incipit di The Bridge, serie mito del poliziesco nordico, l’intreccio giallo della storia risulta piuttosto secondario. Le attenzioni si concentrano in gran parte sul caratteraccio del protagonista, cinico e indolente, eppure convinto dal questore ad allenare l’improbabile squadra di poliziotti per l’annuale partita contro i magistrati. Sul lato sentimentale, invece, la storia con la giornalista locale (Valeria Solarino) non decolla perché, come gli dice il fantasma della moglie scomparsa con cui continua a dialogare, lui è gravato da troppi pesi. Purtroppo, non bastano la sigaretta esistenziale al posto del sigaro, lo sguardo sguincio e il loden a mo’ di poncho per fare di Schiavone il Clint Eastwood dei poliziotti. Indossato aperto a 3.000 metri sulle Clarks inzuppate, più che sintomo di «spaesamento», di solito è causa di bronco polmoniti. Sarà mica che il malinconico Schiavone è in realtà un superuomo?

 

La Verità, 7 aprile 2023

Django è arrivata anche la tua ora: adesso sei fluido

Non si salva neanche Django. Nemmeno lui. Con la sua impenetrabilità. Il suo alone di mistero. L’artiglieria pronta a fare giustizia. È arrivata la sua ora. E a noi prudono le mani. L’irritazione monta anche se, in fondo, lo stupore è contenuto. Dopo il principe di Cenerentola, al quale si vuol vietare il bacio salvifico perché «non consensuale», e il femminicida Don Josè, che nel finale corretto dell’opera di Bizet viene giustiziato da Carmen, anche il più iconico dei nostri cowboy è caduto nella rete della narrazione woke. Sospiro di rassegnazione. Emoticon con la bocca storta. Ticchettio nervoso delle dita. Mica facile vederlo dibattersi tra le maglie della fluidità e di certe, insistenti, reminiscenze gaie senza fare una piega. «È un personaggio che ci ha permesso di resettare i codici del virile, restituendo un nuovo punto di vista sulla mascolinità», garantisce Francesca Comencini, direttrice artistica e regista dei primi quattro episodi dei dieci della nuova serie originale Sky (con Canal+, Cattleya e Atlantique productions) da stasera in onda sulla pay tv e in streaming su Now. «Un lupo solitario pieno di misteri e ferite, con un cuore caldo, quasi incandescente, in una cornice molto fredda», assicura sempre la regista. Del resto produttori, sceneggiatori e anche Matthias Schoenaerts, l’attore protagonista, sono convinti che pochi generi (cinematografici) si adattino come il western a superare confini e infrangere regole. E quindi, vai con la rivisitazione dei generi, quelli «semplicisticamente» binari.

Si diceva che, in fondo, lo stupore è contenuto. Dalle parti della perfida Albione i prelati della Chiesa anglicana stanno pensando di riscrivere il Padre nostro con l’asterisco in ossequio alla neutralità gender. La cultura woke senza più argini di alcun tipo, siano i confini degli Stati nazionali o le fedi religiose, è diventata canone. E si stende automaticamente su tutto. Usciamo ammaccati dall’ultimo Festival di Sanremo che ha esaltato la fluidità gender davanti a milioni di telespettatori, conclamando quello che ormai si vede in modo sempre meno furtivo nelle campagne pubblicitarie dei prodotti più cool. Non c’è spot di auto e di cellulari senza un bacio lesbo. Per contro, i concorsi di bellezza sono considerati retrogradi – vedi l’oscurantismo che ha colpito Miss Italia – se non si mostrano inclusivi annoverando qualche trans.

«Negli hotel del Sudamerica e del Giappone, scrivevano direttamente Django, non Franco Nero», ci ha rivelato in un’intervista l’interprete originale. E ancora: «L’eroe del west non si sa da dove viene e dove va».

Come lui, anche questo Django compare qualche anno dopo la fine della guerra di secessione trascinando una bara. Ma all’opposto della figura misteriosa e violenta che abbiamo visto nel film di Sergio Corbucci (1966) che ha ispirato la versione Unchained di Quentin Tarantino (2012), questo solitario, più agnello che lupo, incline alla tenerezza e alle sfumature sentimentali, con capelli e cappello che lo fanno somigliare a Raz Degan, è pieno di passato, di conti da aggiustare, turbamenti, traumi, soprusi subiti. Un personaggio da interviste di Vanity Fair. Con coming out annessi. Infatti, chiacchiera molto. Argomenta. Con frasi da talent show («tutti hanno diritto di avere una seconda chance»), giustificati da storie sofferte, maltrattamenti… Il padre era un ubriacone, anche se nel rude west del 1872 adesso si dice «alcolizzato». E lui, a sua volta, ora cerca di farsi perdonare dalla figlia che non ne vuole sapere. E che vive a New Babylon, una città libera, multietnica, costruita sul fondo di un cratere, e vuole sposarne il fondatore (Nicholas Pinnock). Dall’altra parte ci sono i cattivi, fanatici religiosi tenuti in pugno dalla spietata schiavista (Noomi Rapace), una summa di malvagità all’ennesima potenza. Però, oltre il manicheismo da terza elementare, quando entra in scena lui, il western torna esistenziale, come si usa da un po’ per tentare di resuscitare il genere. Purtroppo con dialoghi di anacronistica banalità: «Se vuoi restare qui devi avere una visione. Un uomo che non sa sognare è un uomo perduto», gli dice il fondatore della comunità dopo che Django ha preso a scazzottate il campione locale. A completare la galleria c’è anche Manuel Agnelli con fluente capigliatura corvina e barba candida, chissà se anche lui per qualche trauma subito.

Quello da cui Django stenta a emanciparsi è il sentimento per il cognato Elijah, con il quale si scambia effusioni alla maniera dei due mandriani dei Segreti di Brokeback mountain, opera prima del gay western. Solo che quelli erano frutto di pura invenzione, creati apposta per infrangere il luogo comune e stupire i perbenisti. Invece Django ha una storia, è l’archetipo della mascolinità. Chissà che cosa ne pensa Franco Nero, qui arruolato per un cameo nei panni del Reverendo Jan. E chissà che cosa starà facendo nella tomba il buon Corbucci e cosa ne penserebbero John Wayne e John Ford. O per venire più vicino a noi, Eastwood e Tarantino. Forse è arrivato il momento di innescare una cultura woke al contrario. E di risvegliare il vecchio Clint e lo scorretto Quentin. Aiutooooo. Ci siete?

 

La Verità, 17 febbraio 2023

 

«Indebolire il padre è un danno grave per i ragazzi»

Kim Rossi Stuart è attore e regista, marito della bellissima Ilaria Spada, anche lei attrice, padre di tre figli e, da qualche tempo, si è incuriosito al cristianesimo. Il 20 ottobre uscirà nei cinema Brado, il terzo film da lui diretto (dopo Anche libero va bene e Tommaso), prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, che vi recita una piccola parte. È «un western esistenziale» imperniato sul rapporto conflittuale tra Renato, un padre misantropo, e Tommaso, un figlio alla ricerca della propria identità, che si ritrovano per domare un cavallo e iscriverlo a una gara di cross country. Una storia insolita per il cinema italiano.

Cominciamo dal titolo: Brado vuol dire tante cose.

«Prima di tutto è il nome del ranch di Renato che è anche una scuola di equitazione, per quanto malandata. Poi è lo stato nel quale vive il padre e, di conseguenza, il modello educativo che infligge al figlio. Infine, brado è anche il cavallo prima di essere domato».

Quella del padre è la vita di un asociale, ma in lui prevale il rifiuto o una scelta positiva, per fare spazio a qualcos’altro?

«Entrambe le cose. Osservandolo da spettatore, Renato mi appare una persona ambivalente. Nel suo stile di vita c’è una reazione rabbiosa rispetto alla società nella quale non si riconosce. Allo stesso tempo lo ammiro perché, in fondo, compie una scelta ecologista che, per certi versi, condivido».

Tuttavia, è una persona scontenta, frustrata.

«Mi sforzo sempre di trovare nei personaggi qualcosa di archetipico, in questo caso l’uomo che vuole domare, o dominare, la vita. Il cavallo da domare, in un certo senso è il simbolo della vita. Non c’è bisogno di scovare un Don Chisciotte o un grande misantropo: la pulsione a dominare è propria dell’uomo metropolitano, dell’umanità contemporanea. Per contro, il figlio è portatore di un’istanza opposta, farsi guidare dalla vita. La sua strada per domare il cavallo è lasciarsi guidare da lui».

Nell’ambizione di dominare il padre incarna l’uomo contemporaneo, ma senza connessioni, social e ricerca di visibilità forse è anche un antimoderno.

«In un certo senso, sì. Anche perché è un uomo che vagheggia il far west, uno stile di vita che moderno non è. È un padre antipatico e brutale, ma nella sua radicalità c’è qualcosa di buono. Credo che nel suo desiderio di rendere autonomo il figlio, di metterlo a contatto anche con le cose spiacevoli, ci sia qualcosa di utile anche ai genitori moderni. Lo dico pensando al mio desiderio di proteggere i miei tre figli da ciò che può risultare scomodo o provocare qualche sofferenza. Questo eccesso di protezione può essere pericoloso perché rischia di allontanarli da una vera autonomia, da una vera maturità».

La definizione più fulminante del suo personaggio la dà l’amico imprenditore interpretato da Carlo Degli Esposti: «il Clint Eastwood dei poveri». Le piace il cinema di Eastwood?

«È difficile resistere a Clint Eastwood».

In che senso?

«Nel senso di non lasciarsi sedurre. Poi, certo, non tutti i suoi film mi piacciono, ma la stragrande maggioranza non è che mi son piaciuti, di più. Detto questo, siamo due mondi lontani, noi in Italia e loro lì, con strumenti e possibilità molto diverse. Lo dico senza criticare nulla del nostro cinema».

C’è una scena alla fine di Brado in cui viene in mente Million Dollar Baby, anche perché le due storie che gravitano attorno a un’impresa sportiva corrono parallele.

«Non vorrei fare accostamenti azzardati. Il telaio è quello di due film di genere che, nel sottofinale, tradiscono il genere per entrare nei meandri più profondi di alcune tematiche. La scena di cui lei parla avviene in un ospedale e riguarda il fine vita, argomento sul quale non ho una posizione ideologica. E qui mi fermo per non spoilerare».

A un certo punto sembra che tra padre e figlio il più responsabile e affidabile sia il secondo.

«C’è una lunga teoria di esempi cinematografici che trattano il ribaltamento dei ruoli, primo fra tutti Ladri di bicilette. A bocce ferme, la scelta di Tommaso di lasciarsi guidare dalla vita mi appare più matura. La vita è più brava di noi».

È la sapienza di cui è cosparso tutto il film.

«Questo film ha a che fare con la ricerca di una pacificazione e il bisogno freudiano di distruggere il padre per recuperare la propria identità. Per tre o quattro minuti il pubblico è anche messo di fronte a ciò che fa più paura: l’esperienza della morte. L’amore tra il padre e il figlio può essere la chiave di accesso a questa esperienza, un padre deve insegnare sia a vivere che a morire. Si soffre un po’ in quei minuti, ma penso possano aiutare a guardare in modo diverso la paura del morire».

I due si ritrovano nella preparazione della prova sportiva: la vita è competizione e la competizione può far esprimere il meglio delle persone?

«Approvo la competizione, ma penso che dovremmo circoscriverla all’ambito sportivo. Amo le corsie di nuoto o di atletica: lì la voglia di essere vincenti mi piace. Invece la trovo démodé in tutti gli altri ambiti perché manifesta una ricerca di approvazione che rimanda all’infantilismo dominante nel nostro tempo, soprattutto nelle sfere del potere».

La moglie e madre, invece, ha abbandonato la famiglia ed è il secondo rovesciamento di luoghi comuni.

«Nella confusione dei ruoli che regna nella società odierna anche questo è un ribaltamento dei ruoli abituali. È il fil rouge che collega i miei tre film da regista».

Cosa pensa dell’espressione Genitore 1 e Genitore 2 che negli atti amministrativi anche scolastici ha sostituito Padre e Madre?

«Non seguo molto queste polemiche. Penso che ogni situazione sia a sé, il buon senso non ha colori e sessi. Poi capisco che bisogna legiferare e porre delle regole, ma non voglio esondare dai temi del film. Piuttosto, parlando di scuola, con un figlio che accede alla media inferiore, mi sento di dire che non è giusto schiacciare i ragazzi con la responsabilità, facendo perdere loro il gusto dell’adolescenza. È importante che si relazionino e non passino i pomeriggi al computer. Allo stesso tempo non è giusto che li passino sui libri per i compiti».

Pare anche a lei che nell’universo giovanile i padri siano diventati secondari? Questo avviene perché fanno gli amici e abdicano al loro ruolo?

«Nella tendenza a non voler far soffrire i ragazzi si nasconde il desiderio di ricevere l’approvazione dei figli. Per me è una deriva pericolosa. Non sono nostalgico del padre padrone, per carità. Ma nello stesso tempo vedo che la figura del padre è indebolita, esautorata di alcune prerogative. I ragazzi hanno bisogno di trovare braccia solide che sappiano porre degli argini, altrimenti non ce la fanno a costruirsi un’identità. Anche la donna ha un ruolo in questo processo, mi sembra che ci sia un po’ di confusione».

Si rischia una femminilizzazione della società moderna?

«Non vorrei addentrarmi in considerazioni sociologiche. Nei gruppi di amici mi capita di vedere uomini un po’ marginalizzati e donne che vogliono contare di più. Uomo e donna sono diversi, ma il bisogno di affermazione e la ricerca dell’approvazione a ogni costo riguarda entrambi i sessi».

Cosa intendeva quando in una recente intervista ha detto che «l’essere umano inginocchiato è un’esperienza straordinaria»?

«Spesso l’uomo si mette in ginocchio davanti al proprio capo, al piacere, al profitto. Proviamo a pensarci: ci troviamo in ginocchio senza neanche accorgerci, davanti a tanti idoli, ai vari vitelli d’oro. Invece, inginocchiarsi di fronte alla creazione, perché siamo creature, davanti al Dio che vuoi tu, non voglio fare differenze, è un’esperienza straordinaria. All’uomo sono concesse solo schegge di verità, nessuno la possiede per intero. L’uomo inginocchiato davanti a qualcosa di più grande di lui è qualcosa di necessario. Non tanto di fronte agli altri, ma guardando a sé stesso. Possiamo riconoscere che siamo fragili, liberandoci dallo sforzo titanico di dimostrare quotidianamente che siamo forti, grandi, vincenti».

Pensa che la consapevolezza che l’uomo non si fa da sé si colleghi all’atteggiamento di fronte alla vita e al fine vita?

«Sul fine vita ho un approccio totalmente laico. Ma è un tale sollievo riconoscersi creatura, è un tale sollievo sconfiggere il terrore della morte e l’obbligo di nascondere la nostra fragilità… Ci aiuta a superare un’idea deteriore di autonomia e indipendenza».

Oggi Brado sarà presentato in anteprima al «Kum! Festival» nell’ambito di una riflessione sull’eutanasia. Come risponderà alla domanda del dibattito: bisogna domare o lasciarsi domare dalla vita?

«Inviterò me stesso e il pubblico a un equilibrio perché la verità non sta mai solo da una parte. Se siamo dotati di capacità critica possiamo usare la nostra intelligenza per domare gli istinti peggiori. Così come possiamo lasciarci domare dalla vita perché possa insegnarci il meglio. Un fiume plasma il suo percorso a seconda degli ostacoli che incontra per arrivare al traguardo».

Il prossimo film graviterà intorno a Medjugorje che è citata anche in Brado?

«Nel 2019 ho scritto un libro composto da cinque racconti (Le guarigioni, La nave di Teseo ndr) di cui due sono già arrivati al cinema. Ne restano tre: uno è dedicato a Medjugorje, un altro è un racconto distopico, l’ultimo è la storia dell’incontro tra un uomo e una donna. Tutti possono diventare film, ma anche no: non vorrei che il mio fosse etichettato come cinema autobiografico. Mi piacerebbe anche raccontare storie che partano dall’esterno, dalla cronaca, e proporre qualcosa di meno introspettivo».

Che rapporto ha con il successo?

«È una brutta bestia. Qualcosa che accarezza l’ego, qualcosa di effimero che porta lontano dalla vita vera. Quando guardo certe personalità della cultura e dello spettacolo le vedo spesso accartocciate in una frustrazione a causa di qualcosa che non è stato loro riconosciuto. Il successo cerco di tenerlo in un angolo se no ti frega. Su questo mi aiuta il cristianesimo perché insegna che il successo vero sta nel decentramento da noi stessi, nel vedere l’altro».

Un film, un libro, una serie che le sono piaciuti ultimamente?

«Con tre figli piccoli, riesco a vedere e leggere meno di quanto vorrei. L’ultimo film che mi ha commosso è Nomadland».

 

La Verità, 15 ottobre 2022

«Io, Django, cambiato dall’incontro con un prete»

Franco Nero in persona?

«Francesco Clemente Giuseppe Sparanero».

Tre nomi di battesimo hanno un motivo preciso?

«Clemente è il santo del giorno in cui sono nato, Francesco si chiamava mio nonno materno, Giuseppe non lo so».

Per fortuna non è diventato Castel Romano.

«Sarebbe stato un dramma. Dino De Laurentiis aveva sentenziato sul set della Bibbia che si girava a Roma: “Debutti in via Castel Romano dove ci sono i nostri studi: ti chiamerai Castel Romano”. Mi salvò Luigi Luraschi, un suo assistente, che cominciò ad anagrammare nomi e cognome. Alla fine tagliammo Francesco e Sparanero e venne fuori Franco Nero».

Perché ha messo un proverbio africano come esergo del suo libro Django e gli altri (Rai Libri), scritto con Lorenzo De Luca?

«L’ho imparato molti anni fa, l’ho appeso anche sul muro in cucina».

«Puoi alzarti all’alba, ma il tuo destino si è svegliato prima di te».

«Ognuno ha un destino nella vita, ma bisogna anche saperselo costruire. Trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Il grande regista Joshua Logan cercava una faccia nuova per Lancillotto di Camelot e John Huston, che mi aveva fatto fare Abele nella Bibbia, mi segnalò. “Fisicamente sei perfetto, ma il tuo inglese è incerto e questo film è il più costoso della storia, non posso rischiare”, mi disse. Arrivato sulla porta mi voltai: “Ma io so recitare Shakespeare in inglese”».

Aveva imparato ascoltando i dischi in vinile che le aveva prestato Huston.

«Li avevo consumati a forza di ascoltarli e di ripetere la pronuncia dei più grandi attori del teatro inglese».

Voleva fare a tutti i costi l’attore?

«E il destino mi ha aiutato. Per Django Sergio Corbucci e i produttori litigavano sulla faccia giusta. C’erano altri due candidati oltre a me, così decisero di andare da Fulvio Frizzi, il papà di Fabrizio, che distribuiva il film. E lui puntò il dito sulla mia foto. Se quel fotografo non avesse insistito per farmi qualche primo piano che finì sulla scrivania di Huston la mia vita sarebbe stata diversa».

Il destino ci precede?

«Da bambino, a 5 o 6 anni, sognavo sempre un cavaliere su un cavallo bianco in cima a una montagna».

Un ragazzo nato a Parma, figlio di un maresciallo dei carabinieri pugliese che diventa una star del cinema non è male come sogno.

«Non mi posso lamentare. La mia vita è stata avventurosa perché sono sempre stato curioso. Ho lavorato molto all’estero. Sono stato in America e in Sudamerica, dovunque ho una storia bella. Sono un privilegiato. A questa mia giovane età sono appena tornato da Londra e sto per partire per Los Angeles».

Come si sta davanti alla cinepresa «nonostante la congenita timidezza»?

«Le ho sempre detto: “Cara cinepresa, io e te dobbiamo essere amici, farò di tutto per impressionarti”. Laurence Olivier, il più grande attore del mondo, una volta mi disse: “Con il tuo fisico puoi fare l’eroe un film all’anno, ma che monotonia. Oppure puoi cambiare e spaziare in tutti i generi”. Ho fatto tutti i ruoli, mi mancava quello del Papa».

Ma ora…

«Una compagnia spagnola mi ha proposto The men from Rome».

Il suo primo benefattore è stato John Huston o Sergio Corbucci?

«Tutti e due. Ho incontrato prima Huston e subito dopo Corbucci. Negli hotel in Sudamerica e in Giappone scrivevano Django, non Franco Nero».

Quindi Corbucci?

«Corbucci nel cinema mondiale, Huston in quello di lingua inglese. Huston fece il mio nome a Logan. Così entrai nella produzione di Camelot con Richard Harris e Vanessa Redgrave».

La sua Ginevra: come avvenne l’incontro lei?

«Non fu amore a prima vista. Mentre giravamo le battaglie dei cavalieri della Tavola rotonda, chiedevo a Logan chi avrebbe interpretato Ginevra? Finalmente, un giorno negli studi della Warner me la indicò. Avevo 24 anni e mi aspettavo una bellezza tipo Sophia Loren. Invece, mi vedo arrivare una ragazza con jeans strappati e occhiali da vista. Fui molto freddo. “Ma quella è un mostro”, dissi a Logan. Rientrato nel mio appartamento trovai un biglietto scritto in perfetto italiano in cui m’invitava a cena a casa sua. Decisi di andarci e, quando bussai, alla porta apparve una donna splendida. “Sono stato invitato da Vanessa Redgrave”. “Franco, Vanessa sono io”. Ero stupefatto».

Amore alla seconda vista?

«La nostra storia decollò un mese dopo, in America. Una sera, mentre andavo alla mia auto, lei mi chiese se potevo accompagnarla all’aeroporto insieme a Benjamin Spock che doveva partire. Quando rimanemmo soli scoprimmo che il giorno dopo entrambi non lavoravamo. “Perché non andiamo da qualche parte?”. Prendemmo un volo per San Francisco, dove noleggiai una macchina e andammo in giro tutta la notte finché, all’alba, affittammo una camera in un motel di quinta categoria».

Qual è il segreto della durata del vostro rapporto?

«La lontananza, non stare sempre assieme. Parlandoci molto al telefono, desideriamo sempre vederci».

Condividete la stessa visione politica?

«Ma… In gioventù lei era una troskista incredibile. Io la rispetto, ha sempre aiutato i più deboli come anch’io faccio da tutta la vita. No, in politica non la pensiamo allo stesso modo. Lei è una donna eccezionale, ha avuto vita dura anche in America per le sue idee. Furono Arthur Miller, Tennessee Williams e Sidney Lumet a difenderla e valorizzarla con ruoli importanti perché la stimavano molto».

È vero che una volta Clint Eastwood le manifestò la sua invidia?

«Ci eravamo conosciuti quando recitava per Sergio Leone. Una volta venne sul set americano di Camelot e commentò: “A Hollywood c’è un giovanissimo italiano che gira un grande musical, mentre io tornerò in Europa a girare un film italiano…”».

Perché dopo Camelot interruppe il contratto con la Warner?

«Gli amici storici con cui avevamo iniziato a girare i primi corti, Luigi e Camillo Bazzoni, Gianfranco Transunto e Vittorio Storaro, mi chiamavano per convincermi a tornare. La mia popolarità poteva aiutarci a girare i film che sognavamo da tempo. Anche Vanessa rientrava in Europa. Così andai da Jack Warner e gli dissi che mi mancava l’Italia. “Sei un pazzo, potresti diventare il nuovo Rodolfo Valentino, ho già due film pronti per te”. Alla fine cedette, anche lui stava per vendere la Warner».

Nella sua autobiografia Django è un uomo solo.

«Dev’esserlo, l’eroe del west non si sa da dove viene e dove va. Non per niente Quentin Tarantino ne ha fatto il remake».

Chi sono i suoi amici?

«Nel mondo del cinema non è facile averne, c’è l’invidia. In Inghilterra, in America, in Sudamerica ho più amicizie. In Italia frequento professori, medici e i contadini con cui gioco a briscola e tresette. Non faccio parte dei clan del cinema italiano».

Sono un po’ chiusi?

«E io sono un outlaw, un fuorilegge, non appartengo a nessun clan».

Ha conosciuto John Wayne, John Huston, Paul Newman, Anthony Quinn e tanti altri, ma scrive che l’incontro più importante della sua vita è stato con un  prete.

«Don Nello Del Raso. Avevo 23 anni e sbarcavo il lunario facendo l’aiuto fotografo e lavorando di notte da un panettiere che preparava i cornetti. Un giorno Luigi Bazzoni mi chiese di accompagnarlo a Tivoli. Al villaggio Don Bosco conobbi don Nello, un cappellano dell’esercito che aveva raccolto i bambini orfani della Seconda guerra mondiale. M’innamorai subito di questo piccolo grande uomo che insegnava loro un lavoro. Gli promisi che, sebbene squattrinato, gli sarei stato vicino. Da quando è morto e il suo posto è stato preso da don Benedetto Serafini, continuo ad aiutare il villaggio».

Perché nel suo ultimo film da regista, L’uomo che disegnò Dio, recita Kevin Spacey, incriminato per molestie sessuali?

«Conosco Spacey da quando dirigeva il teatro Old Vic di Londra. Qualche volta siamo anche andati a cena insieme con Vanessa. Un giorno il produttore Louis Nero (solo un omonimo ndr), mi disse che a Spacey sarebbe piaciuto essere diretto da me. Per il ruolo del commissario era perfetto. Perciò ho accettato, sapendo che è incriminato. Penso che nella vita bisogna saper perdonare e dare una chance a chi è in difficoltà. Lui mi ha detto che si è sempre dichiarato omosessuale e che molte cause le ha vinte. Si sa, i maschi eterosessuali ci provano con le donne, i maschi gay con gli uomini. Con me ha lavorato con grande umiltà».

È stato criticato per questa scelta?

«Ho avuto contro tutta la stampa americana e inglese. Spacey è stato sfortunato perché coinvolto nel momento del Metoo… A Hollywood, in passato, erano tanti i gay o i mezzi gay, ma tutto scorreva. Ora le accuse abbondano, a volte la ricerca della verità sembra anche una questione di soldi. Quando una persona è accusata 28 anni dopo i fatti qualcosa non va».

Un certo puritanesimo soffoca la creatività di sceneggiatori e registi?

«Assolutamente. Anni fa erano il produttore e il distributore a decidere. Oggi non si fa cinema senza i diritti televisivi. Se un film è un po’ spinto bisogna tagliare e l’autore non può scrivere ciò che vorrebbe. Per questo ho fatto poca tv».

Quando vedremo L’uomo che disegnò Dio?

«È ispirato alla storia vera di un cieco che, sentendo parlare le persone, riesce a riprodurne i tratti. Abbiamo finito di montarlo in marzo. Vorrei portarlo a un grande festival prima di farlo uscire, ma non dico niente per scaramanzia».

Nuovi progetti come attore?

«Ho letto diverse sceneggiature, l’unica che mi ha convinto è quella di Black beans and rice, un film che gireremo in America, ma ambientato a Cuba. È la storia on the road di un padre e un figlio che non si conoscono. Nel testamento la madre chiede che il ragazzo ritrovi il padre e, insieme, portino e disperdano le ceneri nel posto dov’è nata. Lo interpreteremo io e mio nipote, figlio di Liam Neeson e di Natasha, mia figlia morta 13 anni fa in un incidente stradale».

Negli ultimi anni ha lavorato meno?

«Anche a causa della pandemia. Però ho interpretato Il caso Collini, trasmesso in Italia da Rai 3, e The Match, visibile su Prime video».

La sorte delle sale cinematografiche è segnata?

«Lo temo, adesso ci sono queste piattaforme».

Si professa cattolico e scrive che gli italiani sono attenti a rispettare tutte le religioni fuorché la loro.

«Sono religioso, non praticante. Ogni tanto entro in una chiesa e sto lì a pensare. Non manco alla messa di Natale al villaggio Don Bosco. Anche a Pasqua».

Il cristianesimo ha lo stesso destino delle sale cinematografiche?

«Ah ah ah, speriamo di no».

 La Verità, 25 giugno 2022

Se un vecchio cowboy incontra un fumettista…

Se un uomo con un cappellaccio da cowboy incontra un disegnatore con una matita come va a finire? Sicuramente Clint Eastwood non conosce Zerocalcare. Ma non si può mai sapere, ora che Netflix diffonde nel globo anche prodotti di nicchia com’è una miniserie animata recitata in romanesco. Chissà come lo sottotitolano lo slang di Zero per i telespettatori di Carmel-by-the-Sea, California. Magari adesso che nella piccola Italia, dove sfondò con la Trilogia del dollaro, c’è chi lo contrappone alle lagne sociopatiche di un fumettista nato nei centri sociali, qualcuno potrebbe segnalargli la polemica: Clint, hai visto cosa dice di te Daniele Capezzone del quotidiano La Verità? Ti ha eletto simbolo dell’«affermazione dell’individuo contro ogni potere», e risposta alla «lagna e al disagio esistenziale» dei millennials scansafatiche. Da giorni sui social il dibattito accende gli animi pure di coloro che non hanno visto né la serie tv né Cry Macho, ultimo film diretto e interpretato dal 4 volte premio Oscar.

La faccenda è rilevante perché identifica e mette a confronto due mondi di appartenenza e altrettanti immaginari, lontanissimi tra loro. Zerocalcare o il vecchio Clint? Michele Rech o Eastwood? Il flusso di coscienza vagamente onanista o la sbrigatività del maschio alfa? Detto in soldoni, è l’ultimo aggiornamento della contrapposizione tra la sinistra alternativa, antagonista, problematica e cagadubbi di tendenza nichilista della periferia non solo romana, e la destra pragmatica, spiccia, anticonformista e risolviproblemi che si riconosce nel partito repubblicano yankee. Tuttavia, a onor del vero, va detto che «Clint è di tutti. In questi tempi di scontri frontali e generalizzati, è un’utopia vivente», ha correttamente notato Teresa Marchesi sul Domani. Perché, sebbene si sia schierato apertamente con Donald Trump, è «troppo individualista per essere di destra o di sinistra», come lui stesso ebbe a dire di sé in una vecchia intervista.

E, dunque, se il coriaceo Ispettore Callaghan incontrasse il novelliere grafico del Forte Prenestino probabilmente conierebbe uno dei suoi celebri aforismi. Forse non proprio Coraggio… fatti ammazzare, perché, sebbene non gli risulterebbe simpatico, tuttavia Zero non è un mafioso o un rapinatore tipo quelli che sistemò nel film del 1983. Magari aggiornerebbe il titolo in «Coraggio, fatti ammazzare… di lavoro». Di sicuro Callaghan non avrebbe la pazienza di Strappare lungo i bordi degli psicologismi del protagonista. Gli metterebbe in mano una vanga per curare il prato. O un secchio di detersivo per lavare e lustrare la sua Gran Torino, come fece nell’omonimo film Walt Kowalski, il reduce dalla guerra di Corea, con Thao, il giovane asiatico vicino di casa, vessato da una gang di teppisti locali.

L’olio di gomito è un’ottima cura per le pare e quella del vecchio Clint è la cultura del rimboccarsi le maniche. L’esatto contrario del mandare curriculum a pioggia aspettando sul divano che passi il treno giusto. E, nell’attesa, confidare nel reddito di cittadinanza. Già, chissà cosa penserebbero i personaggi di Eastwood del sussidio pubblico di base. Kowalski di Gran Torino; Earl Stone, il floricoltore trasformatosi in corriere per sbarcare il lunario di The Mule; Richard Jewell, la guardia giurata che grazie al suo zelo sventò l’attentato alle Olimpiadi di Atlanta (salvo poi esserne incolpato). E infine, Mike Melo, l’ex domatore di cavalli, protagonista di Cry Macho, che va a prelevare in Messico il figlio del suo ex datore di lavoro per portarlo in Texas.

Forse lui, l’ultimo della serie di cowboy, sarebbe il più indulgente verso Zerocalcare. Perché, in fondo e molto alla lontana, il vecchio Clint e il fumettista di Strappare lungo i bordi qualcosa in comune ce l’hanno. Entrambi, ognuno a suo modo, nutrono una certa diffidenza verso il prossimo. Burbero e un po’ misantropo uno, sociopatico per timidezza e pigrizia l’altro. Solo che quella di Zerocalcare è una sociopatia per difetto di protagonismo, ripiegata e autoreferenziale, da «cintura nera di come si schiva la vita». Mentre quella di Eastwood è l’esatto opposto, insofferente proprio verso l’indolenza, la passività giustificata dai luoghi comuni e dalla rinuncia sorretta dal cinismo.

In Cry Macho, il personaggio di Eastwood va contro i poteri forti e si ribella alle apparenze. Mentre Zerocalcare è sull’orlo della resa amara, Mike Melo scavalca una lunga serie di ostacoli per «finire il lavoro». Senza enfasi e senza eroismi, ma con determinazione. Per il regista di Lettere da Iwo Jima il vero eroe è l’uomo comune che «attraversa la vita e lascia il segno da qualche parte», non «gli eroi dei fumetti», che detesta. Eppure, «questa cosa del macho è sopravvalutata», dice l’ex cowboy dell’ultimo film. E ha tutta l’aria di essere un bilancio, tra il malinconico e l’autoironico, dello stesso Eastwood. «Da giovane pensi di avere tutte le risposte, ma quando diventi vecchio ti accorgi che non ne hai nessuna. Tuttavia», prosegue, «ognuno deve fare le proprie scelte». E, rivolto a Rafo, il ragazzino che sta riportando a casa, «anche tu dovrai fare le tue». Niente vittimismi e passività, dunque. La vita va presa al volo, non schivata.

 

La Verità, 7 dicembre 2021

Il cinema metallico e democratico di Eastwood

C’è del metallo nel cinema di Clint Eastwood. Non la colt nascosta sotto il poncho del cacciatore di taglie di Per un pungo di dollari. Un altro genere di metallo: un’anima misteriosa, una rettitudine solida. C’era in quello Straniero senza nome. C’era poi nel ruvido ispettore Callaghan. E c’è nel suo cinema di oggi, da regista con la cifra dell’identità e di una certa gerarchia. La cifra dell’America profonda ma non solo, in cui il senso di giustizia e il rispetto dei deboli hanno il ruolo da protagonista.

Per capire chi è veramente Clint Eastwood che il 31 maggio compirà novant’anni, bisogna ripartire dal divorzio da Sergio Leone, l’autore della Trilogia del dollaro alla quale deve l’improvvisa fama mondiale dopo un nugolo di ruoli irrilevanti. Leone non parlava bene dell’attore Eastwood e Eastwood non esaltava il cineasta Leone. «È un blocco di marmo», scrisse il regista in una rivista specializzata, un attore che aveva due espressioni, con e senza sigaro. Eastwood invece, che non era soddisfatto della valorizzazione delle sue interpretazioni, voleva contare nella confezione dei film. Suggeriva spunti, abbozzava inquadrature. Da subito, recitava pensandosi dietro la cinepresa, dirigendosi e dirigendo. Ma Leone, confidò l’attore allo scrittore Stuart Kaminsky, «non mi ha mai riconosciuto alcun contributo stilistico ai film realizzati insieme». Clint non capiva l’italiano, Sergio non sapeva l’inglese. Ma, seppure in quella situazione, il cow boy col poncho divenne subito un archetipo, un’icona flemmatica di giusto vincente e taciturno. Merito anche del doppiaggio di Enrico Maria Salerno che gli regalò quella parlata lenta e monocorde. Un modello di recitazione per sottrazione, si dice oggi. A metà degli anni Sessanta, tra la fine del boom economico dominato dalla leggerezza del beat, e i prodromi del Sessantotto, già intrisi di verbosità ideologica tutti volevamo essere quello Straniero senza nome. Controcorrente da subito, Eastwood non rideva mai e parlava poco.

Con quelle premesse il cineasta e il suo attore feticcio non potevano che separarsi. Clint rifiutò di recitare in C’era una volta il west la parte che divenne di Charles Bronson e declinò anche l’offerta di un ruolo minore in C’era una volta in America. Leone adoperava la sintassi dell’epica, della grande allegoria, sottolineata dalle colonne sonore di Ennio Morricone. Eastwood voleva raccontare piccole storie, uomini di tutti i giorni. Le strade biforcarono e la stagione dell’ispettore Callaghan, in qualche modo prosecuzione del bounty killer col sigaro, ne consolidò il tratto controcorrente in anni di ribellione incondizionata a qualsiasi accenno d’ordine.

Alla scuola di Don Siegel, che invece i crediti glieli concesse, il lungo apprendistato dell’Eastwood regista era però finito. Nella sua testa aveva germogliato un cinema trattenuto come la sua recitazione e asciutto come il metallo anche a causa dei budget per scelta contenuti. Un cinema che ha nello spettatore il suo principe e che sa stare alla larga da tentazioni esegetiche. Un cinema nel quale i vuoti del non detto sono riempiti dall’immaginazione di un pubblico adulto e rispettato. Un cinema poco amato da gran parte della critica intellettuale al di qua e al di là dell’Atlantico. Ma un cinema democratico e anticonformista, libero dai manierismi e dalle mode hollywoodiane o dal sussiego autoriale. Proprio «autore» è una definizione che non ha mai convinto Eastwood, preferendo egli considerarsi «forza trainante» della squadra. Al punto che in testa ai suoi film non compare mai il suo nome, ma quello della casa di produzione: «Un film della Malpaso company», «Una produzione Malpaso».

«A me piacciono le storie», ebbe a dire una volta conversando con il critico Christopher Frayling. E con quella sottolineatura aveva spiegato tutto. Se si eccettuano Bird, omaggio a Charlie Parker, leggendario jazzista che ha segnato la sua formazione, J. Edgar, sulla figura del controverso capo dell’Fbi Hoover, e Invictus su Nelson Mandela, una pellicola più di Morgan Freeman che di Eastwood, nella cinematografia post Callaghan c’è sempre l’uomo comune al centro. I tre ragazzi di Mystic River, la cameriera boxeur e lo scorbutico allenatore di Million Dollar Baby, il misantropo reduce di guerra di Gran Torino, il cecchino infallibile e tormentato di American sniper, il coscienzioso pilota di Sully che salvò miracolosamente i passeggeri ma fu processato perché distrusse l’aereo, l’anziano corriere della droga di The Mule: tutte storie di persone ordinarie, spesso tratte dalla cronaca. Come nel caso dell’ultimo, bellissimo, Richard Jewell, la storia del vigilante imbranato che, zelantissimo al punto da essere sempre snobbato dai colleghi, sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, salvando un centinaio di persone. Un eroe presto tramutato in colpevole perché rispondente agli stereotipi degli inquirenti. Una storia reale, esemplare, significativa. Narrata senza sbavature, con quel metallo dentro, la materia semplice di un’etica non enfatica. Forse appena di una certa dirittura umana. Dove il quotidiano diventa eroico e l’eroico quotidiano.

 

La Verità, 28 maggio 2020