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L’intervista a Riina, istantanea dell’ontologia mafiosa

Va in onda la grande rimozione. La grande reticenza. La mafia vista e vissuta dentro le mura della sua famiglia più irriducibile e ramificata. Va in onda nel programma di approfondimento più nobile della Rai. È il giornalismo, bellezza. Un mafioso a Porta a Porta: “Per combattere la mafia bisogna conoscerla”, ha premesso Vespa.

Si possono ascoltare e rispettare solo le reazioni dei familiari delle vittime. Comprendere la loro sensibilità ferita. Le ragioni della loro esistenza stravolta dalla violenza di un disegno criminale esecrabile e perverso. Non si possono ascoltare i piagnistei dei politici che vogliono stabilire chi ha diritto di parlare e soprattutto vogliono fissare le regole del lavoro giornalistico. Salvo Riina, terzogenito del boss mafioso Totò e di Ninetta Bagarella, autore del libro A family life, era stato intervistato pochi giorni fa sul Corriere della Sera, senza provocare proteste. Intervistato da Bruno Vespa per Raiuno ha scatenato un putiferio. Soprattutto ha scatenato il paternalismo moralistico di buona parte della politica che, evidentemente, immagina telespettatori ingenui e privi di strumenti critici. Quando era Michele Santoro ad ospitare in studio Massimo Ciancimino i vari Pietro Grasso, Rosy Bindi, Roberto Fico (oltre all’immancabile e pleonastico Michele Anzaldi) che ora s’indignano dall’alto delle loro cariche istituzionali, erano silenti. Qualche anno addietro quando Sergio Zavoli intervistò tutti gli ex terroristi degli anni di piombo per La notte della Repubblica, un programma entrato nella storia del giornalismo televisivo, nessuno eccepì. Autorevolezza, scrupolo e documentazione del giornalista garantivano da soli.

Vespa ha incontrato il figlio di Totò Riina, condannato a 8 anni e dieci mesi per associazione mafiosa che sta scontando in libertà vigilata a Padova, senza risparmiargli le domande. Senza addolcire in alcun modo le responsabilità di suo padre, condannato a 18 ergastoli per i crimini commessi. Gli ha mostrato le immagini della strage di Capaci e quelle dell’agguato a Paolo Borsellino. Lo ha messo davanti alle vite distrutte di centinaia di persone. L’intervistato ha ripetuto che non sta a lui giudicare, che se un giudizio ce l’ha non lo rivela in pubblico, che il giudizio compete allo Stato. Non si è smosso da questa latitanza etica. “Cos’è la mafia? Non me lo sono mai chiesto, non ho una risposta precisa, la mafia è tutto e niente, non sta a me dirlo”. Questa espressione – “non sta a me dirlo” – è la più usata dal “figlio del Capo dei Capi”. L’ha pronunciata a proposito della mafia, dello Stato, del comportamento di suo padre, dei suoi crimini, delle vittime innocenti cadute compiendo il loro dovere.

La grande rimozione, la colossale reticenza. Vespa ha provato ad incalzarlo: mi colpisce che non abbia un giudizio sulle azioni di suo padre, ci sono gli omicidi, i morti, le condanne. Ha detto Carlo Freccero, consigliere Rai: “Lo sguardo di Salvo Riina, da straniero, completamente privo di empatia, mentre scorrevano le immagini della strage di Capaci è il solo attimo di verità di questa intervista, uno sguardo che chiarisce e denuncia cos’è la mafia”. Quello sguardo, come l’atteggiamento omertoso di Riina in tutto il colloquio, resteranno come documento, istantanea dell’ontologia mafiosa. Il dibattito che è seguito in studio con Emanuele Schifani, figlio di Vito, agente della scorta di Falcone morto a Capaci (“Quali valori ti ha trasmesso tuo padre”, si è rivolto a Salvo Riina, “conosci la differenza tra il bene e il male?”), Felice Cavallaro del Corriere della Sera, Dario Riccobono, leader dell’associazione “Addiopizzo” e Luigi Li Gotti, avvocato di pentiti di mafia (con il quale sono state sottolineate alcune storture della legislazione inerente) è stato lucido, istruttivo e autorevole.

Il direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto e la presidente Monica Maggioni sono stati convocati d’urgenza in Commissione Antimafia. Carlo Verdelli, direttore editoriale dell’informazione, si è assunto la responsabilità della messa in onda. Qualche settimana fa, in Commissione di Vigilanza, aveva detto: “Nostro compito è informare, non tranquillizzare”.

La piega della spiega presa dal neogiornalismo

È una questione di gradini, di autorevolezza. Di conoscenza più o meno approfondita della materia. Ma può anche essere una questione di spocchia. Di tirarsela un filo. Ci si apposta un po’ più su e si guarda il resto del mondo dall’alto. Almeno per quella materia lì, per quello spicchio di realtà, pur piccolo. Il virus, la moda, sta contagiando noi giornalisti. Ce ne sono tante, di mode passeggere che s’infiltrano nei nostri articoli, nei nostri post, titoli eccetera. L’ultima è questa qui di spiegare qualcosa a qualcuno. Chi spiega sta un gradino più in alto di chi legge. C’è qualcuno un po’ più ignorante che va istruito, va edotto, va introdotto ai segreti di qualcosa che noi conosciamo bene. I giornalisti diventano un po’ professori, insegnanti di qualcosa. Ci può anche stare, ma è meglio esser consapevoli di questa piega della spiega…

Un conto è un libro, qualcosa che richiede un impegno e ha un intento esplicitamente pedagogico e affettuoso, tipo Il vangelo spiegato a mio figlio: racconti insoliti prima della buonanotte (Marta Brancatisano), oppure Le pensioni spiegate a mia nonna (Giuliano Cazzola), o anche Internet spiegato a mia nonna (Francis Mizio). Qualche volta un certo paternalismo condito di ironia può funzionare. Ed è bene accetto se il discente stima il docente per la sua competenza, vedi “Le serie tv spiegate a Giuliano”, ciclo di articoli di Mariarosa Mancuso sul Foglio, con lieve sentore di autoreferenzialità. Sempre sullo stesso giornale, Ferrara verga “Renzi spiegato facile a D’Alema”, dove quel “facile” dal tono volutamente sarcastico avrà fatto arricciare il baffo dell’ex lider Maximo, maestro riconosciuto di sarcasmo. In altri casi l’intonazione è da secchioni, tipo “L’Isis spiegato bene (a Milano)”, che annuncia che “un pezzo di redazione del Post discute dello Stato islamico”. Spiegato bene, non male… Lo stile da nerd ha vinto, spopola anche tra i giornalisti, si contamina con un certo, mai sopito, intento moraleggiante. Che si ritrova anche in altre formule e in altri titoli che hanno dentro il “Cosa insegna” questa faccenda eccetera (autocitazione), oppure “Perché” una certa cosa funziona così o colà…

È la moda del nuovo giornalismo intellettuale con tendenza cattedrattica, in qualche caso pontificante. Giornalisti-professori, giornalisti-docenti, giornalisticheselatirano (qui comincerebbe un lungo paragrafo sui giornalisti-ospititelevisivi, ma prima o poi ci arriverò). Forse è anche l’esplosione delle nuove tecnologie e dei social media che ha prodotto questo salto di qualità. Per capirci, su Facebook e Twitter che oggi compie dieci anni sono tutti giornalisti. E siccome le notizie le danno tutti, anche chi non ha titoli, allora i giornalisti diventano columnist, docenti, insegnanti di qualcosa. Per carità, meglio il giornalismo secchione, e magari un po’ pedante, di quello approssimativo e superficiale. È sul tirarcela, su un certo sussiego, che conviene vigilare. Lo dico anche a me stesso: una volta il giornalismo s’incaricava soprattutto di dare notizie. E la sfida dovrebbe rimanere principalmente sul terreno dell’informazione.

Vedere Spotlight e Truth per tenerci con i piedi per terra…

Spotlight, le leggi del giornalismo e quelle del cinema

Probabilmente, come ha autorevolmente decretato l’Osservatore romano, Il caso Spotlight “non è un film anticattolico”. Ma neanche un film da Oscar. Privo d’invenzioni registiche e narrativamente poco originale, è un film ben scritto e ben recitato. Qualche critico l’ha definito addirittura “il migliore dell’anno”, e così la pensa la potente Academy di Los Angeles che l’ha insignito del massimo premio. Tuttavia, stando così le cose, più che l’estetica narrativa, elogiato e premiato pare il tema civile dell’opera su cui non può non essere universale il sentimento di condanna. Ma se questo è il meglio del cinema mondiale, bisogna dar ragione a chi sostiene che ormai, con le sue sperimentazioni e i suoi linguaggi, la serialità televisiva l’abbia ampiamente surclassato.

Il caso Spotlight è un film nella tradizione del reporter movie che descrive il giornalismo come “cane da guardia del potere”, alla maniera di Tutti gli uomini del presidente (Alan Pakula, 1976) e del cinema di Sidney Lumet, cui il regista Tom McCarthy ha detto d’ispirarsi. Solo che qui, anziché il Watergate, ci sono da svelare le centinaia di abusi sessuali su minori commessi dal clero, dagli anni ’70 in poi, nella diocesi di Boston. E soprattutto c’è da provare il “sistema” di omertà adottato dall’allora arcivescovo Bernard Law, il quale si limitava a spostare in un’altra parrocchia il sacerdote accusato.

Quello di McCarthy è un lavoro ancorato alla storia dell’inchiesta condotta tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 dai quattro giornalisti (interpretati da Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Matty Carroll) della redazione Spotlight (riflettore) del Boston Globe. Fu il nuovo direttore (impersonato da Liev Schreiber) a far riprendere le ricerche trascurate qualche anno prima, concedendo tempi lunghi alle verifiche di fonti e documenti, nella tradizione di quel giornalismo investigativo ormai scomparso ovunque, per sempre più stringenti ragioni di bilancio. Quell’inchiesta, che sfociò nelle dimissioni del cardinal Law, divenne giustamente il modello di altre investigazioni che negli anni hanno portato alla luce la metastasi della pedofilia diffusa in tanti altri oratori e scuole religiose, dall’Australia all’Irlanda, dal Canada alla Germania. Proprio la lunga lista di quelle situazioni che precede i titoli di coda, insieme con l’indicazione che l’ex cardinale Law è stato trasferito in Santa Maria Maggiore a Roma, congeda lo spettatore con un senso di profonda amarezza. In realtà, assimilato a una promozione, quel trasferimento segnò l’uscita di scena definitiva del porporato. Inoltre, non è questa la sola ambiguità del Caso Spotlight, un film non anticattolico ma lacunoso sì.

Mettendo al centro la redazione del Boston Globe, il regista si esenta dall’impegno di citare una parte non secondaria della storia. Nel giornalismo che il film stesso esalta, si chiama “dovere di completezza” o anche “diritto di replica”. Ma siccome il cinema ha altre regole, dei pronunciamenti e delle contromisure della gerarchia contro la pedofilia non v’è traccia. Dalle linee guida dei vescovi americani contro i crimini sessuali del 1992 alla “tolleranza zero” della Conferenza di Dallas del 2002; oppure dai pronunciamenti di Benedetto XVI ai più recenti provvedimenti di Bergoglio: sarebbe bastato citare anche questi prima dei titoli di coda. Nel film, invece, i giornalisti-investigatori incalzano con un eloquente “stai dalla parte giusta?” chi stenta a collaborare. O di qua o di là: e così, sebbene uno dei protagonisti proclami che “non è in gioco la fede ma la conoscenza”, si arriva alla scontata conclusione che una cosa esclude l’altra.

Ancora due o tre cose sulle Iene

Le Iene sono andate in letargo. Qualche settimana, non di più, e a gennaio torneranno a ridere e graffiare su Italia Uno. Pochi giorni per rivisitare la squadra, dopo l’addio con look discutibile, di Ilary Blasi. Nel pensatoio di Davide Parenti si sta lavorando per rifinire la formula e scegliere i nuovi protagonisti. Cambierà solo la showgirl o verrà avvicendato anche Teo Mammucari? E il Trio Medusa rimarrà al suo posto a sbertucciare in voce i due frontman o lasceranno anche loro (la perdita della Gialappa’s non è facilmente colmabile)? Tutto è possibile. Al posto di Ilary circola il nome di Belén Rodriguez e potrebbe pure essere la nomination giusta se la modella argentina conquistasse la disinvoltura linguistica necessaria per reggere le provocazioni dei partner. Prima di battezzare qualcuno, però, conviene riflettere, Parenti e soci sono inclini ai colpi di scena. Per esempio, tanto per fare qualche nome a caso: Geppi Cucciari, Selvaggia Lucarelli, Melissa Satta non potrebbero funzionare? Di ipotesi se ne possono fare tante… Bisogna trovare il mix giusto tra giornalismo, inchieste, cazzeggio in studio e moralismo dilagante (come antivirus non basta Filippo Roma travestito da Moralizzatore col ditino alzato all’inseguimento di qualche vittima consenziente).

Intanto, ciò che più conta, è che, aldilà di complessi tentativi di contaminazione con altri format, Le Iene continuino a produrre servizi, inchieste e reportage di qualità. Nell’ultima puntata, per dire, quello di Matteo Viviani sulla donna analfabeta che vive a Mondragone nella miseria più nera, in condizioni igieniche repellenti, ignora la sua stessa età ed è dimenticata dai servizi sociali, valeva l’intera serata e compensava anche un’intervista a Luciano Moggi di cui non si avvertiva il bisogno. Oppure,  un paio di settimane fa, il viaggio di Nina in treno con una famiglia di Aleppo, madre e due ragazzi, in fuga dall’Isis, e il reportage di Pelazza da Kacanik, paesino di 30mila abitanti del Kosovo, dove vengono reclutati i foreign fighters che partono per la Siria, spiegavano il dramma dei profughi e il sistema di arruolamento dei jihadisti più di decine di talk show infarciti di politici ed esperti.

Lunga vita al giornalismo delle Iene, almeno quando non è schierato come avviene sui temi che toccano Chiesa e Vaticano. Il buon giornalismo è proteine per la tv di qualità. Per il contorno, i balletti e le gag in studio, qualche soluzione si troverà.