Purtroppo l’intervista si svolge al telefono e gli occhi di Cristiana Capotondi, che domani sera su Rai 1 saranno quelli di Chiara Lubich, si possono solo immaginare. A scegliere l’attrice di Notte prima degli esami e La mafia uccide solo d’estate per il ruolo della dolce ma determinata fondatrice dei Focolarini sono stati Luca Barbareschi e Saverio D’Ercole, rispettivamente capo e responsabile della fiction di Eliseo Multimedia che, con Rai Fiction, ha prodotto il film tv diretto da Giacomo Campiotti. In L’amore vince tutto, trasmesso nel centenario della sua nascita, vedremo la maestra elementare trentina rispondere alle interrogazioni del Sant’Uffizio per dar ragione della propria vocazione e del movimento che, sorto alla fine della Seconda guerra, si è diffuso in 180 Paesi e conta circa due milioni di aderenti.
Che cosa l’ha più colpita di Chiara Lubich?
«Sono due caratteristiche. La prima è che già nel 1943 è una donna del Duemila. Con pacifica forza d’animo si realizza non nella vita della casa, ma nella socialità, nella scuola, nell’aiuto agli altri. Un palcoscenico che travalica i confini abituali delle donne del tempo. La seconda caratteristica è la sua stessa visione della vita: invece che “non c’è rosa senza spina” dice che “non c’è spina senza rosa”. Per lei anche la sofferenza contiene un messaggio d’amore».
Sono caratteristiche che ne fanno una donna moderna.
«È dotata di grande pragmatismo. Ma pur rimanendo con i piedi per terra, la sua visione la porta a dar vita al movimento».
Anche se, in un passaggio del film, dice di non aver voluto fondare nulla.
«La spinta iniziale è fare del bene, semplicemente. Portare conforto nella città bombardata dagli alleati. Poco alla volta questo diventa un impegno stabile».
È il modo in cui la sua vocazione, la consacrazione a Dio, assume forza politica?
«Sì, è una persona per la quale il benessere interiore si è tradotto in un fatto collettivo. La novità di Chiara Lubich è che la realizzazione del suo sogno ha coinciso con il bene della collettività».
Questo può dire qualcosa al difficile momento che stiamo attraversando?
«La sua capacità di oltrepassare le singole confessioni religiose riuscendo a rivolgersi a buddisti, musulmani, ebrei e cristiani ortodossi è per me un messaggio di unità rivoluzionario. Impegnandosi tra le macerie della guerra Chiara Lubich ricostruì un reticolo sociale che ha alleviato la sofferenza di tanti. La pandemia ci colpisce tutti in modo orizzontale e indistinto. Sono felice di essere italiana e di vivere in un Paese che ha una buona assistenza sanitaria pubblica, ma questo è un accidente. Serve una nuova progettualità che ci aiuti a costruire un nuovo modello di società».
Cos’era la fratellanza universale di cui Lubich parlava spesso?
«È un’espressione tratta da un passo del vangelo di Giovanni. “Che tutti siamo uno” è il suo motto».
All’origine del movimento erano tutte donne, ma lei parlava di fratellanza: oggi crede che verrebbe subito corretta?
«Nella lingua italiana fratelli comprende anche sorelle».
C’è troppa preoccupazione formale nel linguaggio?
«Può capitare che alcune parole risultino meno gradevoli, ma non è questo il caso. La fratellanza universale di Chiara non era una scelta di genere, ma un sogno che abbracciava tutte le persone. Il movimento è nato da quattro amiche, ma si è subito aperto agli uomini che ne sono stati protagonisti».
Che esperienza è essere figlia di un padre cattolico e di una madre ebrea?
«Tra i miei genitori c’è una bellissima convivenza, sono rispettosi l’uno dell’altra. Personalmente, pur avendo frequentato la basilica di Santa Maria in Trastevere retta da monsignor Vincenzo Paglia, ho sviluppato una mia spiritualità. Sono molto contenta di quanto queste due culture hanno fatto per l’Occidente, ma ho un approccio relativista».
In che senso?
«Nel senso che accetto alcune posizioni interessanti, mentre su altre meno in sintonia con la modernità mantengo uno spirito critico».
Insiste sulla spiritualità. Non la convince la carnalità del cristianesimo, così tangibile anche a Natale?
«Perché non dovrebbe? La carne è la condizione necessaria dell’esistenza».
Si chiama Cristiana per caso?
«No, ho scoperto che è stata una scelta dibattuta. Proposta da mio padre come una sorta di provocazione, mia madre l’ha accolta perché il nome piaceva anche a lei. <Cristiana> mi ha stimolato a cercare un equilibrio. Ma in famiglia ci ridevamo su».
I suoi genitori hanno mai discussioni animate su questi temi?
«No, ci sono sempre ironia e leggerezza, insieme al rispetto reciproco. Di solito gli ebrei sono più rigidi nell’osservanza delle tradizioni. A casa mia è il contrario, mio padre sembra più ligio, mentre mia madre è meno ferrea».
Nei resoconti di questi giorni su Chiara Lubich si mettono in luce la sua semplicità e il suo ecumenismo lasciando tra parentesi la fede come motore di tutto?
«Non credo. Chiara Lubich voleva che il suo messaggio arrivasse a tutti, non solo a chi è credente e praticante. Lei partiva dalla fede cattolica, qualcun altro crede nelle Tavole della legge o che il Messia non è ancora arrivato. Ma metteva l’obiettivo della fratellanza universale davanti a tutto».
Come vive questi strani giorni di festa?
«È un tempo in cui bisogna accettare di stare in difesa, ma in difesa me la cavo bene».
A calcio in che ruolo gioca?
«Esterno destro di difesa».
Un mastino dagli occhi verdi? Da cosa dobbiamo difenderci?
«Dalla grande confusione in campo economico e sociale. Nel mio mestiere la vita sociale è fondamentale. Ma ora la fase difensiva si prolunga, poi verrà il momento del rilancio. Eppure già adesso i pensieri guardano oltre questa reclusione».
Cosa farà nella sua prima azione d’attacco?
«Tornerò a frequentare i luoghi della cultura, gli stadi, i cinema, i teatri. Mi fermerò a parlare con le persone senza paura di avvicinarmi. Recuperando quella leggerezza e quella mancanza di responsabilità che prima erano sinonimo di libertà».
Considerati i controlli e i distanziamenti adottati, cinema e teatri avrebbero già potuto riaprire?
«Se c’è un periodo storico in cui non mi passa per la testa l’idea di fare il ministro è questo. Istintivamente, mi piacerebbe che aprissero anche i musei».
Non c’è il pericolo che questi luoghi della cultura escano dalle abitudini degli italiani?
«Non credo perché ci mancano molto. Certo, la diffusione delle piattaforme ci fa temere per il cinema ciò che è accaduto all’industria discografica. Qualche giorno fa, il 28 dicembre, il cinema ha compiuto 125 anni. Pensiamo a quanto è cambiato in tutto questo tempo. Da pura visione d’immagini al bianco e nero, dall’arrivo del colore agli effetti speciali al digitale… Non rinunceremo mai a raccontare storie. La mancanza di questi mesi ci farà tornare ancora più vogliosi nei cinema».
Se nel frattempo non saranno destinati ad altre funzioni… erano rimasti aperti anche durante la guerra.
«Questa è una guerra diversa. Non mi permetto di giudicare le scelte della politica, sono certa siano dettate da logiche di sicurezza nazionale».
Come ha vissuto il periodo di lockdown?
«Con grande preoccupazione per ciò che accade e, anche se la mia famiglia non ne è stata toccata, con dolore per le tante persone che muoiono. La mia professione ha momenti più immersivi e altri meno che vanno gestiti. Mi piego a riflettere sulle cose, tentando di soddisfare le mie curiosità. Leggo molto e mi informo per fugare i miei dubbi».
Chiara Lubich era una donna senza paure, oggi ne siamo attanagliati: lei come la gestisce?
«Di solito si ha paura di fronte a una situazione inedita e di cui non conosciamo la soluzione, come succede ora. Ci sentiamo piccoli, sproporzionati, non all’altezza. In questi casi ci può aiutare una certa intraprendenza. Chiara Lubich era una donna intraprendente, io provo a esserlo. Anche se a 40 anni sono ancora in cammino».
Si vaccinerà quando sarà possibile?
«Farò quello che consiglierà il Comitato tecnico scientifico».
Il vaccino ha assunto una valenza messianica?
«È atteso per tornare alla vita normale. Credo sia giusto che si cerchi una sicurezza. Come diceva Frank Capra: “La vita è una cosa meravigliosa!”. Il vaccino ci fa intravedere la soluzione. Se la soluzione fosse camminare a piedi fino a Lourdes lo farebbero tutti».
Si scambia la salute per la salvezza?
«Finché c’è vita c’è speranza. L’esercizio della salvezza ha bisogno della salute. La salute è strumentale alla salvezza, ma non coincide con essa».
Che cosa l’ha aiutata in questo periodo?
«Leggere, confrontarmi, parlare con le persone care al telefono anche se è uno strumento che non amo».
Cos’ha letto?
«La lingua geniale di Andrea Marcolongo, i libri di Yuval Noah Harari, altri… Poi ho rivisto tutti i film di Mario Monicelli, di Ettore Scola, e quelli della mia tesi: “Il cinema italiano racconta il fascismo”».
In che cosa si è laureata?
«Scienza della comunicazione».
A quale nuovo progetto sta lavorando?
«Tornerò sul set in primavera, ma non posso anticipare nulla. Prima accompagnerò la Nazionale femminile nella partita contro Israele dalla quale capiremo se avremo accesso diretto agli Europei o dovremo passare dai playoff».
Da vicepresidente della Lega Pro e accompagnatrice della Nazionale femminile come guarda alla situazione del calcio italiano?
«La Lega Pro aveva un problema di sostenibilità economica anche prima dell’arrivo della pandemia. Ora la situazione si è aggravata perché non abbiamo la forza di confermare alcune sponsorizzazioni. Perciò siamo ancora più claudicanti. Il Covid ha privato il pubblico del tifo allo stadio e i dilettanti dell’attività sportiva di base. Questa mancanza ci fa comprendere ulteriormente l’importanza dello sport per la formazione dei giovani e per una socialità serena. E, infine, accelera l’urgenza di una riforma del sistema calcio».
Che audience si aspetta domani sera?
«Questo dovrebbe dirmelo lei».
La Verità, 2 gennaio 2021