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Perché lo show di Beppe Fiorello è eccezionale

Coraggioso, Beppe Fiorello, a mettersi in gioco per due ore e mezza raccontando la storia della sua famiglia, di papà Nicola, di mamma Sarina, dei fratelli, del cugino spaccone, di Joe Conforte, concittadino di Augusta emigrato nel Nevada, dove aprì la prima casa chiusa legale. Coraggioso ed eclettico, riempie la scena variando tra memoria, dialoghi, retroscena, digressioni, canzoni. Nel lungo monologo calibrato sulla storia parallela e spesso intrecciata fra il padre e Domenico Modugno che compone Penso che un sogno così ci sono poche concessioni al mainstream (Rai 1, lunedì, ore 21,35, share del 12,3%, 2,8 milioni di telespettatori). È una storia tutta al maschile, per esempio, senza essere maschilista. È una storia patriarcale, senza essere mai irrispettosa dell’universo femminile, anzi. Semmai, com’è inevitabile, affiora qualche cedimento al sentimentalismo e all’autoreferenzialità. Un certo compiacimento meridionale, l’interminabile viaggio in auto per andare a trovare la nonna sulle note della Lontananza… Ma era nel contratto, trattandosi di un esterno di famiglia siciliana su repertorio di Modugno («siculo» d’adozione). «Stasera siamo qui: io, mio padre e tu», dice Beppe rivolto alla gigantografia. Dal dopoguerra, passando per il boom economico, si arriva alla fiction in cui interpreta l’artista di Polignano a Mare, cinquant’anni d’Italia visti con gli occhi del picciriddu che non parla mai, ma osserva la somiglianza di papà Nicola e dell’idolo Mimmo. E che ben presto – un po’ come Rosario in Volevo fare il ballerino – inizia a coltivare il «sogno inconfessabile» di diventare attore, cantante. Intanto, le biografie degli adulti continuano a sovrapporsi tra canzoni e aneddoti, successi e serenate. Quando Modugno vince Sanremo nel 1958 con Nel blu dipinto di blu, e le sue braccia spalancate diventano ovunque sinonimo di solarità e ottimismo, Nicola e Sarina si fidanzano e ce n’è abbastanza per vedere i segni del destino che seguiteranno a contrappuntare le vite dei Fiorello. A fine show compare, discreto, anche Rosario per duettare su Tu si’ ’na cosa grande, una delle perle del canzoniere che comprende Amara terra mia, Vecchio frac, Meraviglioso, Piove (Ciao ciao bambina)…

Coraggioso, Beppe Fiorello. Ma anche fortunato e attento a riconoscere nel padre e in un grande artista le tracce sulle quali provare a realizzare il sogno della giovinezza. Ora che è considerato una figura da ridimensionare, uno show come atto di gratitudine verso il padre è letteralmente un evento eccezionale.

 

La Verità, 13 gennaio 2021

Tra tanti, spicca l’augurio subliminale di Mina

Si è realizzato uno strano effetto di sovrapposizione, quasi uno scambio di ruoli, la sera del 31 dicembre guardando in sequenza su Rai 1 prima il Messaggio di Fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poi l’anteprima dell’Anno che verrà con Amadeus, infine il lungo spot della campagna istituzionale di Tim con la voce di Mina. Sarà stato il non cenone al quale un po’ tutti eravamo intenti causa restrizioni da zona rossa, sarà stato l’anno che ci lasciavamo alle spalle, è evidente che il messaggio più gradito sia arrivato dal musical allestito in tre minuti e mezzo dal marchio della compagnia telefonica. Probabilmente per obblighi istituzionali, per stile della casa, per impacci conseguenti alla crisi ventilata, minacciata, possibile o incombente, il discorso del Capo dello Stato non è andato oltre un’accorata esortazione a comportarci bene. Il prologo del tradizionale varietà della notte di Capodanno ha invece confermato l’impostazione da caravanserraglio della rete: tutti dentro un calderone che mixa Gianni Morandi e Piero Pelù, Rita Pavone, Gigi D’Alessio e J-Ax, con qualche ballerina di contorno. In sintesi, «l’Italia dei capelli tinti», è stato autorevolmente scritto.

Schiacciato tra il messaggio presidenziale e il veglione in studio, alla fine il contenuto più augurale è arrivato dallo spot «Questa è Tim». Non tanto per l’abusato arcobaleno che soverchiava il titolo, quanto per il ballo di massa finale. Leggero, colorato, spensierato, sinonimo di libertà da riconquistare. È l’auspicio per il 2021 che, in modo subliminale, è rimbalzato da quei quattro minuti di musica, parole e danze. Così la campagna per i 100 anni d’innovazione, è diventata, per collocazione e contesto, il vero messaggio positivo ai telespettatori.

Lo spot si presenta con l’immagine di Torino, capitale della ricerca tecnologica da dove parte «una storia italiana», «la storia di un’idea e di chi trovò la strada per farne una realtà. Così da cent’anni un’infinita via fa volare milioni di ciao, di come stai. Se pure noi siamo lontani, ci fa sentire più vicini». Le parole sono l’adattamento del testo di This is me, dal musical The Greatest Showman. Le coreografie che Luca Tommassini ha tratto da altri grandi musical e da Pane, amore e… o Flashdance, le immagini montate con linguaggio contemporaneo dalla regia di Luca Josi, direttore della comunicazione strategica di Tim, e le note della voce di Mina, ci trasmettono quella leggerezza e quell’autostima di cui oggi più che mai abbiamo bisogno.

 

La Verità, 2 gennaio 2021

Gassman e Sansa salvano la serie dagli stereotipi

C’è ancora Roma, con le sue periferie e i suoi paesi satelliti, al centro della nuova serie di Rai 1, Io ti cercherò, otto episodi coprodotti da Rai Fiction con Publispei e Verdiana Bixio, diretti da Gianluca Maria Tavarelli e interpretati da Alessandro Gassman, Maya Sansa, Luigi Fedele e Andrea Sartoretti (lunedì, ore 21,30, share del 20, 7%, 4,8 milioni di telespettatori). La capitale trasmette sempre un certo fascino e continua a svelare scorci inediti, soprattutto nei quartieri. Perciò, perché no? L’originalità non dev’essere l’asso nella manica di Rai Fiction, così, in queste nuove produzioni, si ha una percezione di déjà vu o forse, ancor più, di déjà entendu. Per esempio nella sigla e nell’accompagnamento musicale, efficace ma insistente.

Nella vita di un ex poliziotto (Gassman) ora benzinaio precario, i fantasmi del passato affiorano con il dolore della perdita dell’unico figlio per suicidio. Questa, almeno, è la versione fornita dagli inquirenti e dai medici legali. Dopo una rapida visita nell’abitazione dove il ragazzo risiedeva: «Non era la casa di uno che aveva in mente di uccidersi», al vicequestore ed ex fiamma (Sansa) bastano poche verifiche per scoprire che quella versione fa acqua da tutte le parti e convincere l’ex collega a scavare più a fondo.

Costruito su una buona sceneggiatura che alterna le parti investigative ai passaggi psicologici e sentimentali spesso proposti attraverso dosati flashback, Io ti cercherò si giova anche dell’ottima interpretazione di Sansa e Gassman. Nei misteri nascosti nel passato del protagonista – dall’espulsione dalla polizia al divorzio dalla moglie fino al distacco dal figlio – risiede verosimilmente il segreto della fine violenta del ragazzo. Proprio nel dipanarsi progressivo di queste ombre e del complesso rapporto tra padre e figlio, reso attraverso una lettera-confessione del ragazzo, si esprime il meglio della storia. Che invece tende a sbandare dove affiorano i tratti di una sociologia modaiola. Riesce infatti difficile immaginare come un ventenne che si pagava l’università consegnando pizze a domicilio, che portava i dreadlocks fino alle spalle, che appiccicava adesivi pro legalizzazione della marijuana, che in vacanza al mare, dopo aver visto affondare un barcone, si era fermato con la fidanzata alcuni giorni in un centro di prima accoglienza, in realtà fosse, come lei racconta al padre, «un salutista» che «andava a correre tutti i giorni, mangiava solo sano, niente salumi, niente dolci e sveniva se vedeva una goccia di sangue». Vedremo il seguito, ma già fin d’ora lo stereotipo sembra perfetto.

 

La Verità, 7 ottobre 2020

«Così cambio la Rai al tempo del coronavirus»

Quando è stato decretato il lockdown, il presidente della Rai Marcello Foa si trovava all’estero con la famiglia. Era la notte di sabato 7 marzo. «Sono rientrato subito a Roma, rispettando le norme di sicurezza, mentre i miei familiari sono rimasti lì», racconta dall’ufficio di Viale Mazzini. «È un sacrificio minimo, nulla in confronto a quello che fa chi è in prima linea, negli ospedali e altrove. Da inviato del Giornale, mi è già capitato di stare lontano dalla famiglia per lunghi periodi. Non ho avuto esitazioni a tornare qui per essere vicino a chi lavora. Per incoraggiare i giornalisti che rischiano e aiutare a mettere tutti nelle condizioni di dare il meglio».

Lavora in ufficio o da remoto?

«È importante per tutti quelli che lavorano in Rai vedere i vertici, dal nostro amministratore delegato Fabrizio Salini alla task force creata per questa emergenza, presenti e sempre operativi. La sede è quasi deserta per ragioni di sicurezza, ma noi ci siamo e ci saremo fino alla fine della crisi».

Nella Rai dell’emergenza, Foa, 56 anni, nato a Milano, allievo di Indro Montanelli che lo assunse al Giornale, presidente della tv pubblica dal settembre 2018, tiene insieme la squadra e guarda al dopo epidemia. Un dopo che sarà inevitabilmente diverso anche per il mondo della cultura, dell’informazione e dell’intrattenimento. In questi giorni, però, si parla di Rai per l’iniziativa del regista Pupi Avati che ha chiesto di cambiare i palinsesti e, approfittando della crisi, avviare una fase di crescita culturale programmando film, concerti e biografie dei grandi artisti italiani, molti dei quali sconosciuti alle giovani generazioni.

Avati ha sottolineato che lei ha «apprezzato molto, non solo a parole». Dopo il ritorno delle serate di Alberto Angela sui Rai 1 e la proposta dei Grandi della letteratura di Edoardo Camurri su Rai 3 dobbiamo aspettarci altre novità?

«Una novità è già la decisione di prolungare le serate di Angela per altri due mesi fino a fine maggio. Pupi Avati è una persona deliziosa e di grande sensibilità umana e intellettuale, un maestro del cinema che ha scritto di getto una lettera commovente e visionaria alla Rai. Parlando con lui in privato è emerso un bisogno comune di contenuti che affondano le radici nella storia e nella cultura del nostro Paese. È una vicinanza che non può che farmi piacere. E sono felice di annunciare che intanto Rai 1 dedicherà al grande cinema due serate a settimana: ogni martedì pellicole internazionali e il venerdì la commedia italiana».

Qualche titolo?

«La lista delle opere è in via di definizione. Fra le altre ci sarà Pavarotti di Ron Howard».

Ha ragione Avati quando dice che non c’è sintonia tra i palinsesti televisivi e la realtà quotidiana dei telespettatori?

«Quella di Avati è una giusta provocazione intellettuale. Ma credo che non si possa semplificare troppo. La Rai sta compiendo uno sforzo incredibile, riconosciuto anche all’estero, per modificare i palinsesti nel pieno di un’emergenza con forti ripercussioni sull’attività dell’azienda stessa. Sono sparite intere produzioni. Non è stato più possibile avere pubblico in studio. Gli ospiti partecipano solo dall’esterno. Oggi la sfida principale è assecondare le esigenze del Paese, cercando di mantenere qualità nell’emergenza. La Rai è un colosso di 13.000 dipendenti con un numero notevole di canali televisivi e radiofonici. L’azione di un grande esercito non si modifica schioccando le dita. Più si è grandi e più la flessibilità è complessa. Dobbiamo saper coniugare equilibrio e dinamismo».

In un momento in cui larghi settori delle istituzioni sono paralizzati dalla burocrazia, un’altra sfida può essere mostrare prontezza di riflessi nel cambiamento?

«Facciamo ciò che è possibile con i mezzi a disposizione. Per esempio, assicurando un palinsesto informativo completo e puntuale. La situazione evolve molto velocemente e informare la popolazione spiegando le normative per noi è un compito di assoluta priorità. Altre emittenti europee hanno subìto maggiormente le limitazioni imposte dalle esigenze di sicurezza, finendo per ridurre addirittura l’informazione».

Qualcuno dice che avete fatto poco.

«Parlare a bocce ferme è semplice, agire nell’emergenza lo è meno. Ci rendiamo conto che il Paese, oltre all’informazione, ha bisogno del conforto della cultura, della leggerezza dell’intrattenimento e persino di distrazione. In questo momento stiamo operando con 4500 persone in smart working e con pesanti limitazioni per le troupe da mandare in giro. Abbiamo dovuto chiudere alcuni studi, e anche normali strumenti di produzione sono paralizzati o drasticamente inibiti. Infine, non si possono girare film e fiction».

Motivo in più per attingere al serbatoio delle Teche Rai?

«Che sono un patrimonio enorme e ben gestito da Maria Pia Ammirati, come dimostra il successo di Techetechetè e di altri programmi che vi attingono. Ma sono operazioni che non si possono improvvisare dall’oggi al domani: parliamo di archivi enormi con vincoli derivati da tecnologie analogiche e in formati diversi da quello attualmente in uso».

Lei ha scritto che, per rinnovare i palinsesti, bisogna tenere anche conto delle «diverse sensibilità culturali»: che cosa vuol dire?

«Che c’è una varietà di pubblici di cui tener conto. Questa crisi ha dimostrato che esiste un Paese più ricco e variegato, culturalmente, di quanto fino a ieri ci diceva la maggior parte dei sociologi. Emerge un attaccamento alla famiglia e a valori identitari profondi che un mese fa venivano considerati quasi obsoleti. Per essere specchio di questo mondo, sapendolo accompagnare nella modernità, la Rai dev’essere versatile e polifonica».

A questo dovrebbero servire i canali di cui dispone oltre alle reti generaliste, ma la cui programmazione è poco nota ai telespettatori.

«Questo è un problema reale. Ci vorrebbe più gioco di squadra per dare visibilità anche nelle reti principali alla proposta dei canali tematici. Se l’azienda crede nella sua programmazione deve promuoverla adeguatamente».

È più facile dedicare alla cultura una rete o alcune fasce orarie?

«Premesso che la gestione del palinsesto non rientra nelle competenze del presidente, noi abbiamo già tre canali dedicati alla cultura: Rai 5, Rai storia e Rai scuola. Poi c’è Radio 3. Sono cresciuto alla scuola di Montanelli, imparando che compito di chi comunica è rendere semplice la complessità, e accessibili e godibili conoscenze che si ritenevano destinate alle élites».

Per questo è stato riproposto Ulisse – Il piacere della scoperta?

«La capacità e lo stile divulgativo di Alberto Angela sono un esempio cui rifarsi. Auspico che la Rai del futuro sia in grado di schierare altri conduttori che, come lui, sappiano coinvolgere con umiltà e semplicità un pubblico ampio e variegato, trasmettendo il fascino di contenuti altrimenti appannaggio di pochi. Per arrivare a questo traguardo occorre trovare chiavi culturali, interpreti giusti e un certo coraggio editoriale».

Esattamente ciò che suggerisce Avati.

«È una sfida che raccogliamo. Il servizio pubblico ha la fortuna di una stabilità economica che ci consente di sperimentare. E concordo sulla opportunità di scelte anche visionarie. Tuttavia, non possiamo permetterci il lusso di uscire dal mercato, trascurando completamente gli ascolti. Dobbiamo essere consapevoli che la crisi che stiamo attraversando cambierà il nostro modo di fruire l’arte e la bellezza. E anche il nostro modo di avvicinarci alla musica. In più, a mio avviso, questa situazione sta portando un’altra novità…».

Quale?

«Si sta riducendo la distanza tra le generazioni. Il coronavirus sta avvicinando figli, padri e nonni e ha fatto riscoprire il valore dell’autenticità dei sentimenti. Capiremo più avanti che cosa questo vorrà dire per il futuro».

Proprio per questo non varrebbe la pena di dare un segnale forte, programmando su una rete importante qualcosa di intergenerazionale su cui tutti concorderebbero, tipo I Promessi sposi o qualcosa del genere?

«Sono decisioni che esulano dalle mie competenze. Credo però che la cultura debba essere dinamica, non solo rivolta al passato. Alla fine degli anni Settanta la Rai ripropose Storia di un italiano attraverso i film di Alberto Sordi. Ebbe enorme successo, grazie a un racconto coerente di ciò che eravamo stati modulato sul presente».

Come ritrovare questa capacità di narrazione rappresentativa dello spirito del tempo?

«Oggi molti programmi sono produzioni esterne o parzialmente esterne. Grazie alla sua stabilità economica la Rai deve ritrovare centralità, riproporsi come fucina e palestra di talenti, catalizzatrice di autori, sceneggiatori e produttori, per far esplodere la creatività italiana di cui questa crisi può essere elemento deflagratore. Sarebbe un processo che l’intero mondo della cultura apprezzerebbe».

Oltre a lei, le personalità che si sono mostrate sensibili all’appello di Avati sono state Giordano Bruno Guerri, Renzo Arbore, Ernesto Galli Della Loggia, tutti di area moderata e conservatrice.

«Forse è un’area culturale in sintonia con lo spirito del momento. Vedo in questo fenomeno quasi una rivincita per tutto un mondo al quale appartengo, che ha continuato a produrre libri, arte, musica, teatro negli ultimi decenni senza ottenere la giusta ribalta. È significativo che un mondo che non sempre si espone, in questo caso si sia mostrato pronto. È il segno di un pluralismo e di una ritrovata ricchezza della cultura nazionale».

Come sta rispondendo il personale Rai all’emergenza?

«Lavorando unito, ben oltre le polemiche che spesso vengono dall’esterno. È lo storico orgoglio della Rai, fatto di collaborazione e solidarietà reciproca, di una voglia di fare che attraversa le squadre di tecnici, le redazioni e i gruppi autoriali e che, a volte, va frenata per restare nei parametri delle norme di sicurezza. Ma è uno spirito positivo che appartiene al dna del servizio pubblico, utile ad assecondare il Paese nel momento difficile che sta attraversando».

 

La Verità, 5 aprile 2020

Sì, la musica unisce, ma un po’ anche sdilinquisce

Esperimento riuscito a metà. Difficilmente #musicacheunisce diventerà un format ripetibile. Gli ascolti non sono stati esaltanti, ma non è questo il punto (Rai 1, ore 20,30, share del 14,1%, 3,6 milioni di telespettatori). Il punto è che retorica e sentimentalismo hanno frenato gli entusiasmi. La tragedia è entrata nel midollo del Paese e forse, dopo i primi giorni, la risposta canzonettara comincia a mostrare la corda. Se si vuol evadere dagli approfondimenti pandemici in tutti i sensi, meglio buttarsi direttamente su un film. La via di mezzo, melodia con uso di morale, non convince più. «Il nostro Live aid», esagerazione del direttore di Rai 1 Stefano Coletta, si componeva di mini esibizioni assemblate senza conduttore, se si eccettua la voce fuori campo di Vincenzo Mollica, e di messaggi audiovideo degli ospiti, capo della Protezione civile Angelo Borrelli compreso, registrati nel salotto di casa, spesso con libreria, più o meno esibita sullo sfondo. La parte più riuscita della serata è nel disordine e nell’assemblaggio. Come quando si accostano tante foto tessera, diverse nelle espressioni ma uguali nelle dimensioni, che restituiscono un senso documentaristico e di partecipazione. Qui era trasmesso dai cantanti che, in versione unplugged con chitarra acustica o pianoforte, in camera o nella sala prove, in felpa o maniche di camicia, hanno alimentato un certo voyeurismo domestico. Ce la faremo, hanno ripetuto in coro anche gli sportivi, sostenuti dai messaggi di incoraggiamento di telespettatori qualsiasi e di molti conduttori Rai che scorrevano alla base del teleschermo, alternandosi all’Iban per i versamenti alla Protezione civile. L’eccesso di sentimentalismo e manierismo era però dietro l’angolo, come si è visto nell’esibizione di Paola Cortellesi e Pierfrancesco Favino («mannaggia, che voglia di uscire… non si può»). Compensati dalla freschezza di Francesca Michielin e Fedez, da Andrea Bocelli in versione pianobar, dall’Alleluya interpretata da Ermal Meta, dall’ironia di Enrico Brignano (con l’autocertificazione bisogna «sbrigarsi perché te s’invecchiano in mano»). Tra tutti, però, freschezza per freschezza, la performance migliore è stata quella degli studenti che hanno cantato in versione gospel Helplessly hoping, con lo schermo che si frammentava in dieci, cento tessere di mosaico. Poi, purtroppo, abbiamo visto il soprarighismo default di Tiziano Ferro, il paternalismo cheap di Lewis Hamilton e Naomi Campbell che c’insegnano a lavarci le mani e il sardinismo ruffiano dei balconi di Bella ciao.

 

La Verità, 2 aprile 2020

Ma la vittoria dialettica di Renzi non basta

Innegabile: sul piano dialettico ha vinto Matteo Renzi. Ma anche se in un duello televisivo la dialettica è molto, in verità non è tutto. Ci sono altre componenti, altri messaggi che passano dal video al pubblico. La concretezza, per esempio, la tecnica di chi si lascia aggredire senza perdere la calma. Era noto che l’ex premier e fondatore di Italia viva disponesse di un vocabolario più esteso e di una malizia argomentativa superiore. Se n’è avuta ulteriore conferma nel Porta a porta dell’altra sera, ma c’è un ma… (Rai 1, martedì ore 22,50, share del 25.4%, 3,8 milioni di telespettatori).

Nello studio approntato per l’occasione con un grande desk a mezzaluna e il fermo immagine del vidiwall sui duellanti spadaccini, i due Matteo sfoggiano look quasi identici: giacca bluette e camicia bianca, unica differenza la tinta della cravatta e la spilla della Lega sul bavero di Salvini, come a sottolinearne l’appartenenza. È un indizio minimalissimo, ma c’è. La scherma si sviluppa su un copione prevedibile: secondo i sondaggi Italia viva è al 4-5% dei consensi, inevitabile che il Matteo di palazzo e giochi all’attacco. Il Matteo populista agisce di rimessa, tenta di parare i colpi sul Papeete, sulle assenze ai vertici internazionali e in Parlamento, sulle intemperanze e i cambi di schieramento giovanili, e tenta il contropiede con il linguaggio della concretezza e dei numeri. Renzi cita la riduzione dello spread, l’aumento dell’Iva scongiurato e il governo realizzato pensando al bene dell’Italia nonostante l’alleanza innaturale con il M5s. «Però ci ho sofferto molto», prova a persuadere. «È un genio incompreso», contrattacca Salvini, «ha fatto miracoli, portato la pace nel mondo e la ricrescita dei capelli, ma gli elettori non lo capiscono». Lui invece si specchia sul consenso dell’elettorato cui ammicca anche quella spilla sul bavero: «Io ho il 33% degli italiani, lei il 4», taglia corto Salvini. E quando Renzi gli rinfaccia di essere in politica dal 1993, «ei, Vespa, non aveva ancora fatto Porta a porta», il leader leghista replica, sornione: «Mi votano».

In sintesi, il Matteo di palazzo è più aggressivo e ideologico, il Matteo populista più fattuale e naif, ma anche un po’ monotematico. Attaccato a tutto campo si rifugia sull’immigrazione, suo cavallo di battaglia. E proprio su questo terreno si coglie la differenza tra i due. Renzi annuncia con forza il principio di accoglienza e il rifiuto a lasciar morire i migranti in mare, Salvini replica con i numeri delle morti ridotte grazie alla politica dei porti chiusi. Ideologia e dialettica da una parte, concretezza e semplicità dall’altra.

 

La Verità, 17 ottobre 2019

A Rubio gioverebbe dare un’occhiata a Unomattina

Dare un’occhiata a questo programma farebbe bene anche a Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio. Oddio, arte… il nostro è più noto per le frescacce che spara sui social che per il suo passato da modesto rugbista e il suo presente da presuntissimo chef (che fino a prova contraria vuol dire capo). Dunque, la visione di Con le nostre forze, rubrica settimanale contenuta in Unomattina, sarebbe utile a Rubio per capire quanto poliziotti, carabinieri, agenti della finanza e militari in generale siano preparati, competenti e consapevoli delle loro responsabilità (Rai1, martedì, ore 9,10, share attorno al 20%). Gli elicotteri della Marina militare che sorvegliano i territori sopra l’Etna, per esempio, sembrano un controsenso che, in realtà, non sono, perché appartengono a unità di supporto della Protezione civile nei casi di calamità, eruzioni vulcaniche e soccorso a escursionisti in difficoltà. Che cosa fanno, invece, le imbarcazioni della Guardia di finanza della stazione navale di Civitavecchia? Effettuano controlli nel Tirreno su chi esercita attività in modo illegale, «per tutelare i cittadini e gli imprenditori che lavorano onestamente». E che cosa sono i Rac? Reparti dei carabinieri per la tutela agroalimentare che operano per la prevenzione e la repressione dei reati. Concretamente, vanno nei ristoranti e nelle trattorie a controllare la qualità dei cibi, la conservazione e la correttezza del loro percorso contabile.

In poco più di 6 minuti Roberto Poletti illustra le attività di questi nuclei operativi, accostandosi ai piloti in volo, salendo su lance o partecipando a sopralluoghi a terra, con domande immediate. Che cosa fate? A che cosa servite? Quando ha avuto paura? Una rubrica di servizio, innanzitutto. Ma che offre anche uno spaccato del fattore umano dei membri delle forze armate e militari. Spesso sono ragazzi inferiori ai trent’anni che, prima di effettuare un volo «da solista» su un caccia dell’Aeronautica militare, studiano e provano per otto o nove anni, addestrandosi con i simulatori di volo. «Magari ce ne fosse uno per la vita. Mi sarebbe piaciuto avere un simulatore da genitore, da compagno o da amico», rivela Urbano Floreani, comandante del 4º stormo di Grosseto. «Nella vita si impara dagli errori a non ripeterli. Quando siamo su questi velivoli questo tendiamo a evitarlo, perché siamo coscienti del lavoro che facciamo e perché gli errori possono essere irreparabili». Ditelo a Rubio, prima che gli scappi qualche altro post inopportuno.

La Verità, 9 ottobre 2019

Fazio martire per 3 serate in meno con Max Pezzali

Il martirio è servito. La chiusura anticipata di Che fuori tempo che fa di Fabio Fazio, tre puntate in meno per far spazio alla campagna elettorale e al commento post europee del 26 maggio, ha scatenato l’ondata di vittimismo. Si parla di cancellazione, di taglio, di censura. A sinistra piangono tutti. Piagnucolano gli editorialisti di Repubblica, il segretario del Pd Nicola Zingaretti, il conduttore stesso con la sua compagnia di giro. «La Rai è nella bufera», è il tam tam dei siti specializzati. L’ad Fabrizio Salini, all’oscuro dei fatti come il presidente Marcello Foa, ha chiesto una relazione scritta su tutta la vicenda alla direttrice di Rai 1, Teresa De Santis, e al direttore del coordinamento palinsesti, Marcello Ciannamea. «Su Fazio chiamatela come volete. Io la chiamo censura contro la libertà di espressione», esagera su Twitter Zingaretti inaugurando lo psicodramma.

Domenica, prima di dare il via alla solita parata militante antigovernativa, FF aveva rivolto un avviso a coloro che seguono Che fuori tempo che fa del lunedì, dicendo che quella di ieri notte sarebbe stata l’ultima puntata della stagione perché «ci è stato comunicato che le ultime tre non andranno in onda». In sostituzione, sono previsti due speciali di Bruno Vespa e il 3 giugno, dopo due settimane d’interruzione, considerata l’anomalia e i costi della ripresa per una sola serata, si è previsto il film Triste, solitario y final. Ma dopo i ringraziamenti di rito per l’audience – un modesto 13%, nonostante il traino moltabaniano – pur potendolo fare, il conduttore non ha dato alcuna spiegazione. Il caso doveva deflagrare e così è stato. Lasciato cadere il cerino, ci ha pensato l’aria compressa della campagna elettorale a dare fuoco alla polveriera. L’incendio non sembra essere facilmente domabile. Non conta il fatto che già un anno fa, dopo le politiche del 4 marzo, Che fuori tempo che fa avesse ceduto il palinsesto al Porta a Porta post elezioni. In quell’occasione non ci furono lamentele di sorta, forse perché Matteo Salvini non era ancora potente. Le proteste sono invece salite di tono in tempi recenti, seppure in occasione di appuntamenti minori, quando il talk show di Bruno Vespa ha occupato la seconda serata del lunedì dopo le regionali in Abruzzo, Sardegna e Basilicata, l’11 e il 25 febbraio e il 25 marzo scorsi. Dunque, considerati i numerosi precedenti, la scelta editoriale di Rai 1 era ampiamente prevedibile. Ciò nonostante, a scanso di equivoci, la direzione di rete aveva comunicato con largo anticipo la decisione al vicedirettore per l’infotainment, Rosanna Pastore, che ha la delega sui programmi di FF. Ma non è bastato e si è preferito accendere la miccia.

La strategia della provocazione di Fazio era chiara da tempo. Spingersi fino al limite estremo dell’antagonismo e al primo stop gridare al sopruso e alla censura. Se invece non fosse accaduto nulla, si sarebbe continuato a sparare contro Salvini e soci. Domenica sera, per gradire, c’erano l’immancabile Roberto Saviano, don Mattia Ferrari, vicario di Nonantola (Modena) che si è imbarcato sulla nave «Mare Jonio», il sindacalista Aboubakar Soumahoro reduce dal Salone del libro dove, con Michela Murgia, aveva appena presentato il suo Umanità in rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità e, infine, Carlo Calenda, capogruppo del Pd nel Nordest.

Con tutto questo, però, la chiusura anticipata del programma c’entra poco. Quella del lunedì sera, infatti, è la versione light del format che, oltre alla guida di FF e al prologo di Maurizio Crozza, si avvale della co-conduzione di Max Pezzali e della presenza fissa del Mago Forest, attorno ai quali ruotano attori e attrici, cantanti e starlette, meglio se un tantino vintage per soddisfare i gusti del pubblico di Rai 1. Però, per piagnucolare, stracciarsi le vesti e denunciare l’ingiustizia, tutto può servire. La sovrastima e l’ego dei volti tv sono un cavallo di battaglia dei giornaloni e della sinistra élitaria per la quale, in mancanza di argomenti, la politica coincide sempre più con la comunicazione. Non si discute di tasse, scuola, lavoro e servizi, ma di Facebook, fake news e palinsesti tv. Non a caso la campagna vittimista si era ufficialmente aperta qualche giorno fa a Otto e mezzo, quando Lilli Gruber aveva rinfacciato a Salvini di aggredire e insultare Fazio. Al che il ministro dell’Interno aveva replicato di ritenere «immorale uno stipendio da tre milioni di euro all’anno per fare politica sulla televisione pubblica». Anche ieri, in un’intervista a Radio 24, il vicepremier ha ribadito le critiche al maxistipendio del conduttore. Quanto alla chiusura anticipata del programma, «è una scelta dell’azienda, non entro nel merito. Io non mi occupo di palinsesti televisivi», ha sottolineato Salvini. «Fazio lo vorrei in onda sempre, anche a Natale e Capodanno. Più fa campagna elettorale per la sinistra e più gli italiani aprono gli occhi e votano Lega». Invece, se le cose andranno come deciso dalla direzione di Rai 1, anche lui dovrà farsene una ragione.

 

La Verità, 14 maggio 2019

Dopo Eco aspettiamo un Medioevo più vero

«Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi cui mi accadde di assistere in gioventù, sul finire dell’anno 1327». Si apre sul filo della memoria il racconto de Il nome della rosa, protagonisti il frate francescano Guglielmo da Baskerville (John Turturro) chiamato a indagare nell’abbazia benedettina immersa nelle Alpi, e il novizio Adso da Melk (Damian Hardung), testimone e voce narrante degli intrighi che riempiranno gli otto episodi, divisi in quattro serate per Rai 1 (lunedì, ore 21,30, share del 27.38%, 6,5 milioni di telespettatori). L’epoca della vicenda è quanto di più complicato: il papato ha sede ad Avignone, il conflitto tra potere spirituale della Chiesa e Impero causa continue guerre, l’Inquisizione incombe e gli ordini religiosi sono agitati da contrasti e rivalità. Quando nell’abbazia vengono trovati morti prima frate Adelmo e poi Venanzio, Guglielmo deve anticipare con la sua indagine l’arrivo della delegazione papale guidata da Bernardo Gui (Rupert Everett), capo dell’Inquisizione. L’investigazione nella biblioteca e nei chiostri tra le omertà e gli ostruzionismi dei frati eleva Guglielmo da Baskerville su un piedistallo intellettuale: «Esiste un solo modo per combattere ignoranza e odio: usare la conoscenza per aiutare la razza umana», declama. Peccato che poco prima si era avventurato in un improbabile «cercare le connessioni essenziali dei piccoli affari del mondo». Licenze attribuibili a un eccesso di attualizzazione dell’opera, per il resto ragguardevole per ambientazione, fotografia e cast.

Come già visto in L’amica geniale, con la trasposizione del romanzone di Umberto Eco, la Rai ritrova capacità di pensare in grande. Prima che dalla qualità della confezione, il segnale arriva dalle collaborazioni che presiedono alla produzione, già venduta in tutto il mondo (Bbc compresa): con Rai Fiction, 11 Marzo Film, Palomar e Tele Munchen Group. La regia di Giacomo Battiato e la sceneggiatura di Andrea Porporati, ideatore, Nigel Williams e Turturro oltre che dello stesso Battiato ci regalano l’innegabile piacere del grande e misterioso romanzo storico. Ma, senza nulla togliere alla qualità dell’operazione, dispiace che, in mancanza di narrazioni alternative, si perpetri e si consolidi l’identificazione tra Medioevo e oscurantismo. Quando una serie sui Costruttori di cattedrali o, per esempio, sull’opera di San Benedetto che quel tipo di abbazie e biblioteche creò?

La Verità, 6 marzo 2019