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Dopo Eco aspettiamo un Medioevo più vero

«Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi cui mi accadde di assistere in gioventù, sul finire dell’anno 1327». Si apre sul filo della memoria il racconto de Il nome della rosa, protagonisti il frate francescano Guglielmo da Baskerville (John Turturro) chiamato a indagare nell’abbazia benedettina immersa nelle Alpi, e il novizio Adso da Melk (Damian Hardung), testimone e voce narrante degli intrighi che riempiranno gli otto episodi, divisi in quattro serate per Rai 1 (lunedì, ore 21,30, share del 27.38%, 6,5 milioni di telespettatori). L’epoca della vicenda è quanto di più complicato: il papato ha sede ad Avignone, il conflitto tra potere spirituale della Chiesa e Impero causa continue guerre, l’Inquisizione incombe e gli ordini religiosi sono agitati da contrasti e rivalità. Quando nell’abbazia vengono trovati morti prima frate Adelmo e poi Venanzio, Guglielmo deve anticipare con la sua indagine l’arrivo della delegazione papale guidata da Bernardo Gui (Rupert Everett), capo dell’Inquisizione. L’investigazione nella biblioteca e nei chiostri tra le omertà e gli ostruzionismi dei frati eleva Guglielmo da Baskerville su un piedistallo intellettuale: «Esiste un solo modo per combattere ignoranza e odio: usare la conoscenza per aiutare la razza umana», declama. Peccato che poco prima si era avventurato in un improbabile «cercare le connessioni essenziali dei piccoli affari del mondo». Licenze attribuibili a un eccesso di attualizzazione dell’opera, per il resto ragguardevole per ambientazione, fotografia e cast.

Come già visto in L’amica geniale, con la trasposizione del romanzone di Umberto Eco, la Rai ritrova capacità di pensare in grande. Prima che dalla qualità della confezione, il segnale arriva dalle collaborazioni che presiedono alla produzione, già venduta in tutto il mondo (Bbc compresa): con Rai Fiction, 11 Marzo Film, Palomar e Tele Munchen Group. La regia di Giacomo Battiato e la sceneggiatura di Andrea Porporati, ideatore, Nigel Williams e Turturro oltre che dello stesso Battiato ci regalano l’innegabile piacere del grande e misterioso romanzo storico. Ma, senza nulla togliere alla qualità dell’operazione, dispiace che, in mancanza di narrazioni alternative, si perpetri e si consolidi l’identificazione tra Medioevo e oscurantismo. Quando una serie sui Costruttori di cattedrali o, per esempio, sull’opera di San Benedetto che quel tipo di abbazie e biblioteche creò?

La Verità, 6 marzo 2019

 

 

Il doppio FF e la strategia della provocazione

Ci mancava anche Emmanuel Macron. No, non ce lo potevamo risparmiare. Dopo Enrico Letta, ospite il 27 gennaio scorso di Che tempo che fa e, a quanto sembra, mediatore tra l’Eliseo e Fabio Fazio, dopo Roberto Saviano il 10, Matteo Renzi il 17, di nuovo Saviano e Andrea Camilleri, nell’insolito ruolo di opinionista antigovernativo, il 24 (per tacere dei vari Riccardo Gatti della Ong Open Arms e Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, sempre intervallati dalle lezioni di economia di Carlo Cottarelli), dopo tutti questi ospiti, solo per stare all’ultimo mese, il capo dello Stato francese, fumo nelle pupille dei nostri governanti oltre che di buona parte degli italiani, rappresenta a pieno titolo il vertice della strategia della provocazione di FF. Una strategia pianificata e perseguita lucidamente. Che consiste in questo: spingersi fino al limite estremo dell’opposizione esplicita, frontale, senza se e senza ma. Il supermegacontratto a 2,2 milioni di euro l’anno (più altri 10,6 per la Officina Srl, la società che produce il programma, sua al 50%) blinda il conduttore di Rai 1. Dopo il piccolo segnale di cedimento di qualche settimana fa («sto pensando di espatriare»), nell’ultima puntata FF ha garantito che per altri due anni non si muoverà dalla prima serata della rete ammiraglia. Spontaneamente, s’intende. Il risultato della strategia è binario: o paladino dell’opposizione al governo pentaleghista o martire dello stesso governo: censore, illiberale, antidemocratico. Una strategia da lucido scacchista. L’intervista a Macron, densa ma paludata trattandosi di un dialogo con un capo di Stato, è stata obiettivamente un colpo giornalistico realizzato all’insaputa della direzione di Rai 1. Siccome sarà difficile salire ancora di livello, presumibilmente dobbiamo prepararci ad altri Gino Strada, Michela Murgia, Domenico Lucano, Nicola Zingaretti…

Del resto si sa, come testimoniano il nome e cognome del conduttore più pagato della Rai, Fabio Fazio sono due. Basta cambiare la consonante al centro, dalla morbida b alla tagliente zeta, e il dottor Jekyll vira in Mr Hide. Cioè, come abbiamo avuto modo di constatare negli ultimi tempi, l’anima arboriana e goliardica che intrattiene sul filo dell’ironia e del nonsense con ospiti come Nino Frassica, Orietta Berti e Gigi Marzullo, ha lasciato campo libero all’anima savianesca, stizzosetta e militante che infarcisce le serate di intellò schierati, in rotta di collisione con la maggioranza uscita dalle elezioni di un anno fa.

Ai piani alti di Viale Mazzini abbozzano, per ora.

 

La Verità, 4 marzo 2019

Camilleri militante danneggia Montalbano

A un certo punto l’altra sera sono finito su Che tempo che fa proprio quando Fabio Fazio chiedeva a Andrea Camilleri, in collegamento: «Che cosa la preoccupa oggi?». Risposta: «Non solo l’Italia… Mi preoccupa il mondo. Forse qualche studioso potrebbe dirci perché il mondo sta ruotando a rovescio. Io ho questa impressione, che stiamo tornando indietro. Ancora qualche anno e si rischia di tornare all’età della pietra». Fazio annuiva: «C’è qualcosa che la consola, invece?». «L’uomo. Io ho una fiducia sconfinata nell’uomo… e nella donna, s’intende. Nell’umanità… Io credo che l’umanità riuscirà a uscire bene da qualsiasi situazione. Questa fiducia mi dà fiducia e speranza». Insomma, una rivelazione clamorosa, forse un filo contraddittoria. L’umanità in cui nutre fiducia Camilleri non dev’essere quella che sta spingendo il mondo verso l’età della pietra, ma un’altra. Per capirne di più ho premuto il tasto «rewind» (Rai 1, domenica ore 20,35, share del 14.74%). Dopo il saluto a Gabriella Nobile, presidente dell’associazione Mamme per la pelle, era entrato in scena Roberto Saviano, con una delle sue esortazioni pro migranti che mixavano fatti di cronaca, elogi del sindaco inquisito Domenico Lucano, attacchi al governo, citazioni evangeliche «da non credente». Introdotto Francesco Scianna, protagonista del film di ieri La stagione della caccia, tratto da un romanzo storico di Camilleri, è partito il collegamento con lo scrittore e la promozione è virata in serata militante al miele. Fazio: «Buonasera Camilleri… lei riesce a essere l’unico elemento unificante del nostro Paese (pausa) e la colonna portante della televisione». Allorché, persino Camilleri era stato costretto a indietreggiare: «Lei mi atterrisce, non mi lasci in questa solitudine. Ci sono migliaia di persone come me…». Dopo un paio di aneddoti Fazio gli aveva chiesto di replicare alle critiche all’episodio in cui Montalbano recuperava i migranti. L’altro capo del filo è stato scritto nel 2016: «Allora era possibile accogliere migliaia di migranti… Avevamo più cuore di oggi. Vigata rappresenta Porto Empedocle… che era un porto aperto». Le critiche a L’altro capo del filo erano di stretta natura narrativa. In primo luogo, il Montalbano accogliente aveva nessi posticci con il Montalbano investigatore. In altri termini, la parte politica non c’entrava con la storia e il giallo. Secondariamente, l’irruzione della drammatica attualità toglieva a Vigata la sua inimitabile caratteristica di luogo sospeso nel tempo. Nessun’altra critica. Non sarà che l’umanità che suscita tanta fiducia in Camilleri sia soprattutto quella che lo adora come Fazio?

 

La Verità, 26 febbraio 2019

 

Una Compagnia del cigno senza centro narrativo

Da L’amica geniale a La Compagnia del Cigno il salto è notevole. In basso, purtroppo. Siamo su Rai 1 e dietro c’è sempre Rai Fiction, ma le uguaglianze finiscono qui. La serie diretta da Saverio Costanzo era tratta da un bestseller, quella scritta e diretta da Ivan Cotroneo è nata per la tv. Però, chissà, forse la differenza principale, causa di tutte, è proprio quella che intercorre tra Costanzo e Cotroneo. Se si ha l’ambizione di introdurre nella fiction di Rai 1 linguaggi e formule nuove come il musical e il fantasy catartico, tanto più bisogna essere impeccabili nella narrazione elementare. Là dove, invece, La Compagnia del Cigno evidenzia qualche debolezza, la principale delle quali è la modica quantità di coinvolgimento del telespettatore (lunedì, ore 21.30, share del 24.03% nei primi due di dodici episodi).

Nel conservatorio Giuseppe Verdi di Milano l’esageratamente severo maestro Luca Marioni (Alessio Boni) sta tentando di creare un’orchestra con gli allievi più promettenti. Al gruppo in cerca di affiatamento si aggiunge strada facendo Matteo (Leonardo Mazzarotto), violinista di talento proveniente dalla terremotata Amatrice. Ospite dello zio gay (Alessandro Roja) cui l’hanno affidato il padre e la madre separati (Stefano Dionisi e Giovanna Mezzogiorno), il nuovo arrivato viene aiutato a integrarsi nell’orchestra dalla «compagnia del cigno» (in omaggio a Verdi, il Cigno di Busseto), composta da sei ragazzi scelti dal tenebroso maestro. Intanto s’intrecciano le storie sentimentali di giovani e adulti.

Finalmente ambientata al nord dopo tante storie romane e napoletane, La Compagnia del Cigno ha anche il pregio di indagare il rapporto tra il talento e la necessità di una disciplina che comporta sacrifici per corrispondere alle ambizioni. L’idea di affidare a piccole dosi di musical il racconto degli stati d’animo è congeniale alla narrazione fluida di moda. Tuttavia, a causa del lungo prologo necessario a tratteggiare i profili dei coprotagonisti, finora priva di un centro affettivo, la storia stenta a decollare. Alla coralità dei ragazzi si contrappone il maestro soprannominato «il bastardo», nel tentativo di farne l’antagonista sblocca trama. Con questa serie Cotroneo, navigato autore di programmi (Parla con me, Stasera casa Mika) e di fiction, nonché regista al cinema, esordisce dietro la cinepresa anche in tv, frequentando i temi prediletti come i rapporti omosessuali più o meno metabolizzati (È arrivata la felicità, Una grande famiglia, Io e lei) e l’integrazione del diverso. Temi politicamente corretti, cari alla Rai renziana.

 

La Verità, 9 gennaio 2019

La spontaneità della Clerici non salva «Portobello»

Era comprensibilmente emozionata Antonella Clerici alla prova d’esordio di Portobello, oltre quarant’anni dopo il debutto di Enzo Tortora. L’esame era di quelli particolarmente ostici, considerato il confronto inevitabile con una delle pietre angolari della televisione degli ultimi decenni. Da lì, infatti, dalle varie rubriche di quel programma, nacquero altrettanti spin off: da Carràmba che sorpresa a I cervelloni, da Chi l’ha visto? a Stranamore, solo per citarne alcuni. La Clerici era ben consapevole dell’azzardo in cui si è infilata, tuttavia ha fortissimamente voluto scommettere sull’impresa scegliendo di abbandonare La prova del cuoco per affacciarsi in prima serata, per altro contro il solidissimo Tú sí que vales di Maria De Filippi. Coraggiosa, la Clerici, niente da dire. Il risultato è stato inequivocabile: 28.8% di share per il talent di Canale 5 contro il 20.2 del mercatino tv di Rai 1. In fondo, a ben guardare, si tratta di due programmi nazionalpopolari. Anzi, considerate le provenienze di alcuni dei concorrenti, il primo si può definire internazionalpopolare.

Non era la competizione con la concorrenza, però, a emozionare e motivare il rischio della Clerici. Bensì l’impegnativo paragone con l’illustre antenato: diversi il contesto e il linguaggio televisivo, identici in gran parte si sono rivelati gli altri ingredienti. Il pappagallo innanzitutto, la cui presenza ha suscitato eccessive critiche dagli animalisti. Poi Carlotta Mantovan, moglie di Fabrizio Frizzi, nel ruolo di guida delle telefoniste che fu di Renée Longarini (tra quelle arruolate da Tortora c’erano Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Carmen Russo, Eleonora Brigliadori). Le cabine per i vari inserzionisti, tra i quali spiccavano Carlo Verdone in versione rockettara alla ricerca di rarità discografiche e un meno azzeccato inventore, deciso a raddrizzare la Torre di Pisa. Uguali anche le varie rubriche, a cominciare dal «Dove sei?», con il commovente ricongiungimento tra due fratelli o la ricerca dei salvatori di un gruppo di studenti rimasti imprigionati in una grotta 35 anni fa. La Clerici si è affidata alla spontaneità, smarrimenti compresi, all’interno di un format vintage dai tempi fin troppo rallentati. L’onestà va apprezzata, ma c’è molto da limare, una volta intrapresa questa strada. Tuttavia, dopo la riedizione di Rischiatutto allestita due anni fa da Fabio Fazio, anche questa operazione, a metà fra autocelebrazione e effetto nostalgia, consolida la sensazione che l’innovazione dell’intrattenimento non sia esattamente il punto di forza di questa Rai.

La Verità, 4 ottobre 2018

Fazio, Gruber e le altre sfumature anti gialloblù

Certo, ci mettono del loro e parecchio. Matteo Salvini e Luigi Di Maio, Danilo Toninelli e Rocco Casalino. Ingenuità, inesperienza, smania di apparire, dichiarare, concionare. E poi litigi: non voglio passare per fesso; e io per bugiardo… Sarà giovane età: So’ ragazzi, verrebbe da dire, se la situazione non fosse seria. Però se proviamo a prendere in esame l’ultima settimana di talk show e approfondimenti vari, dobbiamo riconoscere che la televisione è tutta schierata contro il governo gialloblù. Amplificatore delle agenzie di rating e alleata dei commissari europei più brontoloni. Una tv monocolore d’opposizione, un monoscopio antigovernativo, con una sfumatura diversa per ogni canale.

Il caso più clamoroso ed esplicito è quello di Che tempo che fa, Rai 1. Dopo la polemica sul ruolo di Carlo Cottarelli che tutte le domeniche fa le pulci alla manovra e invita gli italiani a fare sacrifici a 6.500 euro a ospitata, Fabio Fazio ha pensato bene d’invitare il sindaco di Riace Domenico Lucano, indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma eroe conclamato del suo socio Roberto Saviano (se ne parlerà in uno dei prossimi Cda Rai). Opposizione frontale.

Su La7 tutte le sere va in onda Otto e mezzo, una newsletter quotidiana nella quale si dice e ridice che i due vicepremier sono inetti, incapaci, maldestri e quanto mai potranno andare ancora avanti, mentre l’Europa, brava e buona, ci rimbrotta bonariamente indicandoci la strada giusta. Dopo aver riciclato Mario Monti come oracolo di Bruxelles (ricordate il mantra: «Ce lo chiede l’Europa»?), ora il nuovo astro è Gianrico Carofiglio, ex magistrato e romanziere con una breve parentesi sui banchi del Pd, convinto assertore dell’alleanza fra M5s e partito democratico. Quanto a Massimo Cacciari, presenza abituale chez Lilli Gruber, la sua apocalisse si dispiega sul governo legastellato come prima aveva fatto con quelli a guida Matteo Renzi, Enrico Letta, Mario Monti, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Amintore Fanfani… Opposizione militante. Restando nella rete diretta da Andrea Salerno, questa settimana per colpire Di Maio e Salvini Piazza pulita e Propaganda live hanno schierato gli stranieri. Nel giorno della lettera di avvertimento sulla manovra della Commissione europea, Corrado Formigli ha sfoderato un’intervista esclusiva al simpatico Pierre Moscovici, mentre, il giorno dopo, Diego Bianchi, in arte Zoro, ha esibito in studio Michael Moore, il regista americano di Fahrenheit 11/9: «Noi in America con Trump abbiamo copiato Berlusconi, ma ora voi, con Salvini e Di Maio, state cercando di battere Trump». Qualche giorno prima, invece, Giovanni Floris aveva consegnato la puntata di DiMartedì a Renzi, convocato non si è capito bene se come senatore semplice di Scandicci, divulgatore televisivo, conferenziere o angelo della morte della sinistra. Inutile dire che stando alla sua versione, in confronto ai vicepremier attuali, Attila è una crocerossina. Il filo rosso di tutti questi «approfondimenti» lo garantisce l’onnipresente direttore dell’Espresso Marco Damilano. Opposizione scapigliata.

Pigiando sul telecomando, anche su Rete 4 non tira vento favorevole all’esecutivo Conte. Stasera Italia mescola di più gli ospiti, dando voce anche agli esponenti della maggioranza e tentando di mantenere uno spirito pluralista (l’ex ministro Pier Carlo Padoan, il presidente Pd Matteo Orfini, il neopentastellato Gianluigi Paragone). Ma alla fine lo scetticismo salottiero di Barbara Palombelli vince su tutto e tutti. Non va meglio nel racconto del Paese reale proposto dalle inchieste di Gerardo Greco in Viva l’Italia. Opposizione pettinata.

Come oasi d’informazione non troppo orientata finora aveva funzionato il notiziario di SkyTg24, abbastanza asettico e professionale e perciò utile a registrare i semplici fatti della giornata. Purtroppo, da quando è comparso l’ircocervo gialloblù, anche la rete all news di Sky ha smarrito imparzialità. Lo si vede dai toni allarmati, dall’insistenza sulle notizie negative – dall’acqua potabile di Matera ai roghi nell’hinterland milanese – dalla scelta dei titoli e delle analisi nella rassegna stampa. L’apice si raggiunge nell’angolo finanziario affidato a Mariangela Pira, capocordata dell’ascesa dello spread. Opposizione gufa.

Esasperati dalla monocromia si cerca riparo sul Nove, il canale dove a sua volta è riparato Maurizio Crozza. Ma anche qui i suoi Fratelli sono tutti tonti e rispondono ai nomi di Luigi Di Maio, Danilo Toninelli, Giovanni Tria. Almeno quella del comico genovese è satira dichiarata e spazia fino a coinvolgere Renzi, Vittorio Feltri, Fedez e Chiara Ferragni. Opposizione globale.

P.s. Nel frattempo le nomine della Rai sono nuovamente slittate. Se confermate, le indiscrezioni secondo le quali si vogliono valorizzare le risorse interne dell’azienda sarebbero un piccolo segnale di cambiamento.

«In Rai la famiglia normale è trasgressiva»

Una serie su una famiglia normale. Su una grande e chiassosa famiglia in cui nonni, figli e nipoti si vogliono bene. Una serie in cui una ragazza che resta incinta decide di tenere il bambino sebbene il rapporto con il padre naufraghi. Una serie senza tonalità arcobaleno e amori omosessuali. Una serie scritta con linguaggio contemporaneo, come si dice; con la chat delle mamme della scuola che si fa gli affari degli altri; con la difficoltà a gestire relazioni complicate, la perdita del lavoro dopo i cinquanta, un figlio affetto dalla sindrome di Asperger, persino con una onlus che lavora per i bambini nati con il labbro leporino. Non sembrerebbe, ma una serie così (media tra il 14 e il 15% di share) esiste, anche se, con l’eccezione dell’Osservatore romano, le grandi firme della stampa l’hanno quasi ignorata. Forse perché Rai 1 l’ha mandata in onda con scarsa promozione tra partite dei mondiali e isole delle tentazioni, nella stagione in cui, di solito, si vedono solo repliche. Lunedì prossimo verrà trasmesso l’epilogo di Tutto può succedere, ultimo episodio della terza stagione, realizzata per Rai Fiction da Cattleya (la stessa di Gomorra). Il regista è Lucio Pellegrini (con Alessandro Casale), autore di film di successo (E allora mambo e Tandem con Luca e Paolo, La vita facile, con Stefano Accorsi e Pierfrancesco Favino), oltre che del Miracolo di Sky (ideata da Niccolò Ammaniti e co-diretta con Francesco Munzi).

La tavolata di «Tutto può succedere», dove le grane dei Ferraro si ricompongono

La tavolata di «Tutto può succedere», dove le grane dei Ferraro si ricompongono

Allora, Pellegrini: ci sarà una quarta stagione di Tutto può succedere?

«No e spiace anche a noi. Ma già all’inizio erano state programmate tre stagioni. La storia si conclude, ma è stata una bella avventura per tutti».

Proviamo a raccontarla: come e da chi è nata l’idea?

«Cattleya ha proposto di fare l’adattamento di Parenthood, la storica serie americana a sua volta tratta dal film diretto da Ron Howard. Nella prima stagione siamo rimasti più aderenti alla storia e abbiamo fatto un casting molto preciso degli attori. Poi abbiamo scelto strade più autonome, cercando di mantenere una certa fedeltà alle caratteristiche di freschezza e di verità dell’originale».

Com’è stato il rapporto con la Rai?

«Molto buono. Tinni Andreatta, responsabile della fiction, era entusiasta del progetto. L’obiettivo era rinnovare il genere family, importantissimo per la Rai fin dai tempi della Famiglia Benvenuti. Qualche problema c’è stato all’inizio e quest’anno per la programmazione. Ma sono scelte che dipendono da logiche di palinsesto».

In che senso?

«La Rai ha voluto controprogrammare i mondiali di calcio. Non il massimo».

È passata come una replica.

«Lo so. Era pronta da poco, forse poteva partire un mese prima. Su Raiplay la settimana precedente alla messa in onda ha avuto 2,5 milioni di visualizzazioni».

Pubblico di giovani?

«Penso di sì, anche se non abbiamo la composizione del target. Quello della visione in tv aveva un livello d’istruzione più alto e più giovane della media di Rai 1».

Altre serie più politicamente corrette, come Romanzo famigliare, hanno avuto collocazioni più strategiche.

«Anche quelle tradizionali, però, come Don Matteo, occupano il centro della stagione. Da quando È arrivata la felicità è stata interrotta causa bassi ascolti si è pensato che il genere family non tirasse più. E ci si è concentrati sul giallo o sul noir».

Com’è nato il titolo?

«Da un confronto interno a Cattleya. Non c’era una parola italiana che traducesse il titolo americano. Alla fine questo è piaciuto a tutti».

In Siamo soli Vasco Rossi canta: «Tutto può succedere; ora qui, siamo soli, siamo soli». Invece, mentre nella vostra sigla i Negramaro cantano: «Finché sei qui, tutto può succedere», si vede la tavolata della famiglia: una risposta al nichilismo?

«La canzone è stata scritta da Giuliano Sangiorgi. Il qui è quella tavolata, ma anche un luogo personale, intimo. In questi anni il pranzo di famiglia l’abbiamo visto spesso al cinema e in tv. Abbiamo provato a ripensarlo. La tavolata è il luogo del caos sentimentale organizzato. Ho messo l’operatore in mezzo alla scena perché volevo che il telespettatore si sedesse anche lui a quel tavolo».

Esistono famiglie con quattro fratelli che si confrontano e consigliano?

«Penso di sì. Magari è un gradino sopra le righe, perché si tratta di un film di finzione. Però abbiamo cercato di elaborare la realtà. Anche in famiglie più piccole si vivono queste dinamiche».

La famiglia è il luogo della resilienza, dove si trasformano le esperienze di sofferenza in qualcosa di positivo?

«Può essere questo. Quando il clan si ritrova tutto si ricompone, riacquista una forma e una profondità che prima sembrava non avere. Basta uno scambio, una goliardia, un po’ di calore. Poi per sopravvivere e ripartire, ognuno rielabora i fatti con la propria sensibilità e secondo la propria età».

Tra i quattro fratelli lei sembra simpatizzare per il personaggio di Alessandro Tiberi.

«Tanti simpatizzano per Carlo, l’adulto bambino del gruppo. Tiberi è un attore talentuoso. Ma tutti lo sono, Maya Sansa, Pietro Sermonti… Ogni personaggio ha qualcosa che mi piace».

La definizione dei tipi umani è il suo marchio di fabbrica?

«Lo spero. Mi piace creare con gli attori i profili e i temperamenti. Sul set si è creato un bel amalgama tra gli attori più esperti e i ragazzi esordienti come Roberto Nocchi, Benedetta Porcaroli, la stessa Matilda De Angelis, che al tempo della prima serie aveva girato solo Veloce come il vento, che però non era ancora uscito».

Chi ha scritto i dialoghi?

«Abbiamo avuto molti bravi sceneggiatori, da Michele Pellegrini che non è mio parente, a Federica Pontremoli a Filippo Gravino».

C’è una scena a cui è più affezionato?

«Ci siamo commossi girando quella in cui Giorgio Colangeli dice a Maya Sansa, che ha appena combinato uno dei suoi casini con un uomo, di essere orgogliosa anche dei suoi errori».

Altra cosa: non è una serie politicamente corretta. Non ci sono amori omosessuali e dibattiti sulle unioni civili.

«Nella prima stagione abbiamo sfiorato questo tema, ma senza la preoccupazione di apparire al passo con i tempi. Il confronto con la diversità è comunque presente con Massimiliano, il figlio di Alessandro e Cristina, un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, molto difficile da gestire in casa, interpretato benissimo da Roberto Nocchi, un ragazzo normalissimo».

Anche il razzismo e l’integrazione sono presenti nella famiglia di Carlo, compagno di una ragazza di colore. Il loro figlio è vittima di bullismo a scuola, ma il modo di raccontarlo non è retorico.

«Il fatto di non essere politicamente corretti forse ci costa un po’ di pubblico, ma fin dall’inizio non abbiamo mai voluto fare la lezioncina. Tutti noi viviamo queste situazioni e le affrontiamo giorno per giorno senza bisogno di salire in cattedra».

La fiction Rai in genere è molto politicamente corretta?

«È mamma Rai: c’è tutto e il contrario di tutto. Ma c’è margine di discussione».

Da 1 a 10 quanto si riconosce in questa serie?

«Sicuramente molto, non so dare una cifra. Adesso ho intrapreso nuove strade».

Appunto: nel Miracolo quanto si riconosce?

«Mi è molto piaciuto affrontare nuove tonalità visive e nuove situazioni di genere. Grazie a Niccolò Ammaniti, che è un amico, ho potuto contribuire a un progetto molto impegnativo e gratificante, di cui siamo orgogliosi anche per il riscontro che sta avendo all’estero».

Vita e pensiero, la rivista dell’Università cattolica, ha scritto che è più una serie mistery che di fede: concorda?

«Sì, è un racconto che ha grande rispetto per il sacro. Ma è una serie di genere, che cerca di esplorare in chiave mistery un fatto umanamente inspiegabile. Più che indagare se quel fatto sia vero o no, la storia riguarda le conseguenze di quel fatto su alcune persone».

Lucetta Scaraffia ha scritto che chi resta colpito non prega la Madonna, ma il mistero che la statuetta evoca.

«È così. Abbiamo lavorato su quale impatto può avere in una realtà profana un evento inspiegabile».

Il fatto che i protagonisti siano eccentrici, persone nelle quali è difficile riconoscersi, è un punto debole?

«Qui non c’è la ricerca dell’identificazione, ma una provocazione a mettersi in quella situazione: che cosa faresti tu? Lo spettatore può anche sentirsi superiore ai protagonisti e ipotizzare di agire diversamente da loro. Favoriamo un distacco critico usando diversi registri narrativi, dal mistery al grottesco, dall’horror al noir».

State già lavorando alla seconda stagione?

«Non è ancora deciso se e quando si farà. Sky vorrebbe farla, vedremo in che tempi».

La sua è un’estate di lavoro?

«Di vacanza e scrittura. Dopo qualche anno ho deciso di prendermi un po’ di tempo per decidere bene cosa fare in futuro».

 

La Verità, 1 agosto 2018

 

In «Tutto può succedere» una famiglia italiana

C’è una serie trasmessa un po’ in sordina da Rai 1 sulla quale val la pena soffermarsi per tre buone ragioni. La prima è che, salvo qualche show estivo-balneare, si tratta dell’unico prodotto non in replica messo in campo in queste settimane da Rai 1. La seconda è che, come documentano gli ascolti, è una valida alternativa al palinsesto unico dei Mondiali di calcio. L’ultima, e forse più importante ragione, è che rappresenta un’eccezione alla narrazione proposta dagli autori più gettonati (Una grande famiglia, Romanzo famigliare), secondo i quali la famiglia italiana è sempre più politicamente corretta. La serie s’intitola Tutto può succedere, è giunta alla terza stagione sebbene già dopo la prima se ne ventilava la chiusura, è prodotta da Cattleya ed è diretta da Lucio Pellegrini e Alessandro Casale (lunedì, ore 21.30, share sopra il 15%).

Protagonisti della storia sono i Ferraro, esuberante clan che vive alle porte di Roma. L’incursione dei ladri nella casa patriarcale dove vivono i nonni Ettore (Giorgio Colangeli) ed Emma (Licia Maglietta), dove sono cresciuti i quattro figli e tuttora ci si ritrova per grandi tavolate, ha minato la serenità di Emma che persegue di nascosto il progetto di cambiare casa. A scoprirlo è il figlio minore Carlo (Alessandro Tiberi) che, coalizzandosi con la sorella Sara (Maya Sansa), organizza l’opposizione. Il primogenito Alessandro (Pietro Sermonti), invece, lui così abituato ad «aggiustare le persone», è distratto dalla responsabilità dell’azienda che ha preso in mano su richiesta del fidanzato della figlia rimasto orfano, e finisce per trascurare la moglie Cristina (Camilla Filippi). Anche il matrimonio tra la secondogenita Giulia (Ana Caterina Morariu) e Luca (Fabio Ghidoni) è in pericolo… Infine ci sono i nipoti Ambra (Matilda De Angelis), Federica (Benedetta Porcaroli), Denis (Tobia De Angelis) e Max (Roberto Nocchi) che cercano di trovare ognuno la propria strada tra i primi amori e le prime intuizioni su cosa fare da grandi. Se le onde dei sentimenti e della quotidianità mettono sull’altalena i cuori e le giornate di tutti, alla fine c’è sempre quella tavolata capace di metabolizzare gli avvenimenti.

Ispirata all’americana Parenthood, Tutto può succedere non avrà l’ambizione di rivoluzionare il linguaggio della serialità moderna né, per una volta, l’obiettivo di anticipare la famiglia al tempo del gender, ma di sicuro ha il merito di fotografare con grazia lo spirito della famiglia italiana contemporanea, con le sue caotiche e fantasiose risorse di schiettezza e umanità.

La Verità, 27 giugno 2018

Come la Rai ha sprecato il gioiello di Pupi Avati

Non si sa se sia la sciatteria, la mentalità da routinier o l’incomprensione bella e buona la causa che ha prodotto lo spreco di un piccolo gioiello come rarissimi se ne trovano nel bailamme delle nostre televisioni intrise di reality, barzellette e indovinelli, soprattutto d’estate. Qualche giorno fa Rai 1 ha trasmesso senza preavviso Il fulgore di Dony, film per la tv sceneggiato e diretto da Pupi Avati, e interpretato da Greta Zuccheri Montanari, Alessandro Haber, Lunetta Savino, Giulio Scarpati e Ambra Angiolini. È la storia di due ragazzi tra i quali si accende la scintilla di qualcosa che nemmeno loro sanno definire e che però li distingue l’uno all’altra. A separarli, sembra irreversibilmente, provvede un incidente sugli sci che relega lui in un mondo a parte, infantile, bisognoso di tutto. Soprattutto di lei, Dony, la ragazzina incrociata casualmente qualche tempo prima e che ora è l’unica in grado di mantenere e vivificare un rapporto misterioso perché lo ama contro tutto e tutti. Contro i genitori, che non si capacitano e la esortano a troncare. Contro il buonsenso, perché da un sentimento così non potrà mai trarre soddisfazione e gratificazione. Contro le esigenze dell’età, perché i tempi della scuola e della formazione sono lì a dettare le priorità. Non resta che ricorrere allo psicologo per trarla dalla stranezza. Tentativo vano: l’amore, la gratuità, l’innocenza non arretrano nella loro apparente follia. Anzi…

Insomma, una storia singolare, tanto introvabile da sembrare una favola; una storia, ha notato sul Sole 24 ore Pietrangelo Buttafuoco, di cui «solo in un punto di vista inaudito si può cogliere il senso». Una storia collocata «tra i residui del palinsesto», nella serata del Grande Fratello per capirci, e trasmessa evidentemente solo per deferenza verso il maestro del cinema. Per la Rai nulla di nuovo: è l’ennesimo esempio di un’occasione mancata, la possibilità di aprire uno squarcio sui nostri ragazzi, ostaggi di social e visualizzazioni, in un momento in cui l’educazione degli adolescenti è tra le prime emergenze nazionali. Non a caso persone come Alessandro D’Avenia, Susanna Tamaro, Antonio Polito, Franco Nembrini e Claudio Risé si dedicano principalmente a questo. Nel servizio pubblico della televisione non se ne sono accorti. Il fulgore di Dony doveva essere il primo di una serie di episodi dedicati alle beatitudini

Non era né sciatteria, né incomprensione, ma astuzia omologata. Avete visto? Noi siamo pluralisti, diamo spazio anche a un regista moderato come Avati, ma gli ascolti non l’hanno premiato.

La Verità, 7 giugno 2018

I messaggi trasversali di Fazio e De Filippi

Qualche osservazione sull’ospitata di Maria De Filippi chez Fabio Fazio a Che tempo che fa (domenica sera Rai 1, share del 16.7%, 4.3 milioni di spettatori). La sera prima, sabato 7 aprile, su Canale 5 la puntata d’esordio di un’edizione molto rinnovata di Amici, per la prima volta in diretta, è stata superata da Ballando con le stelle di Rai 1.

Digressione. La sensazione è che il programma di Milly Carlucci sia più mirato sul target di riferimento del sabato. L’altra sera hanno ballato insieme Al Bano e Romina, l’ex miss sfregiata Gessica Notaro ha colto l’occasione per spiegare il suo temperamento indomito, i ballerini gay hanno convinto persino Ivan Zazzaroni, Selvaggia Lucarelli non si è risparmiata come al solito.

Gioco di squadra. Com’è noto Rai 1 è la stessa rete dove va in onda il programma di Fabio Fazio e dove Filippa Lagerback ha presentato Maria De Filippi come «la regina del sabato sera delle reti Mediaset». L’invito a Maria è stato deciso da tempo e siccome si tratta di persona che raramente si lascia intervistare, ancor meno in televisione, era giusto cogliere l’opportunità. Ancor più raro è, però, che i suoi programmi siano superati dalla concorrenza. Un accenno di gioco di squadra in favore della rete nella quale si lavora non avrebbe guastato. Sarebbe risultato poco elegante porle una domanda sulla gara con Milly Carlucci? Anche i temi più spinosi possono essere affrontati con garbo.

Tv d’autore. Con filmati e immagini di repertorio, l’intervista è risultata una beatificazione. Fazio ha persino citato come esempio di tv autoriale il reality Temptation island.

Postura delle colleghe. Per contro, De Filippi si è tolta qualche sassolino nei confronti della sua azienda. D’estate, ha ammesso, guarda le tv straniere perché la programmazione Mediaset è poco interessante. Poi ha parlato delle posture di alcune sue colleghe che si siedono in punta di poltrona, con le gambe spinte in avanti, la schiena inarcata e il collo proteso verso l’alto. Non era difficile riconoscere la posizione di Barbara D’Urso durante le sue interviste a Domenica Live.

Rivelazioni. In mezzo ai tanti messaggi trasversali, da una parte e dall’altra, il cui senso è siamo professionisti e i nostri editori dovrebbero stare più attenti, c’è stata anche qualche rivelazione. Dopo la bomba esplosa in via Fauro il 14 maggio 1993 mentre passava l’auto con a bordo Maurizio Costanzo e la stessa De Filippi, Maria non sale più in macchina con lui. L’ha promesso a suo padre.

La Verità, 10 aprile 2018