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«La cacciata di Foa? Tutto inizia dalla riforma Renzi»

Carlo Freccero non è particolarmente sorpreso dalla cancellazione di Giù la maschera, la striscia quotidiana su Radio 1 ideata e condotta dall’ex presidente della Rai, Marcello Foa. L’ex direttore di Rai 2, personalità vulcanica che non si fa problemi ad andare controcorrente, propone un ragionamento più articolato che non si limita al livello della dirigenza di Viale Mazzini e alla sua insipienza. «Non mi stupisce che uno dei pochi veri giornalisti in circolazione, Marcello Foa, sia stato cancellato con il suo staff di eccellenza dai palinsesti radiofonici della Rai della prossima stagione».

Non la stupisce perché il programma è stato cancellato per volere della politica?

«Il nuovo direttore di Radio 1, Nicola Rao, persegue una sua linea editoriale che suppongo non tanto dettata da politiche culturali, quanto da esigenze propagandistiche».

Marcello Foa è un ex giornalista del Giornale, un autore di saggi sul controllo dell’informazione, che si può iscrivere al mondo conservatore come la dirigenza della Rai di oggi: non c’è contraddizione nel chiudergli il programma?

«Questa è una lettura superficiale. Da sempre Foa ha fatto della controinformazione il suo terreno d’indagine».

Quindi, lei non è sorpreso.

«No. Perché Foa è rilevante in quanto non allineato e impegnato a smontare la propaganda del potere. Quindi, indipendentemente dalla sua attribuzione a una parte politica, rappresenta il contrario di quella propaganda che ha oramai colonizzato i media mainstream espellendo informazione, pluralismo, cultura».

La chiusura del suo programma è più causata dalla cappa del pensiero unico che dall’irritazione di qualche politico del governo?

«Oggi pensare, riflettere, denunciare è diventato sinonimo di complottismo. E, al di là di ogni schieramento ideologico, rivendicare libertà di espressione viene percepito a livello sociale come una forma di vera e propria insubordinazione all’ordine costituito».

D’accordo. Tuttavia, resta il fatto che ai vertici di questa Rai c’è una dirigenza di destra. Foa ha detto che, se poteva aspettarsi l’estromissione da una Rai di sinistra, certo non se l’aspettava da questa governance.
«Lo capisco. Ma oggi non esistono governi di destra o di sinistra. Esistono governi. E nell’attuale congiuntura politica i governi hanno il compito di attuare agende che non scrivono loro».

E chi le scrive?

«Gli organismi internazionali come l’Unione europea, il World economic forum, l’Organizzazione mondiale della sanità, la Nato, piuttosto che la sigla ultima arrivata, la sedicente coalizione dei volenterosi».
Ma i governi dei diversi Paesi hanno programmi elettorali diversi e rispondono a elettorati diversi.

«I rapporti di forza, soprattutto a livello internazionale, sono altri. Il riallineamento alle agende degli organismi sovranazionali avviene indipendentemente dal messaggio sostenuto in campagna elettorale. Anzi, necessariamente, in contrasto con esso. Che sia di destra o di sinistra questo messaggio va adattato alle necessità di eseguire ordini “dall’alto”. E questo non può che generare frustrazione in quell’elettorato che ha delegato il proprio incaricato a cambiare le cose, a recuperare indipendenza di giudizio, a ricreare un margine di democrazia almeno apparente».
Caro Freccero, a questo punto scatta l’accusa di complottismo.

«Ma quale complottismo… basta guardarsi intorno. Una volta giunti al governo questi delegati del popolo, trasformati in presidenti del consiglio, hanno un unico obiettivo: durare. Quindi non hanno alcun interesse a difendere un’ideologia, che sia di destra o di sinistra. Perché, qualora venisse rievocata, non farebbe che sottolineare lo scostamento dalla linea politica sostenuta in campagna elettorale».
E i media non devono disturbare, è questa la sua tesi?
«Nei confronti dei media i governi non cercano di imporre una linea editoriale, quanto una propaganda autoreferenziale. Non chiedono cultura, ma obbedienza. Non premiano il merito e le eccellenze, anche all’interno della loro area culturale, quanto la difesa dell’operato governativo indipendente da tutto».

Rai compresa? È da qui che deriva la soppressione del programma di Foa?
«Davanti all’ennesimo episodio di attacco al pluralismo Rai come la cancellazione di Giù la maschera non posso che ripetere come un mantra la convinzione che ripeto a partire dal 2015. La causa di tutto risiede nella riforma voluta da Matteo Renzi che ha affidato le nomine Rai direttamente al governo. Si badi bene: non alla politica, al governo».
In questo caso il governo ha soppresso il programma di un giornalista della sua area.

«Gliel’ho già spiegato. I governi oggi rispondono ad automatismi internazionali che hanno abbandonato la contrapposizione destra/sinistra. Se mai attuano la volontà di poteri forti contro il popolo».
Siamo sempre a élite contro popolo?

«Esatto. Le scelte non riguardano più il capitale culturale, ma l’efficienza aziendale e l’obbedienza a decisioni editoriali prese altrove».

Un quadro tragico, senza via d’uscita?

«Al momento non ne vedo».

 

La Verità, 1 settembre 2025

 

Con Lo stato delle cose Giletti gioca d’anticipo

Porte girevoli in televisione. Per un Amadeus che se ne va lamentando l’assenza di affetto di matrigna Rai c’è un Massimo Giletti che vi fa ritorno sottolineando di averla sempre considerata «casa mia», e questo vabbè. Più significativo un altro accenno: «Adesso dietro la telecamera 2 c’è un signore che si chiama Anthony (inquadratura), ma quando feci il mio primo programma, dietro quella telecamera c’era suo padre. Questa è la bellezza di tornare in Rai». Il nuovo inizio di Giletti nella tv pubblica, dopo la parentesi a La7 e i primi approcci con alcuni speciali, è nel lunedì sera di Rai 3, non la domenica contro Fabio Fazio né il martedì, già saturo di talk show. E forse non è solo una scelta di ripiego perché, piazzato a inizio settimana, può costringere la concorrenza ad agire di rimessa.
Anche il titolo, Lo stato delle cose, nasconde l’ambizione di fornire notizie e nozioni affinché il pubblico si faccia la propria opinione. Un’ambizione che sfiora l’equidistanza e l’«oggettività» (virgolette obbligatorie), proposte attraverso faccia a faccia con gli ospiti e confronti fra posizioni diverse (lunedì, ore 21,25, share del 5,4%, 840.000 telespettatori). L’incipit è affidato all’intervista a Matteo Renzi sul futuro dell’alleanza di centrosinistra. Sarà campo largo o campo santo? E come risponde a Giuseppe Conte che l’ha definito una tigre di carta, come Mao Tse Tung descrisse gli avversari della rivoluzione? Giletti ha il pregio di porre le domande che porrebbe ai politici la gente comune. E un altro pregio ha mostrato, l’altra sera, interrompendo il dialogo con il senatore di Rignano per non perdere di vista l’attualità e aggiornare sulla situazione al confine con il Libano con l’inviato Daniele Piervincenzi. Vivace anche lo scambio fra il generale Roberto Vannacci e l’«attivista» Francesca Pascale, esageratamente aggressiva con l’eurodeputato («Non si deve permettere questi sorrisini…»; «Io sorrido quanto mi pare»): entrambi molto ipotetici fondatori di nuovi partiti. Quando è entrato in studio Michael Cohen, grande accusatore di Donald Trump nel caso dell’ex pornostar Stormy Daniels, ci si è chiesti se Giletti si stia spostando a sinistra. Per ora, ricordando che siamo comunque su Rai 3, non sembra che il suo approfondimento sia un’altra fumeria d’oppio o l’ennesima palestra antigovernativa. Vedremo.

Post scriptum Lunedì sera, dopo un accenno di ripresa nel fine settimana, sul Nove Chissà chi è di Amadues è riprecipitato al 2,8% (590.000 spettatori). Il motivo? Forse l’edizione straordinaria del Tg1 dedicata alle notizie provenienti dal Medio Oriente. Forse.

 

La Verità, 2 ottobre 2024

«Più combattiamo la Russia, più le somigliamo»

Marco Travaglio, difendi Povia e attacchi Matteo Renzi, cosa ti è successo?
«Sono sempre lo stesso. Renzi, vabbè… Riguardo a Povia, non capisco perché uno non possa cantare se è no-vax. Io ho fatto tutti i vaccini, anche se sono contrario agli obblighi perché il dogma dell’Immacolata Vaccinazione non mi risulta. In ogni caso, esiste anche il diritto di dire fesserie. Se inviti Povia e poi lo cacci perché ha idee diverse dalle tue, è censura bella e buona».
Che cosa non ti convince di Elly Schlein che abbraccia Renzi e del suo ritorno alla Festa dell’Unità?
«Non partecipando alla vita politica, non me ne importa nulla. Da osservatore, constato che chiunque si è fidato di Renzi è rimasto fregato. Calenda si è definito l’ultimo pirla ad averlo fatto. Ma in Italia i pirla sono sempre penultimi».
Pd e Italia viva si sono accordati anche in Liguria, il campo largo è spianato?
«Mai capito cosa sia. Le alleanze si devono fare tra forze politiche che hanno qualcosa in comune. Se uno vuole battere la destra non si allea con uno che vota quasi sempre e governa spesso con la destra. Sennò tanto vale prendersi direttamente la Meloni, che ha più voti».
Il sindaco di Nichelino che ha stracciato il contratto di Povia ha detto che non è per una questione politica.
«Invece, è “la” questione politica. I princìpi e i diritti si difendono anzitutto per chi non la pensa come te».
Cosa pensi dell’arresto dell’ad di Telegram, Pavel Durov?
«Ne so poco. Magari scopriremo che è il nuovo Barbablù e che l’arresto è legittimo. Al momento non vedo perché arrestare il padrone di Telegram e non anche Mark Zuckerberg e gli altri boss dei social, che fanno tutti più o meno le stesse cose».
Rivelando di aver censurato contenuti sgraditi all’amministrazione Biden, l’ad di Meta ha messo le mani avanti o si è riposizionato in vista del 5 novembre?
«Non saprei. Ma eticamente, rispetto a Durov, è molto più grave quel che ha fatto Zuckerberg censurando notizie. Con quale credibilità nominerà i famosi garanti contro le fake news visto che ne è un produttore industriale?».
Sorpreso che i grandi giornali italiani hanno glissato sull’argomento?
«Mi sarei stupito del contrario. Per loro la libertà di stampa e di social è tifare per i salotti buoni e democratici».
Il commissario Ue Thierry Breton ha inviato una lettera di avvertimento a Elon Musk colpevole di intervistare Donald Trump.
«Se avesse intervistato Kamala Harris riservandole un po’ della bava che le riserva la grande stampa internazionale, avrebbe avuto una lettera di encomio. Se non sbaglio, nelle democrazie occidentali l’unico leader escluso dai social è stato Trump».
Il caso Durov, Zuckerberg, la lettera a Musk, l’allarme di Gentiloni e i freni al free speech in Inghilterra evidenziano un problema di democrazia nell’Occidente democratico?
«Più combattiamo la Russia e più le assomigliamo».
Però la democrazia la esportiamo.
«E ora in casa scarseggia. In realtà, spesso esportiamo terrorismo, vedi Iraq, Afghanistan, Libia e Gaza». 
La situazione è seria o grave?
«Molto grave: siamo sull’orlo di una guerra mondiale e facciamo finta di niente».
Altro spin off dalla Francia: dopo aver trafficato con le desistenze per neutralizzare Marine Le Pen ora Macron rifiuta l’incarico a Lucie Castets, candidata del Nfp che ha vinto le elezioni?
«Sembra risorto Giorgio Napolitano».
In che senso?
«L’idea che, se uno vince le elezioni, dev’essere neutralizzato con giochi di palazzo è di Napolitano. Nel 2011, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, escluse le urne per timore che vincessero i 5Stelle e apparecchiò l’inciucione con Mario Monti. Poi, nel 2013, i 5Stelle vinsero lo stesso e fece l’ammucchiata dei perdenti con Enrico Letta: Pd, Forza Italia e montiani. Rimasero fuori M5S, Lega e Fratelli d’Italia: i tre partiti che poi stravinsero le elezioni del 2018, 2019 e 2022. Credo che la stessa cosa succederà a Macron, che sta preparando l’Eliseo per Jean-Luc Mélenchon o per Marine Le Pen. Un altro genio».
Parliamo di cose serie: hai preso una cotta estiva per Giorgia Meloni?
«Ho raccontato mille volte che l’ho conosciuta 15 anni fa in treno quand’era ministro della Gioventù del governo Berlusconi. La trovai simpatica, anche se non condivido quasi nessuna delle sue idee, e rimanemmo in contatto. Non era difficile capire che era l’unico personaggio in ascesa del centrodestra e sarebbe arrivata dov’è ora. Quindi non capisco lo stupore per aver scritto che è una tipa sveglia e dunque mi stupivano le cavolate che diceva su complotti ai suoi danni».
Ha sciolto la riserva sull’invito alla Festa del Fatto quotidiano?
«Sì, non riesce a venire per altri impegni. Ma avremo comunque un rappresentante del governo».
Quanto questo governo è indigesto all’establishment?
«Poco o nulla perché con l’establishment internazionale e nazionale si è messo d’accordo, anche con eccessi di zelo che nascono proprio dal fatto che la Meloni è vista come un’intrusa».
Involuto come ragionamento.
«Per accreditarsi ha dovuto dare prove d’amore esagerate. Infatti, ogni volta che accenna a deragliare dalla retta via – voto sulla Von der Leyen, mancata ratifica del Mes, annuncio della tassa sugli extraprofitti bancari, critiche di Crosetto all’incursione ucraina in Russia – i salotti buoni le ricordano che è lì in prova».
Non votare per la Von der Leyen è stato un segno di discontinuità?
«Certo. Me ne aspettavo ben altri, da una come lei. Oltre al fardello del neo e postfascismo, la destra meloniana aveva tre pregi: era legalitaria, sociale e multilaterale in politica estera. Tutti sacrificati sull’altare del “primum vivere”».
Dall’Europa ci chiedono di allinearci sulla legge del conflitto d’interessi, come se a Bruxelles non ne avessero.
«In Italia conflitti d’interessi li hanno tutti o quasi: ecco perché la legge non l’ha fatta nessuno. Il Consiglio d’Europa ci chiede ancora di provvedere. Dopodiché l’Ue ne è piena. Da quello folcloristico della presidente del Parlamento, Roberta Metsola, che nomina il cognato di gabinetto – un “euro-Lollobrigida” che però non fa scandalo – a quelli ben più seri sui contratti della Von der Leyen per i vaccini, fino alle multinazionali delle armi che pilotano la politica bellicistica dell’Ue».
Il trattamento livoroso che riservano al governo i grandi quotidiani e i talk di La7 dove sei di casa dicono che la vittoria della destra non è ancora stata metabolizzata?
«La stessa cosa accadde quando vinsero i 5Stelle. C’è un establishment politico-mediatico che ritiene valide le elezioni solo se le vince il Pd. I 5Stelle, da Conte alla Raggi, furono trattati anche peggio della Meloni. Io sono contrario al suo governo non perché è di destra, ma per le cose che fa e non fa».
Norme per la natalità, taglio del cuneo fiscale e abolizione del Rdc non vanno bene?
«Ovviamente sono favorevole alle politiche per la natalità, che non è né di destra né di sinistra. Il taglio del cuneo fiscale è un’eredità dei governi precedenti. Mentre sono nettamente contrario all’abolizione del Rdc».
Gli indicatori economici sono positivi.
«Ma uno dei miei primi titoli sul governo fu “Buona la prima”, per il carcere duro ai boss. Non vedo l’ora di titolare “Buona la seconda” e la terza, ma non ne ho avuto l’occasione. I giornalisti non devono avere pregiudizi: solo post-giudizi».
L’ostilità del sistema mediatico è un sogno prodotto dal vittimismo delle Meloni sisters?
«Vedo una buona dose di vittimismo, ma soprattutto una sindrome di accerchiamento».
Ore di trasmissioni, paginate d’inchieste sul fascismo incombente e su TeleMeloni sono giustificate?
«Per me tutte le inchieste, se dicono la verità,  sono giustificate. E in tv tra Rai e Mediaset stravince il partito pro-governo. Altra cosa è quanto sia produttivo per l’opposizione insistere sul ritorno del fascismo. La gente non ci crede e chi vuole un’alternativa farebbe bene a combattere il governo sulle cose che fa, non sul ritorno di Mussolini. Che, malgrado siano riapparsi un sacco di fascisti, fa ridere i polli».
Alessandro Sallusti si è sognato tutto o, viste certe accuse ad Arianna Meloni di tirare le fila di nani e burattini, l’ipotesi di un’indagine della magistratura ha qualche plausibilità?
«Tutte le indagini che non esistono hanno la stessa plausibilità. Se poi verrà fuori qualcosa, valuteremo gli elementi. Sallusti è un ex cronista giudiziario e dovrebbe sapere cos’è il traffico di influenze: non fare le nomine, ma prendere soldi per segnalare qualcuno».
Che cosa pensi della variabile fratelli Berlusconi nella politica italiana?
«Il conflitto d’interessi berlusconiano è sopravvissuto al Cavaliere. Il fatto che la famiglia resti l’azionista di maggioranza di Forza Italia e che Mediaset abbia una bella quota del sistema tv sono due fattori in grado di condizionare il centrodestra e quindi il governo».
Hanno modificato il posizionamento di Forza Italia?
«Vedo che si agitano molto, anche dipingendo il padre come un paladino dei diritti civili. Ma il decreto per lasciare attaccata alle macchine Eluana Englaro, la legge contro la procreazione assistita e i Family day, al netto dei bunga bunga, chi li ha fatti?».
Salvo i bunga bunga, idee condivisibili.
«Eh, ma allora non mi dipingano Berlusconi come un precursore di Marco Cappato».
I grandi quotidiani intervistano a giorni alterni Renzi e Tajani perché tifano per l’ammucchiata progressista?
«Giocano a Risiko con la politica. Adesso vogliono far eleggere Kamala Harris, come se gli italiani votassero in America. E in Italia, sognano che Tajani, spinto dai Berlusconi, molli la Meloni e vada col Pd. E accreditano Renzi per spostare al centro la coalizione, facendo fuori i 5Stelle e la sinistra. Vediamo se gli elettori ci cascano».
Beppe Grillo sta invecchiando male?
«Temo di sì. E mi dispiace perché è un genio che, sia come artista che in politica, ha fatto cose inimmaginabili. Però gli manca la capacità di accompagnare la maturazione della sua creatura con la magnanimità e la generosità del padre nobile. Dovrebbe imparare da Prodi e da Bersani».
Qualche quiz finale da palla di vetro: Pier Silvio scenderà in campo?
«Penso che gli sia più comodo controllare il partito da fuori».
Francesca Pascale si candiderà nel Pd?
«Ne abbiamo viste tante, potremmo vedere anche questa».
Veltroni diventerà direttore del Corriere della Sera?
«Bisognerebbe essere nella testa di Urbano Cairo e nel fegato degli altri pretendenti, per saperlo».
Renzi continuerà a fare politica?
«Ma non si era ritirato nel 2016?».

 

La Verit, 31 agosto 2024

«Sinistra progressista? No, difende lo status quo»

Dopo aver scelto di starsene defilato e di calmare l’astinenza dalla politica con qualche video omeopatico inviato ai destinatari della sua newsletter, ora Claudio Velardi è tornato in prima linea per dirigere Il Riformista. Un marchio che è anche il biglietto da visita dell’ex Lothar dalemiano che, da tempo, ha scelto posizioni più moderate.
Che cosa ti ha fatto abbandonare la tranquillità del buen retiro?
«La crisi evidente nella quale si è trovato Il Riformista dopo l’abbandono di Matteo Renzi e quello successivo del direttore Alessandro Barbano. Quando l’editore Alfredo Romeo, che insieme a me lo fondò nel 2002, mi ha chiamato al suo capezzale non potevo che accettare. Come sappiamo, fare un giornale è la cosa più bella del mondo. Ti svegli la mattina e pensi: oggi come e a chi posso rompere le scatole?».
Ottima definizione del giornalismo. Perché ti senti sollevato a non essere francese e non dover votare domani?
«Perché mi sembra un voto pesantemente condizionato da visioni estreme della politica che oggi non condivido. Nell’età matura tendo a vedere le sfumature, non appartengo ad alcuna tifoseria e cerco soluzioni di buon senso».
Per venire al dilemma francese?
«Soluzioni di buon senso in Francia non ne vedo perché Emmanuel Macron ha scelto di radicalizzare lo scontro. Forse non poteva fare diversamente, ma la forzatura di queste elezioni anticipate non giova a far maturare l’opinione pubblica nella maniera giusta. Perciò, mi sentirei in grande difficoltà: trovo che la polarizzazione che si sta producendo in Francia e altrove sia una caricatura infantile del bipolarismo».
In che senso?
«Sono i bambini che non sanno andare al di là del sì o del no perché non conoscono le sfumature e la complessità. Da adulti non possiamo ridurre lo scontro delle idee a “o di qua o di là”».
Domenica scorsa avresti votato per Renaissance di Macron?
«Sì, sebbene veda i limiti di questo centrismo elitario. Il problema di Macron, e di tanti moderati non solo in Francia, è di pensare di essere il sale della terra».
La parola più gettonata da quando c’è lui è «pedagogia».
«Un’altra espressione che si è un po’ persa era “le spinte gentili”. Capisco che, davanti a scelte difficili, bisogna un po’ accompagnare per mano le persone, ma senza fare i maestrini. Perché in quel caso la gente si ribella».
Macron chiede di votare France insoumise di Jean Luc Mélenchon per impedire che vinca il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella. Condivide?
«Non sono Macron, ma capisco che voglia garantirsi una gestione meno conflittuale possibile e quindi lavori perché non ci sia una maggioranza Le Pen, ma una situazione d’incertezza politica».
Questo gioverebbe al Paese?
«Nel sistema francese forse questo è il modo per cercare governabilità. Quanto giovi non lo so. Da un punto di vista più globale, quando scoppiano delle bolle e si manifestano eruttazioni sociali è bene che si misurino con il governo. Era il mio pensiero persino quando sono esplosi i 5 stelle, quanto di più lontano da me. È inutile creare barriere e trincee».
Anche se fermando i «barbari» si salva la democrazia?
«Sono motivazioni sbagliate. Se i “barbari” sono cresciuti, evidentemente la democrazia non ha dato risposte adeguate».
Democrazia è anche scegliere Rn?
«Certo che sì. La democrazia dev’essere in grado di assorbire le spinte antisistema. Altrimenti lo è solo quando i cittadini votano i buoni? Se la democrazia è in grado di assorbire la spinta antisistema deve contemplare la possibilità che governi. Anche perché quando queste forze si cimentano con le compatibilità di governo entrano di più nel gioco del sistema».
Anche la sinistra italiana, come quella radicale francese, coccola l’antisemitismo delle proteste giovanili e dei pride che respingono gli omosessuali ebrei.
«Nella sinistra italiana il fenomeno ha radici meno solide, è legato a mode politiche. Le organizzazioni che coinvolgono militanti Pro-Pal non sono del tutto consapevoli che portano dritti diritti all’antisemitismo».
Come spieghi che, invece, in Gran Bretagna dopo 14 anni di governo dei Tory hanno vinto i laburisti?
«Quando la sinistra riformista parla al centro dell’elettorato moderato, affronta i problemi dello sviluppo, non fa demagogia e non si rifugia nelle ideologie, vince».
Da noi si pensa di riprodurre il Fronte popolare. Cos’hai pensato vedendo la foto di Elly Schlein, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni e Giuseppe Conte sul palco di Bologna?
«Ho pietosamente sorriso. Che cosa vuoi fare, vedendo che tra il radicale Magi e il democristiano Conte, c’era il comunista Maurizio Acerbo che saluta la folla a pugno chiuso, se non sorridere pietosamente?».
Anche pensando ai precedenti?
«Che sono illuminanti. Con le grandi ammucchiate si può vincere alle urne, ma il giorno dopo si straperde al governo. È già successo e succederebbe ancora».
Perché anche in Italia, come in Francia, le classi deboli si spostano a destra?
«Malgrado il racconto che fa di sé stessa, la sinistra è la forza che nell’ultimo secolo ha vinto. Nel senso che ha contribuito a realizzare nei paesi occidentali una serie di conquiste sociali sul fronte del lavoro, dell’assistenza sanitaria, delle pensioni e dei diritti civili…».
Ahimè.
«Ma l’esito di questa vittoria è che oggi difende la società esistente. Tutti coloro che ne sono esclusi, le sacche di emarginazione sociale, i nuovi poveri, gli immigrati delle periferie, i lavoratori non protetti e i rider, vanno a destra. Mentre i garantiti, dai professionisti ai docenti universitari fino ai pensionati, stanno a sinistra proprio perché difende gli equilibri attuali. C’è stata un’eterogenesi dei fini, un rovesciamento lessicale: oggi la sinistra difende lo status quo».
È un rovesciamento che subisce o capisce?
«Secondo me, fa finta di non capirlo. Concretamente, non potendo tutelare sia il pensionato che il rider, la sinistra sta con il pensionato perché gli interessi di quest’ultimo convergono su grande scala con i suoi».
Per questo alza lo sbarramento alle politiche di governo, tipo il premierato e l’autonomia differenziata?
«Si oppone a qualsiasi cosa mini lo status quo, compresa la riforma delle istituzioni che, in alcuni momenti di apertura e di espansione dopo vittorie elettorali, ha pensato di promuovere».
Vedi il programma di Achille Occhetto del 1994 e la proposta di Matteo Renzi.
«Oppure la bicamerale di Massimo D’Alema. Cioè, i rari momenti in cui la sinistra non si arrocca su posizioni conservatrici dell’esistente».
Adesso ci si prepara al referendum sull’autonomia differenziata. Sembra che i limiti riscontrati finora debbano bloccare qualsiasi iniziativa propulsiva.
«Penso che il referendum sia sbagliato perché non farebbe altro che accrescere la divisione culturale tra Nord e Sud, che è il fatto che più mi preoccupa. Inevitabilmente, la campagna sarebbe tra Nord produttivo e Sud assistito. Non farebbe bene a nessuno, soprattutto al Sud che, invece, secondo me deve far sentire il suo orgoglio, accettando la sfida dell’autonomia, rifiutando di essere etichettato come la parte del Paese che dipende dai fondi pubblici e non sa nemmeno utilizzarli bene. Questa sfida si raccoglie solo se si fa crescere una nuova classe dirigente che prende in mano la bandiera del Mezzogiorno per farlo crescere in autonomia».
Fuori dalle aule parlamentari, la strategia principale della sinistra è la delegittimazione dell’avversario, vedi l’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale?
«La delegittimazione è l’involucro valoriale di questa strategia conservatrice. Quando chiami il tuo elettorato su posizioni conservatrici devi vestirle con un apparato simbolico molto forte. E cosa c’è di più forte del richiamo alla resistenza e all’antifascismo, i cosiddetti valori fondanti della Repubblica? Questa è l’operazione. Il conservatorismo strutturale e sociale di sinistra ha questa veste valoriale per far risultare nobile e imprescindibile la campagna intrapresa».
Per questo si susseguono gli
allarmi al fascismo e le abiure di Giorgia Meloni non bastano mai?
«Certo. Nel momento in cui si dicesse che la Meloni ha finalmente chiarito, crollerebbe il castello di carte e la sinistra si ritroverebbe a volto scoperto con il suo conservatorismo sociale e istituzionale».
Una sinistra che si propone come anti destra e boccia premierato, autonomia, persino il ponte sullo stretto, può definirsi progressista?
«È il contrario del progressismo che, per definizione, riguarda il cambiamento. Quando non vuoi nessun cambiamento non hai niente a che fare con il progressismo».
In conclusione, la sinistra sa perdere o, come la nostra Nazionale, anziché ammettere la sconfitta e ripartire da un bagno di umiltà, ripete che non si può lasciare campo libero alle destre come se il governo le spettasse per diritto divino?
«È la presunzione di considerarsi superiori agli altri sul piano dei principi e dei valori. O dici che perdi perché non sai giocare a calcio, oppure devi cercare altre ragioni. Se c’è sempre qualche nemico esterno che attenta alle ragioni del Bene puoi evitare la necessità di un ricalcolo e di fare i conti con i tuoi errori. E, anche se perdi, puoi raccontare al tuo popolo che la ragione è dalla tua parte».
Torniamo a Bertolt Brecht: «Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo bisogna nominare un nuovo popolo»?
«Certo, le sindromi sono sempre le stesse».
Per finire, considerando lo stato di salute di Macron in Francia e di Renzi e Calenda in Italia, qual è la diagnosi sul riformismo europeo?
«Non vive tempi buoni perché nello statuto del riformismo c’è il cambiamento. Mentre ora viviamo un momento di “dissonanza evolutiva”, come viene chiamata».
Ovvero?
«La grande trasformazione tecnologica in atto ci sopravanza. Gli esseri umani non stanno al passo del cambiamento che loro stessi hanno prodotto. Questo genera resistenze conservatrici sia a destra che a sinistra. Perciò, il riformismo, che invece è cambiamento, è obiettivamente minoritario. Se, poi, agisce per via tecnocratica o pedagogica, diventa ancor più minoritario. La vera scommessa è far diventare il riformismo popolare ed empatico».
In Italia l’impresa è nelle mani di Luigi Marattin ed Enrico Costa che hanno promosso un’iniziativa per scalzare i vecchi leader del Terzo polo.
«Il problema è enorme e si esprime a livello internazionale. C’è bisogno di personalità che sappiano tracciare un sentiero. Stiamo a vedere se saranno loro due le figure giuste per iniziare a farlo».

 

La Verità, 6 luglio 2024

«Vedo troppo draghismo, non solo sulla guerra»

Troppa continuità con l’agenda Draghi e troppa cedevolezza verso l’establishment europeo. Ma soprattutto: troppo allineamento all’America sulla guerra in Ucraina. Così, Gianni Alemanno, già ministro nei governi Berlusconi e sindaco di Roma, ha animato pochi giorni fa a Orvieto la convention del Forum dell’indipendenza italiana alla quale hanno partecipato il filosofo Diego Fusaro, il giurista Ugo Mattei e il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi.

Gianni Alemanno, come si sta giù dal carro del vincitore?

«Non è una situazione comoda, ma si sta bene con la propria coscienza e la propria storia».

Qual è stata la goccia che l’ha fatta scendere?

«La posizione del governo sulla guerra in Ucraina. Ho provato all’inizio del conflitto a collaborare con la Fondazione An per portare in Italia profughi ucraini… Ma poi, con la propaganda di guerra montante non ce l’ho più fatta».

Ritiene che il governo sia troppo allineato alle posizioni dell’Unione europea e degli Stati Uniti?

«Sì, perché questa guerra è contraria al nostro interesse nazionale. In realtà, è contraria anche all’interesse di tutta l’Europa. L’Italia dovrebbe avere un’influenza di pace. Se riuscisse a esprimere un punto di vista diverso potrebbe mobilitare certe sensibilità della Francia e della Germania ponendo le premesse per una posizione critica dell’Europa che conta».

La storia insegna che i discostamenti dall’Alleanza atlantica vanno dosati e spesso si pagano.

«Nessuno chiede che l’Italia esca dalla Nato, ma che richiami il suo scopo di alleanza difensiva e non ne assecondi la tentazione di essere il poliziotto del mondo. Anche a Berlusconi si fece questo ricatto per costringerlo a intervenire in Libia, eppure un anno dopo fu deposto con un colpo di Stato finanziario partito da Bruxelles».

Come valuta l’accoglienza della Casa Bianca a Giorgia Meloni?

«Non dobbiamo confondere l’orientamento dell’amministrazione Biden con gli interessi permanenti del popolo americano, il quale contesta certe scelte dell’agenda globale come possiamo fare noi. In altre parole, se fosse stato presidente Donald Trump la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Detto ciò, è ovvio che il premier italiano debba tenere buoni rapporti con il presidente americano. Poi bisogna capire quanto ci costa perché, ribadisco, la guerra in Ucraina ha effetti devastanti per l’Italia».

Come giudica l’iter per le rate del Pnrr?

«Positivamente. Il ministro Raffaele Fitto e il governo sono riusciti a raddrizzare la barca che sia Giuseppe Conte che Mario Draghi avevano messo su una rotta sbagliata».

Cosa pensa della sospensione e revisione del reddito di cittadinanza?

«Il reddito di cittadinanza era una misura sbagliata, questo non si discute. Ma non andava abrogato dall’oggi al domani, senza costruire un’alternativa credibile».

Era una riforma annunciata da tempo.

«I contratti hanno una durata di 18 mesi. Mi sarei aspettato che non se ne stipulassero di nuovi ma che fossero portati a termine quelli in itinere. È stato un errore sospenderli ad agosto, un mese di tregua nel rapporto tra cittadino e Stato. In ogni caso, bisogna sostituire il reddito con lavori socialmente utili».

Per esempio?

«C’è enorme bisogno di lavori sul territorio, per contrastare il dissesto idrogeologico e per manutenere le città. Ci sono aree del Paese e fasce anagrafiche in cui, anche con i migliori centri dell’impiego e i migliori percorsi formativi, che per altro non ci sono, il lavoro non si trova».

I percettori di Rdc accetteranno questi lavori?

«Se rifiutassero sarebbe giusto sospendere il sussidio. Ma bisogna verificare che questo accada e non sopprimerlo in base a un processo alle intenzioni».

I manifestanti di Napoli scandivano «Meloni a testa in giù, senza reddito mai più», ma La Verità ha rivelato la presenza in Campania di molti lavoratori in nero anche percettori di Rdc.

«Per questo bisogna collegarlo ai lavori socialmente utili che impediscono di fare lavoro nero».

La riduzione del cuneo fiscale e la detassazione per chi assume sono la strada giusta?

«Certamente, il governo Meloni sta facendo anche cose giuste. Il vero problema non è tanto la disoccupazione quanto il lavoro povero, una battaglia da non lasciare alla sinistra».

La quale continua a soffiare sul fuoco della «bomba sociale»: è il nuovo allarme dopo quello sul clima?

«Le opposizioni devono essere responsabili e non strumentalizzare i problemi. Però c’è una differenza fondamentale fra la costruzione dell’emergenza climatica voluta dalle multinazionali che puntano sulla transizione green e certi fatti di disperazione molto reali. Il Centro dell’impiego dove siamo andati era chiuso e sul cancello c’era una fotocopia con su scritto: “Noi del reddito di cittadinanza non sappiamo nulla”. Un comportamento da Terzo mondo».

La pandemia, la guerra e il cambiamento climatico favoriscono l’affermarsi di enti come l’Organizzazione mondiale della sanità o l’Organizzazione mondiale della meteorologia: come contrastare la globalizzazione?

«È la globalizzazione a determinare le politiche emergenziali. Fortissimi interessi economici hanno condizionato le scelte politiche di questi anni, cominciando dalla pandemia. È fondamentale recuperare una sovranità nazionale che è anche sovranità popolare, perché è l’unico scudo per difenderci da questi interessi e dagli organismi internazionali a essi soggiogati. Pensiamo all’Oms sempre più in mano a Bill Gates».

Si crede che siccome sono sovranazionali questi organismi siano indipendenti?

«Dall’esperienza come ministro ho tratto la convinzione che più i poteri sono distanti dai popoli e dai territori, più sono infiltrabili dagli interessi privati».

Si procede da un’emergenza all’altra?

«Il governo delle emergenze crea continue fobie nelle persone e cerca di condizionarle nei comportamenti e nei consumi».

Adesso c’è la nuova malattia dell’ecoansia.

«Invece di contrastare il cambiamento climatico facendo la manutenzione del territorio, ci obbligano a comprare le auto elettriche per accontentare le multinazionali. Vale il vecchio detto inglese «follow the money”: segui il denaro e capirai gli interessi in gioco».

Giorgia Meloni punta a durare, perciò cerca legittimazione dall’establishment italiano ed europeo?

«Ogni governo cerca di durare. Meloni pensa che si possa avere più aiuto facendo i primi della classe in Occidente e nell’Ue. L’esperienza dell’ultimo governo Berlusconi ci dimostra che non è così. Henry Kissinger dice che “essere nemici degli Stati Uniti è pericoloso, essere amici è fatale”».

Governare avendo contro lo Stato profondo, la magistratura, il Quirinale, le agenzie di rating, le burocrazie europee è difficile o impossibile?

«È difficilissimo. Mi rendo conto delle enormi difficoltà che Giorgia Meloni deve affrontare, ma il problema, citando Carl Schmitt, è capire qual è “il nemico principale” per evitare di fare contemporaneamente guerra a tutto e a tutti. Penso che il primo nodo da sciogliere sia il vincolo esterno imposto dall’Unione europea e dagli Stati Uniti. Sono convinto che percorrendo coerentemente questa strada, con tutta la prudenza del caso, si troverebbero alleanze insospettabili e si spiazzerebbero molti dei nostri cosiddetti nemici interni».

La Rai e le grandi aziende partecipate restano sostanzialmente in mano al Pd?

«Non generalizziamo. In Rai mi sembra si stia tentando un cambiamento serio».

Nel governo c’è un problema di statura di alcuni ministri inclini ad allinearsi alle politiche precedenti o c’è proprio un errore di prospettiva?

«Secondo me si sta continuando troppo sull’agenda Draghi. Le discontinuità per adesso sono settoriali, non strategiche. È normale che in ogni governo ci siano ministri rivelazione e altri deludenti. Pensiamo a quanto è stato deludente il cosiddetto governo dei migliori».

Come vede l’avvicinamento di Renzi alla maggioranza?

«È la dimostrazione che la linea politica di fondo è sbagliata».

Non preferirà un governo a guida Pd e 5 stelle o del Presidente?

«Mai. Ho sempre detto che questo governo è in ogni caso preferibile a quelli imposti dall’alto. Le nostre critiche sono dure, ma sempre fatte con spirito costruttivo».

Qual è l’agenda del Forum dell’indipendenza italiana?

«Dalla nostra convention abbiamo lanciato il Manifesto di Orvieto sul quale raccoglieremo le adesioni per vedere se ci sono i numeri per costituire un movimento politico. Se il riscontro sarà positivo, a ottobre fonderemo questo movimento e vedremo come e quando affrontare le prove elettorali. Intanto continueremo a fare da pungolo al governo, nella speranza di vedere cambiamenti sostanziali che accoglieremmo con grande entusiasmo».

Di che cosa vi accontentereste?

«Il problema di fondo è la coerenza per costruire una vera indipendenza che è l’unico modo di servire l’interesse nazionale. Nei documenti allegati al manifesto ci sono 14 proposte, a partire dalla guerra in Ucraina. Vedremo come si comporterà il governo su questi punti».

Vera indipendenza significa Italexit?

«Non ho fatto mistero di averla votata alle ultime elezioni. Poi però sono rimasto deluso dal settarismo con cui viene gestita. Inoltre, il nome è sbagliato perché Italexit sembra chiedere un’uscita immediata dall’Ue che, messa così, sarebbe una scelta velleitaria».

Destra sociale ed estrema sinistra si alleano, complice il pacifismo e l’antiamericanismo?

«No. La prospettiva è diversa: ci sono problemi reali, trasversali ai vecchi schieramenti politici. Bisogna affrontare questi problemi con un approccio non ideologico, evitando di asserragliarsi nella destra della destra e cercando di parlare a tutti gli italiani».

Pensate davvero di potervi ritagliare una fetta del 10% dei consensi?

«Da questo bacino potenziale alla realtà c’è una bella differenza. Tuttavia, c’è un’onda di persone che chiede il cambiamento. Prima hanno votato Berlusconi e la sua rivoluzione liberale, poi Renzi quando faceva il Rottamatore, poi il M5s, la Lega e adesso Fratelli d’Italia. Se non vedranno il cambiamento, queste persone cercheranno altri sbocchi politici. E lì troveranno noi».

Ma anche voi troverete l’establishment?

«Ho fatto il ministro di due governi Berlusconi e conosco gli ostacoli, ma ne ho tratto due insegnamenti. Primo: bisogna prepararsi molto bene con una classe dirigente adeguata. Secondo: la via del compromesso è solo un modo per autodistruggersi».

 

La Verità, 5 agosto 2023

«Il linguaggio dimostra che Meloni è laureata dentro»

Saggista, docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, autore di studi sulla comunicazione dei maggiori leader politici (dopo il Renziario, il Salvinario e il Berlusconario, ecco il Melonario, sempre da Castelvecchi editore), Massimo Arcangeli è in prima linea contro le storture prodotte dal politicamente corretto nell’uso della lingua. Sarà forse per la petizione contro lo schwa scritta con lo storico Angelo D’Orsi e firmata da tanti intellettuali autorevoli, o perché collabora anche con testate non mainstream, fatto sta che la voce di Wikipedia che lo riguarda è sempre lacunosa e non registra le sue ultime iniziative pubbliche.

In questi giorni uscirà il dizionario del linguaggio parlato, scritto e postato di Giorgia Meloni realizzato con più ricercatori. Definirebbe il premier attuale erede o successore di Silvio Berlusconi?

«Se posso permettermi, né erede né successore perché tra loro esistono distanze rilevanti se non, per alcuni versi, abissali».

Lui era un imprenditore visionario, lei una militante da sempre.

«Meloni è stata fedele fino all’ultimo alla destra sociale, con una storia consolidata di opposizione. Berlusconi è stato un grande imprenditore e l’inventore della tv commerciale. Retroterra che non collimano. Ricordo situazioni in cui Meloni si espresse in modo critico su Maurizio Costanzo o Maria De Filippi. Poi c’è una distanza geografica, Meloni è espressione del mondo romano e Berlusconi di quello milanese. Con tutto quello che questo comporta nella cultura politica».

Elementi convergenti?

«Ci sono e coinvolgono anche Umberto Bossi. Mi riferisco al populismo come elemento positivo di base. Non nell’accezione deteriore che vediamo incarnata, per esempio, dai 5 stelle».

Berlusconi sapeva e Meloni sa interpretare le istanze popolari?

«Hanno la capacità di interpretare i bisogni della gente comune e di parlare alla pancia del Paese. È quella percezione nazionalpopolare della politica che la sinistra non ha saputo fare propria diventando radical chic e fallendo gran parte dei suoi obiettivi».

Vede elementi comuni nel linguaggio?

«Innanzitutto, la personalizzazione della leadership. Più nel caso di Berlusconi ma anche parlando Meloni, il punto di riferimento del partito e della coalizione sono loro. Nella Seconda repubblica ci hanno provato a esserlo anche Matteo Renzi, danneggiato dal suo superego, e Matteo Salvini, con gli esiti che abbiamo visto. La seconda componente comune è la spettacolarizzazione della politica. Anche se Meloni non è una donna di spettacolo, lo sa usare. E sa usare bene i social che, nell’epoca della promocrazia, è molto importante».

Della promocrazia?

«Della politica basata sull’autopromozione, sul marketing. Berlusconi era un simpatico imbonitore, lo dico in positivo. Meloni compete sui vari media. Entrambi sanno che nella politica 2.0 i media che interagiscono tra loro hanno un effetto moltiplicato».

Lei è più multitasking di lui?

«Pur non essendo nemmeno lei nativa digitale».

Entrambi politici pop?

«Se dovessimo redigere un vocabolario delle nuove parole o dei tormentoni inventati da politici nell’ultimo ventennio il primato spetterebbe a loro. Con “cribbio”, “mi consenta” e “l’Italia è il Paese che amo” abbiamo tutto Berlusconi. Per rappresentare Meloni citerei l’avverbio “sommessamente”, che usa spesso e in varie sfumature, oppure il neologismo “nomadare”, in riferimento all’azione dei nomadi, i rom, entrato nella Treccani».

C’è molta differenza dal linguaggio della Prima repubblica?

«Come per Berlusconi che aveva un linguaggio doubleface, sia famigliare che volgare, dalla “patonza” al gesto delle corna, espressioni che tutti abbiamo, anche Meloni alterna il romanesco ai tecnicismi anglosassoni, per esempio in materia economica. Questa è una differenza, ma ci sono anche affinità con la Prima repubblica».

Quali?

«Ho ascoltato centinaia di discorsi a braccio di Giorgia Meloni verificandone la capacità di tenere il filo del discorso. Ecco: lei sa controllare l’esposizione per un tempo molto più lungo degli altri politici contemporanei. Per trovarne qualcuno con la stessa capacità bisogna risalire a Bettino Craxi, Enrico Berlinguer o Aldo Moro. Inoltre, ho trovato una memorizzazione formidabile dei contenuti. Pur parlando a braccio, riesce a riproporli con le stesse parole usate diversi anni prima, fatti salvi i cambiamenti del contesto».

Questo ne accentua la percezione di coerenza e lealtà?

«La lealtà è un elemento fondamentale del suo discorso, al punto che si sono individuate espressioni tratte dalla cultura cavalleresca che, per qualcuno, erano di derivazione fascista. In realtà, sono eredità della cultura risorgimentale e, andando più indietro, dell’immaginario letterario e cinematografico di Tolkien e del fantasy che Meloni ha fatto proprie».

Cosa pensa del ricorso all’inflessione romanesca vuol dire questo?

«È un vezzo».

Da correggere in un ruolo istituzionale?

«Avrebbe potuto fare dei corsi di dizione, se non l’ha fatto è perché il romanesco le è caro. Da premier mi pare vi ricorra di meno».

Cosa significa, come scrive, che è «laureata dentro»?

«Che non ha bisogno di avere una laurea per dimostrare di saper scrivere e parlare bene. È sufficientemente colta, ha le sue letture evidenziabili, parla inglese e spagnolo in modo più che accettabile. Anche Renzi e Berlusconi parlano bene. Lei parla e argomenta meglio. Ha anche capacità di accelerare e decelerare efficacemente i ritmi del discorso».

Il linguaggio deriva dalla vita concreta e lei ha fatto tanti mestieri, dalla barman alla baby sitter, perché il padre non c’era e la madre aveva perso il lavoro… Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco a dire che ha una storia di sinistra?

«Paradossalmente sì, una storia di sinistra vissuta sul versante opposto».

«Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana»: questo linguaggio è vincente rispetto alla comunicazione della sinistra abituata ai continui distinguo millimetrici?

«Se dicessi che sono uomo, sono padre, sono cristiano criticherebbero pure me. Siccome c’è la moltiplicazione dei generi, dobbiamo stare attenti a declinare la nostra identità. Ma mi sembra un problema falso e intellettualoide. Nessuno deve temere di dire chi è, purché rispetti l’identità altrui. Il politicamente corretto vorrebbe che il neutro si imponesse anche in questo. Io non voglio assistere all’affermarsi della tirannia del neutro».

Parlando di leaderizzazione e storytelling, due anni dopo Io sono Giorgia sta per pubblicare un nuovo libro: non sarà troppo?

«Ha capito che deve mantenere un contatto forte con i suoi lettori, follower e potenziali elettori. Se fossi in lei farei un libro l’anno».

Appartenevano a questa filosofia anche «Gli appunti di Giorgia»?.

«Quell’idea nacque in occasione della scelta dei ministri, quando Berlusconi le attribuì comportamenti scorretti. Allora lei s’inventò “Gli appunti di Giorgia”. Gli appunti si usano prima di metterli in bella forma per la divulgazione. In quel modo mandò un messaggio di trasparenza: non ho niente da nascondere, vi mostro la mia agenda, come sono realmente».

Com’è cambiata la sua comunicazione da presidente di Fdi a presidente del consiglio?

«Si è istituzionalizzata, a partire dagli abiti che sono, giustamente, meno scanzonati di un tempo. Costruisce i discorsi in modo più ecumenico, smussando i toni del primo decennio del Duemila che, secondo me, è stato il più efficace. Usa maggiormente termini angloamericani, in una proiezione più internazionale e di attenzione ai mercati».

Come giudica la modifica delle intestazioni dei ministeri, per esempio dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, dell’Istruzione e del merito…

«Mi sembrano modifiche di facciata. Ho trovato inutile la specificazione del merito per un Paese che fonda il suo futuro sull’istruzione. Sarebbe stato innovativo se, oltre al merito, avesse aggiunto l’inclusione, rubando il monopolio di questo tema alla sinistra».

Non sarebbe stato un cedimento al mainstream?

«Non credo. Da docente universitario dico che, forse a causa della pandemia, c’è un’esplosione della fragilità giovanile che non ho mai riscontrato in trent’anni d’insegnamento. Rischiamo di far crescere tanti soggetti anomali, instabili. Su questo non c’è né destra né sinistra. Perciò, mi batto per l’adozione dello psicologo in ogni plesso scolastico e università. Come già avviene nelle scuole del Nordeuropa e americane».

Perché si critica il ricorso a termini come nazione e patria?

«Altro falso problema. Nazione compare nella nostra Costituzione e anche patria è un termine di alveo risorgimentale. Chi insiste sugli echi fascisti di questi vocaboli non conosce la storia».

Intravede dei punti deboli nell’azione del premier? Quali consigli le darebbe nella comunicazione?

«L’unico punto debole di Giorgia Meloni è Giorgia Meloni. Se vuole durare deve basarsi davvero sul merito delle persone giuste».

Invece?

«Ci sono ministri, sottosegretari e parlamentari non all’altezza».

Qualcuno in particolare?

«Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Un anno fa si è consumato il più scandaloso concorso scolastico ordinario della storia della Repubblica con decine e decine di quiz sbagliati o mal formulati come hanno documentato le perizie di docenti specializzati. L’ex ministro Patrizio Bianchi non ha fatto quasi nulla e Valditara nulla».

Tornando alla comunicazione, cos’ha pensato dello speech dopo l’incontro con il presidente tunisino Kaïs Saied senza giornalisti davanti?

«Che non è meloniano e non doveva essere così. Si è lasciata convincere da qualcuno».

Ha un rapporto ancora conflittuale con i media e preferisce la disintermediazione, rivolgersi alla gente senza la mediazioni dei giornalisti?

«Sì. Sa bene che i contenuti possono essere manipolati e ricuciti in modi non sempre consoni. Se potesse opterebbe per la disintermediazione totale».

Il confronto linguistico con Elly Schlein?

«Se devo prendere appunti di quello che dice Giorgia Meloni trascrivo poco perché capisco gli snodi del ragionamento. Se parla Elly Schlein sono costretto a trascrivere tutto e poi, alla fine, rileggendo, stento a fare la sintesi. Lo ha detto anche Concita De Gregorio: rileggi, ma il titolo non salta fuori. Ma purtroppo, questo non è solo un problema di vocabolario».

 

La Verità, 17 giugno 2023

«L’uomo che ha portato il sorriso nella politica»

Pietrangelo Buttafuoco, mi dice la sua prima reazione alla morte di Silvio Berlusconi?

«Mi è tornata in mente come un presagio un’immagine che ho visto poco fa. Scendevo le scale di Palazzo Grazioli dove c’è il mio ufficio e, giunto sul pianerottolo dove si trova l’appartamento nel quale ha abitato Berlusconi, ho visto il portone spalancato. Mi ha subito ricordato il rituale di addio dei santi tipico del Sud».

Com’è questo rituale?

«Quando muore qualcuno in casa, il primo gesto dei famigliari è spalancare porte e finestre e mormorare le formula del viatico: “Va a buon luogo”. È il modo in cui si accompagna l’anima del defunto verso il cielo».

Una casualità premonitrice o a Palazzo Grazioli già sapevano?

«No, oltretutto non è più il suo appartamento. I misteri dell’invisibile sono imperscrutabili. Col senno del poi ha confermato quanto fosse forte la sua natura sciamanica».

Proviamo a descriverla?

«Berlusconi ha introdotto nella politica, intesa come polis, il sorriso. A questo riguardo, l’immagine che era solito usare, “abbiamo il sole in tasca”, è più che mai emblematica. Come Mary Quant con la sua minigonna ha cambiato il costume, così lui ha cambiato per sempre la nostra contemporaneità».

Il linguaggio, la politica, la possibilità di sognare…

«Solo studiandolo nella distanza potremo capire l’unico personaggio che l’Italia consegna alla storia e alla memoria. Pensiamo a quante nuove parole sono state coniate a causa sua. Anche chi l’ha osteggiato ha sempre trovato la sorpresa di vedersi ricambiare con un sorriso».

Lei non è mai stato suo collaboratore, ma gli porta affetto.

«L’ho studiato perché, come tutti, mi sono trovato immerso nell’Italia disegnata e costruita da lui. La mia formazione e i miei gusti non rientrano in quelli che sono i suoi prodotti culturali. Ma riconoscerne la grandezza coinvolge tutti noi suoi contemporanei, compresi coloro che lo avversavano. Le giovani generazioni che non conoscono gli altri protagonisti della politica italiana lui lo riconoscono immediatamente. Anche la nostra memoria, diciamo così, di addetti ai lavori, ne resterà segnata mentre non conserverà nulla di coloro che ci sembravano fondamentali».

Che epoca era quella che ora si dice finita?

«Berlusconi è stato il nuovo capitolo della grande commedia italiana. Intendo l’opera che descrive la nostra identità, e alla quale si aggiunge l’aggettivo divina».

In che senso?

«Se si va a sfogliare il capolavoro di Dante si troveranno tanti personaggi sovrapponibili ai vari Paolo Bonolis, Giuliano Ferrara, Lucio Colletti, Maria De Filippi, Antonio Martino, Giulio Tremonti, Antonio Ricci, Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Adriano Galliani, Sandra Mondaini e Raimondo Vianello… E poi nel Malebolge, l’ottavo cerchio dell’Inferno, si possono trovare tutti i seminatori di discordia, i fraudolenti e i profittatori che non sono mancati».

Una personalità più grande di tutti i moralismi?

«Assolutamente. Uso apposta la categoria della commedia perché in lui si compendiano Carlo Goldoni, Gioacchino Rossini, Gaetano Donizetti, quella vena viva che fa dell’Italia il luogo specialissimo della commedia come romanzo universale».

Ora si comincerà a dividere la biografia tra l’imprenditore, il tycoon, il presidente del Milan e il politico un po’ pasticcione?

«È un’unica performance perché incarna un affastellarsi di scene, la verità e il suo esatto contrario».

È sbagliato frazionarlo?

«Certo, se dobbiamo raccontarlo attraverso il metro della critica letteraria, il suo riferimento è Niccolò Machiavelli che è contemporaneamente l’autore sì del Principe, ma anche della Mandragola. Che è la satira più acre della corruttibilità dell’anima umana».

Negli ultimi anni l’hanno rivalutato anche i suoi più feroci detrattori.

«C’è più sincerità d’affetto nei suoi nemici che in molti suoi finti amici, quelli che lo abbracciavano come si abbraccia una cassaforte».

Soprattutto le donne?

«Gran parte delle donne s’innamoravano sinceramente perché non era certo un Dominique Strauss-Kahn, ma il Paride vezzoso dell’Elisir d’amore di Donizetti che della seduzione possedeva tutte le alchimie».

Tutti argomenti per un grande libro che lei, se non ricordo male, sta scrivendo.

«Si è provato a raccontarlo con la politologia, la cronaca giudiziaria, la sociologia e col cinema, dove non si contano i fallimenti, compresi quelli di venerati maestri come Paolo Sorrentino e Nanni Moretti. L’unico che è riuscito a renderlo nel suo essere sia popolo che nicchia è Franco Maresco con Belluscone».

Il suo libro?

«È un saggio di critica letteraria. S’intitola Beato lui – Panegirico dell’arcitaliano Silvio Berlusconi ed esce la prossima settimana da Longanesi. Era già in distribuzione ad aprile quando lui entrava in ospedale e nessuno poteva sapere come sarebbe uscito. Abbiamo quindi deciso di posticiparlo e proprio perché mi sono avvalso della verità letteraria, mi sono trovato delle pagine che raccontavano ciò che non osavo immaginare: laddove c’era una folla che lo abbracciava nell’addio di un funerale, ho ricostruita la moltitudine che lo applaudiva nell’ingresso al Quirinale, finalmente eletto Capo dello Stato».

Qualche difetto ce l’aveva, però?

«Una cattiveria geometrica che, però, sapeva trasferire nell’intelligenza».

Per esempio?

«Quando gli proposero di fare il libro delle barzellette di Berlusconi dopo quello di grande successo delle barzellette di Totti si chiese: “E se poi vendo meno di Totti?”. E fermò le rotative».

Che cosa mi dice della sua generosità?

«Vorrei dire soprattutto dell’ingenuità. Nell’Italia che si spertica in elogi della doppiezza gesuitica lui aveva l’ingenuità gioiosa dell’allievo salesiano. Basta ricordare la sua espressione immediatamente dopo essere stato colpito al volto dalla statuina del modellino del Duomo. Era l’espressione di un interrogativo attonito: come posso non essere amato?».

Sapeva scegliersi i collaboratori?

«Mi è capitato di ascoltare il pianto di tanti e tante».

Molti bracci destri amputati perché non sapeva e voleva preparare la successione?

«Quella non la poteva preparare. Tra i tanti possibili eredi lui guardava senza dubbio con simpatia a Matteo Renzi».

Che si è suicidato.

«E la vecchia talpa della storia gli ha apparecchiato la sorpresa di trovare l’unico successore in una donna, quella Giorgia Meloni presso la quale la maggioranza silenziosa ha trovato casa».

Forza Italia rischia di sparire?

«Sicuramente domani resteranno e si studieranno Mediaset e Milano 2 che sono il frutto dell’ingegno. Mentre il frutto del genio è la sua avventura politica che si chiude con lui. I voti di Forza Italia erano i voti per Silvio Berlusconi».

 

La Verità, 13 giugno 2023

«Il Pd? Un missile che perde i suoi tre stadi»

Claudio Velardi ha preso le distanze: dalla politica e da Roma. Privilegia la famiglia, la sua fondazione Ottimisti & Razionali e la vita sana a Napoli. Ogni tanto però, l’ex Lothar di Massimo D’Alema, ora più vicino al mondo renziano, lancia un sasso dal suo blog Buchineri.org confermando la proverbiale lucidità analitica. Per esempio, nel post d’inizio 2023 si chiede: «Moriremo meloniani?».

Corre questo rischio, Velardi?

Il rischio c’è, perché, al momento, nello scenario italiano, Giorgia Meloni mi sembra la persona più ragionevole, saggia e misurata. In un contesto più generale, questo rischio non c’è perché sono globalista, mercatista, iper-laico.

Come mai le opposizioni, il Pd soprattutto, chiedono alla Meloni di avere quelle soluzioni che in tanti anni governo loro non hanno trovato?

È un atteggiamento tipico di quando si passa dal governo all’opposizione. Nel caso del Pd si nota di più perché è un partito di iper-governo. Non è stato per poco nella stanza dei bottoni. Detto questo, da molto tempo sono pregiudizialmente dalla parte del governo, di qualsiasi governo.

Perché?

Perché chi si mette in animo di governare il nostro Paese è un pazzo. Fare opposizione è più facile. Si possono dire un sacco di fregnacce, che poi, una volta al governo, non si potranno realizzare. Basta pensare al video della Meloni contro le accise nei carburanti. Governare è il mestiere più difficile del mondo, basta pensare alle riunioni di condominio.

La legge di bilancio fatta in un mese e con l’obbligo di abbattere i costi delle bollette è così brutta?

Assolutamente no, è stata un percorso obbligato dalla crisi energetica. Poi contiene qualche contentino alle categorie di riferimento, ma questo avviene in tutte le manovre.

C’è anche qualche provvedimento che apprezza?

Certo. Trovo positivi i ritocchi al reddito di cittadinanza e l’allentamento della politica dei sussidi a pioggia.

Lo spoil system va fatto o no?

Metterlo in dubbio è una sciocchezza. Chi va al governo ha diritto a scegliere persone di cui fidarsi alle quali far realizzare ciò che ha in testa. In questa polemica si combinano due fattori. Il primo è che la casta della pubblica amministrazione si ribella per principio allo spoil system; il secondo è che questo apparato è in gran parte di area Pd. Matteo Renzi portò a Palazzo Chigi Antonella Manzione, la capa dei vigili urbani di Firenze, che naturalmente non aveva i requisiti formali per quel posto. La battaglia contro la burocrazia e il deep state è il primo banco di prova di ogni governo.

Ha ragione il ministro della Difesa Guido Crosetto quando dice che di burocrazia si può morire?

Non c’è dubbio. Lui imbraccerebbe il machete, Renzi preferiva il lanciafiamme.

Luca Ricolfi ha scritto che, contestando il governo anche quando riprende idee care alla sinistra, tipo il perseguimento del merito, il Pd finisce per contraddire sé stesso.

Quando, tra i primi, il ministro Luigi Berlinguer parlò di merito fu massacrato dai sindacati. Nel Pd credo siano scioccati dalla perdita del potere. E siccome intuiscono che non sarà un fatto temporaneo, perdono anche di lucidità. Invece, il saggio dice che quando si perde, conviene non agitarsi troppo per non peggiorare la situazione e procurare piacere all’avversario.

Che cosa prevede per il congresso Pd?

Difficile farne. Il Pd è come un missile a tre stadi. Il primo stadio è la testa, costituita dal mega-apparato, le burocrazie, gli amministratori locali, i professionisti della politica. È la struttura di potere del partito, indifferente ai posizionamenti, in possesso di una buona cultura democratica e di un formale ossequio dello Stato e delle sue procedure, almeno fino a quando non si toccano i suoi interessi.

Il secondo stadio del missile?

È la pancia del partito. Cioè i militanti, sempre da galvanizzare con discorsi de sinistra, non perché ci credano, perché sanno che spesso vincono spostandosi a destra e digerendo Lamberto Dini, Romano Prodi e Matteo Renzi che pure li prendeva a schiaffi. Ma sono in perenne attesa della rivincita, votati a una causa storicamente sconfitta. Per capirci: nelle sezioni i ritratti di Lenin stanno a fianco di quelli di Enrico Berlinguer e Aldo Moro.

Il terzo stadio?

Sono gli elettori, il popolo ingenuo e speranzoso, che fiuta ciò che accade fuori e aspetta il leader messianico. È la componente che porta i voti che sono il carburante.

Come si può far ripartire il missile?

Sincronizzando testa, pancia e cuore. Mica facile. Con la testa si conquista il centro del potere, con la pancia si muovono le truppe e con il cuore ci si mette in sintonia con il mondo reale. Volendo essere generosi, si può dire che Bonaccini è la testa, la Schlein la pancia e Gianni Cuperlo forse l’unico a tenere insieme i tre elementi. Se fossi del Pd sceglierei lui.

Dario Franceschini sta con Elly Schlein.

È un uomo di apparato che prova a congiungersi alla pancia. Il suo è il calcolo cinico di un professionista della politica.

Ha detto che una come Elly Schlein arriva ogni dieci anni.

E meno male.

La parodia di Enrico Letta proposta da Maurizio Crozza dice: «Noi della direzione abbiamo molto sentito parlare di questo esterno… Come se davvero esistesse qualcosa fuori da noi…».

La testa del Pd è una gigantesca rete di apparati. Perdere il contatto con la vita reale è un dramma reale.

Infatti il numero degli iscritti precipita.

Gli iscritti crollano perché iscriversi non dà nessun potere in più. Se ti iscrivi sei carne da macello di un capocorrente e nei momenti cruciali sei scavalcato da quelli che votano nelle primarie.

Stefano Bonaccini è seguito dall’agenzia Jump Communication di Marco Agnoletto, la stessa che cura la comunicazione di Che tempo che fa, Elly Schlein dall’agenzia Social changes che ha gestito le campagne di Barack Obama.

Rispondo da comunicatore. Quando si fa politica la comunicazione deve svolgere solo una funzione di servizio perché i soggetti della politica sono i leader non i comunicatori. Quando un politico si affida a un comunicatore è già a rischio. Lo diceva Abramo Lincoln: «Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre».

La convince di più l’azione del cosiddetto Terzo polo?

Secondo me hanno troppa fretta. Sul piano delle proposte li trovo coerenti. Calenda ha presentato un programma di pochi punti. Renzi quando interviene in Parlamento mostra un’intelligenza superiore alla media. Alcuni dirigenti stanno crescendo, come Luigi Marattin. Ripeto: non devono avere fretta. Invece Calenda ha dato sei mesi di vita al governo e Renzi ha dato appuntamento al 2024, non si sa in base a cosa. Io dico: calma e gesso, facciamo governare la Meloni perché è questo che vogliono gli italiani.

Perché dalla fine della Dc nessuno è in grado d’interpretare la maggioranza silenziosa?

Probabilmente, i cosiddetti moderati lo sono un po’ meno perché, a causa delle difficoltà di questi anni, hanno cominciato a incazzarsi.

I ceti medi sono un po’ meno medi?

Le difficoltà di natura sociale li hanno avvicinati alle forze populiste. Ora, dopo l’ondata di rabbia con i 5 stelle e dintorni, vedo più ricerca di condivisione, più ripensamento. Tendenze che il Terzo polo e Forza Italia dovrebbero riuscire a interpretare.

Renzi e Calenda sono attrezzati a farlo?

Una leadership bicefala non dà troppe certezze. Da inguaribile romantico auspico un passo indietro di entrambi. Calenda potrebbe recuperare il suo profilo di amministratore, Renzi ha doti da leader che prescindono dalla necessità di governare. Facendo un passo indietro potrebbero favorire nuove leadership. Altrimenti, quanto resisterà la fedeltà dell’elettorato di riferimento?

Che impressione le ha fatto la foto di Giuseppe Conte in un hotel di lusso a Cortina d’Ampezzo dopo quella nella mensa dei poveri?

Non me ne frega niente, faccia quello che vuole. Conte continua a fare il populista, ma saranno i cittadini dello Zen di Palermo a mandarlo a casa quando vedranno che non riuscirà a difendere il loro reddito di cittadinanza. La gente normale capirà di essere stata turlupinata.

Cosa prevede per le elezioni nel Lazio e in Lombardia?

Al netto di un possibile ma difficile exploit di Alessio D’Amato nel Lazio, vincerà il centrodestra.

E lei aspetterà ancora l’Araba fenice della politica italiana o si ritirerà a vita privata come il suo amico Fabrizio Rondolino?

Non proprio come Rondolino. Continuerò ad aspettare l’Araba fenice, ma dando alla politica un’importanza sempre minore. Mi diverto di più a studiare le tendenze in atto nel mondo, che sono più positive di quanto ci raccontiamo.

 

Panorama, 18 gennaio 2023

Il talento di Fiorello riporta alla goliardia del liceo

La cosa difficile sarà tenere il livello della puntata d’esordio. Qui, ogni mattina all’alba tocca ricominciare da zero e appellarsi al talento di Rosario Tindaro Fiorello. Che è enorme. L’idea di fondo è riproporre la goliardia di certe classi affiatate, capaci di cazzeggiare su tutto: non i fatti della scuola, ma le notizie del giorno. E, al di là di qualche puntata più o meno smagliante, Fiorello tornerà a essere il compagno che fa divertire…

Già nei primi minuti di Viva Rai2 ci sono tre o quattro gag che la Rai di solito ci mette 15 giorni. Dopo la finta assenza, troviamo Fiore a letto con Amadeus che, fra il detto e il suggerito, getta un paio di sassolini nell’attualità: «Sì, parlavi delle primarie del Pd e piangevi… E poi volevi pagare una caramella con la carta di credito. Io ti avevo detto che non si poteva fare… E tu piangevi. Ciuri! Non ho chiuso occhio tutta la notte». La sigla è by Lorenzo Jovanotti: «Viva Rai 2, c’è Fiore con il buonumore». Poi, dentro il Glass box, ecco la presentazione della classe, Fabrizio Biggio e Mauro Casciari, poi Carolyn Smith («Complimenti per Ballando con le stelle! Sai cosa mi piace? L’atmosfera fra voi… un’atmosfera, amichevole. Sembra di stare a casa dei Soumahoro, con la moglie, la suocera…»), il pensionato Ruggiero Del Vecchio, «lo spoiler delle vostre vite». Apre l’agenda vera di Giorgia Meloni – «non posso dire come l’ho avuta» – e legge gli appunti. «Rimuovere Coletta e Fuortes» è un piccolo capolavoro, prestandosi a svariate interpretazioni.

Chiama Matteo Renzi. «No, in questo momento si parla solo della Meloni. Tu stai con Calenda, ok. Qual è la battuta che devo dire? Che siete i Jalisse della politica. Ma non fanno niente da 26 anni. Come voi…».

Fuori dal Glass, Lillo fa la caricatura degli ambientalisti puri e duri, ma non sanno l’inglese e scrivono Save the Heart con l’acca nel posto sbagliato. Rispunta Amadeus per annunciare Francesca Fagnani, co-conduttrice per una sera, in quota mainstream, com’è, del resto tutto il cast del Festival. Ma può non esserlo?

A mo’ di presa in giro dei fanatici dei social e dei critici improvvisati, scorrono in basso sullo schermo i finti messaggi: «Comunque a me Fiorello piaceva di più quando faceva Stasera pago io». E via con la lista dei successi del passato, per concludere con «a me piaceva di più quando non faceva niente». La chiusura è una riflessione ad alta voce dello stesso Fiore: «Avrei voglia di dire arrivederci tra una settimana». Già, sarà dura tenere il livello…

 

La Verità, 6 dicembre 2022

 

«La strada per il Colle passa dal centrodestra»

Patti chiari e intervista lunga, Bruno Vespa è un maestro di ospitalità che sa mettere a proprio agio l’interlocutore invitato nell’accogliente casa di Cortina d’Ampezzo dove, come tutti gli anni ad agosto, l’ex direttore del Tg1 e conduttore di Porta a porta, la Terza camera del Paese, trascorre un paio di settimane di vacanza. I patti sono che non si parla di televisione e di Rai, ma di politica e del suo Quirinale – Dodici presidenti tra pubblico e privato (Rai Libri), ora che è iniziato il semestre bianco che porterà alla scelta del successore di Sergio Mattarella (sé medesimo?) nel prossimo mese di febbraio.

A tutte le elezioni del presidente della Repubblica il candidato più accreditato viene giubilato. È successo a Giovanni Spadolini, Giuliano Amato, Franco Marini, Massimo D’Alema, Romano Prodi…

«Tranne che a Francesco Cossiga, sul quale funzionò il patto di ferro stabilito in precedenza tra Democrazia cristiana e Partito comunista».

Stavolta a chi toccherà?

«A nessuno perché ancora non c’è un candidato esplicito. Ci sono tanti aspiranti coperti, ma nessuno si scopre per non esser costretto a dire di esser stato giubilato».

Parlando di candidati coperti, anche lei, come si legge nel libro, ha rischiato di correre a sua insaputa.

«Quello è un fatto divertente. Silvio Berlusconi disse a Matteo Renzi che siccome, a suo avviso, conosco bene l’Italia… “perché non eleggiamo lui?”. Era solo una battuta, che fu Renzi a riferirmi».

Anche il patto del Nazareno fu tradito quando Renzi estrasse dal cilindro Sergio Mattarella. Come giudica il suo settennato?

«Mattarella è uno dei presidenti più amati, forse il più silenzioso di tutti. Ha incaricato tre maggioranze diverse in tre anni, muovendosi bene in momenti delicati. Soprattutto in occasione della formazione del primo governo Conte e in quella della mancata nascita del Conte ter».

Anche la crisi dell’agosto 2019 non è stata uno scherzo.

«No. Ma la maggioranza imperniata su M5s e Pd è stata una scelta più facile, tant’è vero che se n’era già parlato dopo il voto del marzo 2018».

Quando non diede l’incarico a Matteo Salvini nonostante il centrodestra avesse la maggioranza relativa?

«Non era sufficiente. È vero che il mandato a Roberto Fico fu molto più lungo di quello concesso a Elisabetta Alberti Casellati. Ma Salvini avrebbe dovuto cercarsi 50 parlamentari e sarebbe stato un governo fragilissimo. Poi fu Renzi a mandare all’aria l’ipotesi Pd-M5s in televisione. Mentre fece nascere il secondo governo Conte e ha impedito la nascita del terzo».

È il king maker dei governi pur con un partito infinitesimale.

«I sondaggi lo penalizzano, ma ha 47 parlamentari e conta di farli pesare anche nell’elezione del prossimo capo dello Stato».

Un po’ come faceva Bettino Craxi?

«Craxi aveva il 13%, Renzi era più forte nel Pd».

Con poco determina molto?

«Come Ghino di Tacco: bisogna passare per Radicofani».

Mattarella si è opposto anche alla scelta di Paolo Savona ministro dell’Economia.

«Quasi tutti i presidenti hanno imposto dei ministri, ma l’hanno fatto con il consenso del premier incaricato. Il veto su Savona è l’unico caso in cui un governo non è nato perché il capo dello Stato ha respinto un ministro».

Com’è cambiata la figura del presidente nella Seconda repubblica?

«È cambiata con l’avvento di Berlusconi. Mai Oscar Luigi Scalfaro si sarebbe comportato come fece se non fosse stato Berlusconi capo del governo. Scrivergli una lettera di galateo istituzionale alla quale Giuliano Ferrara, ministro per i rapporti con il Parlamento, rispose giustamente per le rime, fu un comportamento inedito nei rapporti tra Quirinale e Palazzo Chigi».

Con l’avvento di Berlusconi i presidenti sono diventati più interventisti?

«Sì, certo. Lo hanno tenuto sotto tutela. Che lui sia propenso alle scappatelle è evidente, ma loro lo hanno ripetutamente messo in collegio».

Nel caso della nomina di Mario Monti seguita all’invito a dimettersi a Berlusconi di Giorgio Napolitano si è parlato di «dolce colpo di Stato».

«L’ha scritto il sociologo vicino alla sinistra tedesca, Jurgen Habermas. Sicuramente fu un comportamento anomalo, tutto documentato. E emerso a posteriori fa una certa impressione. Tuttavia, dopo la guerra che gli fece Fini, Berlusconi aveva una maggioranza risicatissima, puntellata dai cosiddetti responsabili».

La lievitazione dei poteri del capo dello Stato è conseguenza dell’indebolimento della classe dirigente attuale?

«Non c’è dubbio. È una supplenza di debolezze crescenti. E meno male che Mattarella si è comportato con equilibrio in situazioni che stavano scappando di mano. Direi che Draghi è stato il suo capolavoro».

Dipende anche dal fatto che i presidenti si sono assunti il compito di ridimensionare il centrodestra, dopo Berlusconi anche Salvini?

«Per Scalfaro, Berlusconi era un marziano. E non c’è dubbio che Salvini al governo sia vissuto come un’anomalia legittima».

Anomalia legittima… vengono in mente le convergenze parallele.

«È legittimo che Salvini sia al governo, ne ha tutto il diritto. Anche Mattarella ha chiesto la partecipazione di tutti. Ma non c’è dubbio che sia vissuto come un’anomalia, basta vedere i frequenti scontri con il Pd. Il fatto che due partiti come Lega e Pd approvino insieme riforme importanti è un miracolo congiunto di Mattarella e di Draghi».

L’anomalia è dovuta al fatto che Salvini è cresciuto nella Lega, partito dell’antipolitica come lo era Forza Italia?

«La Ztl della società italiana non si rassegna all’idea che ci sia la destra al governo. È un percorso lungo, vedremo come andranno le prossime elezioni. Il Pd è il legittimo punto di riferimento della classe dirigente e delle élites culturale, burocratica e, in parte, anche imprenditoriale italiana. Anche quando ha il consenso della maggioranza degli italiani, il centrodestra ha la vita più difficile…».

In questi anni Mattarella avrebbe potuto pronunciarsi a proposito delle varie crisi che hanno attraversato la magistratura?

«È una domanda alla quale preferisco non rispondere, per un riguardo al capo dello Stato. Posso solo dire che la magistratura sta vivendo la crisi più grave della storia repubblicana , ancora non si è capito come possa superarla e il Presidente della Repubblica lo è anche del Consiglio superiore della magistratura».

Scalfaro è quello che esce peggio nella galleria dei suoi ritratti?

«Sì, lo metterei in coda alla lista».

Mattarella rimarrà contrario all’idea di prolungare il mandato fino al 2023?

«Credo che il libro dimostri l’assoluta fragilità delle previsioni sul Quirinale. Nel merito ci sono due scuole di pensiero. Una per la quale Mattarella resterà fino a fine legislatura. L’altra, come lui ripete, che non accetterà prolungamenti. Secondo me la prima ipotesi è irrispettosa e con qualche elemento di debolezza. Si rieleggerebbe Mattarella, ma non per sette anni. Credo non si possa fare un contratto con il capo dello Stato in cui si dice: va bene, grazie, adesso ci porti a elezioni e poi te ne vai. Se si elegge Mattarella, lo si elegge per l’intero settennato».

Con Napolitano andò più o meno così.

«Ma decise lui di andarsene dopo due anni. Non si può fotocopiare Napolitano in una situazione diversa».

Oggi la situazione è ancora più complessa per l’emergenza sanitaria e il ruolo internazionale di Draghi.

«Non c’è dubbio che togliere Draghi da Palazzo Chigi sarebbe un peccato, ma il Paese potrebbe essere accompagnato a elezioni dal suo ministro dell’Economia, Daniele Franco. È sicuro anche che dal Quirinale Draghi potrebbe rivestire un ruolo superiore in campo internazionale. Ma parlarne ora è fantascienza. Tutto si deciderà tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio».

Una volta Napolitano le disse che erano maturi i tempi in cui il Quirinale avrebbe potuto essere occupato da un uomo proveniente dalla destra. Previsione realistica, profezia precoce o fantapolitica?

«Servono particolari condizioni politiche e sociali perché un uomo di destra vada al Quirinale. Oggi per la prima volta il centrodestra è decisivo per eleggere il capo dello Stato. Naturalmente conviene che sia una scelta condivisa».

Il Corriere della Sera è già sceso in campagna per il Quirinale?

«L’elezione del presidente della Repubblica è il gioco politico più appassionante dei prossimi sei mesi. È normale che i giornali ci costruiscano un giallo a puntate».

Sperando di piazzare il loro investigatore?

«E chi sarebbe?».

Walter Veltroni è un’importante editorialista del Corriere.

«Walter ha grandi capacità negoziali. Sta a lui convincere il centrodestra a votarlo».

Il giudizio generale sul governo Draghi è positivo: poteva segnare maggiore discontinuità nella lotta al Covid?

«La discontinuità è rappresentata dalla scelta del generale Figliuolo. Siamo passati dalle primule alla rinascita della Protezione civile che era stata lasciata morire».

Vera discontinuità sarebbe stata cambiare Roberto Speranza?

«Difficile cambiare il ministro della Sanità in piena emergenza».

Quanto crede al partito unico del centrodestra?

«In astratto, tra Lega e Forza Italia è possibile, anche se non si fa dalla sera alla mattina. Con la Meloni serve ancora più tempo».

Sul piano dei numeri sarebbe conveniente?

«La storia dice di no. Tutti i partiti che si fondono riducono i loro consensi. Ma le circostanze attuali potrebbero essere più favorevoli all’unificazione».

Come valuta la strategia di Enrico Letta di puntare sull’alleanza con Conte?

«È un esperimento interessante. Vedremo come finirà».

Chi è messo meglio in vista delle amministrative del 3 ottobre?

«E chi lo sa? I sondaggi agostani sono un non senso, quelli affidabili arrivano a tre settimane dal voto. Sono chiamati alle urne venti milioni d’italiani in mille comuni…».

Anche in Italia avremo una grossa coalizione?

«Qualcuno poteva immaginare Letta e Salvini insieme al governo in una situazione come questa? La grossa coalizione c’è già, ed è stata una fortuna. Per la sua collocazione internazionale, Salvini ha fatto bene a entrarci. Come la Meloni a starne fuori, perché avrebbe contato molto poco».

 

La Verità, 14 agosto 2021