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«Sanremo irripetibile, Fiore dovrà essere al top»

Il Fantastico di Adriano Celentano, il concerto di Madonna a Torino, quello dei Pink Floyd in piazza San Marco a Venezia, il Pavarotti & Friends, la grande giornata a Bologna con Giovanni Paolo II per il Giubileo, i Festival di Sanremo condotti da Mike Bongiorno e Piero Chiambretti, Raimondo Vianello, Fabio Fazio e Raffaella Carrà: dietro tutti questi eventi c’è un uomo di televisione, dirigente e autore insieme, che risponde al nome di Mario Maffucci, già capostruttura e vicedirettore di Rai 1. Ha 81 anni, due figli, una moglie e vive a Roma, zona Parioli. Ha appena fatto il vaccino contro il Covid e ora è al telefono: «È proprio sicuro che abbia qualcosa d’interessante da dire?».

Che Sanremo si aspetta quest’anno?

«Sarà un Festival diverso dagli altri perché senza il pubblico, una presenza dalla quale gli artisti traggono energia».

Questa assenza peserà di più sui cantanti, i conduttori o gli ospiti?

«Credo che sugli ospiti peserà meno perché hanno il confronto con Amadeus e Fiorello. Cantanti e conduttori avranno maggiori difficoltà. Soprattutto Fiorello, che sarà costretto a dare il massimo, mentre l’anno scorso ha dato il minimo».

In che senso?

«Ha fatto una grande prova d’autore, improvvisando tutto. Un grande artista come lui se lo può permettere. Così, ha preso spunto da quello che succedeva, dalle emozioni del pubblico. Stavolta questo confronto non potrà averlo».

Mancherà una fonte importante.

«Che stimola a inventare. Tra Fiorello e Amadeus c’è grande feeling, ma la sfida è più impegnativa».

Era proprio impossibile stabilire dei protocolli, farli rispettare e avere qualche centinaio di spettatori in sala?

«Sarebbe stato possibile, ma ingiusto nei confronti degli altri teatri che restano chiusi».

Altri programmi Rai hanno il pubblico e l’Ariston sarebbe stato usato come uno studio televisivo.

«Ma l’Ariston è un teatro aperto al pubblico».

Che consiglio darebbe ad Amadeus e Fiorello prima di cominciare?

«Di essere consapevoli di avere un’occasione unica per intrattenere tutto il Paese condizionato dalla pandemia».

È l’approccio del dirigente della tv generalista che creava grandi eventi.

«Il Festival di Sanremo è un evento, in un certo senso unico al mondo. Nasce come manifestazione popolare, senza pretese artistiche. Poco alla volta diventa una fabbrica di musica e intrattenimento. La tv l’ha manipolato, protetto e fatto crescere, trasformandolo in qualcosa di più di una sfilata di belle canzoni».

La convince il fatto che la moglie di Amadeus, Giovanna Civitillo, condurrà il Prefestival?

«Perché no? È un programma marginale, è in grado di farlo, non mi sembra un fatto da biasimare».

Nemmeno sul piano dell’eleganza?

«No, non direi».

Avrebbe potuto essere una buona idea Mina direttore artistico?

«Straordinaria. Ci rendiamo conto di che cos’è stata e che cos’è Mina dal punto di vista musicale?».

Non è decollata per mancanza di coraggio?

«Secondo me si sarebbe tirata indietro».

A quanto si sa, non si sono mai fatti avanti i vertici Rai.

«Da anni Rai 1 attribuisce la direzione artistica al conduttore secondo un canone per cui egli è il playmaker del Festival. Con Mina ci vorrebbe qualcuno felice di averla come direttore artistico. Quelli del presentatore, del direttore artistico e del selezionatore delle canzoni sono ruoli che si potrebbero spacchettare. In questa situazione credo che Mina sia difficile che arrivi».

Agenti e società di produzione esterne hanno troppo peso in Rai?

«Quello che oggi chiamiamo agente, nel vocabolario di qualche anno era l’impresario di artisti. I vari Lucio Presta e Beppe Caschetto hanno fatto la fortuna di tanti spettacoli. La cronaca televisiva attribuisce a Pippo Baudo o ad Amadeus la capacità di portare sul palco le star, ma dobbiamo sapere che dietro di loro c’è il lavoro di qualcuno che ha la forza di coinvolgerle».

Ha visto che due componenti del Cda Rai hanno chiesto di verificare se la lista degli ospiti rispetta la policy aziendale?

«Ho visto, aspettiamo le verifiche. È giusto mantenere un certo equilibrio e controllare la misura dei diversi contributi. Ma allo stesso tempo non dobbiamo perdere di vista il gol finale che è il divertimento del pubblico. Poi certo, l’en plein del cast di un singolo agente non lo approvo».

Anche ai suoi tempi contavano molto gli agenti?

«Ai miei tempi spuntava il potere dei nuovi impresari. Ma c’era un’azienda in grado di stare sul mercato con una forte attrattiva».

Uno dei migliori era Bibi Ballandi?

«Portava il suo contributo senza mai esagerare».

Perché secondo lei quest’anno su Rai 1 funzionano le fiction mentre sono sottotono gli spettacoli di intrattenimento?

«Non c’è voglia e forse non ci sono le condizioni per sperimentare con coraggio. Per essere sicuri dei risultati ci si affida ai format collaudati. Ma così non s’inventa niente e, con la ripetizione, i programmi si usurano e perdono smalto. I successi sono frutto di un dosaggio di componenti tra le quali c’è una percentuale di rischio. Non si può pretendere che il direttore di rete sperimenti se non è aiutato da un gruppo di dirigenti pronti a farlo».

Da Domenica in a Fantastico, da Scommettiamo che… a Beato tra le donne, qual era il segreto dei suoi?

«Sono molto grato a Baudo perché mi ha insegnato l’abc dello spettacolo, facendomi crescere alla scuola del teatro leggero. Il massimo divertimento l’ho provato con Renzo Arbore: leggerezza, autoironia, spettacoli inventati dall’inizio alla fine, spesso le prove erano ancora più divertenti di ciò che andava in onda. Poi c’è stata l’avventura con Adriano Celentano».

Quel famoso Fantastico.

«Il segreto era l’imprevedibilità, non a caso ebbe enorme rilievo sui media. Nacque dopo che Berlusconi ci aveva strappato Baudo, la Carrà ed Enrica Bonaccorti. Lo scopo era indebolire la Rai nella prospettiva della riforma del sistema televisivo che sarebbe sfociato nella legge Mammì».

Una vittoria in contropiede?

«Esatto. Sopravvissi a quella prova grazie all’appoggio di Biagio Agnes ed Emmanuele Milano (storico direttore generale Rai e direttore di Rai 1, ndr)».

Grandi dirigenti, grandi autori: oggi?

«Conosco alcuni direttori di rete come Franco Di Mare e Ludovico Di Meo, ottimi professionisti. Mentre non conosco Stefano Coletta, direttore di Rai 1. Ma non so se abbiano dietro una squadra così forte. Gli autori bisogna cercarli nel teatro leggero, nella musica, nel cinema, come avvenne per Sergio Bardotti, Giorgio Calabrese… In quel Fantastico debuttò Umberto Contarello, che poi è diventato lo sceneggiatore di Paolo Sorrentino».

Come definirebbe Celentano?

«L’artista con il quale nulla era prevedibile. L’unico modo per lavorare con lui era discutere ogni cosa che gli veniva in mente, sapendo che l’avrebbe realizzata».

Luciano Pavarotti?

«Artista immenso, uomo formidabile. A lui è legato uno dei maggiori rimpianti della mia carriera».

Cioè?

«Averlo trascinato nel secondo Festival di Fabio Fazio facendogli fare il notaio. Entrava, diceva qualcosa sui cantanti, usciva. Come si fa a ingaggiare Pavarotti senza farlo cantare?».

Me lo dica lei.

«Era già tutto definito: avrebbe dovuto fare un duetto con Nilla Pizzi su Grazie dei fior. Immagini cosa sarebbe stato… Ma, ad accordo concluso, Nicoletta Mantovani si oppose perché riteneva che, se Luciano avesse cantato durante il Festival, avrebbe tolto interesse al Pavarotti & Friends in calendario due mesi dopo. E Luciano accettò il volere della moglie».

Lavorò anche con il Trio: Marchesini, Lopez, Solenghi.

«Fu una stagione straordinaria che culminò nei Promessi sposi. Era appena finita la miniserie diretta da Salvatore Nocita e noi ne proponemmo la parodia. Qualcuno alzò il sopracciglio, ma proprio affiancare la satira alla tradizione era la forza di una tv libera e moderna com’era quella Rai».

Trasmettevate i concerti di Madonna, il Pavarotti & Friends, la serata per il Giubileo con Giovanni Paolo II e Bob Dylan. Oggi quella formula sarebbe riproponibile?

«Non credo, dipende da come si propone la televisione: se sei un broadcast con l’ambizione di essere partner di grandi eventi internazionali il mercato risponde. Non dimentichiamo il concerto di Frank Sinatra al Palatrussardi di Milano. E quello dei Pink Floyd che chiesero la collaborazione di Rai 1 per suonare a San Marco, trasmesso in mondovisione».

E ricordato per le conseguenze tremende sulla città di Venezia.

«Che non era preparata a gestire un evento di risonanza mondiale».

Eventi del genere oggi sono irripetibili?

«Allora la Rai era punto di riferimento delle tv pubbliche europee e c’era una disponibilità diversa degli sponsor. Ricordiamoci che parliamo di manifestazioni con grandi budget, che potemmo realizzare perché c’era un lavoro di squadra e anche la collaborazione con la Sacis (la concessionaria di pubblicità della Rai ndr)».

Ha commesso qualche errore o fatto scelte di cui si è pentito?

«Forse ero impreparato ad alcune conseguenze. Se dovessi rifare il concerto dei Pink Floyd mi porrei per primo il problema della sicurezza. Per quello di Madonna a Torino tutto filò liscio, anche grazie a un produttore come Davide Zard».

Che cosa guarda oggi in tv?

«M’inquietano i talk show politici, perché mi sembra che il pubblico non sia protetto e che, più che l’approfondimento vero, vi prevalga la propaganda. Se un politico fa un’affermazione, le redazioni non sono attrezzate per verificare in tempo reale se corrisponde al vero o no».

Ce n’è qualcuno che si salva?

«Apprezzo la scelta di Piazzapulita di ricorrere alle riflessioni di Stefano Massini anziché alle gag del solito comico. Lo trovo più in sintonia con il momento che viviamo».

Guarda anche la fiction?

«Purtroppo quella italiana non è a livello delle serie internazionali. Con l’eccezione di Montalbano, la nostra è una fiction provinciale».

Quali serie le sono piaciute ultimamente?

«Baghdad central, Homeland, La casa di carta».

Tra i comici chi le piace di più?

«Maurizio Crozza».

Ha conservato amicizie nel mondo della televisione?

«Ho conservato rapporti professionali. Mi manca Luciano Rispoli che mi fece da battistrada e con il quale avevo un rapporto di stima e amicizia».

 

La Verità, 27 febbraio 2021

 

Con Franceschini Sanremo è un rebus di Stato

Il fatto è che teatri e cinema dovrebbero essere aperti e funzionanti da un pezzo. Ovvio, rispettando protocolli e restrizioni. Seguendo contingentamento e distanziamento del pubblico. Regolando gli afflussi. Ma funzionando. Altrimenti sfugge la ragione per cui i supermercati siano aperti, le chiese, distanziate e sanificate, anche, e le scuole medie ed elementari pure, mentre per le superiori si auspica un rapido ritorno alla didattica in presenza. Perché i teatri e i cinema no, pur con il pubblico al 50%?

Nella confusione generale e normativa che complica la nostra quotidianità era inevitabile che anche il Festival di Sanremo si trasformasse in un affare di Stato. Del resto, per un motivo o per l’altro, lo è ogni anno. Figuriamoci nel bel mezzo di una crisi di governo e di una pandemia che miete centinaia di morti al giorno, come qualcuno, un po’ moralisticamente, ha fatto notare. Così è la nostra Italia. Anzi, l’Italietta delle canzonette. Il governo dimissionario si schiera contro il Festival. Amadeus, il conduttore ancora in carica, critica la decisione del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e minaccia di abbandonare la direzione artistica della kermesse. I vertici Rai di nomina governativa si barcamenano. Il direttore di Rai 1, Stefano Coletta spinge perché Sanremo si faccia rispettando le restrizioni: «Sarà uno show protocollato come evento televisivo e sarà realizzato in grandissima sicurezza, in accordo con la prefettura, l’Asl e le autorità preposte». Le case discografiche scrivono al ministro della Salute sottolineando la difficoltà dei loro artisti a esibirsi in un teatro deserto. Eventualità di fronte alla quale Amadeus minaccia il rinvio a tempi migliori. Roberto Speranza inoltra la preghiera delle major della discografia al Comitato tecnico scientifico. Il quale non si riunsice per pronunciarsi sull’inestricabile questione. I giornalisti filogovernativi (Selvaggia Lucarelli) dicono e che sarà mai: «Se ce l’ha fatta Floris senza pubblico ce l’ha può fare» anche Amadeus. Da brava concorrente della Rai, La7 fa il suo gioco: «Il ministro Dario Franceschini mette a tacere le polemiche…», oibò.

Ecco la bagarre che ci mancava, perché Sanremo è Sanremo. In realtà, al ministro è bastato un tweet per dimostrare di averci capito pochino: «Il Teatro Ariston di #Sanremo è un teatro come tutti gli altri e quindi, come ha chiarito ieri il ministro @robersperanza, il pubblico, pagante, gratuito o di figuranti, potrà tornare solo quando le norme lo consentiranno per tutti i teatri e cinema. Speriamo il prima possibile». Nell’attesa che questo «prima possibile» già tardivo arrivi, il nodo da sciogliere è quello dei figuranti: «attori» scelti, controllati e contrattualizzati dalla Rai, che andrebbero a comporre il pubblico di 800 persone che occuperebbe la platea dell’Ariston. Il quale, però, non è un teatro «come tutti gli altri», perché in occasione del Festival diventa un normale studio televisivo.

Il cinguettio del ministro Franceschini – lo stesso che ha promosso la realizzazione della «Netflix della cultura italiana» in partnership con la semiclandestina Chili Tv e non con la Rai – è smentito anche dalle Faq del sito di Palazzo Chigi. La presenza di pubblico è infatti ammessa negli studi tv, «in quanto alle trasmissioni televisive non si applica il divieto previsto per gli spettacoli, perché la presenza di pubblico in studio rappresenta soltanto un elemento “coreografico” o comunque strettamente funzionale alla trasmissione». Non si spiegherebbe altrimenti perché programmi come X Factor e il Maurizio Costanzo show, registrato per altro al teatro Parioli, abbiano potuto andare in onda con un pubblico di figuranti.

«Sanremo è un continuum dell’intrattenimento che siamo riusciti a organizzare quest’anno nonostante la pandemia», ha sottolineato il direttore di Rai 1. Non sfugge ai più che, tra sponsor, pubblicità, industria discografica, cachet delle star, autopromozione della rete e tutto il resto, movimentando alcune decine di milioni di euro, il caravanserraglio del Festival è la macchina da soldi della Rai. E anche del Comune di Sanremo: «La mancata realizzazione del Festival comporterebbe un minor introito alle casse tale da portare il comune al default», ha detto allarmato il sindaco Alberto Biancheri. E pazienza se alcuni sovrintendenti d’importanti teatri come La Scala o L’Opera di Roma lamentano il trattamento di favore di cui godrebbe il Festival della canzone italiana. Per la verità c’è anche chi spinge nella direzione opposta e chiede di superare l’ipocrisia dei figuranti, aprendo le porte dell’Ariston a un pubblico vero. Con la sua forza d’urto, Sanremo potrebbe funzionare da apripista. Per ritornare alla normalità, prima o poi, da qualche parte bisogna pur cominciare.

Il governo è ancora in carica «per il disbrigo dell’ordinaria amministrazione». Ma con il Covid, il Festival della canzone italiana è affare ordinario o straordinario? Servirà nominare una task force per saperlo?

 

La Verità, 29 gennaio 2021

«L’Italia dovrebbe vincere con il potere dell’arte»

Artista, artigiano, musicista, musicologo, autore, compositore, interprete, showman: Marco Castoldi, in arte Morgan. Persona controversa. Altrimenti non si spiegherebbe come possa esser finito al centro di un inestricabile ingorgo amministrativo giudiziario sentimentale culturale, sfociato nel pignoramento della sua dimora-atelier. Ora, per sensibilizzare le autorità sulla vocazione dell’artista e sul legame tra la creazione e il posto dove questa si genera e prende forma, Marco Castoldi ha pubblicato per La nave di Teseo Essere Morgan – La casa gialla, primo libro di una trilogia, corredato di numerose illustrazioni, che si apre con una lettera al ministro dei Beni e delle attività culturali.

Sulla copertina si firma Marco Morgan Castoldi. Come devo chiamarla?

Come vuole. Morgan è il nome d’arte di un cantante autore performer pianista saltimbanco partorito da una persona che si chiama Marco e si occupa di spettacolo artistico, fatto di musica e parole.

Nella casa-atelier si realizza la sovrapposizione tra persona e artista: espropriarlo vuol dire impedirgli di creare?

Sicuramente nella casa avviene il concepimento e spesso la realizzazione dell’opera. Il posto dove abita l’artista è il posto dove abitano le sue idee. E le sue idee sono la sua arte. In questo periodo ripetevo che da trent’anni sto in quarantena, per cui non c’è nulla di nuovo. Ma siccome me l’hanno tolta, non ho più nemmeno la libertà di stare in casa mia.

Dove ha trascorso il lockdown?

In case a breve termine, piene di bagagli, senza i requisiti tecnici per la mia attività musicale. Case scomode. Case casuali.

Come si mantiene? Eravamo rimasti al pignoramento alla fonte dei suoi introiti, ci sono novità?

Nessuna. Sono rimasto completamente inascoltato sia come cittadino che come artista. Il ministero che dovrebbe occuparsi di beni e attività culturali e organizzare il rapporto tra l’artista, la società e il mercato non fa nulla. Neanche fa finta di farlo.

Il pignoramento e lo sfratto sono opera di Asia Argento per il mancato mantenimento della figlia o dell’Agenzia delle entrate per il mancato pagamento delle tasse?

Non ho quasi mai mancato di mantenere le mie figlie. In realtà le cifre corrisposte sono più alte di quelle richieste. Perché oltre l’assegno mensile, ho assolto alle spese per la scuola e per le attività sportive e ricreative. Ricordo che la bambina è cresciuta con me per quattro anni. Poi ho versato alla madre 3000 euro al mese. Direi tanti per mantenere una bambina. Perciò mi è venuto il dubbio di aver mantenuto anche il tenore di vita da star della madre.

Ma gli alimenti li ha sempre pagati?

Non sempre. Ho avuto problemi con i manager. Ci sono stati momenti in cui non venivo pagato. Ho chiesto di pazientare, assicurando che avrei risolto la situazione. Negli anni ho versato qualcosa come 350-400.000 euro. Va bene, era la risposta. Poi però arrivavano le lettere dell’avvocato. Comportamenti miseri. Non si dovrebbe arrivare a questo tra persone che si sono dette «ti amo». Invece, è successo. E poi ci si atteggia a paladina della battaglia contro la violenza sulle donne.

Era insolvente anche verso l’Agenzia delle entrate?

Tutto è partito da lì. Mi hanno imputato un debito e hanno subito iniziato a pignorare le mie entrate senza discutere di rateizzazione. Non potendo più pagare gli alimenti si è innescata la catena.

Ha presentato reclamo?

L’Agenzia delle entrate è un’entità kafkiana, irraggiungibile. Sono andato di persona per definire una contrattazione basata sui miei introiti. Impossibile. L’anima della burocrazia è questa: dammi la prova che esisti, un documento con marca da bollo. Non basta vederti qui davanti, serve il documento…

Il merito di questa situazione è del suo manager?

Sono passato per diverse gestioni, tutte similmente opache. I manager di artisti non esistono come categoria. Non ci sono regole. Sono autodidatti che pensano di farla in barba all’artista. Il quale è distratto perché pensa alla sua attività creativa.

Perciò non può lamentarsi…

Anch’io ho vissuto da ricco. Le canzoni producono ricchezza. Ho avuto 100, ma loro se ne sono presi 500. Mio compito non è frugare nelle carte dei commercialisti, ma creare una canzone dalla quale tutti traggano vantaggi. Se compongo un ritornello troppo lungo la canzone non incassa due milioni di euro. Se è giusto sì. La mia responsabilità è fare canzoni perfette. Poi, improvvisamente, arriva una notifica di 2 milioni di tasse da pagare.

Con questo libro, introdotto da una lettera all’allora ministro Alberto Bonisoli, contesta il comportamento dello Stato sostenendo che, anziché penalizzarla, dovrebbe sostenerla.

L’obiettivo è mettersi attorno a un tavolo per capire il ruolo dell’artista nella società moderna. E stabilire un sistema di norme affinché le sue creazioni siano vantaggiose per tutti: artista, Stato e mercato. Sono molto competente per ciò che concerne la dimora dell’artista. È una visione che si allarga allo stato dell’arte in Italia fino alla politica del nostro Paese.

In che senso?

Com’è possibile che l’Italia che possiede il più grande patrimonio artistico al mondo sia un Paese economicamente sottomesso e indebolito nella sua sovranità, come abbiamo visto anche durante questa crisi del coronavirus? Un Paese in possesso, temo ancora per poco, di tutta questa bellezza dovrebbe dominare il mondo. Abbiamo avuto Antonio Vivaldi, cioè il maestro di Bach, Mozart e Beethoven. Abbiamo avuto Piero della Francesca, cioè tutti gli Andy Warhol messi insieme. Potrei continuare. Dovremmo governare il mondo…

Invece?

Siamo indebitati perché chi governa è ignorante e non capisce il valore della bellezza. Questi politici vanno aiutati. Vanno condotti per mano perché possano comprendere quanto vale la ricchezza di cui disponiamo.

Nel suo libro parla dell’artista «al centro del reticolo sociale».

L’artista è al centro della comunità, non più fisica o geografica, ma mediatica e virtuale. L’artista aggrega. Che cosa ricordiamo della storia del nostro Paese? I grandi artisti come Leonardo da Vinci o Dante Alighieri. La storia la fanno i grandi creatori o i grandi distruttori. Leonardo e Ludovico il Moro, Picasso e Hitler: dipende da che parte stiamo.

La legge è uguale per tutti: se un musicista rimane senza lavoro è come se accadesse a un commesso?

Il commesso ha la mia stessa dignità. Né più né meno. Ma sul piano sociale è diverso. Sui social scrivono: chi ti credi di essere? Se mi togli la casa mi togli anche il lavoro. Al commesso resta il negozio. Se non lavoro io, si ferma tutto l’indotto delle mie canzoni. A un concerto ho 50.000 persone davanti, qualche decina lavora dietro e attorno al palco, altri guadagnano con i diritti d’autore, poi ci sono le case discografiche, gli uffici stampa… Io posso sostituire il commesso in negozio, lui non può sostituire me.

Intanto il ministro è cambiato. Ora è Dario Franceschini, concittadino di Vittorio Sgarbi, prefatore del libro.

Quindi, per campanilismo dovrebbe leggerlo. Poi mi auguro di incontrarlo.

In quasi tutte le sue ultime esibizioni sono successi casini.

Sono rappresentazioni artistiche.

Con Sky siete in causa per X Factor.

Per forza. Mi hanno promesso un cachet, la mia partecipazione ha portato ascolti, ma non mi pagano giustificando il fatto con le mie intemperanze.

Anche con Maria De Filippi non è finita benissimo.

Idem. Pensando a Maria De Filippi, faccio «Ah!».

Prego?

Ah! Un’esclamazione alla Al Pacino. Nel palazzetto dove si registrava Amici una sera mi è esplosa una paura pazzesca… Sono scappato. «Dove stai andando?», urlavano. «Basta, sono un comunista, sono un comunista». Sono scappato per i campi, nella nebbia, ancora con l’auricolare addosso.

Mi prende in giro? Sembra la scena di un film…

È successo davvero.

A Sanremo sappiamo com’è andata con Bugo.

È stata un’invenzione teatrale, un’iniezione di spettacolo. Sa quanto ha reso il video a YouTube? 23 milioni di euro, con oltre 15 milioni di visualizzazioni. Ma né io né la Rai abbiamo avuto niente.

Ha rotto con Sky, ha rotto con Mediaset e con la Rai ci siamo vicini?

Tutt’altro. La Rai la amo perché è super partes. Sogno di realizzare una trasmissione che valorizzi quello che so fare. Il programma di Enrico Ruggeri è stato un buon passo avanti. Spero venga il mio momento.

Tornerà al Festival nel 2021?

Amadeus è una persona seria, ironica e professionale. Forse l’idea migliore sarebbe che io e Bugo tornassimo come ospiti. Io ospite di Bugo e Bugo ospite mio… Ci pensa? Con l’utopia di fare pace sul palco. E con la strizza che, se non riesce, si ripeterà un altro fattaccio.

Per concludere, c’è qualcosa che la fa essere ottimista?

Penso che mi rivolgerò alla magia.

Chi è Morgan?

Un angelo che va sul palco. E può essere commovente o divertente.

 

Panorama, 20 maggio 2020

L’eredità di Sanremo? Il gender fluid è «avanti»

A bocce ferme… Oddio, non fraintendete, non fate i soliti maschilisti («Qui c’è del boccismo», direbbe Fiorello). Insomma, a riflettori spenti, che cos’ha lasciato in eredità la settantesima edizione del Festival di Sanremo? Oltre alla vittoria di Diodato, alla reunion dei Ricchi e Poveri, alla disunion di Bugo e Morgan, alla resilienza di Paolo Palumbo e all’amicizia tra Fiore & Ama (auguri per Sanremo 2021, podologo permettendo); oltre a tutto questo, qual è il vero messaggio, il testimone consegnato ai posteri dal Festivalone appena concluso? Pensiamoci bene. Più ancora della lotta alla violenza contro le donne, con tanto di monologhi e schieramenti di star (nessuno che abbia ripescato Donne di Zucchero, Festival 1985), qual è stato il vero lascito, strisciante, ma ribadito in svariate forme e situazioni più o meno artistiche e poco subliminali? Qual è il pensiero unico tracimato dall’Ariston? L’avanguardia è gender fluid, ecco il messaggio, e dite se non è vero. Gli outfit di Achille Lauro, il sermone di Roberto Benigni con la password biblica all’amore omosex, le fierezze di Tiziano Ferro… Uniamo i puntini. La bisessualità, anzi, la polisessualità, l’amore tra uomo e uomo, tra donna e donna, che però non disdegnano la contemporanea e tradizionalissima eterosessualità: tutto questo è il futuro, il progresso, persino l’ecosostenibilità, considerato che c’è chi comincia a suggerire la rinuncia a far figli come arma anti inquinamento. L’uscita dalla vetusta sessualità binaria (c’è del «binarismo»?) è contemporanea, moderna, disinibita, persino ecologica. Libera: ecco la parola (ma «liberismo» non va bene). Quello che va bene è assecondare gusti e inclinazioni. Nessuno può dettarci come esprimere le nostre passioni. Siamo nel Terzo millennio. Questa è la nuova frontiera del costume e del lifestyle. Ancora ci si scandalizza? Tiziano Ferro monologheggia: «Non sono sbagliato. Nessuno lo è». Parliamone senza manicheismi. Ma considerata l’aria che tira e il protagonismo della minoranza omo e bisex, non vorremmo si ribaltasse l’emisfero e, per compiacere mode e modernità, la maggioranza etero diventasse improvvisamente noioso simbolo rétro.

Tornando alle canzonette, nessuno scandalo, pura registrazione dei fatti. Meglio, fatterelli. Il gender fluid è stato il tema ricorrente della kermesse, testimonial ufficiale Achille Lauro fin dalla prima apparizione con body glitterato («glitteratismo»?). Dopo, molto altro. Al punto che vien da dubitare sia stato tutto studiato, programmato, scritto. O forse no, la polisessualità ormai è talmente naturale da venir fuori spontanea. Operazione studiata, ideologia o tendenza inarrestabile, non si sa cosa sia più preoccupante. Ecco i fatterelli. La precisazione di Tiziano Ferro dopo aver cantato «per la prima volta» al maschile Almeno tu nell’universo e la sua rima con «tu che sei diverso», canzone che Bruno Lauzi aveva destinato a una donna (Mia Martini, Sanremo 1989, èra di amori tradizionali). La lectio biblica di Benigni, il teologo di Sanremo, sul Cantico dei cantici gay friendly che ha fatto esultare una buona fetta del popolo dei social, intere redazioni di riviste patinate, backstage e passerelle del fashion, schiere di millennials queer e di critici snob per la demolizione della famiglia tradizionale consumata nell’orario di massimo ascolto. La tendenza era stata magistralmente anticipata da Dagospia che già la prima sera aveva appaiato le foto di Elettra Lamborghini e Achille Lauro in pigiama nude look sberluccicanti, con la fulminante didascalia Genitore 1 Genitore 2. Antimoralisti in visibilio. Poi dicono che la musica passa in secondo piano. A un festival della canzone, oltre che indossare capi firmati o citare look storici, bisognerebbe anche saper cantare, o no? Andiamo avanti. Ecco altri ammiccamenti e baci, compreso quello per la pace tra Fiorello e Ferro, con tanti saluti al marito di quest’ultimo e giuliva corsa nel retropalco. Altre apparizioni, nessuna esclusa, dell’interprete di Me ne frego nei suoi variopintissimi travestimenti da Ziggy Stardust, diva del cinema muto, Elisabetta Tudor regina d’Inghilterra e d’Irlanda. Una sfilata coreografica, una galleria d’invenzioni sceniche inneggianti al transessualismo e alla contestazione della famigerata sessualità tradizionale, sottolineata con altri baci e strusciamenti a Edoardo Manozzi (in arte Boss Doms), il truccatissimo chitarrista accompagnatore.

Impegnandosi, si potrebbe anche tollerare tutto questo fluidismo. Siamo nel Terzo millennio, appunto. La stonatura è negli osanna esagerati, anche quelli di Fiore, il mattatore di questo Festival, che ha voluto puntualmente farsi fotografare al fianco di Lauro. Perché «lui è avanti» («avantismo»?) e «ha riportato a Sanremo le performance che una volta erano di Anna Oxa, Patty Pravo, Renato Zero». Allargando il campo, si potrebbero citare anche Alice Cooper, David Bowie, Ozzy Osbourne, Marylin Manson e chissà quanti se ne dimenticano. Ma tant’è. «Se qualcuno lo fischia, vuol dire che è indietro», ha tagliato corto il talismano dell’Ariston nell’unica sentenza venutagli un po’ così, in un eccesso pedagogico forse sfuggitogli per stanchezza. Evitando i fischi, magari, ci permettiamo di dissentire e di non iscriverci a questo «avantismo». Anche perché, senza amore tradizionale, la stessa specie umana non farebbe molta strada, così per dire. E di difendere la libertà di continuare a baciare una persona dell’altro sesso senza doverci sentire «un passo indietro».

 

La Verità, 10 febbraio 2020

Fiore talismano Ama medioman Bugo-Morgan 0

Grazie al cielo il 70° Festival di Sanremo è finito. Però, vabbè: era l’unico programma desardinizzato della Rai. Dopo le gaffe da preambolo, il Festival di Ama & Fiore è partito subito bene e, di serata in serata, è andato migliorando pure negli ascolti, infrangendo record e paragonandosi ai risultati baudeschi del 1997, èra prepiattaforme. 13 milioni di telespettatori medi nelle prime parti, 56% lo share delle seconde. Oltre che nella presenza di Fiorello, il segreto è nella durata delle serate fino all’albeggiare. Non a caso, lo share lievita svoltando la mezzanotte, quando la concorrenza è a nanna. Intanto si è già cominciato a immaginare chi potrebbe condurre e dirigere il carrozzone nel 2021. Fabrizio Salini permettendo, Ama & Fiore si sono guadagnati il bis sul campo. Tra i loro meriti, aver tenuto la politica abbastanza lontana dal teatro Ariston, salvo qualche eccezione. Altra tendenza, la difficoltà crescente nel linguaggio: lentamente il politicamente corretto sta accerchiando anche «l’unica festa patronale di questo gran paesone» (Marcello Veneziani). Tracciamo un bilancio con voti decrescenti del Festival 2020 anche se, mentre scriviamo, ancora non si sa chi l’ha vinto. Anche su questo Fiorello aveva avuto l’idea giusta: «Chiudiamola qui», ha detto venerdì sera dopo l’inusitato forfait di Bugo, «proclamiamo una sera prima il vincitore e ce ne andiamo tutti a casa». Magari!

Fiorello La formula era su misura per lui: battitore libero, ad Amadeus la burocrazia della gara. Mattatore, showman a 360 gradi, funambolo, improvvisatore di monologhi (contagioso quello sui sessantenni e i problemi di minzione). Dispensatore di buonumore anche nel climax della scomparsa di Bugo («Allora, allora – con fare risolutivo – non ho capito niente di quello che è successo»), calamita di eccellenze come il numero uno del tennis, Novak Djokovic. Tutto questo si sapeva, come pure se ne conosceva la permalosità. L’istinto di razza si è visto nel tormentone anti accuse di sessismo. «Qui c’è del fiorismo», ha detto dopo aver apprezzato l’omaggio floreale ricevuto nei panni di Maria De Filippi. E poi «del cantismo», «del bacismo», «del machismo»… Genialissimo fuori copione indirizzato ai maestrini della sala stampa. Talismano. 10

Paolo Palumbo Avanguardia empatica. Aziona con gli occhi un sintetizzatore che emette «una voce da casello autostradale». Eppure le sue rime scaldano l’Ariston come poche altre. Il messaggio più positivo del Festival arriva da questo ragazzo di 22 anni malato di Sla: «Quando vi dicono che i vostri sogni non si possono realizzare, continuate dritti per la vostra strada seguendo il cuore, perché i limiti sono dentro di noi».  Resiliente. 9

Ricchi e Poveri Il vintage che vince. La reunion ha portato in vetrina una vecchia storia di corna e gelosie. Ma soprattutto ha innescato la festa in platea. Tutti in piedi a cantare La prima cosa bella, Che sarà, Se m’innamoro, Sarà perché ti amo, Mamma Maria. Da giovani ci si sarebbe vergognati a farlo. Come si cambia, canterebbe Fiorella Mannoia. Spensierati. 8

Amadeus Professionista. Muro di gomma. Perfetto medioman. Pian piano si è risollevato dalle gaffe di partenza. Sapeva che, stando a ruota dell’amico, poteva solo crescere. Ha subito ironie, sberleffi, gavettoni, alti e bassi. Ma lui non è permaloso, altrimenti… Sanremo è una giostra, impossibile non prendere qualche colpo. Non si è perso d’animo nemmeno quando Bugo si è dileguato. Il bravo ragazzo italiano che va a baciare mamma e papà in platea che fa simpatia a tutti. Punti deboli? La scelta delle canzoni, francamente non eccelse e troppo farcite di rap, e l’estenuante lunghezza delle serate. Sempre in piedi. 7,5

Antonella Clerici Tra tante dive bellissime (si può dire?) è parsa la più signorile. L’Ariston è casa sua e la conduzione il suo mestiere, commozione in conferenza stampa a parte. Si è portata due boys perché l’aiutassero a scendere le scale ornata in abiti coloratissimi e strascicatissimi. Dal librone del Festival ha letto i segreti del successo di Ama: le gaffe, gli orari antelucani… Se lo poteva permettere; anche lei, come lui, è della scuderia Lucio Presta. Disinvolta. 7,5

Vincenzo Mollica Comunque vada sarà un successo, diceva Piero Chiambretti. Si potrebbe applicare alle cronache sempre positive dell’inviato principe della Rai sugli eventi di spettacolo. Lezioni di stile e garbo. Il Festival gli ha tributato l’omaggio dei grandi, con i video di Stefania Sandrelli, Vasco Rossi, Roberto Benigni. I dirigenti erano lì a fianco ma, non si sono intromessi. Commozione, affetto, compostezza. Perché Mollica è Mollica. Storico. 7,5

Francesco Gabbani Ha vinto alla prima partecipazione Sanremo giovani nel 2016, poi tra i big nel 2017 battendo Fiorella Mannoia. La sua Viceversa parla di opposti che si aiutano e di condivisione. È una bella canzone, positiva, ben interpretata dal più teatrale fra i concorrenti. Outsider. 7

Tiziano Ferro Quando devi cantare Perdere l’amore e Almeno tu nell’universo hai vinto a tavolino. Con la sua propensione al soprarighismo, l’interprete di Sere nere è riuscito a pareggiare. Capriccioso causa collocazione nel palinsesto delle serate, enfatico nelle esibizioni. Come quando ha voluto specificare, tra le lacrime, che Bruno Lauzi aveva scritto per una donna Almeno tu nell’universo perché l’imprescindibile rima con «tu che sei diverso» non poteva essere volta al femminile, ma lui era felice di essere il primo uomo a cantarla, mantenendo la coniugazione al maschile. Egoriferito. 5

La saga di Deejay Neanche un tweet da Jovanotti sul Festival dei suoi amici. Lorenzo Cherubini all’Ariston non s’è visto: era in Perù. Claudio Cecchetto, invece, non è stato invitato. Dicono che in Rai non amino «i pacchetti» e con Amadeus, Fiorello, Nicola Savino, il Festival era già monopolizzato dall’emittente del gruppo Gedi. Speriamo il dissapore non finisca come al Fatto quotidiano. Era indispensabile imbarcare tutti nel carrozzone? Festival dell’amicizia incrinata? Primedonne. 5

Mannoia, Nannini, Pausini & Co Dopo il monologo di Rula Jebreal serviva ancora la comparsata delle sette cantanti sette per annunciare la campagna «Una, nessuna centomila» e il megaconcertone di Campovolo del poco prossimo 19 settembre? In piena overdose femminile e femminista, tra monologhi e denunce sparse, in mezzo alle tante interpretazioni di cover del passato e pur con l’ospitata dello stesso Zucchero, forse qualcuna poteva ripescare dalla storia festivaliera la sua Donne, meglio di tante parole… Pleonastiche. 4,5

Promo Rai Martellanti. Ridondanti. Sparati sempre in grappolo ad allungare i già incombenti break pubblicitari. La tv di Stato approfitta della vetrina per esporre tutto il meglio della programmazione in arrivo. Il meglio? C’è persino Mario Tozzi con Sapiens su Rai 3… Al centocinquantesimo sussurro tra le due amiche geniali cominci a sperare che si strozzino tra loro. Alla duecentesima telefonata di Catarella in siciliano stretto vorresti lanciare l’hashtag #Catarellaimparalitaliano. Asfissianti. 4,5

Roberto Benigni Il teologo di Sanremo. Il Cantico dei cantici apocrifo, presentato come «il libro più bello, più santo, più importante della Bibbia» (sono 15 pagine) con tanto di consulenti professori, poeti, biblisti, cardinali è stato forse il momento peggiore di tutta la kermesse. Il bello (o il brutto) è che se ne sono accorti in pochi. Un trailer molto arbitrario dell’amore omosessuale patrocinato dalle sacre scritture… Manipolatorio. 4

Junior Cally Rapper sardina. Per farci digerire i fiumi di polemiche pre Festival il suo brano avrebbe dovuto essere almeno un minuetto mozartiano. Invece arruola sei autori per martellare di «No, grazie» Matteo Salvini, Matteo Renzi, gli odiatori del web e gli yes men. Sai che novità. Rapper dell’establishment. Omologato. 4

Regia e dirigenti Rai Selfie continuo. Ogni inquadratura una zoommata di saliva. Al neodirettore di Rai 1 Stefano Coletta, al direttore generale Fabrizio Salini e a Giovanna Civitillo, moglie di Amadeus. Non si sono schiodati un minuto dalla prima fila per tutta la settimana. Compiaciuti. 4

Achille Lauro Idolo di Vanity Fair. Sotto la cappa nera con intarsi dorati sfoggia la tutina di strass effetto nude look che dovrebbe simboleggiare la rinuncia francescana ai lussi mondani. Peccato sia firmata Gucci alla modica cifra di 5.700 euro. La sera dei duetti eccolo invece con trucco pesante, abito di raso verde smeraldo e parrucca ramata: citazione di Ziggy Stardust, uno dei tanti travestimenti di David Bowie, simbolo di «una mascolinità non tossica». Minchia! si può dire? Fischiato all’ennesimo travestimento da diva del muto. Marylin Manson de noantri. Contraffatto. 3

Morgan e Bugo Dio li fa ma si accoppiano da soli. S’era capito già alla prima sera che l’ex leader dei Bluevertigo, occhi e bocca pittati, e il suo lugubre socio erano un binomio ad alta tensione. Morgan ha iniziato subito a scalpitare, inviando diffide dell’avvocato per le poche sessioni di prove. Per la serata delle cover in duetto, dopo le defezioni di Raffaella Carrà, Sergio Cammariere, Vittorio Sgarbi, Fast animals and the slow kids, i due soci… erano già un duetto (?). In compenso, per storpiare Canzone per te di Sergio Endrigo, l’ex giudice di X Factor si è fatto in tre, cantando, suonando il pianoforte e dirigendo l’orchestra. Bugo, invece, gorgheggiava per conto suo. Fino al colpo di scena finale con abbandono del palco. Autolesionisti. 0

 

La Verità, 9 febbraio 2020

Il bel monologo di Jebreal con i numeri sbagliati

Noi donne vogliamo essere questo: musica». Si è concluso così, l’altra sera, al culmine di un notevole crescendo, il monologo di Rula Jebreal sul palco dell’Ariston di Sanremo. Il pubblico era in piedi ad applaudire. Una bella performance, senza dubbio, che avrebbe potuto essere bellissima se solo fosse stata corretta e completa. Corretta nelle cifre delle violenze alle donne, senza usare come sinonimi – ciò che non sono – molestie, abusi, brutalità, stupri, violenze. E completa nel citare anche il trattamento che il sesso debole (si può ancora dire?) subisce dentro e fuori dall’Italia, in tante comunità islamiche. Sul quale, invece, diversamente da come speravano gli osservatori più ottimisti, non è stata pronunciata parola alcuna.

Il giorno dopo l’attesa esibizione della bella giornalista palestinese alla prima serata del 70° Festival di Sanremo le opposte tifoserie hanno ribadito i loro punti di vista, Laura Boldrini da una parte, Maria Giovanna Maglie dall’altra, per capirci. Inutile rifare la storia delle polemiche, innescate fin dall’invito all’ex moglie del banchiere Arthur Altschul jr. all’evento più popolare del Paese nel quale è a lungo vissuta e che, pure, ha ripetutamente accusato di razzismo e xenofobia. Ripartiamo dalla performance di martedì sera che ha registrato la sparizione del video di Roger Waters, il fondatore dei Pink Floyd, protagonista di campagne anti Israele oltre che di un chiacchierato flirt proprio con Jebreal, annunciato come introduzione al monologo di lei. Un bel pezzo di televisione, si diceva. Commovente, vissuto e carico di pathos. In grado di far ricredere anche chi, accingendosi alla visione di un festival della canzone, poteva, comprensibilmente, avvertire un certo fastidio di fronte all’iniezione intramuscolare d’impegno morale. L’idea però conteneva una trovata scenica semplice e diretta, qualcosa di ancora non visto in tv. Un libro nero «della realtà e della sofferenza» da un lato e un libro bianco del mondo che vorremmo, dall’altro, raccontato dalle parole di amore, protezione, rispetto, tenerezza di alcune canzoni «scritte tutte da uomini» (La cura di Franco Battiato, La donna cannone di Francesco De Gregori, Sally di Vasco Rossi, C’è tempo di Ivano Fossati).

Ieri, poi, dalle parole della stessa giornalista, abbiamo scoperto che l’esibizione è frutto della collaborazione con gli autori Rai, ma soprattutto con Selvaggia Lucarelli, che ha corretto e riscritto il testo del monologo introdotto dalla tragica esperienza personale. «Sono cresciuta in un orfanotrofio con tanti altri bambini… Tutte le sere prima di dormire ci raccontavano le storie delle nostre mamme, spesso stuprate, torturate e uccise…». La madre di Rula, brutalizzata per anni dal compagno, non è più riuscita a convivere con il proprio corpo, «luogo della tortura», e con il senso di colpa, pur non avendone. Una ferita atroce e acuita dall’incredulità dell’ambiente circostante, che l’ha portata a suicidarsi, dandosi fuoco.

Di fronte a una storia tanto drammatica è difficile parlare di retorica o di predicozzo come qualcuno ha fatto. Tuttavia, qualche eccesso c’è stato. Nulla attenua la condanna di violenze, stupri e torture. Ma non è che le donne in quanto tali e in tutto ciò che fanno, com’è sembrato, siano dogmaticamente prive di qualsiasi responsabilità e le colpe risiedano sempre e in modo esclusivo dalla parte degli uomini. A loro, comunque, si è rivolta Jebreal nel toccante appello finale: «Lasciateci essere quello che siamo, quello che vogliamo essere». Celebrando il trionfo della prima serata sanremese (52,2% di share medio, al terzo posto per ascolti dal 2000 a oggi), il neodirettore di Rai 1 Stefano Coletta, ha detto che, «senza nulla togliere a Diletta Leotta», il Festival «è stato vinto da Rula Jebreal».

Nulla da obiettare: Leotta è parsa scolastica nel suo elogio della bellezza e del tempo che passa. Tuttavia, il successo della giornalista di fede musulmana sarebbe stato più evidente se le cifre da cui ha preso le mosse la sua riflessione fossero state più precise. Sarà stata l’emozione o una mancata verifica insieme ai suoi collaboratori, ma «3 milioni e 150.000 donne» vittime di «violenze sessuali nei posti di lavoro» negli ultimi tre anni è parso subito un numero esorbitante. Che, per altro, non concorda con l’altro, fornito sempre da Jebreal, di 88 vittime al giorno, una ogni 15 minuti (sarebbero 32.130 all’anno, 96.360 in tre).

L’ha notato Franco Bechis su Twitter. Considerato che le donne che lavorano sono 9 milioni, «in ufficio ne avrebbero violentata una su tre. Sicura?», ha chiesto sommessamente. Immediata la valanga di accuse di lesa maestà. Alle quali il direttore del Tempo ha replicato con gli ultimi dati Istat disponibili, triennio 2013-2016: i casi di violenza al lavoro sono 425.000. Negli anni successivi, saranno verosimilmente diminuiti. Restano ancora troppo lontani dallo zero. E dunque, ben venga la lezione portata dal palco del Festival di Rula Jebreal, figlia dell’imam sufi di Gerusalemme est, giornalista e scrittrice nata ad Haifa (Israele), con gioventù in Italia, prima di trasferirsi a New York, compagna del regista Julian Schnabel e poi moglie del banchiere Altschul, a sua volta figlio di un socio di Goldman Sachs, dal quale ha divorziato nel 2016. Curriculum prestigiosissimo, frequentazioni invidiabili, consulenze a capi di Stato come Emmanuel Macron, intervistata da Matteo Renzi alla Leopolda 2019, in prima linea nelle battaglie per le minoranze. Forse, in dieci minuti di monologo sui femminicidi, ci poteva stare anche una parola di denuncia sul trattamento riservato alle donne nei Paesi arabi e nelle comunità islamiche anche italiane. I divieti, i silenzi, le violenze, i matrimoni obbligati e le figlie ripudiate perché si ribellano o perché vestono all’occidentale. Invece, nulla.

 

La Verità, 6 febbraio 2019

«Dopo il tumore prego, ma non so il Padre nostro»

«Questa è la mia officina e non la vendo a nessuno», esordisce Toto Cutugno, seduto tra i suoi collaboratori. Siamo nello studio di registrazione in un seminterrato di Milano est. «Qui veniva anche Adriano Celentano, il più grande di tutti, per il quale ho scritto alcuni successi come Soli. Poi Loredana Bertè, Pino Daniele, sono venuti in tanti… Adesso fanno tutto con i cellulari. Questo studio era di Gino Paoli, poi del maestro Pinuccio Pirazzoli, quello che lavora con Carlo Conti. Poi l’ho preso io». Intorno a Cutugno, 75 anni, toscano di Fosdinovo (Massa Carrara), ci sono il manager Danilo Mancuso, la responsabile dei rapporti con i media Gessica Giglio, i tecnici e i musicisti, anche loro reduci da un tour all’estero.

Dove siete stati?

«A Budapest, Praga, Varsavia e Bratislava. E a Kiev».

Bilancio?

«Molto positivo. Palazzetti e arene sempre esaurite. Grandi soddisfazioni anche a Kiev».

In Ucraina era indesiderato.

«Ci sono andato proprio nella settimana in cui un senatore mi aveva citato come spia sovietica. Prima ha accusato Al Bano, poi me. Mi sono messo a ridere. All’aeroporto c’erano tutte le tv ad aspettarmi. Ho fatto un grande concerto con l’orchestra sinfonica».

Come si è spiegato un attacco come quello?

«E chi lo sa? Magari alla moglie del senatore piacciono troppo le mie canzoni (sorride). L’ho anche invitato al concerto, ma non è venuto. Invece, i presidenti ucraini sono sempre venuti».

In quei giorni c’erano anche le elezioni presidenziali.

«Ed è stato eletto Volodymyr Zelensky, un comico che ricorda il nostro Beppe Grillo. Ho partecipato anche a un programma tv con lui. Un simpaticone. Aveva fatto una serie in cui interpretava il ruolo di un professore che diventa capo dello Stato. E lo è diventato veramente».

Il senatore che l’accusa appartiene a un partito avversario?

«Sì, ma è stata un’uscita isolata. Al Bano si era espresso in favore di Vladimir Putin durante la guerra di Crimea, io non ho detto nulla. Anni fa, dopo un concerto, Putin venne in camerino, mi ha dato la mano e se n’è andato. Un uomo con uno sguardo glaciale».

Però Al Bano è suo amico.

«Un fratello. Se sono qui lo devo a lui. Un giorno, era il 2007, viene a trovarmi. Gli dico: “Sai che cosa mi succede Al? Di notte devo alzarmi tre o quattro volte…”. Fa una telefonata e mi prende un appuntamento per l’indomani al San Raffaele. Il medico mi visita e decide di operarmi d’urgenza. Se non ci fosse stato Al Bano… Ora sono un miracolato che ama la vita più di prima. Solo, non riesco a camminare tanto e dovrei smettere di fumare».

In quali altri paesi la chiamano?

«Dovunque. In Turchia, in Afghanistan. Sono stato in tutte le repubbliche dell’ex Unione sovietica, dalla Kamchatka alla Lituania. Poi in Armenia, a Dubai, a Cartagine in Tunisia, in Algeria, in Germania, in Spagna. In Francia, all’Olimpia di Parigi».

Nel dicembre scorso.

«Grande serata. In Francia sono amato perché mi ha spalancato la carriera di compositore quando Joe Dassin volle cantare un mio brano. Poi sono arrivati Johnny Halliday, Mireille Mathieu e tutti gli altri».

Com’è l’Italia vista dai suoi concerti all’estero?

«Guai a chi me la tocca… Certo, ci sono tante cose che non funzionano. Ma quando sei fuori ti rendi conto della bellezza dell’Italia. Io la conosco anche nei suoi angoli remoti perché per tre anni, facendo Piacere Rai1 con Piero Badaloni e Simona Marchini, l’ho girata in lungo e in largo».

È più facile organizzare un tour in Italia o all’estero?

«Qui siamo cantanti nazionalpopolari, mentre all’estero ci vedono come artisti internazionali. Per questo è un po’ che non faccio tournée italiane. Ho un po’ di paura, mi è sembrato di esser finito nel dimenticatoio… Con tutto questo rap ho cominciato a pensare che la melodia mediterranea sia meno amata. Ma forse, se fai una bella canzone, l’apprezzano anche i giovani. Sto lavorando a un nuovo disco che sarà pronto in ottobre. Il mio manager vuole farmi provare sette otto tappe, poi vediamo. Anche dopo la vicenda dell’Ucraina, in tanti mi chiedono perché non faccio più concerti in Italia. Presto succederà».

Perché lei, Al Bano, Gigliola Cinquetti, i Ricchi e poveri, Riccardo Fogli, Marcella avete tanto successo soprattutto all’Est?

«La prima volta che sono andato a cantare in Unione sovietica era il 1986. C’erano ancora il Muro di Berlino e la dittatura. Feci 15 serate a Mosca e 15 a San Pietroburgo: 20.000 persone a concerto. La domenica se ne facevano due, uno al pomeriggio e uno la sera. I biglietti venivano venduti nelle fabbriche. Erano anni cupi, ma i russi vedevano il Festival di Sanremo. Cercavano quella spensieratezza che c’è nelle nostre canzoni. Le mie piacevano e piacciono molto alle donne, perché vedono l’italiano romantico e sentono l’armonia mediterranea. Poi in alcune mie canzoni ci sono delle assonanze con la musica popolare russa».

Perché ha il record di partecipazioni a Sanremo?

«Ci sono andato quindici volte. La prima, nel 1980, l’ho vinto con Solo noi e ho cominciato a pensare che fosse facile vincerlo. Così sono tornato, ma sono sempre arrivato secondo e la cosa mi fa un po’ incazzare. Però l’anno che sono arrivato dietro ai Pooh sono andato all’Eurofestival al posto loro, e l’ho vinto. Mi piaceva gareggiare. Arrivavo in albergo a Sanremo e dicevo a mia moglie: “Questa volta non mi voglio incazzare”. Ma dopo un quarto d’ora stavo già litigando con i giornalisti».

Motivo?

«Dicevano che ero ruffiano perché avevo scritto le canzoni sulle mamme e sui figli. Ma Le mamme parlava di mia madre che non c’era più e Figli l’avevo scritta dopo che era nato Niko. Ho scritto anche serenate, ballate malinconiche, Voglio andare a vivere in campagna…».

Mai stato idilliaco il suo rapporto con i giornalisti.

«Ce n’era uno molto importante che appena mi vedeva mi abbracciava. Ma appena c’era una telecamera teneva le distanze. Un altro mi elogiava in pubblico come musicista, ma stroncava le canzoni sul giornale. Io non sopporto l’ipocrisia, la doppiezza, amo la gente…».

Vede il pericolo che anche Sanremo diventi una manifestazione per intellettuali?

«Dipende sempre dal direttore artistico, anche lì si va per amicizie. Vorrei sapere quale canzone ha lasciato il segno negli ultimi vent’anni. Soldi mi piaceva, era una bella furbata e all’Eurofestival Mahmood è arrivato secondo. A me sembra che ci siano troppi talent, X Factor, The Voice, Amici, quello di Michelle Hunziker e J-Ax. Tutti bravi, ma dov’è lo spazio? E i ragazzi che non sfondano lo accettano o magari cadono in depressione?».

Ha seguito le polemiche del festival di quest’anno?

«Una volta c’era il voto popolare abbinato al Totip e vinceva la canzone che piaceva alla gente. Nel 1983 con L’Italiano sono arrivato quinto. Mentre con il voto del Totip, che quell’anno era sperimentale, avrei vinto. La sera mi telefonò Domenico Modugno: “Ho sentito la canzone, tu sarai il mio proseguimento”. Fu quella la mia vittoria».

Un verso di Insieme con cui ha vinto l’Eurofestival dice: «L’Europa non è lontana, c’è una canzone italiana». È la sintesi delle ultime elezioni?

«Quando l’ho scritta l’Unione europea non c’era ancora, ma qualche giorno fa a Bratislava la cantavano tutti. Sì, sembra la sintesi delle elezioni, anche se dicono che in Europa la canzone italiana conta poco. Speriamo che cambi, che riescano a ridurre le tasse, non ha idea di quante ne pago io».

Lei come le ha vissute queste elezioni?

«Premetto: io sono apolitico. Ho seguito i leader e a volte penso che parlano bene e razzolano male. Matteo Salvini mi piace, l’ho anche votato, vediamo che cosa riesce a fare. Io sono sempre stato berlusconiano, però adesso Berlusconi mi fa tenerezza. Quando l’ho conosciuto, prima che entrasse in politica, aveva grande carisma».

Come l’ha conosciuto?

«M’invitò ad Arcore nel ’93, voleva che passassi a Mediaset. Mi fece parlare e io gli raccontai di mio padre che suonava la tromba e di quella volta che gli telefonai dopo il successo di Soli cantata da Celentano: “Sì, bella canzone, ma è un po’ copiata, somiglia a questa…”, disse intonando un’aria che non c’entrava niente. Allora Berlusconi mi propose di andare a vedere il Milan in elicottero: “Perché non compone l’inno del Milan al posto di quello di Toni Renis? Intanto che vado a cambiarmi, provi qualcosa al pianoforte”. Dopo un po’ che strimpello, scende in giacca e cravatta per andare allo stadio, si avvicina, appoggia una mano sulla spalla e mi fa: “Mi piace, ma è un po’ copiata…”. Un grande. Siamo andati a vedere la partita, ma poi sono rimasto in Rai».

Che richiesta farebbe oggi al mondo politico?

«Di realizzare quello che promette. Chiunque sia, almeno la gente potrebbe fidarsi. Per esempio, le telecamere di sorveglianza negli asili e negli ospedali sono un’ottima idea. Ma che lo facciano davvero. Anche controllare gli sbarchi è giusto. Quando vedo queste mamme con i bambini che vagano per strada mi si spacca il cuore. Però non possiamo accogliere tutti noi… L’Europa c’è solo per presentare il conto? Che si divida i compiti anche sull’immigrazione».

Chi è oggi «un italiano vero»?

«Bella domanda. Allora era Pertini, il presidente partigiano. Anche mio padre è stato partigiano… L’italiano vero è chi realizza quello che ha promesso. Non dico tutto, ma in gran parte».

Mi dice il titolo del nuovo disco?

«Io pensavo Tic tac, ma il mio manager non è convinto. C’è una canzone sul tempo che s’intitola così. Chiedo di avere tempo perché ho ancora tante cose da dire e da fare».

Il tempo che passa… lei è credente?

«Quando ho scoperto di avere il tumore sono cambiato. Da bambini si dice “mamma aiutami”, da adulti si invoca Dio. Io ho cominciato a rivolgermi a Dio, anche se non vado in chiesa. Prego con le mie parole, il Padre nostro non me lo ricordo tutto: Padre nostro che sei nei cieli… sia santificato il tuo nome… E poi?».

 

La Verità, 2 giugno 2019

 

 

«Tutto questo rap rovina la nostra melodia»

 L’incanto di Venezia, la poesia della musica e la magia del cinema. Siamo in uno studio sul Canal Grande, a un campiello di distanza dal museo Peggy Guggenheim. La prima volta di Pino Donaggio a Sanremo fu nel 1961: «Come sinfonia avrebbe dovuto cantarla Mina. Ma finito il Festival la incise davvero e adesso Pedro Almodóvar l’ha ripescata per il suo Dolor y gloria, che uscirà il 22 marzo. È anche nel trailer, venga che glielo faccio vedere».

Che giudizio dà di questo Festival?

«Positivo. Claudio Baglioni è un grande musicista, che ci capisce quando c’è da scegliere le canzoni. Poi si è rivelato anche uomo di spettacolo, dimenticandosi di essere cantante».

Mica tanto.

«Sì, è vero, canta parecchio. Però partecipa agli sketch, se la cava bene».

Giovedì sera ha cantato Io che non vivo con Alessandra Amoroso.

«Non mi aveva detto nulla. Ho capito quando hanno parlato di una canzone del 1965 che aveva venduto milioni di dischi».

Una sorpresa.

«Molto gradita, poi Alessandra Amoroso mi è sempre piaciuta. Si è anche commossa».

L’anno scorso era presidente della giuria di esperti.

«Quest’anno c’è Mauro Pagani, un altro amico. Al festival di Mike Bongiorno e Piero Chiambretti ho fatto anche il direttore artistico con Giorgio Moroder e Carla Vistarini».

Nel 2015 le consegnarono un premio alla carriera.

«In realtà, era un premio per Io che non vivo. È un evergreen, come Quando quando quando. La cantano a X Factor inglese, australiano, nei film americani. Carlo Conti è stato bravo a ricordarsi dei 50 anni della canzone».

Fu fatta conoscere da Dusty Springfield, una concorrente che partecipava con un altro brano: furba?

«La intitolò You don’t have to say you love me. Ha venduto più di 80 milioni di copie, tra tutti gli interpreti che l’hanno cantata, Elvis compreso».

Dusty Springfield?

«La rividi vent’anni dopo a New York. Non so se si può dire che è stata furba. Al festival di allora c’era la doppia interpretazione con un inglese o uno spagnolo che spalancava i mercati esteri. Lei era stata eliminata, ma la sera dopo in platea si commosse con la mia canzone. La mattina, prima di ripartire, trovò il disco in un negozio. Una fortuna che la Emi l’avesse già distribuito».

Quando scoprì tutta la storia?

«Quando era prima in classifica in Gran Bretagna da 3 settimane e aveva già venduto un milione di copie, come riportava Billboard che mi mostrò il mio editore Curci».

Il festival di quest’anno è uguale a quello dell’anno scorso?

«Non si cambia una cosa che funziona, si ritocca cambiando i partner. Sperimentare è difficile».

Il suo giudizio sulle canzoni?

«Tecnicamente buono. Si sono un po’ allontanate dallo stile italiano, ma è un processo iniziato da tempo. Invece che sulla melodia si punta sui testi perché tante sono quasi parlate. Così, quando arrivano Andrea Bocelli, Marco Mengoni o Giorgia si respira».

Le sue preferite?

«Quelle di Daniele Silvestri e di Simone Cristicchi. E quella di Loredana Bertè, più classica. Cristicchi la sua può cantarla solo lui, non certo gli americani. In generale, c’è troppo rap».

Serve per darsi una patina di modernità?

«È un genere arrivato dall’America. Le parole prevalgono sulla musica, tendenza iniziata con i cantautori. Tiziano Ferro ha cambiato ancora, non propone più strofa ritornello strofa. Adesso invece si alterna la strofa melodica a quella rap».

Tanto rap poca possibilità di esportare?

«Non lo possiamo certo vendere in America dove ce l’hanno già. La nostra forza è la melodia, veniamo dal melodramma, dalla canzone napoletana. Guardi Andrea Bocelli e Il Volo. Ma appena c’è qualcosa di melodico lo attaccano, per spingere il rap che non è roba nostra. Fossi stato nei ragazzi del Volo non sarei andato in gara».

Cosa pensa della polemica sul conflitto d’interessi di Baglioni?

«Non ne so molto. Se la Rai ha accettato questo sistema vuol dire che le va bene. Ma dovrebbe controllarlo».

Può sbagliare anche la Rai?

«Certo. Come in tutti i posti, ci sono persone oneste e disoneste».

Suo padre la voleva violinista classico?

«Diventare solista per suonare nei grandi teatri era anche il mio sogno. Con il violino ero bravo. A 12 anni facevo già concerti di classica col mio gruppo. Ho tradito il mio strumento».

Richiedeva troppo sacrificio o fu sorpreso dal successo?

«Il successo fu imprevisto. Ero cresciuto sentendo mio padre che suonava con la sua orchestra in un locale. Il cantante era Sergio Endrigo che di giorno faceva il lift all’hotel Danieli. Mio padre invece lavorava all’Enel».

Viveva immerso nella musica.

«In vacanza ad Auronzo di Cadore facevamo le gare di rock and roll. Un’estate, avevo 16 anni, cantai Dayana di Paul Anka e capii che piacevo. Una volta tornati a casa, chiesi a mio padre di cantare con lui, visto che Endrigo non c’era più. Anche lì fui applaudito, lui diceva perché ero suo figlio».

Il violino era già dimenticato?

«No. Dai Solisti Veneti ero passato al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Ricordo che sul treno Milano-Venezia abbozzavo delle melodie. Una volta a tempo perso andai alla Curci, in Galleria del Corso. C’era il maestro Giovanni D’Anzi, quello di O mia bela Madunina. Che disse: “Canta come un selvaggio, ma la musica la conosce e scrive bene”. A quel punto mio padre si convinse anche perché firmò lui il contratto non ero ancora maggiorenne».

Quando sbarcò a Sanremo?

«Nell’estate del 1960 scrissi Come sinfonia e alla Curci dissero subito che bisognava mandarla al festival. Mina era già in ballo con altri due brani, ma insistette con Ezio Radaelli perché la cantassi io. Lui mi ascoltò e diede il suo assenso. Qualche giorno dopo la si sentiva già per strada».

Era un cantautore di successo.

«A Sanremo vinse Betty Curtis con Al di là, secondo Adriano Celentano con 24mila baci, poi Milva e Mina con le due canzoni. Io arrivai sesto, ma passata l’onda di Celentano andai primo in classifica».

Difficile tornare al conservatorio.

«Avevo detto al mio insegnante che sarei tornato dopo una settimana. Quando mi presentai dopo un mese non mi volle. Lasciai anche I Solisti veneti perché la mia notorietà era diventata un problema».

Dalla canzone alle colonne sonore fu come saltare da un vaporetto a una nave da crociera?

«Anche quella fu un’occasione imprevista. Non ero pronto a scrivere per il cinema».

Invece?

«Una mattina all’alba che tornavo da una serata mi vide Ugo Mariotti, giovane produttore di A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg. Lui era sulla riva del Canal Grande e io l’unico passeggero del vaporetto che gli sfilava davanti. Era un film di parapsicologia… e Mariotti vide in quell’immagine una premonizione. Qualche ora più tardi mi telefonò spiegandomi l’idea. Pensavo: possibile che chiamino me per un film con Julie Christie?».

Convergenze astrali.

«Incontrai il regista che non sapevo una parola d’inglese. Mi spiegò la musica che voleva e dopo una settimana gli feci ascoltare i temi. Ma al produttore esecutivo inglese non piacquero: “Si sente che non ha mai lavorato per il cinema”. Invece quello americano che metteva i soldi disse: “Se la musica è questa che problemi abbiamo?”. Vinsi il premio come miglior colonna sonora dell’anno in Gran Bretagna. Secondo si classificò George Martin, produttore dei Beatles, per 007 – Vivi e lascia morire con la canzone di Paul McCartney».

Si aprì un’autostrada.

«Composi per alcuni registi giovani, poi mi contattò Brian De Palma. Disse che aveva visto A Venezia… un dicembre rosso shocking a occhi chiusi. Bernard Hermann, il suo musicista di fiducia, era morto da poco».

Ha composto per molti film di De Palma.

«Domino che uscirà tra qualche mese sarà l’ottavo».

Com’è nata questa sintonia?

«Il mio modo di scrivere si adatta alla sua sensibilità. Ci incontriamo, prendiamo nota dei punti dove mettere la musica, torno in Italia, scrivo, torno a New York. Per Carrie, lo sguardo di Satana partirono gli applausi: “Questa scena l’ho vista davvero per la prima volta con la tua musica”, disse».

Strano che i suoi studi classici l’abbiano portata a comporre colonne sonore per thriller e horror.

«Ho cominciato con quei generi e continuano a chiamarmi per quelli. Ma ho fatto anche commedie come Non ci resta che piangere, film di Carlo Vanzina, di Liliana Cavani e i film politici di Giuseppe Ferrara».

Terence Hill e Tinto Brass sono veneziani.

«Terence Hill mi ha cercato per Don Camillo, poi ho scritto anche per le sue serie. Brass è un amico, ma non mi mostra le scene: “Mi fai un reggae che devo girare la scena di un massaggio?”. Quando ho visto il film, altro che massaggio. Ne ho fatti tre con lui, poi mi sono fermato. Vuole musiche firmate, le ha chieste anche a Ennio Morricone e Riz Ortolani».

Quanto c’entra Venezia nel suo lavoro?

«Moltissimo. Ho scritto anche a Milano e in America, ma qui è un’altra cosa. Se non ti viene l’ispirazione esci di notte e sei già dentro un thriller. Oppure vado al Guggenheim, la mia passione è la pittura, a Punta della Dogana, a Ca’ Rezzonico. E quando torno mi metto a scrivere. Su quella parete ho messo un grande specchio perché così posso vedere l’acqua mentre sono al pianoforte».

Com’è nata la collaborazione con Massimo Ranieri?

«Mi ha chiesto una canzone, per un nuovo album di inediti, tra i quali ci saranno un brano di Bruno Lauzi e uno di Domenico Modugno trovati da lui».

Altri progetti?

«Finalmente si è sbloccato il film sulla vita di Enzo Ferrari che sarà interpretato da Robert De Niro e diretto da Barry Levinson, il regista di Rain man. Poi sono molto contento di aver scritto un disco per I Solisti Veneti, l’avevo promesso a Claudio Scimone. È la chiusura di un cerchio».

È pentito di aver tradito il violino?

«No, visto come sono andate le cose. Il mio sogno era il violino, la mia forza è la composizione. Non ho rimpianti, il violino lo faccio suonare agli altri».

 

La Verità, 10 febbraio 2019

Montalbano batte Sanremo ma non convince

Gli ascolti sono sempre da record: 11,1 milioni di telespettatori battono in termini assoluti anche le serate del Festival di Sanremo appena concluso. Andrea Camilleri è sempre un mostro sacro e Il Commissario Montalbano un architrave della televisione degli ultimi vent’anni, tanto è longeva la serie con Luca Zingaretti (Rai 1, lunedì, ore 21.35, il primo di due episodi inediti). Ma forse, ahinoi, qualche crepa si comincia a intravedere. E forse, se non proprio toccare, gli intoccabili si possono almeno cominciare a sfiorare.

Anche a Vigata arrivano dunque i migranti e Montalbano è chiamato a collaborare ai soccorsi e all’accoglienza. Si vedono un flautista tunisino scappato dal Maggio fiorentino, una ragazza violentata sul barcone da due scafisti, un migrante morto in mare, portato dalla risacca davanti alla casa di Salvo. C’è, infine, una nave della Guardia costiera attraccata a un porto di cui finora non si aveva contezza. Ma non è questa l’unica sorpresa della Vigata di L’altro capo del filo, l’episodio tratto dal romanzo scritto nel 2016, quando non si profilavano né il governo gialloblù né i porti chiusi. L’altra stranezza è che nel paesino senza semafori né auto e dove il commissario si sposta sempre con una Fiat Tipo, c’è anche una maison sartoriale con boiserie e scaffali pieni di stoffe pregiate che dà lavoro a 5/6 persone, tra cui un giovane impiegato che s’innamora inspiegabilmente della sarta ben più vecchia di lui. La quale, ancor più inspiegabilmente, viene brutalmente assassinata. Addio abito su misura con il quale Montalbano avrebbe dovuto presenziare a un 25º di matrimonio in Friuli con la compagna Livia (Sonia Bergamasco). Nella regione del Nordest, tuttavia, andrà ugualmente perché colà si sciolgono i nodi delle indagini.

Già al momento della messa in onda, sui social si è scatenata la bagarre per la comparsa dei migranti nel giallo tv più amato dagli italiani. Tuttavia, dopo l’estenuante querelle festivaliera, Matteo Salvini ha subito provveduto a raffreddare il tentativo di bis twittando un inequivocabile «Io adoro Montalbano». Continuando a parlare di fiction – nave della Guardia costiera e grande sartoria a parte – vanno però rilevate altre incongruenze. In particolare, l’assenza di nesso tra la parte umanitaria e le indagini, anch’esse con qualche incertezza (la dinamica dell’omicidio del marito della sarta). Ma soprattutto, ciò che più dispiace, con l’irruzione dell’attualità la perdita dell’a-storicità di Vigata, quella sua dimensione di luogo sospeso nel tempo, e perciò rassicurante. Nonostante crimini e delitti.

 

La Verità, 13 febbraio 2019