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«Cristo ci ha stravolto la vita e il rock»

Entri nella casa di Francesco Lorenzi, sulle colline sopra Marostica, e sei in un altro mondo. Già l’esterno, interamente bordeaux, promette bene. Dentro sei circondato da legno di rovere e ardesia, davanti a un’enorme parete di vetro che domina la valle a sud. Se l’è progettata e costruita con l’aiuto di un geometra e alcuni artigiani. Al piano superiore living e zona notte, al piano inferiore studio e sala di registrazione. «Ci ho messo un po’, ma ce l’ho fatta. Trovare il terreno e avere i permessi sono state le cose più difficili. Volevo un posto silenzioso, nella natura, in faccia al sole». 35 anni, viso aperto e parlata schietta, Francesco Lorenzi è il leader (autore, cantante e chitarrista) dei The Sun, la band composta con altri tre ragazzi vicentini che a dicembre ha festeggiato vent’anni con un doppio album, 20 appunto. In due decenni il cambiamento è stato profondo: sono diventati cristiani. Il sole però c’entrava anche quando si chiamavano Sun eats hours, traduzione inglese del detto contadino el sol magna ’e ore: il sole mangia le ore, presto fa buio. Solo che per un gruppo punk era una citazione dark.

Dal punk al rock, dall’agnosticismo al cristianesimo: cos’è successo?

«È successo che a un certo punto ho cominciato a guardarmi attorno. Avevo sempre sognato in grande e mi ritrovavo senza pace, armonia, allegria. Privo di un significato di quello che facevo. La musica doveva essere garanzia di una vita speciale, invece… Che cosa mi rende davvero libero, aldilà di una piacevolezza fuggevole?».

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Di solito a questo punto le band si sciolgono.

«Io e Ricky, il batterista, fondatori del gruppo, avevamo deciso di non suonare più insieme. Eravamo prigionieri dei cliché, lui anche dell’alcol. A Matteo, il bassista, invece andava bene così».

Che cosa successe?

«Non riuscivo a scrivere il nuovo album che doveva portarci negli Stati Uniti. Ero incupito. All’epoca convivevo con una ragazza spagnola e la sera del 10 dicembre 2007, quando andai a cena dai miei genitori, persone solide e realizzate, mia madre mi mostrò il volantino che proponeva un incontro di riflessione in una parrocchia: “Magari dicono qualcosa che ti può interessare”, suggerì. La curiosità è che i miei non erano assidui praticanti».

E lei ci andò…

«Pensavo di trovare preti e anziani, invece l’incontro era tenuto da ragazzi della mia età che raccontavano la vita di Gesù attraverso il vangelo di Giovanni. Lo facevano con un tale entusiasmo che ne fui rapito. Mi dicevo: questi ragazzi di lunedì sera si trovano a parlare di Gesù Cristo… Che cos’hanno trovato che io non ho visto?».

Poi?

«La notte ho cominciato a leggere il vangelo e la sera dopo sono tornato perché quel primo incontro era parte di un corso. Vedevo persone luminose…».

La faccenda si faceva seria.

«In una cappellina di quella parrocchia da 22 anni si fa l’adorazione eucaristica 24 ore su 24: persone sostano in contemplazione davanti al tabernacolo. Don Lino Cecchetto – il mio Cecchetto – mi propose di partecipare. Scegliemmo l’ora dall’una alle due del mercoledì notte. Pian piano quel momento ha influenzato il resto della vita».

La sua conversione ha trascinato quella degli altri, sembra una storia un po’ automatica.

«Quasi tutti mi consigliavano di andare avanti come solista. Io pensavo che quello che avevo trovato serviva a poco se non lo condividevo con gli amici di sempre. Ognuno di loro aveva problematiche particolari. Scelsi di affrontare l’argomento prima con Matteo, poi con Gianluca, l’altro chitarrista, infine con Riccardo. All’inizio i miei argomenti risultavano debolucci, poi cominciò a nascere anche in loro qualche domanda. Hanno avuto il merito di fidarsi senza fermarsi alle apparenze. Ora Ricky fa l’adorazione con me».

Il libro in cui Francesco racconta la sua storia con prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Il libro di Francesco, prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Come risuona una conversione in note?

«La musica non poteva più essere puro intrattenimento. Sentivamo l’urgenza di essere costruttivi e vitali, nel senso nobile del termine. Volevamo aiutare le persone a incontrare la bellezza che c’è in ognuno di noi. Certo, tra capirlo e farlo c’è un abisso».

Citando il modo di guardare agli idoli del passato: chiedi chi erano i Beatles; oppure: volevamo essere gli U2. Come sono cambiati i vostri modelli di riferimento?

«I punti di riferimento erano le band della scena punk come gli Offsprings, i Green day, i Bad religion. Avendo suonato insieme ad alcune di loro, cominciavamo a coglierne la debolezza. Quella della rockstar era una parte da recitare: trovata la formula del successo, la si ripete. Ma a vent’anni non sei lo stesso di quando ne hai 50. Fu una delusione. Pensavo che la musica doveva rispecchiare quello che avevamo incontrato. Avevamo una strada nuova davanti, senza idoli da imitare. Era tutto da inventare. Ed era una sensazione di grande libertà».

Come hanno reagito i fan storici?

«Erano incazzati, si sentivano traditi».

E le case discografiche, la critica?

«Con la Rude records, un’ottima etichetta, ci fu il divorzio. Li capisco: aspettavano il quinto album in inglese e io mi sono presentato in ritardo con i pezzi scritti in italiano. Niente disco e tournée saltata: l’incontro con Cristo ci aveva rivoluzionato la vita e la musica, ma si era rivelato un cataclisma professionale. Universal, Emi, Warner si ritirarono: “Queste canzoni sono troppo positive”. Dicendola secca: quello che fa vendere è tirar merda. Non è stato facile non scendere a compromessi, anche perché ci sono argomenti molto convincenti».

Avete tentennato?

«Abbiamo creduto che avremmo trovato spazio. Sarò sempre grato a Roberto Rossi, il direttore artistico della Sony che, non conoscendo la nostra musica precedente, ha avuto più facilità ad accorgersi che la nostra proposta riempiva un vuoto. Sony pubblicò Lo spirito del sole senza toccare una virgola».

Saranno cambiati anche i circuiti dei tour?

«Prima suonavamo nei festival rock, oggi nelle piazze, nei campi profughi, nelle basiliche, nei cinema, nei teatri, negli ospedali, nelle zone di guerra: la musica può circolare ovunque. Abbiamo suonato davanti a papa Benedetto XVI, a papa Francesco, in Terra santa».

Siete una band di christian rock?

«È avvilente che per esigenze giornalistiche ci abbiano affibbiato questo nickname. La nostra musica non ha nulla da invidiare agli artisti che ascoltiamo massicciamente nei network. Stiamo provando a far capire che siamo dei cristiani che fanno rock. Spero sia concesso».

Ne dubita?

«Dobbiamo dimostrare due volte quello che valiamo. In un certo senso è una spinta a dare il meglio di noi. Ma se qualche giornalista scopre la nostra musica perché il figlio viene al concerto, e vuole parlarne in tv o scriverne, quando emerge la nostra storia ed entra in campo il caporedattore, tutto si complica».

I vostri testi si sono riempiti di «luce», «sole», «amore», «scelta», la parola più ricorrente è «destino». Sentite troppo la preoccupazione del messaggio?

«Accetto la provocazione. Sento la responsabilità di trasmettere quello che ho incontrato perché vedo il vuoto esistenziale che deriva dalle produzioni di moda. È più difficile scrivere canzoni con un messaggio costruttivo che distruttivo».

Forse si può entrare nell’attualità con un giudizio, come avete fatto in Le case di Mosul.

«Ci sono canzoni con tonalità più scure come Le case di Mosul, L’alchimista o Dentro di me. Per noi è importante testimoniare che anche dentro esperienze di dolore può esserci una luce».

Le radio vi trasmettono?

«Difficilmente. La musica che passa nelle radio è frutto di accordi editoriali che non sempre considerano la qualità. Se cedi una parte dei diritti d’autore allora il network ti lancia, altrimenti no. Anche le tv premiano talenti prevalentemente estetici. Cantautori come Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giorgio Gaber, Fabrizio de André oggi non esisterebbero».

Che rapporto avete con i social?

«Su Facebook c’è una community di 60.000 fan che s’informa sulla nostra attività. Per il resto, il nostro pubblico non sta moltissimo online».

Avete provato a partecipare a Sanremo?

«La Sony ci ha proposto nel 2010 con Antonella Clerici e nel 2011 con Gianni Morandi, ma alla selezione finale ci siamo fermati. Forse è stato meglio così perché nel frattempo siamo cresciuti. Magari l’anno prossimo, se Claudio Baglioni resterà, ci riproveremo. Si vede dalle decisioni che ha preso sul minutaggio e le eliminazioni che è un musicista».

Ha seguito X Factor?

«Un po’, anche se non è il mio mondo. I Maneskin hanno capito l’importanza della dimensione live, prima di uscire avevano già la tournée organizzata. Che approvi quello stile, no. Ma professionalmente devo riconoscere la qualità del prodotto».

Il cristianesimo coincide con i valori non negoziabili?

«In parte: ci sono argomenti non ritrattabili. La catastrofe del nostro tempo è il relativismo».

Un concetto caro a papa Ratzinger.

«Che amo profondamente. Credo sia giusto ripristinare un pensiero che riconosce l’esistenza del bene e del male, e dove ogni ruolo non sia intercambiabile. L’universo ci racconta un ordine, mentre l’uomo relativista gioca con questo ordine».

È questo il nucleo del cristianesimo?

«Questo ci aiuta a evitare che la confusione ci domini».

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un'udienza in piazza San Pietro

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un’udienza in piazza San Pietro

Più papa Benedetto XVI che papa Francesco?

«Anche papa Francesco comunica verità necessarie. La Laudato sii è una grande enciclica. Sbaglia chi la riduce a un testo ecologico. Bergoglio ha dato testimonianza prendendo posizione contro i poteri forti come i nostri politici non riescono più a fare».

Come guardate alla politica?

«Con grande interesse e grande dolore. Manca una proposta unitaria che rappresenti la sensibilità cattolica. È uno degli aspetti su cui diverse persone mi sollecitano a lavorare».

Il 4 marzo per chi voterà?

«Non ho ancora deciso. M’imbarazza vedere come i politici passino più tempo a criticare gli avversari che a dimostrare la qualità delle loro idee».

 

La Verità, 14 gennaio 2018

Baglioni, il ’68 e un pezzo di musica rimasta fuori

Se Sanremo è, o dovrebbe essere, il Festival della canzone italiana, allora ha ragione da vendere Maria De Filippi. Nel giorno della presentazione ufficiale del cast della 68ª edizione, la conduttrice di Amici e C’è posta per te, nonché dell’edizione numero 67 della kermesse al fianco di Carlo Conti, ha acceso una miccia che è filata sotto il palco del Casinò rivierasco: «Io penso che in generale Sanremo sbagli sempre quando non prende ragazzi dei talent, come Amici o X Factor, perché sono una realtà», ha detto la De Filippi intervistata dal settimanale Chi, «a meno che quelli che si sono presentati non fossero all’altezza».

Maria De Filippi, con Carlo Conti ha condotto l'edizione 2017 del Festival di Sanremo

Maria De Filippi, con Carlo Conti ha condotto l’edizione 2017 del Festival di Sanremo

Parole dirette, che meritano considerazione. Negli ultimi anni Sanremo ha sempre avuto concorrenti usciti dai talent show. Nel 2009, 2010, 2012 e 2013 qualcuno di loro l’ha anche vinto il Festival (in ordine cronologico: Marco Carta, Valerio Scanu, Emma Marrone, Marco Mengoni). Poi ci sono state le partecipazioni dei Dear Jack, Chiara Galiazzo, Lorenzo Fragola, l’anno scorso di Elodie e Michele Bravi; nel 2016 Francesca Michielin si è classificata seconda. Insomma, una presenza consistente e apprezzata sia dal pubblico televisivo che dalla critica. Quest’anno zero: una scelta, probabilmente, al netto della qualità scadente dei candidati che si sono presentati. Oppure, considerando il fatto che dei tre conduttori (Claudio Baglioni, Pierfrancesco Favino e Michelle Hunziker) nessuno è un volto Rai, si è temuto che altri innesti provenienti da programmi Mediaset e Sky diluissero ulteriormente il marchio di fabbrica della manifestazione. Chissà.

Tuttavia, la contemporaneità tra l’anticipazione di Chi e la presentazione della kermesse di Baglioni che, per lanciare il «Festival dell’immaginazione», ha rispolverato persino il Sessantotto, ha creato un corto circuito negativo. Se si vuole parlare di Festival democratico, ecumenico, buono e buonista, tanto da aver eliminato le eliminazioni, converrebbe cominciare a farlo almeno rappresentativo. Cioè, capace di mettere in vetrina tutte le realtà della musica. Escludere i cantanti dei talent vuol dire tagliar fuori un pezzo non trascurabile della scena musicale e creativa, rischiando di trasmettere un’idea lontana dallo spirito del tempo della canzone italiana. Peccato che ai vari Pippo Baudo, Fabio Fazio e Carlo Conti, così prodighi negli spot di consigli al direttore artistico su scalette e camerini, sia sfuggito quello più importante sul cast musicale.

La Verità, 10 gennaio 2017 

 

Josi: «Così è nato lo spot tormentone della Tim»

Incontri Luca Josi e non sai da dove cominciare. Da Bettino Craxi e i nomignogli che gli hanno affibbiato: Hammamet express, l’apostolo, l’aspirante martire del craxismo, l’ultimo repubblichino della Repubblica di Salò di Craxi? Oppure dai cinque Telegatti vinti quando faceva il produttore tv con Einstein Multimedia, prima di chiudere a causa della vicenda riguardante la fiction Rai Agrodolce? Dal matrimonio con Laura Paglieri, famiglia Felce Azzurra, o da quello con Luisa Todini, famiglia di grandi costruttori? O dal nuovo ruolo di capo della comunicazione di Tim (formalmente: direttore della struttura Brand Strategy e Media), ideatore e curatore, tra mille altre cose, dello spot con il ballerino Sven Otten che ci ha stregato prima durante e dopo il Festival di Sanremo? Forse intuendo i miei impacci, parte lui da quand’era bambino, promessa del nuoto a Genova, due allenamenti e una ventina di chilometri al dì, genitori socialisti nella città dove nacque il Psi e si andava al cinema nella Sala Sivori, luogo della fondazione. Il padre Giuseppe insegna Statica delle navi all’università e, per capire il tipo, a un tal Lelekis fa ripetere l’esame 32 volte. La madre è giudice minorile, poi preside di una scuola privata. Il più ignorante del casato ha tre lauree. L’unica a non aver studiato è nonna Margherita, discendente di Marco Antonio Bragadin, ammiraglio della Serenissima che resistette agli Ottomani nell’assedio a Famagosta (Cipro), poi catturato e scorticato vivo perché rifiutò di convertirsi all’islam. La nonna gli ripete questa storia, ma lui alla fine s’iscrive all’università. Ma siccome, nel frattempo, la passione politica ha scalzato il nuoto, studia a Genova e va alle riunioni dei giovani socialisti a Roma, dormendo in treno. Tre volte la settimana per tre anni, questa è la tigna. Più che un grande irregolare, Josi è una presenza che smuove il senso di colpa collettivo nei confronti di Craxi. Si definisce un «salmone orfano»: salmone perché essere craxiano dal 1992 al 2000 è piuttosto controcorrente, orfano perché nel frattempo il Psi è scomparso. A Roma poi esplode la passione per la storia dell’arte. Tuttora viva al punto che, entrato nel Cda della Fondazione di Telecom, chiamato dal presidente Giuseppe Recchi, si butta nel piano di ripristino del Mausoleo di Augusto a Roma («il più grande monumento sepolcrale del mondo dopo le piramidi, che consegneremo alla cittadinanza in meno di due anni»). Una volta in Telecom, complici altri cambiamenti, nell’aprile 2016 l’ad Flavio Cattaneo gli affida la responsabilità della comunicazione. Nel frattempo è tornato anche l’amore per il nuoto e, a 50 anni, Josi fa ancora i 100 stile libero in un tempo inferiore al minuto.

Dunque, cominciamo dalla fine. Com’è nato questo spot così magnetico, contagioso, virale?

«È nato nella mia famiglia allargata; tra figlie, figli e la mia amatissima compagna Allegra: la persona con cui guardo e condivido meglio il mondo. In casa, anche noi, siamo tenaci navigatori della rete, tutti frequentatori di questo straordinario modo di viaggiare da fermi».

Uscendo dalla metafora?

«A settembre ci siamo ricordati di quel ballerino che avevamo visto qualche tempo prima. Per la nostra comunicazione cercavo qualcosa di semplice nella sua ripetitività – una legge, un mantra, per chi viene dall’avere lavorato coi format – e il ballo di Sven era perfetto. Lo era già nel suo video autoprodotto in bianco e nero, con quelle inquadrature pulite e quel continuo volteggiare degli arti che sembravano indicare i quattro angoli dello schermo lasciato vuoto per poterci inserire le nostre parole».

E la musica?

«C’era già. Sven infatti ballava nella sua camera su All Night di Parov Stelar. Abbiamo preso il binomio completo. Loro due nemmeno si conoscevano. Sven è tedesco, ha 29 anni e una storia perfetta da raccontare: era un programmatore di computer, che per la tendenza ad appesantirsi, con conseguenti problemi alla schiena, aveva deciso di dimagrire e gli era venuta l’idea del ballo. Da autodidatta aveva cominciato a scaricarsi dei tutorial dalla rete per imparare i primi passi, poi si era appassionato a questa musica al punto d’inventarsi un ballo per interpretarla».

Adesso quando la senti nelle sigle della Serie A, nella testa vedi Sven che balla…

«È l’elettro-swing. Lo swing è nato negli anni Trenta e ha rappresentato una reazione, fisica, alla depressione economica. Da lì vengono una serie di sonorità e danze nuove, più spensierate e positive. Nel 2012, Stelar, ha creato questo brano, una versione elettro dello swing. E così, ci siamo ritrovati tra le mani questa chicca».

Un brano che sprigiona energia.

«Come tutto ciò che tira fuori il meglio di noi, regala qualche secondo di allegria, un sorriso e un po’ di buon umore. Questa campagna è diventata precocemente virale. Non era ancora partito il concorso per le reinterpretazioni del ballo rivolto sia ai singoli consumatori che possono mandare un video autoprodotto che ai dipendenti delle aziende che possono proporlo con tanto di marchio del gruppo – su www.ballacontim.it online da mercoledì – che lo spot aveva già prodotto più di 200 imitazioni e una ventina di parodie. Tutte nate spontaneamente; il sogno di ogni pubblicitario».

Rischio di sovraesposizione?

«Sono quei rischi che ognuno si augura sempre di dover gestire».

Quindi, spot stupendo: ma il prodotto è stato comunicato in modo efficace?

«Esistono un’infinità di casi di pubblicità famose per qualità delle immagini e dei suoni che si sono rivelate di scarsa efficacia per il prodotto di cui erano ambasciatrici. Noi abbiamo avuto un risultato eccellente in tutte le sue declinazioni. Al di là della piacevolezza, quella musica e quel modo di portare le parole dell’offerta è talmente semplice che lo spettatore ricorda con precisione il contenuto della proposta commerciale».

È la prima volta che c’è uno sponsor unico al Festival di Sanremo. Come l’avete deciso?

«Ricordiamo la leadership del gruppo presidiando gli eventi e i fenomeni principali della nostra società come la Serie A del calcio o la scuderia Ducati. Ci siamo chiesti quindi quale fosse il Superbowl italiano e la risposta era senza dubbio il Festival di Sanremo che realizza ascolti irriproducibili».

Avrete stanziato un super budget.

«Se intende sugli investimenti pubblicitari la risposta è no. Abbiamo riscontrato però che la percezione, anche da parte degli addetti ai lavori, è stata quella di un investimento infinitamente superiore a quello reale. Il che significa che abbiamo speso molto molto bene i nostri soldi per la resa che hanno avuto. La tempesta perfetta si è vericata a Sanremo dove si sono incontrati l’evento più evento del panorama italiano e lo spot del momento. Quando il nitro incontra la glicerina scaturisce qualcosa di esplosivo».

A proposito di super budget, com’è arrivata Mina?

«Come una cosa bella. A Sanremo ci siamo chiesti: perché le telepromozioni devono essere percepite come un prodotto minore della comunicazione? Così ci è venuta l’idea di creare uno spettacolo nello spettacolo, provando a immaginare un piccolo musical in stile bollywoodiano derivato dallo spot. Recchi e Cattaneo hanno sposato l’idea e sono stati i primi veri sponsor di questa campagna. Si è innescata una sorta d’isteria produttiva: abbiamo avuto il via libera il 15 gennaio e abbiamo iniziato a girare i filmati a Cinecittà il martedì precedente all’inizio del Festival».

E Mina?

«Ho la fortuna di averla amica. Lei ha avuto fiducia nell’idea che le ho proposto. Ed è successo quello che avete visto e ascoltato. La mia più grande preoccupazione era di realizzare qualcosa che fosse rispettoso del suo mito. Mina, che come tutte le persone di genio vive della sua curiosità imprevedibile, ancora una volta ha trovato il modo di divertirsi, stupire e reinventarsi. L’idea di cantare “Tim Tim Tim” è sua. Un guizzo mozartiano di un personaggio dal talento inesauribile».

Da quanto tempo esiste questo rapporto con Mina?

«Siamo amici, ci conosciamo da anni e, appunto, se devo immaginarmi il genio o spiegarlo, penso a lei e a pochi altri. Sono quelle intelligenze carsiche delle quali non riesci mai a capire come costruiscano i passaggi che le portano a intuizioni, a sintesi, che altri producono, faticosamente, dopo percorsi lunghi, concatenati (sempre che le producano). Il genio, invece, all’improvviso ti dà un’intuizione che con istinto animale ti spiazza. È come se fosse già in possesso di una soluzione che agli altri mancava, quello che si definisce “nascere imparato”. Mina è così, una persona imparata in tutte le situazioni, mai fuori luogo, non s’identifica con una stagione attraversandole tutte da protagonista».

C’è un episodio, una frase, una situazione che l’ha particolarmente colpita in questa amicizia?

«Le amicizie e i sentimenti privati si definiscono tali proprio perché lo restino».

Questa campagna della Tim è il suo ritorno pubblico nel mondo della comunicazione. Una sorta di rinascita dopo anni difficili?

«Per rinascere bisogna morire. Vengo da una famiglia di trattori, gente ligure che, se china il capo, vuol dire che sta prendendo la rincorsa per tirarti una testata. Negli anni della tv ho vinto cinque Telegatti, prodotto migliaia di ore del primetime televisivo, organizzato il Live8 del 2 luglio 2005 (il più grande evento musicale italiano). Ho incontrato poi momenti cattivi concepiti da personaggi peggiori (non sono credente, ma credo che convenga anche a questi tizi che Dio non esista). Mi hanno aiutato oltre alla mia famiglia, meravigliosa, poche persone e devo a loro se sono qui. Non sono stati anni facili, ma sono cresciuto con mia nonna paterna che al posto delle favole mi raccontava la storia dell’avo Marco Antonio Bragadin; qualcosa di diverso da Biancaneve. Da parte di mia madre, nelle mezze parole liguri, ascoltavo invece quella del tenente Piero Borrotzu, che a 22 anni si consegnò ai nazisti per scambiare la sua vita con quella dei cittadini di Chiusola. Non c’è un grammo di retorica in questi ricordi: erano uomini come noi, come me; persone che hanno affrontato prove assolute, con coraggio, forza e senso del dovere che riduce a un pizzicotto ognuno dei miei mostri».

A proposito di quei tizi mi permetto di dire che devono sperare nell’esistenza di Dio, perché Lui perdona… Comunque, l’esperienza di produttore tv è la sua seconda vita, la prima è stata la politica. Quando parlava dell’intelligenza di Mina, mi chiedevo come classificasse quella di Craxi.

«Anche di Craxi non si capiva come arrivasse alla sintesi, all’idea finale. Andreotti raccontava spesso che quando andavano insieme a qualche meeting politico, lui impiegava il tempo del viaggio a studiare i dossier, mentre Craxi si sdraiava e dormiva per poi rinvenire quando l’aereo iniziava la discesa. A quel punto, scartabellava velocemente il plico immergendosi in silenzio in quelle carte; una volta raggiunto il tavolo del consesso era però sempre lui quello che poneva il pallino al centro della conversazione focalizzando l’aspetto strategico della questione. E Andreotti lo ricordava con un filo d’ironica invidia».

Lei come lo ricorda?

«Come il mio miglio amico e il mio leader».

Oggi che rapporto ha con il mondo della politica?

«Protetto. Guardo la tv e vedo che c’è un sacco di gente che ne parla, che ne discute; probabilmente, da qualche parte, ce ne sarà qualcuno anche capace di farla. In generale, mi sembrano tempi eunuchi, pieni di personalità calviniste con il prossimo e cattoliche con sé stesse».

Può esemplificare? C’è qualcuno che l’ha particolarmente delusa e, al contrario, qualcuno che le suscita un briciolo di speranza?

«La politica necessita di un fondo di ottusità: quella di sentirsi indispensabili all’umanità. Alcuni, se non lo sono per davvero, risultano almeno utili; l’altra gran parte, sono rinunciabili o interscambiabili. Però la politica è imprescindibile perché dovrebbe servire a reagire alle ingiustizie e alle prepotenze. Perché si occupa della vita di ognuno di noi e se tu non affronti i problemi loro troveranno te e avrai solo perso tempo. Da noi il coraggio e l’impegno ci si immagina abbiano effetti retroattivi. Sopraggiungono dopo sperando che abbiano effetto sulle codardie e le negligenze del prima».

Piercamillo Davigo, presidente dell'Anm (Franesco Garufi)

Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm (Franesco Garufi)

Di recente Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, ha detto che a 25 anni da Mani pulite la politica è ancora più corrotta. Concorda?

«È probabile. In un certo senso Tangentopoli somiglia a una terapia antibiotica interrotta anzitempo, che ha rafforzato la malattia. Craxi fu l’unico ad autodenunciarsi in Parlamento per il problema del finanziamento illecito ai partiti. Tacquero tutti. Non era il: “Tutti colpevoli, nessun colpevole”, ma il tutti colpevoli e basta. Nel frattempo la mitragliatrice di Tangentopoli aveva esaurito il nastro delle sue munizioni e fu così che resistettero i nani e le ballerine. I primi avvantaggiati dall’altezza e le seconde dalla mobilità».

 

Cosa la fece diventare craxiano proprio mentre prendeva corpo l’azione di Mani pulite?

«Sono stato l’ultimo segretario dei giovani del Psi di Craxi. Ci siamo messi a difendere una storia non nostra perché sapevamo ci sarebbe ricaduta in testa. E soprattutto perché pensavo che se fossimo stati così pessimisti da non voler difendere il nostro futuro non potevamo essere, contemporaneamente, così ottimisti da sperare che qualcuno lo facesse al posto nostro. Perché alla fine appare sempre che sono i buoni a vincere. E non perché lo siano per davvero, ma perché vincendo, e scrivendosi la storia, lo diventano».

Si sente un irregolare?

«Un carattere nazionale è ormai diventato il galleggiamento. Io preferisco nuotare e penso, come scriveva Ignazio Silone, che il destino sia un’invenzione della gente fiacca e rassegnata».

Per tornare al punto dal quale abbiamo iniziato: quali sono i grandi progetti su cui sta lavorando il terzetto Tim, Josi, Mina?

«Molti, ma non le rovinerò la sorpresa».

 

La Verità, 5 marzo 2017