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«Zelensky a Sanremo? Affronto alla democrazia»

Nella sua casa tra gli ulivi sopra Velletri, Aurelio Picca sta lavorando al nuovo romanzo. «Un libro coraggioso e audace, come sempre», dice. Del resto, coraggio e audacia gli appartengono, come conferma anche in questa intervista.

Ha visto la serie Call my agent?

«Ho visto qualcosa. C’era Pierfrancesco Favino che faceva Che Guevara. È un bravo caratterista…».

Perché secondo lei gli addetti ai lavori sono in estasi?

«Evidentemente amano questa autofiction, una finzione nella quale i protagonisti sono personaggi reali. Stefano Accorsi fa Accorsi, Paola Cortellesi fa sé stessa e così tutti gli altri. Sembra una duplicazione, una bolla narrativa. Siccome oggi la commedia prende un campo ristretto, come se non si potesse raccontare in modo comico la realtà, ci s’inventa questa escrescenza della commedia. Che, alla fine, è tragica. Il gioco dell’apparire che sostituisce l’incapacità a raccontare la realtà è, a suo modo, tragico».

La gente già va poco al cinema per non vedere i soliti attori, ora si appassiona all’ombelico del cinema, pur raccontato in modo brillante?

«Dovrebbe appassionarsi alle storie di questi grandi attori che fanno sempre più o meno la stessa parte? Qualche tempo fa, vedendo Il bambino nascosto di Roberto Andò, mi sono imbattuto in un Silvio Orlando inedito, un ruolo totalmente inaspettato. Se si esce dalla bolla, anche l’attore diventato seriale può sorprendere. Non così se si resta nella comitiva in gita dei produttori, nel giro dei casinò delle produzioni come mi sembra sia questa serie».

Il cinema sul cinema è l’ombelico del cinema?

«Nessuno rischia più sulle storie psicopatiche e apocalittiche, le storie dell’orrore e della fine del mondo. Che sono le storie della realtà. Nessuno racconta la fine del mondo antico mentre noi contemporanei camminiamo su una strettoia. Vorrei vedere un grande film sulla ricerca di assoluto. Con i teenager che non guardano la tv e puntano al sublime. Perché non alzare il tiro e provare a vedere come si abbracciano i ragazzi, come cercano l’assoluto, l’utopia?».

Il cinema è prigioniero dell’autoreferenzialità come la letteratura?

«Tutto è prigioniero, anche le arti visive, il teatro… Se proponessi al Franco Parenti ogni sera un monologo a canovaccio di 50 minuti come mi accoglierebbero? Si preferisce l’ennesima caricatura di Mussolini… Adesso va molto il rapimento di Emanuela Orlandi, rispolverano anche quello di Mirella Gregori… Su quello che accade oggi fanno la serie tra una settimana, e chi se ne frega del linguaggio cinematografico e della profondità. Vendiamo prodotti da supermercato. Anche nell’arte si privilegia la cronaca bassa».

Agenti, critici, premi, festival, cordate: tutto nello schema dell’amichettismo?

«Sì, ma niente formule però. Gli editori scelgono sempre al ribasso, autori da 500 parole. Finalmente si stanno rivalutando i provinciali, Luciano Bianciardi, Curzio Malaparte… Qualche anno fa se ne parlavi ti beccavi del fascista come successe a me. Il problema è nato con Italo Calvino che per pubblicare Una questione privata ha aspettato che Fenoglio fosse morto. Si è appiattita la letteratura sulla comunicazione…».

Ci si parla addosso, si rincorre la propria coda?

«Si è raschiato il fondo e non c’è più niente. Se anche nelle antologie scolastiche non ci sono gli autori importanti del Novecento ma quelli che hanno scritto due libri, è inevitabile che la scrittura si fermi a 1000 parole, quando va bene. Anche la scuola è motore di un meccanismo bloccato».

Questo ripiegamento è dettato dalla rivoluzione digitale?

«Viene dall’industria culturale degli anni Sessanta e Settanta che, in nome della rivoluzione, ha distrutto il romanzo. Era uno degli obiettivi della neoavanguardia perché alla rivoluzione non servivano i romanzi. L’esempio più pertinente – lo dico con molto rispetto perché sto parlando di un grande storico medievale e di un grande semiologo – è Umberto Eco. Anche lui ha lavorato per la distruzione del romanzo perché era un teorico della neoavanguardia, come il Gruppo ’63. Poi però ha fatto Il nome della rosa, il grande romanzo comunicativo che ha venduto milioni di copie».

L’autofiction e l’appiattimento sulla comunicazione vengono da lontano.

«Negli anni Novanta alcuni nuovi narratori e poeti hanno ricominciato, tentando di recuperare il romanzo come arte che inventa i mondi. Ma l’industria gioca al ribasso per accontentare il lettore dominato dai mass media e infarcito di comunicazione e informazione».

Ora questo processo è aggravato dai social network?

«È un processo inestricabile. La virtualità non ha allontanato o migliorato l’orrore della realtà, è proprio un altro modo di viverla. La virtualità ha decomposto i corpi, ormai incapaci di vera leggerezza e vera pesantezza. È tutto simulazione».

Il lavoro è postare dei selfie dal salotto di casa.

«Penso agli operai comunisti che si alzavano alle 4 del mattino per andare a lavorare e tornavano alla sera, orgogliosi. In pochi anni siamo passati dal lavoro con il corpo alla cancellazione del corpo».

Che però è molto esibito.

«Un corpo che si vede ma che non si incontra e non si tocca, non è un corpo, ma una sua proiezione. È la stessa differenza che passa tra fare l’amore sul serio e vedere pornografia in rete. La virtualità è tutta pornografia perché si vende una finzione di sensualità e di erotismo che non ha la controprova dell’incontro».

Perché Chiara Ferragni è attesa al Festival di Sanremo come una regina?

«Perché siamo stupidi. Sono convinto che la stragrande maggioranza degli italiani guardi queste cose ma ci rida su, come in una commedia. Purtroppo, nella realtà siamo soffocati dall’orrore per il cinismo montante, la disumanità nei rapporti, l’incapacità di parlarci».

Cosa pensa del fatto che Ferragni ha annunciato di devolvere il cachet del Festival a un’associazione per la difesa delle donne?

«È detestabile che si annunci pubblicamente la beneficenza per accrescere la propria immagine».

Sono le regole della comunicazione?

«Ovviamente, i soldi si devolvono alle donne. Ormai, anche la donna fragile è un cliché esibizionista. Siamo nel post-femminismo dell’esibizione. Perché le donne devono combattere da sole e non insieme agli uomini? La donna fragile è un nuovo stadio dell’evoluzione della specie».

La notizia delle griffe scelte da Ferragni per l’Ariston è stata data al Tg1.

«Siamo in una fase di deragliamento che temo incontrollabile. O c’è un’intenzione precisa per non parlare dell’apocalisse che si avvicina, oppure la visibilità è diventata scientificamente il nuovo idolo e quindi è ancora più folle. Come in una commedia dell’assurdo di Ionesco».

Sempre al crocevia tra moda e spettacolo, che adesso si chiamano fashion e show, cosa pensa del fatto che per promuovere il nuovo disco i Måneskin hanno simulato un matrimonio?

«Io credo nel matrimonio assoluto, i giochetti non li apprezzo. Quando facevano i baffi alla Gioconda m’incazzavo. Adesso trovo irritante quella pubblicità con l’Ultima cena nella quale Gesù è una mezza femminuccia. Non accetto che una grande cultura sia spazzata via in un gioco di barzellette».

Ma nel rock si è sempre dissacrato…

«Certo, ma qui l’operazione è sottile. Prendiamo queste parole, glamour, fashion, show… Il problema non è che siano declinate in inglese, che è già grave, ma che il loro scintillio annulla la potenza del corpo, la sua realtà».

Lo scintillio sostituisce la carne?

«Esattamente, anche nella malattia o nella sanità. Sostituisce la corporeità in tutte le sue manifestazioni».

È il trionfo dell’immagine?

«Siamo oltre l’immagine, siamo alle ombre cinesi. L’immagine erano anche quelle degli anni Settanta, c’erano le icone… Questa è la frutta caricata di potassio, la carne chimica…».

La barzelletta compensa i limiti artistici?

«Questo non lo so, anche se non trovo grande musica. Lo dico da appassionato di Peter Gabriel, da uno che a 14 anni amava Jumpin’ Jack Flash, tutta la musica italiana anni Sessanta, e poi il travestitismo che però aveva sotto il corpo, dai Roxy Music a Lou Reed a David Bowie. La nudità di Iggy Pop era funzionale alla musica, il corpo era uno strumento, anzi, lo strumento principale».

Perché i Måneskin non si possono criticare?

«Perché sono il punto più alto della vendibilità, della vendibilità facile».

Quest’anno tornano a Sanremo per la terza volta, invece Achille Lauro sarà presente per il quinto anno di fila. È lui il volto identitario della manifestazione più importante della Rai?

«Alcuni suoi pezzi potevano pure piacermi… Il fatto è che si va per annate, ci sono pure Al Bano, Massimo Ranieri e il solito Gianni Morandi».

Questioni di audience e di target?

«Certo. I Måneskin e Achille Lauro sono la pseudo avanguardia, in realtà sono retroguardia perché la trasgressione c’è già stata negli anni Settanta. Poi ci sono i vecchi dromedari e la terra di mezzo. È una parcellizzazione in tante minoranze, come avviene per i diritti civili, dei gay, dei trans, delle donne… La parcellizzazione dei diritti sembra un’avanzata di civiltà, invece produce frammentazione in tante minoranze».

Che cosa indica il fatto che alle ultime sfilate Giorgio Armani ha scelto di tornare al classico facendo indossare i suoi capi a coppie composte da un uomo e una donna?

«È stato un gran signore. Il portabandiera di una nuova avanguardia che si oppone a questa deriva. Da stilista ha dato prova di stile. Anzi, di eleganza: c’è differenza… L’eleganza è naturale, lo stile si acquisisce con gli abiti e il portamento. I veri eleganti sono i bambini e gli animali, perché si muovono con grazia e libertà. Armani ha smesso i panni dello stilista e ha indossato quelli dell’uomo elegante».

Che cosa pensa del fatto che Volodymyr Zelensky sarà ospite in videocollegamento della serata finale del Festival?

«È un’idea pessima. Un una mossa da croupier del casinò. Una politicizzazione estrema».

La maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi all’Ucraina eppure si offre a Zelensky la vetrina di maggior ascolto della televisione italiana.

«Infatti, è un affronto alla democrazia. Un inedito. Qualcosa che sa di dittatura mediatica».

I Giganti cantavano: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni», stavolta si mettono i cannoni tra i fiori di Sanremo.

«C’è bisogno della guerra tra le canzonette? La decomposizione dei corpi, l’assenza di incontro tra le persone, la vittoria delle ombre cinesi e la parcellizzazione dei diritti non sono già una guerra?».

 

La Verità, 28 gennaio 2023

 

Fiorello, patrimonio del divertimento italiano

Leggerezza, giocosità, buona musica, invenzione, spensieratezza: dove si trova tutto questo? Nel nuovo show di Rosario Fiorello, intitolato Fiorello presenta, con l’aggiunta del nome della città nella quale va in scena il recital. Venerdì sera è toccato a Padova. Oltre due ore di puro divertimento, concluse con l’intera platea in piedi, prima a ballare e cantare insieme allo showman, poi ad applaudirlo per i saluti finali e richiamarlo al bis. Il Teatro Geox era sold out nei suoi 2500 posti a sedere, tanto che sono state aggiunte nuove date a fine marzo, dopo che la tournée avrà toccato altre città. Sarebbe facile raccontare lo spettacolo citando le battute e i tormentoni, ma vorrebbe dire togliere il piacere della sorpresa ai prossimi spettatori. Gli show saranno sempre diversi, da una città all’altra e la contestualizzazione accentuerà la differenza. Padova, com’è noto, è la città dei «tre senza». Prato della Valle, la piazza senza il prato, il caffè Pedrocchi, senza le porte, il Santo, senza il nome. «Ma ha un con che compensa tutto: lo spritz». Fiorello usa il dialetto alla perfezione nell’intercalare del turpiloquio e di quella grinta un po’ rabbiosa dei veneti, punteggiatura della serata opposta ai Brividi lamentosi di Mahmood.

Tutto, però, è universalmente italiano. Musica, gag, brevi squarci di vita quotidiana, imitazioni volanti, karaoke in giacca color zucca e coda di cavallo, amarcord d’infanzia e di gioventù, improvvisazioni con il pubblico nel quale erano confusi il sindaco Sergio Giordani e Adriano Panatta, infilzato per tutta la sera come una bambolina. Un varietà assoluto, nel senso della versatilità dei linguaggi e delle espressioni. Ma anche nel senso delle varie età cui si rivolge e di cui, con rapido appello, Rosario ha voluto conoscere la diversa rappresentanza in sala. Se ci fosse un organismo deputato a tutelare il patrimonio dell’italico divertimento come l’Unesco sancisce la protezione dei patrimoni dell’umanità, lo showman siciliano andrebbe iscritto per primo in questa speciale categoria. Fiorello è un artista completo, compiuto, perfettamente risolto. Regalare uno spazio di piacere collettivo come ha fatto l’altra sera è qualcosa di unico. Non si tratta solo di evasione, di distrazione di massa. Le problematiche della quotidianità, soprattutto quelle connesse al rapporto tra le generazioni, non sono dimenticate, ma riproposte in chiave comica, paradossale o sull’onda di felici iperboli, con l’esito di sdrammatizzarle. Uno show in cui si parla con delicatezza del tempo che fugge veloce e della morte.

A ben guardare, c’è un’avvertenza sottesa all’intero canovaccio: la giusta distanza dalla politica. Proprio questo, in fondo, dà ariosità e freschezza a tutto lo spettacolo. Siamo persone, molto prima e molto più che militanti di qualcosa, espressione di qualche schieramento. La politica è divisiva e un filo tossica. Fiorello se ne sta alla larga, sfiorandola appena con una rapida citazione della padovana presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e con la gag innocua dei cloni di cui si servirebbero il presidente Sergio Mattarella, la regina Elisabetta d’Inghilterra e qualche altro vip. Non ci sono manierismi, gne gne salottieri, correttismi dei migliori. Ma joie de vivre, voglia di cantare e ballare, attraversando i decenni e connettendo le generazioni attraverso i generi musicali. Una delle eredità lasciate dall’ultimo Festival di Sanremo è proprio il confronto a distanza tra le diverse età e la difficoltà a intrecciarne i linguaggi. In La musica è cambiata?! (Baldini+Castoldi) lo sostiene anche Mimma Gaspari, storica promoter di Paolo Conte, Gianni Morandi e Renato Zero: i rapper e i trapper di oggi non conoscono e forse nemmeno vogliono conoscere la musica di ieri, la tradizione melodica e il mondo dei cantautori. Fiorello prova a creare questa comunicazione proponendosi come ponte tra universi paralleli, per evitare di rapportarci al rap come i nostri genitori facevano con i Bee Gees. Così I giardini di marzo surfano su una metrica sincopata e Figli di puttana di Blanco prova a trasformarsi in una ballata di Domenico Modugno. Gli Ottanta e i Novanta sono stati decenni fortunati per la fusion, il jazz rock interpretato da musicisti particolarmente talentuosi. Ma Fiorello non compie un’operazione virtuosistica, la sua comunicazione non ha niente di etico e viaggia sulle ali del divertimento, suo e nostro. Se i brani dei rapper contemporanei usano senza sfumature il turpiloquio, Gino Paoli e Tony Renis si divertivano con le metafore e i sottotesti del Cielo in una stanza e di Grande grande grande. Sul sesso non si poteva essere espliciti, eppure il linguaggio era più fresco perché non incombeva il politicamente corretto. Edoardo Vianello poteva cantare I Watussi («Nel continente nero/ Alle falde del Kilimangiaro/ Ci sta un popolo di negri…») che oggi Ghali riproporrebbe in versione urban liofilizzata. Fiorello contamina, divaga, sconfina nella musica classica citando l’Ave Maria di Schubert cantata in latino da chierichetto, fino a proporre un’ispirata versione del Padre nostro sulle note di un brano di Tiziano Ferro. Narra Elvis Presley in vacanza in Italia che si affaccia dalla Torre degli Anziani roteando il bacino e s’imbatte in Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni… Plana sull’adolescenza e la psicologia moderna che raccomanda ai genitori di dialogare senza giudicare per «non minare l’autostima dei figli» anche quando prendono tre nel compito di greco. Seguono gli omaggi senza pose ruffiane a Raffaella Carrà e Franco Battiato, il medley di karaoke, la disco anni Novanta… Tutti in piedi con Ciuri.

 

La Verità, 20 febbraio 2022

«A Sanremo dirige chi ha imparato al computer»

Gianni Morandi, Renato Zero, Enzo Jannacci, Paolo Conte, Nada, Riccardo Cocciante: sono solo alcune delle star per le quali Mimma Gaspari ha lavorato. Come press agent, autrice, consulente per l’immagine… Insomma, è stata la consigliera dei grandi della musica italiana. Dopo Penso che un «mondo» così non ritorni mai più, sempre per Baldini+Castoldi ha appena pubblicato La musica è cambiata?! Dite la vostra che io ho detto la mia, quasi seicento pagine di ritratti, aneddoti, interviste.

Le è piaciuto il Festival di Sanremo?

«A tratti sì. Alcune canzoni mi sono piaciute molto. Mi è piaciuta Drusilla Foer. E poi, ovviamente Gianni Morandi, la più bella voce italiana; la seconda è quella di Blanco».

Complessivamente, da 0 a 10?

«Darei un sette e mezzo, anche otto».

Il merito principale di Amadeus è stato mescolare generazioni musicali diverse?

«Direi di sì. Però, non ho capito se sceglie da solo le canzoni, con l’aiuto di Gianmarco Mazzi o di una commissione. In passato c’era una commissione, mi chiedo se sarebbe meglio che ci fosse ancora».

Perché questa domanda?

«Parlando in questi giorni con Pippo Baudo, mi raccontava che ai suoi tempi, dopo un’iniziale scrematura, una commissione sceglieva un certo numero di canzoni da mandare al Festival. Gianni Ravera voleva avere nel cassetto sempre sette o otto pezzi forti».

Sta dicendo che la selezione di questo Festival era modesta?

«No, il pregio di Amadeus è avere mescolato. Ma Sanremo deve avere grandi canzoni, come per esempio Brividi. In passato c’erano interpreti come Riccardo Cocciante, Renato Zero… Quando nel 1968 Sergio Endrigo vinse con Canzone per te si rammaricò: <Era meglio se arrivavo secondo>».

Ha avuto anche lei la sensazione che l’esibizione di Cesare Cremonini fosse una spanna sopra quelle di molti concorrenti?

«Senz’altro. Cremonini è bravissimo, è un animale da palcoscenico, ha bei testi. Ma io sono bolognese e dunque di parte. Morandi, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Luca Carboni, gli Stadio, Ligabue, anche Samuele Bersani, che è di Cattolica… diciamo che la scuola emiliano-romagnola ha dato molto alla canzone italiana».

Lei è stata vicina a star come Renato Zero, Conte e Morandi, ma nel suo libro parla con competenza di Salmo, Marracash, Rkomi, Achille Lauro… Perché è così interessata al rap e alla trap?

«La curiosità per la musica non muore mai. Voglio capire perché questi rapper hanno tanto successo».

E come si risponde?

«Ancora non l’ho capito bene. Ci sono situazioni diverse. Per esempio, Blanco ha una voce eccezionale. Alcuni testi sono interessanti, ma è molto difficile cantarli, mentre Poesia di Cocciante la canto anche ora dopo 50 anni».

Quindi non si spiega il successo del rap?

«Ai giovani piace molto questo genere, ma non sanno chi sono Lucio Battisti e Adriano Celentano. I ragazzi di oggi sono insicuri, déracinés, sradicati. Perciò si riconoscono in questi “fiumi di parole”. Dove si trovano bei testi come L’Albatro di Marracash, che però è incantabile. Forse è musica da ascolto».

Da ascolto?

«La indie e la trap più del rap».

Tornando alla domanda del libro che accompagna con il punto interrogativo e con quello esclamativo, la musica è cambiata in meglio o in peggio?

«Probabilmente in peggio, non poter cantare le canzoni è un grande difetto. I rapper cantano troppo velocemente».

Come si fa a cantare un rap sotto la doccia?

«Impossibile, per questo dico che è musica da ascolto».

Come il jazz o Ludovico Einaudi?

«Non ascolto nel senso classico. A volte il rap ha testi pesanti, come Suicidio di Faust’O, difficile da cantare per noi adulti».

Ecco, per gli adulti è più difficile il salto dalla canzone classica al rap o quello dal mondo analogico al digitale?

«Domandona. Ormai si è obbligati a diventare digitali, almeno un po’. Entrare nella metrica rap invece è facoltativo e facciamo più fatica perché abbiamo sentito tanta musica importante. Invece, i rapper non conoscono Quando finisce un amore di Cocciante, per dire. Per questo nel libro ho suggerito 250 canzoni da ascoltare prima di lanciarsi come autori».

Condivide il tifo della critica per Mahmood e Blanco?

«Non sono una giornalista, ma condivido. Certo, preferisco Morandi, però Mahmood e Blanco sono affascinanti ed esprimono una fusione molto forte».

È davvero la migliore canzone di questo Festival o piace perché contiene altri messaggi?

«Può darsi, ma non ne sono sicura. In questo Festival ne abbiamo visti parecchi di questi messaggi. Avrei scelto canzoni più propriamente italiane, forse non ce n’erano abbastanza. Ma non voglio giudicare chi sceglie le canzoni. Non mi hanno mai coinvolto nella selezione del Festival, anche se me ne intendo, lo dico senza falsa modestia».

Nel 2019 la giuria di qualità sovvertì l’esito del televoto che aveva scelto Ultimo facendo vincere Mahmood.

«Ultimo aveva ottenuto il 49% dei voti, Mahmood il 15%».

In una prospettiva generazionale, il televoto premia sempre i concorrenti più giovani?

«È anche una delle mie curiosità: il televoto si concentrerà sui rapper?».

Perché l’hip hop nato nei ghetti neri ora, diventato urban, conquista un palco nazionalpopolare come l’Ariston?

«Il gangsta rap è espressione della protesta dei neri contro i bianchi, tanto che i neri si arrabbiarono parecchio quando Eminem se ne impadronì. Adesso il rap è diventato un ritmo più che l’espressione di una protesta antirazzista».

Non sarà anche perché i rapper italiani sono sensibili alle sirene del mercato e dei media?

«Molti si affermano perché si postano su Spotify e vengono segnalati alle case discografiche. È un sistema per sfondare molto diverso da quello di una volta. Oggi le canzoni sono meno verificate».

Fedez, J-Ax, Sfera Ebbasta nati nei centri sociali sono diventati fenomeni mediatici.

«A 51 anni J-Ax è considerato lo zio del rap. Dai centri sociali alle prime serate tv il salto è vertiginoso. Molti di questi ragazzi sono figli di operai che arrivano dal sud. Studiano informatica, ma quasi nessuno finisce la scuola. Con i social la strada per il successo è più breve».

Sbaglio o Achille Lauro è uno di quelli che le piace meno?

«Non sbaglia. Ho lavorato dieci anni con Renato Zero che è sempre stato molto scenografico. Mi diceva: “Non penseranno che ho copiato David Bowie… Ho cominciato prima di lui”. Soffriva perché non superava mai il provino per andare in televisione. Prima o poi mi chiamerete per fargli fare dieci sabati sera, dicevo ai capi della Rai. Infatti. A differenza di Renato che scriveva sempre grandi testi, Lauro fa passare canzoni modeste attraverso la messa in scena».

Prevalgono l’immagine e il glamour sulla qualità della musica?

«A volte mi sono occupata anche dell’immagine. Ai tempi di Il cuore è uno zingaro, copiandolo da Via col vento, suggerii a Nada un vestito bianco che andò su molte copertine. L’immagine deve aiutare la canzone, non sovrapporsi».

Cosa pensa dei Måneskin?

«Li trovo bravissimi, Coraline dimostra che sanno fare anche canzoni diverse».

Ritiene giustificata questa estasi diffusa?

«Mi chiedo perché hanno successo in tutto il mondo. Forse non sono il vero rock, ma in Italia è tanto che non c’è un vero gruppo rock e loro riempiono questo vuoto».

Un tempo il successo di un artista si costruiva in anni di studio e con il lavoro di produttori, autori, arrangiatori, discografici: oggi?

«Oggi più che costruire ci si posta. Se va va, se no pazienza».

I followers sui social hanno preso il posto di casting e provini?

«Morandi ha 2 milioni di followers, ma sono persone che lo amano. Io ho fatto tanti provini alla Rca con produttori, musicisti e arrangiatori, era un lavoro d’équipe. Se non si era tutti d’accordo, la canzone non passava».

Che cosa ha pensato quando ha visto Francesca Michielin dirigere l’orchestra del Festival?

«Non ho ben capito come mai fosse in grado di farlo. Io ho studiato tre anni pianoforte, ma poi ho smesso perché non me la sentivo. Mi chiedo se abbia seguito dei corsi di composizione o di direzione d’orchestra».

Consegnarle il podio di Sanremo squalifica il ruolo dei direttori e legittima la presunzione dei millennial?

«Ho sentito Enrico Melozzi, il direttore d’orchestra dei Måneskin, dire che ha imparato studiando su internet. S’impara a dirigere con il computer».

Con dei tutorial?

«Forse. Il direttore dei Måneskin ha fatto tante direzioni, so che suona anche il violoncello. Io ho sempre sognato di suonare, vedo che tanti ci riescono, ma a volte mi sembrano dei miracoli».

Che ricordo ha di Ennio Morricone conosciuto alla Rca?

«È uno degli uomini più adorabili che ho incontrato».

Parlando di umiltà e applicazione…

«Lo incontravo al bar della Rca, dove passavano musicisti, autori, artisti. Lui aveva ascoltato la mia traduzione di Exodus e mi chiese: “Signorina, sarebbe disposta a fare una canzone con me?”. Pensavo di sognare, era il 1966. Mi precipitai e insieme scrivemmo Occhio per occhio che fu portata al Cantagiro da Maurizio Graf».

Ha visto il documentario che gli ha dedicato Giuseppe Tornatore?

«Ancora no. È rimasto solo due giorni, ma appena tornerà al cinema andrò di sicuro a vederlo».

Ha mai tentato di convincere Paolo Conte a partecipare a Sanremo?

«Impossibile. Però Conte ha scritto per altri. Azzurro l’aveva scritta da solo, ma poi fu Vito Pallavicini a farla cantare a Celentano. Il Clan era molto selettivo nella scelta delle canzoni. Pallavicini andò con un registratore Geloso a farla ascoltare ad Adriano attraverso la finestra aperta mentre faceva la doccia».

Tra i tanti con i quali ha collaborato a chi è più affezionata e perché?

«Ero diventata grande amica di Jannacci. Un po’ perché parlavamo in dollari…».

In che senso?

«I dirigenti della Rca la ritenevano una gag, ma io li convinsi a pubblicare Vengo anch’io. Vendette 600.000 copie e Jannacci diventò ricco. Così quando gli telefonavo mi diceva: “Parliamo in dollari?”».

Con Conte che rapporto ha?

«Affettuoso. Mi chiama la dama en bleu marine, alla sua maniera. Ci scriviamo e  telefoniamo ancora».

Tre canzoni che porterebbe in un’isola deserta?

«Vieni via con me, Un mondo d’amore e Vengo anch’io».

E l’artista con cui conversare per ingannare le lunghe giornate?

«Con Morandi, anche lui bolognese, mi sembrerebbe di tornare alle origini».

 

La Verità, 6 febbraio 2022

Finito il Festival dei record, anche di pianti e gender

Il senso di liberazione è forte. Dopo la settimana di reclusione con vista sul Quirinale, finalmente ci siamo messi alle spalle anche la galera dell’Ariston; fiorita e scintillante quanto quella del Colle era rituale e polverosa, ma pur sempre galera. Le due liturgie vanno abbinate, non solo per la telefonata tra il bis-presidente e il tris-conduttore. Ma soprattutto perché, per i telespettatori anarchici, individualisti e viziati dal ventaglio di scelte, hanno entrambi il carattere dell’obbligo e, dunque, della tortura. Ora ci si butterà sulle Olimpiadi invernali, ma qui di obblighi non ce ne sono.

Intanto, mentre l’amministratore delegato Rai Carlo Fuortes, il «dottor Carlo» di Sabrina Ferilli, minaccia «una statua equestre di Amadeus» in Viale Mazzini e si conciona di una sua edizione quater, proviamo ad archiviare il ter.

Per il conduttore e direttore artistico quello appena concluso con ottimi ascolti (64,9% di share e 13,3 milioni di telespettatori per la serata finale) è un triplo capolavoro (voto: 7,5). Nell’era della (quasi) unità nazionale, come da mission annunciata, il Sanremo tuttifrutti ha accontentato (quasi) tutti, anche se, come vedremo, soprattutto alcuni. Amadeus si è consacrato, emancipandosi da Fiorello, dimostrando che il suo lavoro sta in piedi da solo. C’era un filo di scetticismo, dopo la prima serata. Invece, azzeccando gli ospiti delle successive, gli ascolti sono rimasti in quota e lo spettacolo pure. Ultima, ma altrettanto importante quadratura è quella musicale: un mix di generi, gender e generazioni che ha soddisfatto tutti i gusti. Mescolando mondo rap e canzone melodica ha completato l’opera di ringiovanimento del pubblico già iniziata da Claudio Baglioni. Un punto in meno nella valutazione si deve alla scelta delle partner femminili, non tutte azzeccate, e al lassismo consentito ai direttori d’orchestra. Oltre a legittimare la presunzione dei millennial, concedere il podio a Francesca Michielin (4) ha mostrato che per dirigere l’orchestra del Festival della canzone italiana non serve il diploma del conservatorio. Una lacuna non certo compensata dai look eccentrici di alcuni più assidui colleghi, ma quanto lei sprovvisti dei titoli necessari. Caso da risolvere.

Chi non ha bisogno di esibire pass di autenticità è Fiorello (7,5 per la presenza risicata), improvvisatore sopraffino («da sex symbol a ex symbol il passo è breve») e resiliente, con il medley di ballate tristi trasformate in samba tropicali. Tutto il contrario del meticoloso Checco Zalone (8), in grado di lanciarsi a tutta velocità, sul ciglio tra volgarità e raffinatezza a colpi di calembour, rime e parodie fulminanti, ma più cerchiobottiste di un tempo.

Nell’assemblaggio dei brani in gara la formazione da dejaay di Amadeus ha pagato. Il carisma di Gianni Morandi (7,5) è stato riconosciuto anche dai giovanissimi (Blanco: «Da grande voglio essere come lui»): chiusura del cerchio di mondi che sembravano non toccarsi. Invece energia, freschezza, eleganza hanno bucato il muro di separazione tra le generazioni. L’energia del Gianni nazionale, con o senza Jovanotti, la schiettezza  dell’ultra ottantenne Iva Zanicchi, il controllo espressivo di Elisa hanno finito per evidenziare le paturnie gender e le pennellate di smalto di Achille Lauro, Michele Bravi, Måneskin, Rappresentante di lista e di tutto il carrozzone fluido in trasferta all’Ariston (4 per il déjà vu). Terreno sul quale la distanza generazionale è tornata profonda.

Il Festival contrappuntato di gaiezza ha confermato i vincitori ampiamente annunciati (5) alla vigilia dalla critica (5), monoliticamente schierata. Blanco sarà anche una delle voci migliori della scena musicale contemporanea, ma la tonalità di Mahmood incarna il vittimismo lamentoso, per altro condensato nel ritornello della canzone: «Nudo con i brividi/ A volte non so esprimermi/ E vorrei amarti ma sbaglio sempre». Non a caso lo stesso impaccio espressivo ritorna in Ti amo non lo so dire di Noemi, l’altro brano firmato da Mahmood. Sull’emisfero opposto si trovano le due canzoni migliori del Festival (7 a entrambi) che sembrano dialogare tra loro, Forse sei tu di Elisa e Sei tu di Fabrizio Moro («La distanza fra un uomo che ha vinto ed un uomo sconfitto/ Sei tu/ Che attraversi il mio ossigeno quando mi tocchi/ Sei tu»), giustamente premiate come miglior arrangiamento e miglior testo della kermesse. Complessivamente, sulla modestia di gran parte degli interpreti in gara, è svettata l’esibizione di Cesare Cremonini (9) che ha inondato l’Ariston di canzoni ispirate e vitalità sorridente. Simile a quella trasmessa la sera dopo da Jovanotti (8), nella doppia veste – qualcuno ha cavillato – di partner di Morandi e di superospite. Anzi, di «superamico» capace di far sedere a disegnare l’ex compare di Radio Deejay, mentre lui recitava Bello mondo di Mariangela Gualtieri, riportandoci per un attimo sui banchi di scuola.

Si è dovuto invece aspettare la serata finale per avere sul palco una donna sia bella che intelligente: Sabrina Ferilli (8,5), testimonial della categoria Unodinoi per tanti motivi. L’ironia, la leggerezza, la veracità luminosa, il non metterla giù dura, grazie a Dio, scegliendo l’informalità di quel «vieni, sediamoci qui» sul gradino dell’Ariston, come sul muretto dell’adolescenza. Soprattutto per il suo geniale anti-monologo. Avrebbe potuto toccare tanti temi, le donne, il femminismo, il potere degli uomini, il riscaldamento globale, la disparità salariale… «Ma perché la presenza mia deve per forza essere legata a un problema grosso? Ci sono tante cose da cambiare, ma sto nella mia linea, ho scelto la strada della leggerezza». Applausi. Senza di lei, avremmo dovuto accontentarci di presenze femminili per un motivo o per l’altro, problematiche. La vallettosa Ornella Muti (5); la piagnucolosa Lorena Cesarini (4), che dopo aver detto al settimanale Oggi che «parlare di odio razziale per un paio di post mi sembra una montatura», l’ha messa puntualmente in scena; la più charmante, ironica e colta Drusilla Foer (7,5 per «unicità» al posto di «diversità») che ha il solo difetto di essere un uomo… E per le donne, come qualcuno ha notato, non è una buona notizia.

Se le premesse sono queste, forse una conduttrice donna arriverà insieme a una presidentessa della Repubblica…

 

La Verità, 7 febbraio 2022

 

Ormai le provocazioni di Lauro annoiano

Sarà dura senza Ciuri. Sarà dura restare così in alto senza il fuoriclasse Rosario Fiorello. Ieri Amadeus e i dirigenti Rai gongolavano per gli ascolti della prima serata: 10,8 milioni di telespettatori e il 54,84% di share medio fra prima e seconda parte (l’incremento rispetto alla prima serata del 2021 è del 30,4%). È stata premiata la leggerezza. È stata premiata la scelta musicale. È stata premiata l’amicizia, ma perché no, anche l’arte, il genio, la scienza infusa, il mix di tutte queste cose, hanno detto in coro il conduttore e direttore artistico, il direttore di Rai 1, Stefano Coletta, l’ad Rai Carlo Fuortes. Un trionfo, insomma, un’apoteosi. Più pragmaticamente, forse, è stata premiata la buona professionalità che tutti riconoscono ad Amadeus e alla sua squadra. E magari anche le partecipazioni ben dosate degli ospti. In particolare la presenza all’Ariston di Fiorello, oltre che quella dei Måneskin, accolti come rockstar dei due mondi. Il picco di audience (16,5 milioni di telespettatori) è stato registrato non a caso alle 21,46, durante l’esibizione di Rosario con Ama.

Sarà dura tenere queste percentuali in assenza del talento dell’intrattenimento più eclettico di cui disponiamo. Ieri sera ha provato Checco Zalone, altro fuoriclasse, a sgangherare certe compostezze con la sua comicità irriverente. Mentre Laura Pausini ha assolto al compito di soddisfare il pubblico più tradizionale e romantico del Festival. Stasera toccherà a Roberto Saviano riempire il palco, ricordando Giovanni Falcone, ucciso a Capaci il 23 maggio 1992, ci auguriamo senza eccedere in prediche. La serata di venerdì tracimerà invece di ospiti per i duetti dedicati alle cover e quindi, verosimilmente, Fiorello se ne resterà tranquillo in poltrona «con il plaid e la tisana di tiglio». Fino a sabato quando, se lo augura anche Amadeus, ricomparirà per il gran finale.

Intanto, tiene banco la polemica puntualmente innescata da Lauro De Marinis, in arte(?) Achille Lauro. Il vescovo di Sanremo, monsignor Antonio Suetta, non ha digerito la sua esibizione «che ha deriso e profanato i segni sacri della fede cattolica evocando il gesto del Battesimo in un contesto insulso e dissacrante». Il prelato ha sottolineato «che non ci si può dichiarare cattolici credenti e poi avvallare ed organizzare simili esibizioni». Più diplomatico il messaggio postato su Twitter dal cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura: «II Battesimo è il più bello e magnifico dei doni di Dio. Lo chiamiamo dono, grazia, unzione, illuminazione, veste d’immortalità, lavacro di rigenerazione, sigillo, e tutto ciò che vi è di più prezioso». Chiamato in causa, Amadeus ha replicato che «in quanto cattolico e credente non si è sentito turbato. Lauro è un artista libero di esprimersi secondo il linguaggio dell’attualità. Se non ne teniamo conto rischiamo di allontanare i giovani dal Festival oltre che dalla Chiesa». Senza peccare d’ingenuità bisogna ammettere che quel paraguru del De Marinis è riuscito ancora una volta a occultare con la messa in scena la pochezza canora. Le sue canzoni si guardano, perché se si ascoltassero ci si accorgerebbe di testi che recitano: «L’amore è un’overdose/ 150 dosi/ Oh sì sì/ Fanculo è Rollin’ Stone/ Ah ah ah». Eppure negli ultimi quattro Festival nessuno è presente quanto lui, tre volte da concorrente e una da superospite. Parlando qualche giorno fa con il Corriere della Sera ha paragonato le sue partecipazioni ad altrettanti sacramenti, la prima volta è stata una specie di Battesimo, la seconda come l’Eucarestia, quest’anno è arrivata la Cresima… Ergersi a (presunti) dissacratori è sempre una furbata perché il sacro tira. Il vero problema è che di sacramenti ce ne sono altri tre, ma sarebbe preferibile andare dritti all’Estrema unzione.

Per il resto, bisogna rilevare che la casella più gonfia della kermesse è quella della fluidità, sempre se non si vuol parlare apertamente di Ariston gaio. Qualcuno, per esempio, l’ha paragonato a una sorta di gay pride. Senza arrivare a tanto, sicuramente la gaiezza è uno dei fili conduttori più smaltati dell’edizione numero 72, ancor più delle scorse. Esibizione dei Måneskin a parte, dei quali continua a sfuggire il confine tra il contributo alla causa del rock e quello all’universo glamour, hanno stupito durante l’interpretazione di Brividi le simulazioni piuttosto esplicite di Mahmood e Blanco, già scelti dalla critica come candidati al successo finale e casualmente balzati in vetta alla classifica della prima serata. A completare la recita in chiave omosex è arrivato anche il bacio tra Amadeus e il direttore di rete Stefano Coletta. Effusione che oltre a citare l’analogo bacio portafortuna tra lo stesso Fiorello e l’allora direttore di Rai 1 Fabrizio Del Noce, era densa di sottotesti. Stasera la madrina della serata sarà Drusilla Foer. Sarà dura senza Ciuri…

Buona visione a tutti, bambini compresi.

 

La Verità, 3 febbraio 2022

Saviano, Lauro, Morandi e il puzzle dell’Ariston

Adesso le caselle sono tutte piene, i tasselli sono tutti occupati. L’ultimo ancora vuoto era quello sotto l’insegna Impegno civile. Ma con l’annuncio di ieri di Amadeus, il cartellone è completato: «A trent’anni dalla strage di Capaci, ricorderemo questo evento con Roberto Saviano, sono felice e onorato della sua presenza». Parole scolpite e ribadite per i distratti, senza lesinare l’enfasi: «Saviano a Sanremo, accadrà nella sera di giovedì», fruscio in sottofondo di mani che si sfregano.

La fantasia è quella che è. Mancando Roberto Benigni e non riuscendo a convincere Greta Thunberg, non restava che la spalla di Fabio Fazio. Ciò che conta è il tabellone finito, il puzzle terminato. Il Festival di Sanremo è un grande gioco di società, con tante caselle da colorare una per una. Si canta, si balla, si esibiscono lustrini e pailettes, si gioca e si trasgredisce sui generi non solo musicali, ma alla fine i conti devono tornare anche in assenza di Tim, il main sponsor che grazie alla creatività di Luca Josi, direttore brand strategy, e alla versatilità di Mina, aveva punteggiato con leggerezza le ultime edizioni.

E devono tornare pure gli ascolti – ne sapremo qualcosa già stamattina – per sfatare la maledizione che un anno fa, dopo le accuse di flop all’edizione in corso senza pubblico, il talismano Fiorello inviò ai futuri conduttori del 2022: «Dovrà essere un festival pieno di gente, ma deve andare malissimo. Ma male, male, male. Ve lo auguro con tutto il cuore», sbottò allora lo showman. Grazie a Dio presente anche quest’anno in quota Unodinoi (insieme a lui anche Sabrina Ferilli).

Dunque, eccoci con la pila dei manuali di marketing sulla scrivania della direzione artistica per comporre il mosaico e rastrellare ogni piccola zolla ai quattro angoli dell’Auditel. Non c’è neanche bisogno di un filo conduttore, ci penseranno i telespettatori e i dottori della critica a cercarlo… In realtà, non è nemmeno indispensabile che lo trovino. Alla nutrita squadra di autori basta assemblare, accumulare, coprire tutti gli spazi. La tv generalista nella sua massima espressione è questo. Che cosa tiene insieme Achille Lauro, il primo a uscire sul palco ieri sera per inaugurare la gara, e Matteo Berrettini reduce dagli Australian open di tennis? Che cosa accomuna i Måneskin vincitori del Festival di un anno fa e Ornella Muti che, ancora sensuale e in totale controllo, ha affiancato Amadeus sul palco? Il marketing. Le quote. La rappresentanza delle community. Di rado una dichiarazione apparentemente innocua è stata densa di contenuti come quella fatta lunedì da Stefano Coletta, ancora direttore di Rai 1 fino a fine febbraio quando, nonostante i demeriti, assumerà l’incarico di capo dell’Area intrattenimento: «Sarà davvero il Festival di tutti, ancora più degli altri anni», ha chiosato.

Tanti pubblici fanno il grande pubblico, il corpaccione unico e strabordante del popolo di Sanremo. Perciò, si inseguono scientificamente le diverse comunità in cerca di riconoscimento e legittimazione. Mettendosi così anche al riparo da possibili e fastidiose proteste delle varie minoranze, più o meno presumibilmente trascurate. Accontentare tutti è il verbo del settantaduesimo Festival di Sanremo. Siamo o no nell’era della (quasi) unità nazionale?

Dopo la casella dedicata all’Impegno civile riempita da Saviano a trent’anni dalla strage di Capaci (che per la verità cadrebbero il 23 maggio, ma non cavilliamo), la seconda quota è intitolata alla Fluidità. Detto dei Måneskin e di Achille Lauro, proprio la sera del monologo dell’ombroso autore di Gomorra, insieme ad Amadeus, toccherà alla garrula Drusilla Foer fare gli onori del palco. Vederli uno accanto all’altra, pur così lontani per immagine e sensibilità, sarà l’apoteosi del mainstream. Sanremo mixa e metabolizza tutto nel suo calderone, carrozzone, caleidoscopio. La coppia composta da Blanco e Mahmood, già favorita della critica, occupa il riquadro intitolato Integrazione. Nella quale è iscritta anche Lorena Cesarini, l’attrice nata a Dakar, cresciuta a Roma, consacrata dalla serie Suburra e co-conduttrice stasera, quando gli ospiti saranno Laura Pausini, in quota Perché Sanremo è Sanremo, e Checco Zalone, si spera titolare della casella Comicità scorretta. Corposissima la sezione intestata alla Fiction della casa, rappresentata da un’overdose di volti della rete, da Nino Frassica a Raoul Bova, da Claudio Gioè a Maria Chiara Giannetta, partner del direttore artistico nella serata di venerdì. Quanto ai concorrenti, ce n’è per tutti i palati, rapper, melodici, pop, cantautori. Con un’avvertenza: giusta l’attenzione alla Generazione Z (nati dal 1997 al 2012) con concorrenti come Rkomi e Sangiovanni. Ma senza trascurare il pubblico più stagionato che un anno fa si dimostrò tiepido. Non è un caso che per soddisfare le preferenze dei Telemorenti (Dagospia) siano stati richiamati in servizio Gianni Morandi, Massimo Ranieri e Iva Zanicchi.
Signore e signori, ecco a voi il Festival tuttifrutti. Nella stagione della maggioranza macedonia, tenuta insieme con sommo sforzo da Draghi, il Sanremo buono per (quasi) tutti i pubblici è servito.

 

La Verità, 2 febbraio 2022

«L’altro festival di Sanremo suona christian music»

Tipo scaltro, Fabrizio Venturi. Tutt’altro che ingenuo, come si potrebbe sospettare pensando al direttore artistico di un Festival della canzone cristiana. Il primo in assoluto, in programma il 3, 4 e 5 febbraio prossimi all’Auditorium Villa Santa Clotilde di Sanremo. Lungi dal mettersi in rotta di collisione con il Festival di Amadeus, ne sfrutta il traino. «Non siamo un controfestival», scandisce. Gli altri conduttori della kermesse saranno l’attore e comico Gaetano Gennai, Mitch, dj di Radio 105 e inviato delle Iene, e Marta Bucciarelli. Lo scopo è promuovere la christian music, «con o senza l’acca». Fiorentino, 63 anni, fondatore di una casa discografica indipendente, Venturi non fa crociate, non semina giudizi, non dispensa pagelle.

Chi è Fabrizio Venturi?

«Sono un cantautore nato alla fine degli anni Ottanta. Appartengo alla scuola fiorentina, ho frequentato l’Accademia della Canzone di Sanremo, poi sono partito per gli Stati uniti…».

Cos’è la scuola fiorentina?

«Quella che prodotto artisti come Paolo Vallesi, Marco Masini, Raf, Zucchero… Forse possiamo parlare di scuola toscana».

È nato prima il cantautore o il credente?

«Il cantautore».

Chi o che cosa l’ha avvicinato alla musica?

«È un’espressione che si è fatta largo negli anni. Avevo un’agenzia di grafica pubblicitaria con un compagno quando, per gioco, partecipai a un concorso. Scoprii che il mondo della musica mi piaceva e decisi di provarci. Avevo 21 anni».

Nel suo sito si leggono partecipazioni a eventi con Ray Charles, Billy Idol, Temptations, Gipsy Kings e collaborazioni con Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Mogol… Ha un modello musicale al quale s’ispira?

«M’ispiro alla bella musica, fatta bene. La musica è tutta bella, quella fatta bene no. Per esempio: posso comprare una giacca bella, ma dopo tre volte che la indossi è già sformata. I generi musicali sono tutti belli, dal folk all’heavy metal, ma se hai l’orecchio fine ti accorgi quando sono ben eseguiti».

Il suo genere qual è?

«Il pop rock sinfonico. Mi piace la musica potente, la musica minimalista non fa per me. In quasi tutte le mie opere c’è una base con batteria, basso, chitarra e pianoforte che arricchisco con le sezioni di archi e di fiati, o con uno strumento insolito… Ci sono artisti di cui non faccio i nomi, che fanno canzoni sempre con la stessa base».

Che cosa l’ha avvicinato al cristianesimo?

«Lo cercavo, cercavo delle risposte. Nel 1995 ho avuto un gravissimo incidente e sono stato una settimana in coma. Ho sentito una voce che mi suggeriva di mettere a disposizione parte della mia musica per aiutare le voci più deboli. Non capivo cosa volesse dire, fin quando nel 2005 morì il mio grande amico Ambrogio Fogar. Allora gli ho dedicato Amico dolphin, devolvendo i diritti d’autore alla Faip (Federazione associazioni italiane paratetraplegici ndr). Da lì è iniziato il mio cammino».

Ha fatto qualche incontro importante per la sua fede?

«Ho conosciuto e frequentato don Giovanni D’Ercole e don Oreste Benzi. Poi nel 2005 ho scritto Caro Padre che è diventato l’inno ufficiale della Fondazione internazionale Giovanni Paolo II».

Perché avete scelto Sanremo negli stessi giorni del Festival della canzone italiana?

«Perché è il momento in cui l’Italia si raduna in musica e noi ci occupiamo di musica».

La vostra è un’iniziativa alternativa, critica, polemica?

«Assolutamente no. Organizziamo il primo Festival della christian music, un genere musicale che in Italia è ignorato. E che invece ha la stessa dignità del pop e del rock. In altri paesi ci sono divi e star con una popolarità paragonabile a quella di Zucchero e Vasco Rossi».

Perché qui è un genere ignorato?

«Chi lavora nel marketing sa che un prodotto non può piacere fin quando non lo proponi. Come si può scoprire la modernità dei testi di Debora Vezzani se non si ha la possibilità di ascoltarli? Invece sono canzoni meravigliose e Debora Vezzani sarà una nostra superospite. Mentre in gara ci sarà Erminio Sinni, il vincitore di The Voice Senior 2020».

Le piacciono i talent show?

«No, perché non fanno scuola. Non basta avere una bella voce per essere un artista. La musica è fatta di studio e sacrifici. Lucio Battisti, Francesco De Gregori, Lucio Dalla ci hanno messo anni per affermarsi. Spesso i talent sono incubatrici di patologie, perché mettono un ragazzo in un ingranaggio gigantesco, spremendolo all’inverosimile. E quel ragazzo rischia di vivere tutta la vita nel ricordo di quell’anno».

Quanti cantanti partecipano e come li avete selezionati?

«I cantanti sono 24, ma abbiamo selezionato le canzoni, non i cantanti. Sono arrivate oltre 150 proposte. Un team di collaboratori ha fatto la prima scrematura e passato a me le più valide. Le ho ascoltate e riascoltate per tenerne 24. Solo dopo averle selezionate mi sono accorto di aver escluso qualche nome importante. Ma andava fatta una scelta».

I partecipanti percepiscono un cachet?

«Nessun cachet. Il festival è una grande opportunità mediatica, chi vince conquista molta visibilità».

Avete degli sponsor?

«Abbiamo un marchio di food che provvede alle tre cene di gala, ma niente denaro liquido. Lavoriamo gratuitamente e ci paghiamo il viaggio e l’alloggio nelle strutture ecclesiastiche che ci ospitano a prezzi di favore».

Chi saranno i premiati?

«I primi tre classificati, l’autore del miglior testo. Poi ci saranno i premi intitolati a Giovanni Paolo II e a Roberto Bignoli, uno dei più famosi rocker della christian music, il premio della stampa e del Mei (Meeting etichette indipendenti ndr)».

Nei brani in gara si citano Dio e Gesù: è questo che definisce la canzone cristiana?

«Non è la parola a definirla, ma il contenuto. Che però dev’essere esplicito: Dio, Gesù e la Madonna devono essere scritti e cantati».

Ci sono brani degli U2 con una forte carica religiosa che non nominano mai Dio o Gesù.

«Nella christian music il nesso e il significato sono espliciti. L’ispirazione è una cosa, il genere un’altra. Gli U2 non appartengono alla christian music».

Anche le canzoni di Claudio Chieffo rimanevano implicite.

«Non lo conosco».

In un Festival della canzone cristiana mi aspettavo di trovare The Sun.

«Loro li conosco, ma non si sono proposti. Tra le 24 canzoni ammesse ci sono tutti gli stili, dal rap al rock, dal pop allo swing. I concorrenti vengono da Bolzano a Canicattì».

La presenza di Vittorio Sgarbi significa che non è solo un evento musicale?

«Come all’Ariston, c’è la gara canora e c’è l’evento che tocca gli argomenti del nostro quotidiano. La presenza di Sgarbi è comunque inerente perché parlerà del legame tra l’arte pittorica e la musica che è l’arma più potente che Dio ci ha affidato».

Invece Capitan Ultimo cosa farà?

«Sarà sul palco lo stesso giorno di Sgarbi e dirà ciò che riterrà opportuno. Per noi è un onore la sua partecipazione».

La Radio Vaticana che vi seguirà è un media ufficiale del Papa, vuol dire che la vostra è un’iniziativa istituzionale?

«È un’iniziativa del cantautore Fabrizio Venturi, loro mi seguono e mi sostengono».

Che visibilità vi aspettate?

«La Radio Vaticana trasmetterà in diretta mondiale i tre giorni del festival mentre Vatican.news seguirà la finale. Sul territorio nazionale saremo visibili in chiaro su Tele Padre Pio e Canale Italia. Diciamo che la nostra Rai e la Radio Vaticana».

Qualcosa vi ha irritato delle recenti edizioni di Sanremo? Il vescovo, monsignor Antonio Suetta, ha accusato di blasfemia l’esibizione di Fiorello con la corona di spine.

«Nell’arte non c’è blasfemia. Il nostro non è un controfestival e io non mi sono mosso sulla scia del vescovo di Sanremo. Lo dimostra il fatto che già da tre anni avevo comprato i domini di christian music. Sono un sostenitore del Festival: essendo nato dall’Accademia della canzone di Sanremo come potrei non esserlo? Il mio maestro è stato Alberto Testa. Con lui abbiamo scritto Volo libero unplugged, di cui presenterò la versione in vinile. Senza esibirmi, però; perché non è nel mio stile sfruttare la manifestazione per mettere al centro la mia attività. A me interessa solo affermare le tre cose certe in questo mondo: che si nasce, che si muore e che c’è Dio».

Che cosa pensa dell’onda di fluidità che proviene dall’Ariston calcato da Achille Lauro, i Måneskin e la drag Drusilla che condurrà per una sera con Amadeus?                                                                                                                                                                

«Ogni esperienza, anche se dolorosa, può essere positiva. Lauro è un ragazzo geniale, al di là delle forme che usa sulle quali si può concordare o meno. Anche gli altri ben vengano. Se si aggiunge qualcosa, è sempre una vittoria. Chi poteva presumere che Sgarbi fosse vicino al mondo cristiano, anche se dà della <capra!> alle persone che disapprova? È il suo personaggio. Se Amadeus ha scelto questi persone avrà i suoi buoni motivi. L’anno scorso ha condotto in modo magistrale un Sanremo senza pubblico: dobbiamo dirgli bravo».

È curioso che, quand’era frate, Giuseppe Cionfoli andava al Festival e oggi, che non lo è più, viene da voi?

«Ah ah… Sono scelte personali. Non è detto che Cionfoli abbia smesso di pensarla come prima. Si era proposto a tutt’e due i festival, loro non l’hanno preso, da noi viene come ospite».

Al Bano si proclama credente ed è spesso andato a Sanremo.

«Rispondo con un’altra domanda: lei pensa che quelli che vanno all’Ariston non credano?».

Correte il pericolo di autoghettizzarvi?

«Assolutamente no, facciamo musica e basta».

La vostra iniziativa è ingenua e targata?

«Se ci targano va benissimo: facciamo christian music. Non siamo ghettizzati, lei mi sta intervistando, tutta Italia parla di noi. In passato sono stati fatti altri tentativi, mai decollati, come il Jubilmusic. Con l’aiuto di Dio che è il motore di tutto, speriamo di aver gettato un sasso che fa più cerchi nello stagno».

Qual è il vostro obiettivo?

«Evangelizzare attraverso la musica. Il nostro motto è “Chi canta prega due volte”, come recita Sant’Agostino».

Farete una seconda edizione?

«Magari una terza e quarta. Lo scopo è portare nostro Signore nel cuore dei giovani».

 

La Verità, 29 gennaio 2022

«Sanremo irripetibile, Fiore dovrà essere al top»

Il Fantastico di Adriano Celentano, il concerto di Madonna a Torino, quello dei Pink Floyd in piazza San Marco a Venezia, il Pavarotti & Friends, la grande giornata a Bologna con Giovanni Paolo II per il Giubileo, i Festival di Sanremo condotti da Mike Bongiorno e Piero Chiambretti, Raimondo Vianello, Fabio Fazio e Raffaella Carrà: dietro tutti questi eventi c’è un uomo di televisione, dirigente e autore insieme, che risponde al nome di Mario Maffucci, già capostruttura e vicedirettore di Rai 1. Ha 81 anni, due figli, una moglie e vive a Roma, zona Parioli. Ha appena fatto il vaccino contro il Covid e ora è al telefono: «È proprio sicuro che abbia qualcosa d’interessante da dire?».

Che Sanremo si aspetta quest’anno?

«Sarà un Festival diverso dagli altri perché senza il pubblico, una presenza dalla quale gli artisti traggono energia».

Questa assenza peserà di più sui cantanti, i conduttori o gli ospiti?

«Credo che sugli ospiti peserà meno perché hanno il confronto con Amadeus e Fiorello. Cantanti e conduttori avranno maggiori difficoltà. Soprattutto Fiorello, che sarà costretto a dare il massimo, mentre l’anno scorso ha dato il minimo».

In che senso?

«Ha fatto una grande prova d’autore, improvvisando tutto. Un grande artista come lui se lo può permettere. Così, ha preso spunto da quello che succedeva, dalle emozioni del pubblico. Stavolta questo confronto non potrà averlo».

Mancherà una fonte importante.

«Che stimola a inventare. Tra Fiorello e Amadeus c’è grande feeling, ma la sfida è più impegnativa».

Era proprio impossibile stabilire dei protocolli, farli rispettare e avere qualche centinaio di spettatori in sala?

«Sarebbe stato possibile, ma ingiusto nei confronti degli altri teatri che restano chiusi».

Altri programmi Rai hanno il pubblico e l’Ariston sarebbe stato usato come uno studio televisivo.

«Ma l’Ariston è un teatro aperto al pubblico».

Che consiglio darebbe ad Amadeus e Fiorello prima di cominciare?

«Di essere consapevoli di avere un’occasione unica per intrattenere tutto il Paese condizionato dalla pandemia».

È l’approccio del dirigente della tv generalista che creava grandi eventi.

«Il Festival di Sanremo è un evento, in un certo senso unico al mondo. Nasce come manifestazione popolare, senza pretese artistiche. Poco alla volta diventa una fabbrica di musica e intrattenimento. La tv l’ha manipolato, protetto e fatto crescere, trasformandolo in qualcosa di più di una sfilata di belle canzoni».

La convince il fatto che la moglie di Amadeus, Giovanna Civitillo, condurrà il Prefestival?

«Perché no? È un programma marginale, è in grado di farlo, non mi sembra un fatto da biasimare».

Nemmeno sul piano dell’eleganza?

«No, non direi».

Avrebbe potuto essere una buona idea Mina direttore artistico?

«Straordinaria. Ci rendiamo conto di che cos’è stata e che cos’è Mina dal punto di vista musicale?».

Non è decollata per mancanza di coraggio?

«Secondo me si sarebbe tirata indietro».

A quanto si sa, non si sono mai fatti avanti i vertici Rai.

«Da anni Rai 1 attribuisce la direzione artistica al conduttore secondo un canone per cui egli è il playmaker del Festival. Con Mina ci vorrebbe qualcuno felice di averla come direttore artistico. Quelli del presentatore, del direttore artistico e del selezionatore delle canzoni sono ruoli che si potrebbero spacchettare. In questa situazione credo che Mina sia difficile che arrivi».

Agenti e società di produzione esterne hanno troppo peso in Rai?

«Quello che oggi chiamiamo agente, nel vocabolario di qualche anno era l’impresario di artisti. I vari Lucio Presta e Beppe Caschetto hanno fatto la fortuna di tanti spettacoli. La cronaca televisiva attribuisce a Pippo Baudo o ad Amadeus la capacità di portare sul palco le star, ma dobbiamo sapere che dietro di loro c’è il lavoro di qualcuno che ha la forza di coinvolgerle».

Ha visto che due componenti del Cda Rai hanno chiesto di verificare se la lista degli ospiti rispetta la policy aziendale?

«Ho visto, aspettiamo le verifiche. È giusto mantenere un certo equilibrio e controllare la misura dei diversi contributi. Ma allo stesso tempo non dobbiamo perdere di vista il gol finale che è il divertimento del pubblico. Poi certo, l’en plein del cast di un singolo agente non lo approvo».

Anche ai suoi tempi contavano molto gli agenti?

«Ai miei tempi spuntava il potere dei nuovi impresari. Ma c’era un’azienda in grado di stare sul mercato con una forte attrattiva».

Uno dei migliori era Bibi Ballandi?

«Portava il suo contributo senza mai esagerare».

Perché secondo lei quest’anno su Rai 1 funzionano le fiction mentre sono sottotono gli spettacoli di intrattenimento?

«Non c’è voglia e forse non ci sono le condizioni per sperimentare con coraggio. Per essere sicuri dei risultati ci si affida ai format collaudati. Ma così non s’inventa niente e, con la ripetizione, i programmi si usurano e perdono smalto. I successi sono frutto di un dosaggio di componenti tra le quali c’è una percentuale di rischio. Non si può pretendere che il direttore di rete sperimenti se non è aiutato da un gruppo di dirigenti pronti a farlo».

Da Domenica in a Fantastico, da Scommettiamo che… a Beato tra le donne, qual era il segreto dei suoi?

«Sono molto grato a Baudo perché mi ha insegnato l’abc dello spettacolo, facendomi crescere alla scuola del teatro leggero. Il massimo divertimento l’ho provato con Renzo Arbore: leggerezza, autoironia, spettacoli inventati dall’inizio alla fine, spesso le prove erano ancora più divertenti di ciò che andava in onda. Poi c’è stata l’avventura con Adriano Celentano».

Quel famoso Fantastico.

«Il segreto era l’imprevedibilità, non a caso ebbe enorme rilievo sui media. Nacque dopo che Berlusconi ci aveva strappato Baudo, la Carrà ed Enrica Bonaccorti. Lo scopo era indebolire la Rai nella prospettiva della riforma del sistema televisivo che sarebbe sfociato nella legge Mammì».

Una vittoria in contropiede?

«Esatto. Sopravvissi a quella prova grazie all’appoggio di Biagio Agnes ed Emmanuele Milano (storico direttore generale Rai e direttore di Rai 1, ndr)».

Grandi dirigenti, grandi autori: oggi?

«Conosco alcuni direttori di rete come Franco Di Mare e Ludovico Di Meo, ottimi professionisti. Mentre non conosco Stefano Coletta, direttore di Rai 1. Ma non so se abbiano dietro una squadra così forte. Gli autori bisogna cercarli nel teatro leggero, nella musica, nel cinema, come avvenne per Sergio Bardotti, Giorgio Calabrese… In quel Fantastico debuttò Umberto Contarello, che poi è diventato lo sceneggiatore di Paolo Sorrentino».

Come definirebbe Celentano?

«L’artista con il quale nulla era prevedibile. L’unico modo per lavorare con lui era discutere ogni cosa che gli veniva in mente, sapendo che l’avrebbe realizzata».

Luciano Pavarotti?

«Artista immenso, uomo formidabile. A lui è legato uno dei maggiori rimpianti della mia carriera».

Cioè?

«Averlo trascinato nel secondo Festival di Fabio Fazio facendogli fare il notaio. Entrava, diceva qualcosa sui cantanti, usciva. Come si fa a ingaggiare Pavarotti senza farlo cantare?».

Me lo dica lei.

«Era già tutto definito: avrebbe dovuto fare un duetto con Nilla Pizzi su Grazie dei fior. Immagini cosa sarebbe stato… Ma, ad accordo concluso, Nicoletta Mantovani si oppose perché riteneva che, se Luciano avesse cantato durante il Festival, avrebbe tolto interesse al Pavarotti & Friends in calendario due mesi dopo. E Luciano accettò il volere della moglie».

Lavorò anche con il Trio: Marchesini, Lopez, Solenghi.

«Fu una stagione straordinaria che culminò nei Promessi sposi. Era appena finita la miniserie diretta da Salvatore Nocita e noi ne proponemmo la parodia. Qualcuno alzò il sopracciglio, ma proprio affiancare la satira alla tradizione era la forza di una tv libera e moderna com’era quella Rai».

Trasmettevate i concerti di Madonna, il Pavarotti & Friends, la serata per il Giubileo con Giovanni Paolo II e Bob Dylan. Oggi quella formula sarebbe riproponibile?

«Non credo, dipende da come si propone la televisione: se sei un broadcast con l’ambizione di essere partner di grandi eventi internazionali il mercato risponde. Non dimentichiamo il concerto di Frank Sinatra al Palatrussardi di Milano. E quello dei Pink Floyd che chiesero la collaborazione di Rai 1 per suonare a San Marco, trasmesso in mondovisione».

E ricordato per le conseguenze tremende sulla città di Venezia.

«Che non era preparata a gestire un evento di risonanza mondiale».

Eventi del genere oggi sono irripetibili?

«Allora la Rai era punto di riferimento delle tv pubbliche europee e c’era una disponibilità diversa degli sponsor. Ricordiamoci che parliamo di manifestazioni con grandi budget, che potemmo realizzare perché c’era un lavoro di squadra e anche la collaborazione con la Sacis (la concessionaria di pubblicità della Rai ndr)».

Ha commesso qualche errore o fatto scelte di cui si è pentito?

«Forse ero impreparato ad alcune conseguenze. Se dovessi rifare il concerto dei Pink Floyd mi porrei per primo il problema della sicurezza. Per quello di Madonna a Torino tutto filò liscio, anche grazie a un produttore come Davide Zard».

Che cosa guarda oggi in tv?

«M’inquietano i talk show politici, perché mi sembra che il pubblico non sia protetto e che, più che l’approfondimento vero, vi prevalga la propaganda. Se un politico fa un’affermazione, le redazioni non sono attrezzate per verificare in tempo reale se corrisponde al vero o no».

Ce n’è qualcuno che si salva?

«Apprezzo la scelta di Piazzapulita di ricorrere alle riflessioni di Stefano Massini anziché alle gag del solito comico. Lo trovo più in sintonia con il momento che viviamo».

Guarda anche la fiction?

«Purtroppo quella italiana non è a livello delle serie internazionali. Con l’eccezione di Montalbano, la nostra è una fiction provinciale».

Quali serie le sono piaciute ultimamente?

«Baghdad central, Homeland, La casa di carta».

Tra i comici chi le piace di più?

«Maurizio Crozza».

Ha conservato amicizie nel mondo della televisione?

«Ho conservato rapporti professionali. Mi manca Luciano Rispoli che mi fece da battistrada e con il quale avevo un rapporto di stima e amicizia».

 

La Verità, 27 febbraio 2021

 

Con Franceschini Sanremo è un rebus di Stato

Il fatto è che teatri e cinema dovrebbero essere aperti e funzionanti da un pezzo. Ovvio, rispettando protocolli e restrizioni. Seguendo contingentamento e distanziamento del pubblico. Regolando gli afflussi. Ma funzionando. Altrimenti sfugge la ragione per cui i supermercati siano aperti, le chiese, distanziate e sanificate, anche, e le scuole medie ed elementari pure, mentre per le superiori si auspica un rapido ritorno alla didattica in presenza. Perché i teatri e i cinema no, pur con il pubblico al 50%?

Nella confusione generale e normativa che complica la nostra quotidianità era inevitabile che anche il Festival di Sanremo si trasformasse in un affare di Stato. Del resto, per un motivo o per l’altro, lo è ogni anno. Figuriamoci nel bel mezzo di una crisi di governo e di una pandemia che miete centinaia di morti al giorno, come qualcuno, un po’ moralisticamente, ha fatto notare. Così è la nostra Italia. Anzi, l’Italietta delle canzonette. Il governo dimissionario si schiera contro il Festival. Amadeus, il conduttore ancora in carica, critica la decisione del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e minaccia di abbandonare la direzione artistica della kermesse. I vertici Rai di nomina governativa si barcamenano. Il direttore di Rai 1, Stefano Coletta spinge perché Sanremo si faccia rispettando le restrizioni: «Sarà uno show protocollato come evento televisivo e sarà realizzato in grandissima sicurezza, in accordo con la prefettura, l’Asl e le autorità preposte». Le case discografiche scrivono al ministro della Salute sottolineando la difficoltà dei loro artisti a esibirsi in un teatro deserto. Eventualità di fronte alla quale Amadeus minaccia il rinvio a tempi migliori. Roberto Speranza inoltra la preghiera delle major della discografia al Comitato tecnico scientifico. Il quale non si riunsice per pronunciarsi sull’inestricabile questione. I giornalisti filogovernativi (Selvaggia Lucarelli) dicono e che sarà mai: «Se ce l’ha fatta Floris senza pubblico ce l’ha può fare» anche Amadeus. Da brava concorrente della Rai, La7 fa il suo gioco: «Il ministro Dario Franceschini mette a tacere le polemiche…», oibò.

Ecco la bagarre che ci mancava, perché Sanremo è Sanremo. In realtà, al ministro è bastato un tweet per dimostrare di averci capito pochino: «Il Teatro Ariston di #Sanremo è un teatro come tutti gli altri e quindi, come ha chiarito ieri il ministro @robersperanza, il pubblico, pagante, gratuito o di figuranti, potrà tornare solo quando le norme lo consentiranno per tutti i teatri e cinema. Speriamo il prima possibile». Nell’attesa che questo «prima possibile» già tardivo arrivi, il nodo da sciogliere è quello dei figuranti: «attori» scelti, controllati e contrattualizzati dalla Rai, che andrebbero a comporre il pubblico di 800 persone che occuperebbe la platea dell’Ariston. Il quale, però, non è un teatro «come tutti gli altri», perché in occasione del Festival diventa un normale studio televisivo.

Il cinguettio del ministro Franceschini – lo stesso che ha promosso la realizzazione della «Netflix della cultura italiana» in partnership con la semiclandestina Chili Tv e non con la Rai – è smentito anche dalle Faq del sito di Palazzo Chigi. La presenza di pubblico è infatti ammessa negli studi tv, «in quanto alle trasmissioni televisive non si applica il divieto previsto per gli spettacoli, perché la presenza di pubblico in studio rappresenta soltanto un elemento “coreografico” o comunque strettamente funzionale alla trasmissione». Non si spiegherebbe altrimenti perché programmi come X Factor e il Maurizio Costanzo show, registrato per altro al teatro Parioli, abbiano potuto andare in onda con un pubblico di figuranti.

«Sanremo è un continuum dell’intrattenimento che siamo riusciti a organizzare quest’anno nonostante la pandemia», ha sottolineato il direttore di Rai 1. Non sfugge ai più che, tra sponsor, pubblicità, industria discografica, cachet delle star, autopromozione della rete e tutto il resto, movimentando alcune decine di milioni di euro, il caravanserraglio del Festival è la macchina da soldi della Rai. E anche del Comune di Sanremo: «La mancata realizzazione del Festival comporterebbe un minor introito alle casse tale da portare il comune al default», ha detto allarmato il sindaco Alberto Biancheri. E pazienza se alcuni sovrintendenti d’importanti teatri come La Scala o L’Opera di Roma lamentano il trattamento di favore di cui godrebbe il Festival della canzone italiana. Per la verità c’è anche chi spinge nella direzione opposta e chiede di superare l’ipocrisia dei figuranti, aprendo le porte dell’Ariston a un pubblico vero. Con la sua forza d’urto, Sanremo potrebbe funzionare da apripista. Per ritornare alla normalità, prima o poi, da qualche parte bisogna pur cominciare.

Il governo è ancora in carica «per il disbrigo dell’ordinaria amministrazione». Ma con il Covid, il Festival della canzone italiana è affare ordinario o straordinario? Servirà nominare una task force per saperlo?

 

La Verità, 29 gennaio 2021

«L’Italia dovrebbe vincere con il potere dell’arte»

Artista, artigiano, musicista, musicologo, autore, compositore, interprete, showman: Marco Castoldi, in arte Morgan. Persona controversa. Altrimenti non si spiegherebbe come possa esser finito al centro di un inestricabile ingorgo amministrativo giudiziario sentimentale culturale, sfociato nel pignoramento della sua dimora-atelier. Ora, per sensibilizzare le autorità sulla vocazione dell’artista e sul legame tra la creazione e il posto dove questa si genera e prende forma, Marco Castoldi ha pubblicato per La nave di Teseo Essere Morgan – La casa gialla, primo libro di una trilogia, corredato di numerose illustrazioni, che si apre con una lettera al ministro dei Beni e delle attività culturali.

Sulla copertina si firma Marco Morgan Castoldi. Come devo chiamarla?

Come vuole. Morgan è il nome d’arte di un cantante autore performer pianista saltimbanco partorito da una persona che si chiama Marco e si occupa di spettacolo artistico, fatto di musica e parole.

Nella casa-atelier si realizza la sovrapposizione tra persona e artista: espropriarlo vuol dire impedirgli di creare?

Sicuramente nella casa avviene il concepimento e spesso la realizzazione dell’opera. Il posto dove abita l’artista è il posto dove abitano le sue idee. E le sue idee sono la sua arte. In questo periodo ripetevo che da trent’anni sto in quarantena, per cui non c’è nulla di nuovo. Ma siccome me l’hanno tolta, non ho più nemmeno la libertà di stare in casa mia.

Dove ha trascorso il lockdown?

In case a breve termine, piene di bagagli, senza i requisiti tecnici per la mia attività musicale. Case scomode. Case casuali.

Come si mantiene? Eravamo rimasti al pignoramento alla fonte dei suoi introiti, ci sono novità?

Nessuna. Sono rimasto completamente inascoltato sia come cittadino che come artista. Il ministero che dovrebbe occuparsi di beni e attività culturali e organizzare il rapporto tra l’artista, la società e il mercato non fa nulla. Neanche fa finta di farlo.

Il pignoramento e lo sfratto sono opera di Asia Argento per il mancato mantenimento della figlia o dell’Agenzia delle entrate per il mancato pagamento delle tasse?

Non ho quasi mai mancato di mantenere le mie figlie. In realtà le cifre corrisposte sono più alte di quelle richieste. Perché oltre l’assegno mensile, ho assolto alle spese per la scuola e per le attività sportive e ricreative. Ricordo che la bambina è cresciuta con me per quattro anni. Poi ho versato alla madre 3000 euro al mese. Direi tanti per mantenere una bambina. Perciò mi è venuto il dubbio di aver mantenuto anche il tenore di vita da star della madre.

Ma gli alimenti li ha sempre pagati?

Non sempre. Ho avuto problemi con i manager. Ci sono stati momenti in cui non venivo pagato. Ho chiesto di pazientare, assicurando che avrei risolto la situazione. Negli anni ho versato qualcosa come 350-400.000 euro. Va bene, era la risposta. Poi però arrivavano le lettere dell’avvocato. Comportamenti miseri. Non si dovrebbe arrivare a questo tra persone che si sono dette «ti amo». Invece, è successo. E poi ci si atteggia a paladina della battaglia contro la violenza sulle donne.

Era insolvente anche verso l’Agenzia delle entrate?

Tutto è partito da lì. Mi hanno imputato un debito e hanno subito iniziato a pignorare le mie entrate senza discutere di rateizzazione. Non potendo più pagare gli alimenti si è innescata la catena.

Ha presentato reclamo?

L’Agenzia delle entrate è un’entità kafkiana, irraggiungibile. Sono andato di persona per definire una contrattazione basata sui miei introiti. Impossibile. L’anima della burocrazia è questa: dammi la prova che esisti, un documento con marca da bollo. Non basta vederti qui davanti, serve il documento…

Il merito di questa situazione è del suo manager?

Sono passato per diverse gestioni, tutte similmente opache. I manager di artisti non esistono come categoria. Non ci sono regole. Sono autodidatti che pensano di farla in barba all’artista. Il quale è distratto perché pensa alla sua attività creativa.

Perciò non può lamentarsi…

Anch’io ho vissuto da ricco. Le canzoni producono ricchezza. Ho avuto 100, ma loro se ne sono presi 500. Mio compito non è frugare nelle carte dei commercialisti, ma creare una canzone dalla quale tutti traggano vantaggi. Se compongo un ritornello troppo lungo la canzone non incassa due milioni di euro. Se è giusto sì. La mia responsabilità è fare canzoni perfette. Poi, improvvisamente, arriva una notifica di 2 milioni di tasse da pagare.

Con questo libro, introdotto da una lettera all’allora ministro Alberto Bonisoli, contesta il comportamento dello Stato sostenendo che, anziché penalizzarla, dovrebbe sostenerla.

L’obiettivo è mettersi attorno a un tavolo per capire il ruolo dell’artista nella società moderna. E stabilire un sistema di norme affinché le sue creazioni siano vantaggiose per tutti: artista, Stato e mercato. Sono molto competente per ciò che concerne la dimora dell’artista. È una visione che si allarga allo stato dell’arte in Italia fino alla politica del nostro Paese.

In che senso?

Com’è possibile che l’Italia che possiede il più grande patrimonio artistico al mondo sia un Paese economicamente sottomesso e indebolito nella sua sovranità, come abbiamo visto anche durante questa crisi del coronavirus? Un Paese in possesso, temo ancora per poco, di tutta questa bellezza dovrebbe dominare il mondo. Abbiamo avuto Antonio Vivaldi, cioè il maestro di Bach, Mozart e Beethoven. Abbiamo avuto Piero della Francesca, cioè tutti gli Andy Warhol messi insieme. Potrei continuare. Dovremmo governare il mondo…

Invece?

Siamo indebitati perché chi governa è ignorante e non capisce il valore della bellezza. Questi politici vanno aiutati. Vanno condotti per mano perché possano comprendere quanto vale la ricchezza di cui disponiamo.

Nel suo libro parla dell’artista «al centro del reticolo sociale».

L’artista è al centro della comunità, non più fisica o geografica, ma mediatica e virtuale. L’artista aggrega. Che cosa ricordiamo della storia del nostro Paese? I grandi artisti come Leonardo da Vinci o Dante Alighieri. La storia la fanno i grandi creatori o i grandi distruttori. Leonardo e Ludovico il Moro, Picasso e Hitler: dipende da che parte stiamo.

La legge è uguale per tutti: se un musicista rimane senza lavoro è come se accadesse a un commesso?

Il commesso ha la mia stessa dignità. Né più né meno. Ma sul piano sociale è diverso. Sui social scrivono: chi ti credi di essere? Se mi togli la casa mi togli anche il lavoro. Al commesso resta il negozio. Se non lavoro io, si ferma tutto l’indotto delle mie canzoni. A un concerto ho 50.000 persone davanti, qualche decina lavora dietro e attorno al palco, altri guadagnano con i diritti d’autore, poi ci sono le case discografiche, gli uffici stampa… Io posso sostituire il commesso in negozio, lui non può sostituire me.

Intanto il ministro è cambiato. Ora è Dario Franceschini, concittadino di Vittorio Sgarbi, prefatore del libro.

Quindi, per campanilismo dovrebbe leggerlo. Poi mi auguro di incontrarlo.

In quasi tutte le sue ultime esibizioni sono successi casini.

Sono rappresentazioni artistiche.

Con Sky siete in causa per X Factor.

Per forza. Mi hanno promesso un cachet, la mia partecipazione ha portato ascolti, ma non mi pagano giustificando il fatto con le mie intemperanze.

Anche con Maria De Filippi non è finita benissimo.

Idem. Pensando a Maria De Filippi, faccio «Ah!».

Prego?

Ah! Un’esclamazione alla Al Pacino. Nel palazzetto dove si registrava Amici una sera mi è esplosa una paura pazzesca… Sono scappato. «Dove stai andando?», urlavano. «Basta, sono un comunista, sono un comunista». Sono scappato per i campi, nella nebbia, ancora con l’auricolare addosso.

Mi prende in giro? Sembra la scena di un film…

È successo davvero.

A Sanremo sappiamo com’è andata con Bugo.

È stata un’invenzione teatrale, un’iniezione di spettacolo. Sa quanto ha reso il video a YouTube? 23 milioni di euro, con oltre 15 milioni di visualizzazioni. Ma né io né la Rai abbiamo avuto niente.

Ha rotto con Sky, ha rotto con Mediaset e con la Rai ci siamo vicini?

Tutt’altro. La Rai la amo perché è super partes. Sogno di realizzare una trasmissione che valorizzi quello che so fare. Il programma di Enrico Ruggeri è stato un buon passo avanti. Spero venga il mio momento.

Tornerà al Festival nel 2021?

Amadeus è una persona seria, ironica e professionale. Forse l’idea migliore sarebbe che io e Bugo tornassimo come ospiti. Io ospite di Bugo e Bugo ospite mio… Ci pensa? Con l’utopia di fare pace sul palco. E con la strizza che, se non riesce, si ripeterà un altro fattaccio.

Per concludere, c’è qualcosa che la fa essere ottimista?

Penso che mi rivolgerò alla magia.

Chi è Morgan?

Un angelo che va sul palco. E può essere commovente o divertente.

 

Panorama, 20 maggio 2020