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«Vogliamo vere identità, non finte trasgressioni»

Storico, politologo, giornalista, Giovanni Orsina dirige il dipartimento School of government della Luiss Guido Carli. Sebbene di formazione moderata, la sua autorevolezza è riconosciuta anche a sinistra. Non a caso collabora con La Stampa dove, qualche giorno fa, ha scritto un editoriale molto critico sulla cultura espressa dal Festival di Sanremo.

Professor Giovanni Orsina, è indovinato l’aforisma «Festival pieni urne vuote»?

«Sì, anche se, come tutte le sintesi, un po’ semplifica. Tuttavia, fotografa un certo scollamento tra le avanguardie artistico-culturali e il sentire comune delle persone. Chi fa spettacolo, arte e cultura si sofferma su forme di trasgressione che una parte importante della popolazione rifiuta, ritenendole pericolose o stucchevoli. In più, c’è un’aggravante».

Quale?

«Negli anni Sessanta del secolo scorso esistevano le avanguardie e la società le seguiva. Oggi non si può dire che ci sia un ritardo dell’opinione pubblica. Al contrario, c’è una reazione alle avanguardie, un desiderio di tornare indietro».

È trasgressione vera quella cui assistiamo?

«La trasgressione è vera quando comporta un prezzo ed esprime una contestazione delle regole sociali. A quel punto la società reagisce e ti colpisce. La reazione della società definisce il valore della protesta. Se invece per la tua trasgressione la società ti applaude e ti paga, che trasgressione è?».

Queste presunte trasgressioni sono in realtà mainstream?

«Viviamo nel mondo della trasgressione istituzionalizzata. Il messaggio continuamente replicato è: sii te stesso, fa ciò che vuoi, esprimi la tua personalità. È il conformismo dell’anticonformismo».

Dopo il voto alle regionali arrivato post Festival di Sanremo qualche analista ha scritto che la destra vince le elezioni, ma non esprime lo spirito del Paese reale che è più rappresentato dal mondo dello spettacolo.

«Il fatto è che non c’è un Paese reale, ma ce ne sono cento. A me pare che lo spirito del tempo lo esprima maggiormente la destra, soprattutto nella ribellione ai processi di globalizzazione. Tuttavia, questo spirito del tempo non sempre coincide con il Paese reale, che è molto frammentato».

Al contrario, si può dire che gli artisti hanno in mano la comunicazione ma, anche se vantano audience da record, non rappresentano il Paese reale?

«Il pubblico si è sintonizzato per seguire il Festival senza necessariamente condividerne il messaggio. Chiara Ferragni sposta voti? Se sì, sono numeri marginali. È un errore pensare che un messaggio proposto dalla cultura pop diventi automaticamente politico. Quando si diceva che le tv di Berlusconi condizionavano le campagne elettorali era vero solo in parte. Il meccanismo non è automatico come schiacciare un pulsante. Il rapporto tra orientamento culturale ed espressione politica o elettorale è qualcosa di molto più complesso e sofisticato».

Qual è secondo lei il motivo dell’astensionismo?

«La prima causa è la sensazione di perdita di potere della politica. È inutile andare a votare perché ciò che la politica può cambiare è marginale rispetto alla mia vita quotidiana».

Se la politica estera si fa a Washington e quella economica a Bruxelles che senso ha votare per le regioni?

«Le istituzioni nazionali e locali hanno poco potere. Ciò che possono fare è già predeterminato. Non possono aumentare il debito pubblico né abbassare le tasse, non ce lo possiamo permettere. Infine, è venuto meno il rapporto di fedeltà politica. Non ci sono più il partito e le persone con cui identificarsi».

Qualche osservatore sostiene che l’astensionismo sia frutto della mentalità dei diritti. Se le conquiste non sono esito di impegno e sacrifici ma sono dovute, che senso ha votare?

«Andrei più a fondo: una società costruita sui diritti individuali perde il senso dell’azione collettiva. La quale richiede il sacrificio di sé. Nel gruppo vige la disciplina che consiste nel mettere il proprio ego al servizio di una causa collettiva».

E nell’era del narcisismo…

«Non si è più disposti a subordinare la propria libertà presente per una libertà collettiva futura. È una delle grandi contraddizioni del Sessantotto. Il narcisista non aderisce al gruppo, al massimo condivide delle emozioni. Prendere la tessera del partito, accettarne la disciplina, spendere il proprio tempo in una liturgia: nessuno ci crede ed è disposto a farlo».

Alle liturgie novecentesche, piazze, congressi, dibattito, non ne sono subentrate altre?

«È subentrato Sanremo. Una cosa che dura cinque giorni, fatta di provocazioni che sollevano un immenso polverone di cui poco dopo non si parla più».

Come spiega la distanza tra vita della popolazione e società dello spettacolo?

«La società dello spettacolo si basa sulla proposta del nuovo, bello o brutto che sia non importa. Ha istituzionalizzato la provocazione. Ma l’opinione pubblica comincia a essere stanca della provocazione continua che non va in profondità. Johan Huizinga diceva che la vera cultura dovrebbe basarsi su una metafisica. Siccome non abbiamo più una vera metafisica, non abbiamo più una vera cultura».

Per questo in un suo editoriale ha parlato di cultura progressista lamentosa e conformista?

«Guardiamo le serie tv. L’elemento trasgressivo deve spuntare nei primi minuti del primo episodio. Personalmente non vedo niente di nuovo rispetto alle grandi provocazioni degli anni Sessanta e Settanta. Sono cresciuto con Renato Zero e i suoi dischi me li compravano i miei genitori, che sono dei conservatori. David Bowie era un fior di musicista, non solo una figurina gender fluid. Allora la provocazione serviva a veicolare un contenuto artisticamente notevole».

Guardando al cinema, alle serie tv e alla pubblicità si può dire che la cultura woke è diventata canone, codice riconosciuto?

«Ha scritto tutto Augusto Del Noce nel Suicidio della rivoluzione, anno 1978. La modernità nasce con una spinta rivoluzionaria poderosa: distruggiamo tutto il passato per costruire il mondo nuovo. Poi, a un certo punto, ci siamo accorti che questo mondo nuovo non riuscivamo a costruirlo. Così è rimasta in piedi solo la distruzione del passato che, a quel punto, è fine a sé stessa. Cambiare per cambiare».

La cultura progressista non è in grado di dare idee nuove?

«L’unica idea è la trasgressione per la trasgressione. Come detto siamo alla fine, al suicidio della rivoluzione. La proposta più importante della cultura progressista si chiamava marxismo. Fallito il quale non resta che il liberi tutti: ciascuno faccia quello che vuole. Ma se così è, non si può più dire ciò che è bello e buono e ciò che non lo è. Non può più dirlo chi teorizza il libero arbitrio assoluto. Spariscono i criteri di giudizio e resta solo il “Tana, liberi tutti”».

Eppure questa cultura fatica ad accettare lo spoil system come si vede sulla scelta della direzione del Salone del libro di Torino.

«Certo. Perché i criteri di giudizio sono spariti, ma il potere no. Anzi: il potere vale proprio perché almeno nel breve periodo riesce a imporre criteri che, da soli, non avrebbero la forza per imporsi. La forza della cultura progressista consiste, appunto, nella sua forza, nel suo avere occupato le “casematte» gramsciane. Perdute quelle…».

Sono paradossalmente più avanti quegli esponenti politici che riconoscono l’abilità di Giorgia Meloni?

«La politica è costretta ad avere un sia pur minimo rapporto col mondo reale. La cultura no».

Se la sinistra manca di idee nuove, per assurdo la destra sta ancora peggio?

«Me la sono presa con Sanremo perché non c’è un evento pop di destra, ma se lo immagino mi prende lo sconforto. Che cosa potrebbero fare, celebrare la maternità e la nazione?».

La destra è in grado di andare oltre la critica al pensiero unico?

«La destra si aggrappa ai valori della tradizione Dio, patria e famiglia. Ma li propone in una società secolarizzata, nella quale le famiglie sono sempre più fragili e, a causa dei processi di globalizzazione, anche l’idea di patria è in crisi. Sono valori che hanno perso mordente. Non basta neanche l’orgoglio dell’italianità. Insistere sulla tradizione, che è stata decostruita, è un tentativo che suona strano, un po’ fuori dal tempo».

Non ci sono vie d’uscita?

«La tarda modernità ha sminuzzato tutto come un rullo compressore. Il valore su cui ricostruire è, forse, un dato antropologico di base. Gli esseri umani chiedono identità, chiedono comunità. In fondo, il populismo esprime una ribellione contro questo eccesso di liquidità, di fluidità, di globalizzazione. L’infelicità degli esseri umani si è condensata in una rabbia che si è espressa nel voto populista. Per ripartire, bisogna provare a chiedersi di cosa hanno veramente bisogno le persone in questo mondo destrutturato».

Ripartire dal dato antropologico vuol dire ripartire dalle domande fondamentali dell’esistenza che implicano l’apertura al trascendente, ciò che qualcuno ha chiamato «senso religioso»?

«Volerei più basso, anche se Del Noce diceva che non ci sarebbe stata rinascita senza un risorgimento di tipo religioso. Simone Weil parlava dei bisogni vitali dell’animo umano senza ricorrere al trascendente. Parlava dei bisogni di comunità e di ordine, fondamentali tanto più in una società globalizzata. In una parola, il bisogno di radicamento, di appartenere a un luogo, come ha scritto in uno dei suoi saggi più importanti. In fondo, il populismo è una domanda di protezione, di salvaguardia del contesto nel quale si è cresciuti. È una domanda di contestualità di fronte alla globalizzazione che decontestualizza».

Sfida tosta in un’epoca in cui si parla di diritto all’emigrazione più che di diritto di crescere a casa propria.

«Emigrare è un diritto, ma immigrare no. Ciò detto, l’emigrazione non va bloccata, ma gestita. È una richiesta avvertita in tutto il mondo. La crisi della sinistra deriva dalla posizione radicale assunta sull’immigrazione. Se vivo in una comunità nella quale arrivano migliaia di persone o si trova il modo di governare quell’immissione oppure quella comunità è finita. Nessuna comunità deve vivere a compartimenti stagni, ma se non posso decidere chi entra a casa mia vuol dire che non ne sono più il padrone. Simone Weil dice che l’uomo deve avere radici. La cultura globalista sostiene che per l’uomo del futuro la casa è il mondo. Io sono scettico, non mi piacerebbe neanche. La gestione dei flussi migratori è un tema centrale dei prossimi decenni. Ritengo che dare del razzista a chi vuole mantenere il controllo di casa propria sia una semplificazione intollerabile».

 

 La Verità, 18 febbraio 2023

Amadeus, il finto buono pronto a tutto per lo share

In realtà, i finti buoni sono tremendi. Furbetti, maliziosi, determinatissimi. Per un punto di share metterebbero il proprio figlio adolescente in prima fila all’Ariston a godersi la pomiciata tra un rapper che viene dai centri sociali e gira in Lamborghini e un ex graffitaro e modello di Gucci che canta vestito da donna. E se al ragazzo cresce la disforia di genere, pazienza. Quello che conta è il risultato. Bisogna sempre migliorare. Superarsi. Ama(poco)deus ex-machina lo sa bene. Un Festival dopo l’altro. Il terzo più del secondo e il quarto più del terzo. Purtroppo arriverà anche il quinto. E poi chissà.

«Nella vita, al di là dei festival, dipende tutto dal risultato», ha teorizzato nella conferenza stampa di chiusura. «Se si ottengono questi risultati hai una forza. Se avessi fatto il 15-20% in meno sarei un allenatore esonerabile. Qualsiasi allenatore è forte finché la squadra vince, se la squadra perde anche i più grandi sono a rischio esonero. Ecco perché devo portare quello che sento, bisogna sbagliare con le proprie idee». Il pluridirettore artistico di Sanremo, con moglie perennemente al seguito, non si pone limiti. Colpa anche dei vertici Rai. Se dai troppo potere a un solo artista facile che si pensi un supereroe. Sembra preistoria la perculata di Checco Zalone: «Grazie a nome di tutti gli italiani, tu Amadeus ci fai sentire dei geni». Dopo che nel terzo è riuscito a emanciparsi da Fiorello, il quarto Festival di fila ha completato la metamorfosi. Da conduttore a condottiero. Quest’anno Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna, gavetta nelle radio locali e a DeeJay prima di sfiancarsi nella spola Mediaset-Rai, ha replicato senza giri di parole al vicepremier Matteo Salvini, al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ai politici di Fratelli d’Italia, autoinvestendosi di un compito che sarebbe toccato a qualche dirigente. Un cambio di ruolo. Un’autopromozione.

Sul palco, invece, nello spasmodico inseguimento dello share, ha confezionato un Sanremo grondante politica. Infarcito di messaggi obliqui. Come quello ordito la prima sera da Roberto Benigni alla presenza di Sergio Mattarella e indirizzato alla premier: cara Giorgia Meloni, se vuoi fare il presidenzialismo devi passare sul nostro corpo. E di altri più espliciti. Come quello che si è inverato nella soave slinguazzata di cui sopra. «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna: è normale, l’amore non ha etichette. E questo va portato ovunque, anche nello spettacolo», aveva argomentato nei panni di guru del Festival di Zan Remo. C’è la fascia protetta per proteggere i minori? Quella vale per impedire ai bambini dell’innocente coro di Mr. Rain di esibirsi dopo la mezzanotte. Non al pubblico infantile di assistere alla twerkata del rapper in abiti femminili sul pacco del marito di Chiara Ferragni.

In realtà, i finti buoni sanno andare al sodo. Le regole sono fatte per essere piegate a proprio piacimento. Se c’è da invitare il capo dello Stato all’Ariston la trattativa la conducono il pluridirettore artistico e il suo agente Lucio Presta (lo è anche di Benigni e Morandi, il prossimo è Mattarella?), scavalcando l’amministratore delegato Carlo Fuortes, la presidente Marinella Soldi, il direttore dell’Intrattenimento prime time Stefano Coletta e il cda al completo. Se c’è da lasciare Fedez prendere a pesci in faccia mezzo governo ci si trincera dietro il rispetto della libertà artistica. Infine, a forza di mitragliare Festival, Ama(poco)deus ex-machina ha disimparato anche a fare la scaletta, confinando dopo l’una di notte il monologo di Chiara Francini, il migliore e il più originale tra tutti quelli che, invece, hanno incantato il demi-monde di riferimento.

Più che mai quest’anno, il segreto del successo è stata la quantità. L’espansione. L’occupazione sistematica di tutti gli spazi. Dai telegiornali ridotti a newsletter ai megaschermi di Urban vision nelle grandi città che trasmettevano la diretta delle serate. Orizzonte ingombrato. Un Leviatano mediatico capace di triturare qualsiasi ostacolo, con la compiacenza dell’informazione mainstream al completo. Peccato che, a forza di fare lo «swiffer delle polemiche» come dice Fiorello, non abbia ancora imparato a gestirle. Prendete la faccenda delle foibe. Amadeus/1 ha risposto che «ci sono tante ricorrenze, non possiamo commemorare tutto». Poi, pur di non dare l’impressione di piegarsi ai politici di destra, Amadeus/2 ha detto che il ricordo «era già previsto».

Adesso per lui qualcuno ipotizza un cambio di passo. Nella disperata ricerca di figure carismatiche, c’è chi lo vede in politica. Che poi, carisma… Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna è un medio man, un normal one. Però «la sinistra riparta da Sanremo», ha twittato qualche sagace commentatore. «Ora che avevamo trovato come fare opposizione il Festival è finito».

In realtà, i buonisti sono spietati. Con gli altri, s’intende. Quelli che non li elogiano, non li lisciano. Avete presente Fabio Fazio? Più che Baudo, è lui il suo modello. Dietro la patina un po’ untuosa da bravi ragazzi, c’è gelido zinco. Intoccabili. Se si dissente, cliccano sulla consolle e parte la recita da martire. «Se mi mandano via me ne vado», ha detto sperando nella sollevazione popolare. Se se ne va, magari l’opposizione trova un leader, i telespettatori ridono, la moglie sempre al seguito piange e in Rai si devono mettere a lavorare. Perché in questi anni gli hanno appaltato mezzo palinsesto.

 

La Verità, 14 febbraio 2023

Festival scapezzolato, Paoli definitivo, Fiorello critico

Pagelle della serata finale del 73° Festival di Sanremo

Festival di capezzoli. Voto: 1

È il trionfo del kitsch. Come considerare gli abiti di Chiara Ferragni? Quello del monologo. E quelli della serata finale. «Una scultura» dorata che ripete le sue anemiche tettine, ornata(?) da una sottoveste turchese (colori dell’Ucraina). E anche l’altro che riproduce i capezzoli e i fianchi. Tutta roba che pialla ogni attrattiva. E che il sangue, anziché farlo, lo gela. Raggelanti anche le versioni scapezzolate di Rosa Chemical e Madame.

 Depeche mode, mah. Voto: 6

I più popolari e longevi interpreti di musica elettronica del mondo. Quarant’anni di carriera da quando la band è nata. Lacuna mia, non la conoscevo. Trovo significativo che, in un momento così, abbia intitolato Memento mori l’ultimo album. Per il resto, non posso dire che l’esibizione mi abbia entusiasmato, forse proprio perché presentata con troppa enfasi. Mi ha trasmesso una certa freddezza, com’è di una musica un filo robotica. E mi sembra che anche il pubblico dell’Ariston sia rimasto tiepidino. Forse anche a causa di qualche stonatura.

Gino Paoli, mostro sacro. Voto: 10

Con i suoi 88 anni può dire e fare ciò che vuole. Giacca bianca e Ray-ban azzurri, accompagnato dal grandissimo Danilo Rea (se si ha carisma bastano un microfono e un pianoforte), canta Una lunga storia d’amore, Sapore di sale e Il cielo in una stanza. Serve altro? Sì, prima di raccontare un paio di aneddoti su Morandi e Little Tony, dice la sua sul Festival. «È una gabbia di matti». Stefania Sandrelli nella sua casa al mare ha una gazza che dice solo questo: «Gabbia di matti, gabbia di matti. Volevo portarla qui e metterla su un microfono». Lapide.

La limonata di Rosa Chemical. Voto: 1

Baciando in bocca Fedez al termine della sua esibizione fa felici tutti. I Ferragnez innanzitutto, che hanno modo di dimostrare ai loro figli sintonizzati da casa che sono una coppia aperta, moderna e impegnata nella promozione dei diritti della comunità Lgbtq. E soddisfa anche Ama, che aveva suo figlio due poltroncine più in là rispetto a dove il cantante twerkava sul pacco di Fedez. Il conduttore teorizza che non ci sono etichette: «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna». Dunque, tutti contenti. O no?

Fiorello, coscienza critica. Voto: 9

Il migliore, come sempre. Le sue incursioni all’Ariston da Via Asiago scoperchiamo le ipocrisie. «Domani i dirigenti andranno tutti a casa, però è stupendo. Devo dire che è una puntata tranquilla, serena. Vi siete guadagnati la prima pagina dell’Avvenire. Pensate se Rosa Chemical avesse fatto la scena che ha fatto con Fedez con gli artigiani della qualità seduti sul divano». Poi chiede notizie del direttore dell’Intrattenimento prime time, Stefano Coletta: «Inquadratemelo. Fatemelo vedere per l’ultima volta. Hai controllato i testi di Gino Paoli?», lo provoca. «Dopo Rosa Chemical, Achille Lauro sembrava Cristina D’Avena». Altra lapide su Sanremo 2023: «Neanche il bar di Guerre stellari».

 

 

 

Il golpetto di Amadeus per Mattarella all’Ariston

Il Cda Rai si preoccupa di non essere stato informato della presenza del presidente Mattarella all’Ariston. Per me è qualcosa che valorizza l’intera azienda Rai e al loro posto direi grazie a qualunque persona abbia fatto in modo che il presidente fosse all’Ariston. Invece di colpevolizzarlo andrei a stringergli la mano». Parole e musica stonate di Amadeus, direttore artistico e conduttore del Festival della canzone italiana. In buona sostanza, i dirigenti Rai dovrebbero ringraziarlo ora che, nei fatti, lui e il suo manager hanno preso il loro posto. Il giorno dopo la trasferta sanremese del presidente della Repubblica i contorni di tutta l’operazione vanno chiarendosi. A tracciare il bizzarro scenario che abbiamo osservato in queste ore sull’asse Ariston-Quirinale concorrono diversi fattori. C’è una Rai priva di un vertice solido e di una catena di comando autorevole e operativa. C’è un Cda, rappresentante del Parlamento, che non sa farsi rispettare, come già visto in occasione della querelle sull’ospitata del presidente ucraino Volodymyr Zelensky (attivata da un pur autorevolissimo giornalista che ha svolto compiti di intermediario in forma privata). C’è un organo di controllo, peraltro da abolire, come la Commissione di Vigilanza, che attende da mesi d’insediarsi. C’è un ubiquo presentatore al quale ormai è stato appaltato mezzo palinsesto Rai, che dirige e conduce la più importante manifestazione culturale del Paese per il quarto anno di fila (arriverà anche il quinto). C’è il suo potente e molto manovriero agente senza il quale sembra impossibile organizzare la kermesse, che pure vorrebbe portarla fuori dal teatro in cui si realizza da sempre, come per altro ripetutamente auspicato dall’altro presentatore di punta del gruppo (Paolo Bonolis), che potrebbe avvicendare quello in carica fino al 2024.

Sono le condizioni del colpo di mano in Viale Mazzini consumato in questi giorni. Parlare di colpo di Stato sarebbe troppo, anche considerando che protagonisti dell’azione che ha portato Sergio Mattarella sul palco dell’Ariston per l’inaugurazione del Festival sono gli uffici del Quirinale e della tv pubblica, due organismi statali. Sarebbe troppo, certo. Ma fino a un certo punto. Lucio Presta, agente di Amadeus, e Giovanni Grasso, consigliere per la comunicazione del presidente della Repubblica, «si conoscono e si stimano da tempo. Ecco perché la trattativa è stata gestita da loro», ha rivelato il conduttore, buttandola sul tenero. L’ad Rai Carlo Fuortes è intervenuto solo nella fase finale. Nessuna parte in commedia hanno, invece, avuto gli altri dirigenti, informati a cose fatte come attestato dalla lettera alla presidente Marinella Soldi dei consiglieri d’amministrazione, infuriati per essere rimasti all’oscuro della laboriosa trattativa. In Rai hanno fatto tutto Amadeus e il suo manager. Che poi ha coinvolto Roberto Benigni, anch’egli della sua scuderia, chiamato per confezionare l’avvertimento della serata al governo in carica. Se volete fare le riforme costituzionali, presidenzialismo e autonomia territoriale, dovrete avere il nostro benestare, quello dei vertici istituzionali e dell’establishment del Paese.

Per recapitare il messaggio si poteva ricorrere anche a qualche violazione del protocollo. Ed è ciò che successo. Lo ha confermato ieri mattina il direttore artistico del Festival tra un’esultanza per lo share da record (drogato dal nuovo sistema di rilevazione, infatti in termini numerici il dato è inferiore all’anno scorso) e un mea culpa per la sbroccata di Blanco. «Grasso e Presta da un anno lavoravano insieme a me affinché questo nostro sogno si potesse realizzare», ha ammesso Amadeus. «Questa operazione, segreta per una ragione di sicurezza, è avvenuta quasi in forma privata, non istituzionale. Il Quirinale ci ha chiesto di non dirlo a nessuno, di tenerlo per noi tre».

Dunque, esautorato il Cda, esautorata la presidente Soldi, esautorato è stato anche il direttore dell’Intrattenimento del prime time, Stefano Coletta. Il quale ha sussurrato: «Non ho partecipato all’operazione, ma quando nell’imminenza ne sono stato informato, sono stato molto contento che avvenisse, molto emozionato». Prima di chiudere, con voce flautata: «Non mi sono sentito sminuito per nulla». Insomma, dopo che il regalo è arrivato, qualcuno, aprendolo, si è molto risentito e qualcun altro ha fatto buon viso anche se chi l’ha scelto non ne aveva i titoli. Così è se vi pare: in assenza di decisioni della politica, le leve di comando della Rai vengono impugnate da chi è più lesto. Nel suo delirio di onnipotenza, Amadeus ha risposto anche al vicepremier Matteo Salvini che aveva criticato la scelta di difendere la Costituzione dal palco di Sanremo e annunciato che sabato non guarderà la serata finale: «Sono quattro anni che se la prende con il Festival: basta non guardarlo», ha concesso il presentatore. «So che sabato vedrà un film, spero sia bello». L’articolo 21 della Costituzione garantisce anche la libertà di telecomando.

 

La Verità, 9 febbraio 2023

Il Festival di Alcatraz e la Ferragni allo specchio

Le pagelle della serata d’esordio del 73° Festival di Sanremo.

Il Festival di Alcatraz. Voto: 3

È il dogma stesso del Festival da rimettere in discussione. Obbligo sociale, politico, civile. Una sorta di prigione in cui la Rai sta chiudendo il pubblico. Non solo come entità televisiva, ma proprio come spazio. Il martellamento a tutte le ore e in tutti i programmi, dal Tg1 agli spot fino alle rubriche periferiche, sono il luogo della costrizione. Asfissiante. Anche nell’ora d’aria si resta in galera. La macchina fagocita tutto come un mostro onnivoro. E nell’opinione pubblica che si avvertono i conati pre-rigetto.

La prima serata. Voto: 5

Manca soprattutto il ritmo, l’idea, il profilo della serata, prigioniero della sua eccessiva istituzionalizzazione. Il Festival è quasi coetaneo della Costituzione e l’Ariston sembra La Scala. Quando entrano Anna Oxa e non si capiscono le parole, e quando compaiono Mamhood e Blanco e si capiscono i lamenti, tutto precipita. E non risale neanche con le stecche dei Pooh…

L’asse Fuortes-Presta. Voto: 7

La coppia amministratore delegato superagente ha messo a segno il colpo dell’anno: Sergio Mattarella all’Ariston ad ascoltare Roberto Benigni che esalta la Costituzione. Senza il 75º anniversario della Carta vivevamo lo stesso, ma il pretesto è servito per allestire il momento patriottico introdotto dall’Inno di Mameli (da non chiamare Fratelli d’Italia). Messaggio primario: per cambiare la Carta in tavola, Giorgia Meloni dovrà passare sul nostro corpo. Effetto secondario: Fuortes e Presta si sono autoblindati.

Roberto Benigni costituzionalista. Voto: 5

A un certo punto, vista l’enfasi, pareva che parlasse del Vangelo. Un libro che salva e redime da tutto. Ci si aspettava un collegamento tra la Carta e l’arte, è arrivato il poco originale elogio dell’articolo 21 («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero»), in perfetto stile Repubblica. Unico guizzo quando, rivolto a Mattarella, ha detto che la Costituzione è praticamente «sua sorella», riferendosi alla presenza del padre di lui tra i costituenti.

Gianni Morandi finto tonto. Voto: 7

Con tutto quello che ha fatto e visto in carriera non conosce l’ansia da prestazione. Finge di non capire, gioca a fare la spalla, si prende in giro cantando le sue ciofeche. Sta sul palco come a casa sua. Infatti, dopo la sbroccata di Blanco, impugna la scopa e spazza. Risolutivo.

I favoritissimi della gara. Voto: 6

La tuta nera di pelle di Marco Mengoni, a metà tra i Village people e Alberto Sordi, rischia di distogliere dal testo della canzone. Idem l’esplosiva Elodie in versione come ti svesti. Piace il crescendo di Ultimo, ma anche lui non è aiutato dall’audio. Ricorrere ai sottotitoli?

Chiara Ferragni, la vita è un selfie. Voto: 4

La maggiore delusione della serata. Non s’infierisce solo perché è un esordio. Per tutto il tempo parla e dice di sé. Della sua emozione, del suo nervosismo, di come si è preparata, di cosa dicono i suoi abiti (il terzo era la tutina glitterata smessa da Achille Lauro?). Vive davanti allo specchio. Il primo post è rivolto a sé stessa: «Pensati libera». La letterina da terza media del monologo pure. Una galleria di banalità nel mood del piagnisteo vittimista. Si rimpiangono Drusilla Foer, Sabrina Ferilli, Diletta Leotta e Gegia.

Blanco, una bestemmia in chiesa. Voto: 4

Prendere a calci i fiori nella città dei fiori è lo sfregio peggiore. Gli scenografi avevano addobbato il palco con migliaia di rose rosse, come da titolo della sua canzone (L’isola delle rose) e da video della stessa nel quale le strapazza. Il ricevitore sbagliato consegnato dai tecnici non gli faceva sentire la voce in cuffia. E lui ha perso il controllo, magari perché troppo carico…

Ritirata di Zelensky: solo un testo letto da Amadeus

Ritirata sul fronte di Sanremo. Battuta d’arresto dei bellicisti a oltranza. Sul campo di battaglia dell’Ariston lo schieramento pacifista registra un piccolo, ma simbolico successo. Se sia merito della Rai o di Volodymyr Zelensky lo capiremo meglio nei prossimi giorni. Il leader ucraino non manderà un videomessaggio come previsto finora, ma un testo che verrà letto da Amadeus. Una lettera al posto di un discorso registrato. L’artiglieria leggera invece dei carri armati. Una raffica di mitra anziché gli ordigni dei Leopard. Non siamo alla resa, ma la de-escalation è evidente. La notizia arriva all’ora di pranzo dalla conferenza stampa di apertura del Festival di Sanremo e provoca sconcerto e delusione nelle formazioni atlantiste. A darla è Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento prime time della Rai, incaricato dall’ad Carlo Fuortes di tenere i rapporti con le autorità ucraine. «Siamo in contatto quotidiano con l’ambasciatore in Italia Yaroslav Melnyk», annuncia misurando le parole il solitamente ciarliero capo dei varietà della Tv di Stato. L’impaccio è evidente. Come lo è l’arretramento della Rai che finora si era proclamata compatta nella difesa dell’ospitata del leader ucraino.

Basso profilo

«Nel pomeriggio del 2 febbraio l’ambasciatore ha comunicato che il presidente avrebbe preferito inviare un testo, che sarebbe stato letto da Amadeus», precisa Coletta. Una scelta di basso profilo, che avrà un impatto certamente inferiore a quello del video in divisa militare di Zelensky. Calcolo dei benefici e attenzione a non inimicarsi l’opinione pubblica italiana, alla fine dei conti gli uomini di Kiev sembrano autori aggiunti del Festival: niente videomessaggio, ma un testo affidato al conduttore. Il quale, interpellato su tutta la vicenda, nega che avrebbe fatto volentieri a meno di questa grana. Com’è noto, era stato lo stesso Zelensky a manifestare a Bruno Vespa il desiderio di essere ospitato a Sanremo. Con un passato da attore consumato, il presidente ucraino sa bene che nella società dello spettacolo ogni avvenimento, anche il più drammatico, viene comunicato con il linguaggio dello showbiz. Per questo, finora il suo tour aveva inanellato i Grammy Awards e il Festival di Cannes, la Mostra di Venezia e i Golden Globe. Alla collezione mancava Sanremo. Ma ora il display della war speech avverte a sorpresa che «qualcosa è andato storto» e bisogna aggiornare il programma.

Levata di scudi

Sebbene Giorgia Meloni abbia confermato la linea di sostegno a Kiev adottata dal precedente governo, la maggioranza degli italiani rimane contraria all’invio delle armi. Detta in breve, ne ha le tasche piene di un conflitto che si ripercuote sulla vita quotidiana di tutti. Perciò, la notizia dell’ospitata di Zelensky aveva scatenato un dissenso diffuso e trasversale. Perché il servizio pubblico deve offrire una platea di 15 milioni di persone come la serata finale del Festival, la più affollata dell’anno televisivo, al leader ucraino richiedente nuovi armamenti? Ragioni di opportunità e motivi di contenuto lo sconsigliavano. Da quando è trapelata la notizia, il fronte contrario ha coinvolto da Pier Silvio Berlusconi, editore figlio del capo di un partito di governo, a intellettuali come Aurelio Picca e Carlo Freccero, fino a politici di schieramento diverso come Matteo Salvini, Carlo Calenda e Gianni Cuperlo. In alcuni casi la critica principale riguardava il contesto scelto: non si parla di guerra e morte tra i lustrini e le paillettes. Ma la questione è più profonda. Se ci si strappa le vesti per difendere l’indipendenza del popolo ucraino perché la volontà prevalente di quello italiano dev’essere ignorata? Anche la Rai avrebbe potuto averne un contraccolpo d’immagine, finendo per alienarsi una fetta rilevante di pubblico, per altro già nervoso per l’eccesso di messaggi gender di cui sarà disseminata la kermesse.

Atlantisti delusi

Sui contenuti del testo che arriverà già tradotto in italiano «saremo più puntuali nei prossimi giorni», ha chiarito il solito Coletta. Che subito dopo ha precisato: «Mi sembra complicato poter censurare il presidente. Il controllo di noi dirigenti è preventivo alla messa in onda di ogni programma, ma sorrido all’idea di un dirigente Rai che possa censurare un presidente». Però la decisione è presa: i ghost-writer di Kiev allentano la presa sulla postazione dell’Ariston. Mentre non si registrano rilevanti prese di posizione sul fronte politico, forse deciso a non seguire l’altalena di decisioni tra canzonette e proclami di guerra, contrarietà e malumore attanagliano gli editorialisti con l’elmetto. Non aspettavano che di vedere l’ex Servitore del popolo reclamare nuovi armamenti indossando la t-shirt dell’esercito. Invece dovranno accontentarsi del lettore Amedeo Umberto Rita Sebastiani (in arte Amadeus) in smoking scintillante. A meno che, alla fine, qualche autore non pensi che se la leggesse Chiara Ferragni, magari con una spallina scivolosa, potrebbe fare anche più audience. Buona visione.

 

La Verità, 7 febbraio 2023

«Farò pentire chi mi ha invitato al Festival»

Gelido. Caustico. Tagliente. Rassicurante come una katana. Consolatorio come un’incudine. Affettuoso come una lastra di ghiaccio. Per la sua comicità si usano aggettivi come irriverente, dissacrante, scorretta. Ma alla prova degli spettacoli risultano cliché stantii. Lui rifiuta persino l’etichetta di comico. Chi non lo conosce lo cerchi su YouTube. Frasi brevi, secche come fucilate, in un crescendo di paradossi. Zero concessioni al mainstream. Angelo Duro, palermitano quarantenne, ex Iena, scoperto a un’esibizione da Davide Parenti, reduce da due stagioni sold out a teatro, è più eversivo di Checco Zalone, più insolente di Pio e Amedeo, meno gigione di Saverio Raimondo. Lo stand up comedian che non c’era e di cui, in questi tempi gne gne, c’è grande bisogno. Domani sera sarà ospite del Festival di Sanremo di Amadeus.

Insomma, sapeva che sarebbe successo, che era inevitabile che la invitassero?
«Certo. Prima o poi i linguaggi cambiano. Io sono la cosa più moderna che esista. I numeri che faccio in teatro ne sono la prova. Sto facendo sold out dappertutto. Mi sono costruito un pubblico che, come me, non vuole sentire cose moraliste. Io parlo di tutto. Non mi pongo limiti. Mi piace turbare la gente. Così poi do un po’ di lavoro agli psicologi. E devo dire che loro mi ringraziano sempre».
La prende come una consacrazione o non gliene frega un cazzo?
«Me ne frega del punto di vista rivoluzionario. Sanremo è sempre stato un luogo politico e del linguaggio che deve andare bene per tutti. Io non parlo di politica. Troppo facile come argomento. E non ho un linguaggio adatto a tutti. Attenzione, io lo ritengo adatto a tutti, sono loro che non sono pronti. Ma sono certo, che col tempo, si apriranno e tireranno fuori quei blocchi culturali che hanno dentro. Io sono come Dio nel Giudizio universale di Michelangelo che tende la mano ad Adamo aspettando che sia lui ad alzare l’indice ed aprirsi al creato».
Questa opportunità è tutto merito dei teatri pieni o anche un po’ del buon rapporto con Fiorello che qualcosa può segnalare ad Amadeus?
«Merito dei teatri pieni che hanno avvicinato sempre più gente a scoprirmi e conoscermi. Tipo Fiorello. Lui è un entusiasta ed è un vero talento anche a capire le cose prima di tutti. Ed è una persona sincera. Se gli piace una cosa, e ne riconosce l’autenticità, la promuove e la difende. È stato lui che ha spinto Amadeus ad invitarmi al Festival. Sono proprio contento di sapere che da mercoledì rovinerò la loro trentennale amicizia».
Nel post su Facebook dice che questo invito è la conferma che è «riuscito a cambiare il sistema». L’autostima non le manca…
«Ho cambiato il sistema del punto di vista del linguaggio. Ripeto, uno come me a Sanremo rappresenta un vero cambiamento. In peggio, ovviamente. Questa cosa fa crescere ancora di più la mia autostima. Il cambiamento è linguistico. Questo Paese fa fatica a parlare di argomenti senza dover per forza mettere dentro la morale. Io sono immorale. E ci tengo».
Ha scritto anche che dopo «anni di soldi estorti» con la sua presenza su Rai 1 «c’è un motivo valido per aver pagato il canone».
«E già… Guardatevi in giro. Non vedete che la gente è sempre più stupida? A chi volete dare la colpa? Al clima? Allo smog? No. La colpa è della tv che con i suoi programmi d’intrattenimento e d’informazione ha ridotto le persone cretine. Non è giusto. Poverine».
In questi casi per incoraggiamento si dice «in bocca al lupo». Lei risponde «viva il lupo»? O preferisce che le si dica «merda»?
«Non me ne frega di questi riti. Non sono superstizioso. Io non credo a nulla».
Ricominciamo dall’inizio. Angelo Duro è il suo vero nome o un nome d’arte? Sembra un ossimoro, tipo Angelo Nero o Angelo Incazzato.
«Mi chiamo così. Credo che i miei non abbiamo neppure pensato alla contraddizione di questo nome. Ma mi è sempre piaciuto. E mi rappresenta a pieno. È un nome unico. Sempre meglio chi chiamarsi Mario Rossi».
Perché nei suoi spettacoli è sempre incazzato duro?
«Non sono incazzato. Io racconto delle storie. Non sono incazzato senza un senso. Racconto cosa mi è successo, cosa ho pensato e come ho reagito quando mi è successo. È una causa e un effetto».
Come e quando è nata la sua comicità?
«Io non sono un comico. L’ho detto tante volte. E comunque la comicità non nasce. La comicità ce l’abbiamo tutti. È quell’esatto momento in cui di fronte a una grande paura dici a te stesso, o a chi ti sta vicino, una cosa per sdrammatizzare. Questa è la comicità. Per cui, per quanto mi riguarda, tutti siamo comici. Poi ci sono quelli che di fronte a paure e tragedie non osano sdrammatizzare perché ne hanno fatto un fattore morale. Poverini. E rimangono schiacciati dalle paure e dai loro traumi. Io non faccio altro che questo. Esorcizzo ogni paura o pericolo che esista nella vita. Certo, mettici che poi a farlo sono il più bravo di tutti. Ma questo è un dettaglio».
C’è stato un momento in cui le si è accesa l’idea o anche lei faceva ridere già a scuola?
«No. Perché, lo ripeto, non sono un comico. Io mi sono sempre limitato a dire quello che vedo di una cosa. È la gente che ride. Mica io. Cazzi loro».
Cosa le ha fatto decidere di fare dell’arroganza e del cinismo un genere comico?
«I soldi. Io, ripeto, non sono un comico. Sono un imprenditore».
C’è qualche modello a cui si è vagamente ispirato?
«No. Non sono un comico. Non ricordo se l’avevo già detto».
Anche la sua agenzia «Dasoloproduzioni» è drastica: niente film finanziati coi soldi pubblici, niente piattaforme che fanno serie per cerebrolesi, solo i suoi spettacoli: i testi li scrive tutti da solo?
«Io racconto di me. Le mie esperienze. Le cose che vedo. Le cose che sento. Non ci sono testi».
Può anticiparci cosa farà all’Ariston? Sarà un pezzo inedito?
«Chi dice che ci andrò? E se ci andrò chi dice che parlerò?».
Come fa a far ridere stando anche alcuni minuti in silenzio.
«Loro ridono perché hanno empatizzato con me. Sanno chi sono. Cosa penso. Per loro sono un amico. Una persona di famiglia della quale conosci tutti i connotati, pregi e difetti. Nel mio caso soprattutto i difetti. Quindi non mi serve fare altro. Perché io sono entrato nella loro testa. Conoscono il mio carattere. E sanno che da un momento all’altro potrei dire una cosa che fa crollare tutto. Questo disagio viene scaricato con una risata. Che, come le dicevo, serve ad alleggerire la tensione che creo».
Teme che mercoledì all’Ariston qualcuno in platea possa irritarsi per le sue provocazioni?
«No. Non lo temo. Lo spero».
Negli anni scorsi guardava il Festival?
«È successo. Tutti nella vita facciamo degli sbagli».
Cosa pensa di Chiara Ferragni e del mondo degli influencer?
«Non sono argomenti che tratto».
Dopo Perché mi stai guardando? e Da vivo, i suoi precedenti show, il prossimo spettacolo s’intitolerà Sono cambiato. Sbaglio se temo che sarà ancora più caustico?
«Chi può saperlo. L’unico modo per scoprirlo è stare lì. Adesso vi saluto che c’ho da fare».

 

La Verità, 7 febbraio 2023

Achille Lauro è il volto identitario del Festival

Achille Lauro non poteva mancare nemmeno stavolta, e fanno cinque edizioni consecutive. Tre da concorrente e due come superospite. È lui il volto identitario del Festival di Sanremo anni Venti. Una vetrina modaiola di fluidità e gender in varie gradazioni che ha sostituito la kermesse patronale, il luna park tuttifrutti di un tempo. Adesso il frutto principale è questa salsa queer. Sanremo segue il costume, ma qualche volta lo anticipa e lo influenza a suon di musica e polemiche, ugole e predicozzi, canzonette e politica. È così fin dal Ragazzo della via Gluck e Chi non lavora non fa l’amore (Adriano Celentano, 1966 e 1970), e da Una vita spericolata (Vasco Rossi, 1983), per citare le prime. Da La terra dei cachi (Elio e le storie tese, 1996) e Non è l’inferno (Emma Marrone, 2012), per avvicinarci al presente. Sanremo era Sanremo. Condito di superospiti internazionali, da Josè Feliciano, anche in gara, a Madonna, da Michail Gorbaciov a Mike Tyson e John Travolta, che per brevi comparsate procuravano salassi alle casse della Rai e overdosi di polemiche sull’uso del denaro pubblico. Il concorso era trasmesso in Eurovisione e c’era chi diceva che tutto il mondo ce lo invidiava. Domenico Modugno, Claudio Villa, Gianni Morandi, Celentano, Laura Pausini vendevano alla grande anche all’estero, e senza il complesso di essere italiani. Anzi, magari proprio per quello. Oggi no. Oggi, nell’èra della globalizzazione, sebbene declinante, i generi musicali perlopiù li importiamo. Comunque, Sanremo era quella roba lì. Epperò negli ultimi anni abbiamo assistito a una curiosa metamorfosi. Con innesti crescenti di progressismo, il nazionalpopolare è mutato in mainstream. Ben più di una correzione linguistica, un passaggio culturale. Dalla prospettiva nazionale a quella globale, dalla tradizione del Belpaese al pensiero unico sul vassoio dell’intrattenimento di tendenza. Il nuovo linguaggio deriva dalla frammentazione dei generi? L’Ariston si adegua e offre la vetrina.

Dicevamo di Achille Lauro, nome d’arte(?) di Lauro De Marinis. Quando si è presentato in gara, le sue dimenticabilissime canzoni navigavano nelle retrovie della classifica, puro pretesto per le messinscene, le mise transex, gli scandaletti di polistirolo pour épater le bourgeois. La sua ultima esibizione aveva simulato un battesimo. Roba farlocca. Tanto che, stuzzicato da Fiorello che l’anno prima, con una corona di spine sul capo, aveva duettato con lui, l’Osservatore Romano aveva dispensato delusione: «Volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo. Da questo punto di vista difficilmente dimenticheremo la recita del Padre Nostro, in ginocchio, di un grande artista rock come David Bowie. Non ci sono più i trasgressori di una volta».

Insomma, in quel lembo di Liguria si fatica a pensare in grande. A osare veramente. Ci hanno provato Rula Jebreal con un monologo in difesa delle donne violentate e Roberto Saviano ha voluto ricordare il trentennale dell’uccisione di Giovanni Falcone con tre mesi di anticipo. Nel 2020, con una libera interpretazione del Cantico dei cantici, definito il libro «più bello, più santo, più importante della Bibbia», Roberto Benigni ha sdoganato tutte le forme di amore, quella «dell’uomo con la sua donna, la donna con la sua donna, l’uomo con il suo uomo». Perché, alla fine, si casca sempre lì, nella moltiplicazione dei sessi e nell’amore non binario, come si dice.

Sotto la supervisione di Stefano Coletta, prima come direttore di Rai 1, poi come responsabile della sezione Intrattenimento della tv pubblica, Sanremo si è travestito da festival queer, disseminato di baci gay, unghie smaltate e trucco pesante per entrambe i sessi (e speriamo che la comunità Lgbtq non insorga). Se prendiamo i vincitori delle edizioni frequentate da Lauro, due volte ha vinto Mamhood (nel 2022 con Blanco) e una i Måneskin, poi tornati come ospiti l’anno scorso. E il vecchio luna park è sembrato un Gay pride per famiglie. Arcobaleno, naturalmente.

Erano gli anni dei governi guidati da Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e Mario Draghi, con il Pd a dare sempre la linea (tranne la breve parentesi gialloverde). Erano gli anni del dibattito sul ddl Zan, di genitore 1 e genitore 2, dell’asterisco e dello schwa proposti, e spesso adottati, nei documenti pubblici… Non che siano stati definitivamente archiviati. Tuttavia, dalle parti di Palazzo Chigi l’aria è cambiata. Invece in Rai ancora no. Basta guardare i programmi d’intrattenimento, certe rubriche pomeridiane di Rai 1 e Rai 2, le giurie degli show della rete ammiraglia… Finora l’avvento di Giorgia Meloni e del governo «delle destre» non ha fatto girare il vento nemmeno tra i fiori e le pailettes della kermesse canzonettara. Al suo fianco, il conduttore e direttore artistico ha voluto, sì, il rassicurante Gianni Morandi, amato sia dalle nonne che dai giovanissimi («Da grande voglio essere come lui», confidò Blanco sul palco di un anno fa). Ma fedele al mainstream modaiolo, ha chiamato l’«imprenditrice digitale» Chiara Ferragni e la pallavolista non binaria Paola Egonu (e chissà perché nessuno invita mai Miriam Sylla, anche lei di colore e pure capitana dell’Italvolley femminile).

Intanto Madame ha dovuto cambiare il titolo della canzone in Il bene nel male (al posto di Puttana), prima di essere indagata per una storia di vaccini falsi e piegarsi al volere comune: senza polemiche la colonnina dell’Auditel non s’impenna. Dopo aver detto che non ci sarebbero stati ospiti perché già tanti erano i cantanti in gara, man mano che ci si avvicinava al giorno d’inizio, Amadeus ha annunciato Black Eyed Peas, Piero Pelù, Francesco Renga, Nek… E, sempre in modalità allineamento, si è parlato di Volodymyr Zelensky in videocollegamento nella serata finale.

Di sicuro c’è che i cantanti in gara saranno 28, ventidue big più sei giovani, così le serate termineranno quando albeggia, tutta salute per lo share. A naso, il cast del 73° Sanremo, dal 7 all’11 febbraio, è tranquillo. C’è la quota star da stadio con Marco Mengoni e Giorgia, il trash dei Cugini di campagna, la nutrita fetta anni Novanta con Anna Oxa e i Modà, senza dimenticare le reunion di Articolo 31 e Paola e Chiara. Ci sono «i figli di» Leo Gassmann e Lda (di Gigi D’Alessio), i big da classifica Lazza, Elodie e la già citata Madame, la quota di musica indie con Colapesce Dimartino e Coma Cose, che bissano la partecipazione dell’anno scorso, come Tananai che, giunto ultimo, può migliorare ma non è detto. Non s’intravedono troppe trasgressioni fasulle. Però occhio a Rosa Chemical che somiglia non poco ad Achille Lauro, speriamo solo nell’aspetto. Nell’incertezza, si è pensato bene di convocare anche l’originale. Hai visto mai che se ne sentisse la mancanza.

 

Il Timone, febbraio 2023

«Sono ateo (provvisorio), ma credo in Lucifero»

Intelligenza magmatica, ragionamento proteiforme, linguaggio minaccioso, Quirino Principe è uno degli intellettuali più controversi della cultura contemporanea. Nato a Gorizia 87 anni fa, vive a Milano dove cura la sua incessante attività di traduttore, musicologo, saggista, critico e consulente editoriale. Forse lo si potrebbe inserire nella galleria dei grandi reazionari ma, nella sua vanità, rifiuterebbe anche questa collocazione. Si definisce ateo, salvo riconoscere e, in un certo senso esaltare, la figura di Lucifero. Non a caso, se lo si definisce «un tizzone d’inferno» s’inorgoglisce. Intervistarlo vuol dire infilarsi in un ingranaggio infernale. Ha un così elevato concetto di sé da permettersi risposte particolarmente sprezzanti.

Professore, come mai da qualche tempo non la si legge e non la si ascolta?
«Le contro-domando: dove diavolo dovrei scrivere o parlare affinché mi si legga o mi si ascolti?».

Perché si è interrotta la sua collaborazione con Il Sole 24 ore?
«Mi ero stancato di recensire libri di altri. La funzione di recensore è interessante, ma a un certo punto ha cominciato a starmi stretta. Perciò avevo più volte proposto di occuparmi di letteratura tedesca, inglese, ispanico-americana, mitteleuropea, slava. Non sono solo uno studioso di musica, ho tradotto Ernst Jünger, Karl Jaspers, molti altri autori, un numero indescrivibile di Lieder e di testi di teatro d’opera».

E dal Sole come le hanno risposto?
«Non ci fu né richiesta né risposta. Avevo altro cui pensare, e per cui soffrire maledettamente. Era appena morta mia moglie, dopo 60 anni precisi di matrimonio felice e fedele. Non occorre essere religiosi per essere fedeli, non occorre essere ricchi come il patriarca Kyrill o come i vari Ronaldo, Mask, Bezos, per essere felici. Sono molto affezionato e grato al Sole 24 ore, però non posseggo competenze soltanto musicali, anche se a qualcuno sfugge l’esistenza di una mia forte professionalità anche al di fuori della musica. Questo non vale solo per Il Sole 24 ore, ma anche per altri committenti».

Per esempio?
«La Rai».

Che cosa faceva per la Rai?
«Quando la Rai era meno nepotista e meno corporativa, avevo qualche spazio possibile: musica, poesia, teatro, filosofia… La domenica tenevo una rubrica molto seguita su Radio 3, La spina nel fianco. Nella sua conduzione,  fra l’altro, proponevo ogni settimana un sonetto che, attraverso diabolici depistaggi, invitava gli ascoltatori a individuare un autore, un’opera o un episodio di storia della musica».

Una rubrica esoterica?
«Ma quale esoterica? In quella rubrica mi divertivo con l’enigmistica, e qui l’esoterismo c’entra come il classicissimo cavolo a merenda. Cerchiamo di non usare parole a vanvera, e di conoscere bene il significato delle parole, prima di attingere al lessico italiano, che sospetto essere enigmatico per troppi miei connazionali! Lei è certo di sapere esattamente che cosa significhi “esoterico”? Quella rubrica era, per me,  un esercizio di tecnica versificatrice come parodia dei poeti stilnovisti, e, per il pubblico, un’occasione per saggiare il livello culturale medio degli italiani. Quella rubrica, che mi aveva molto divertito, era piuttosto un impagabile incentivo a una mia naturale tendenza,  quella a non avere peli sulla lingua e a non avere rispetto per le nullità travestite. Infatti, l’allora direttrice di Radio Tre troncò di brutto quella rubrica, in atto da due anni – era la fine del 1999 – per “punirmi” dell’avere io osato citare in modo “irrispettoso” i nomi di Francesco Rutelli e di Alessandro Baricco. Nella fattispecie, dovendo, per depistare gli ascoltatori, citare Bonifacio VIII a proposito di Dante, e avendo bisogno di una rima in “-elli”, avevo indicato quel papa – a me odioso, come lo sono per me tutti i papi, anzi, tutti gli ecclesiastici di tutte le religioni monoteistiche – con un “irriguardoso” endecasillabo: “… il primo precursore di Rutelli”. Ovviamente, alludevo alle analogie tra le due colonne di pellegrini che vanno verso San Pietro (Inferno, 28-33) oppure ne ritornano indietro: espediente di regolazione del traffico, “copiato” da colui che  era sindaco di Roma alla fine del secolo XX. Non vedo come potessi avere “offeso” Rutelli, tipo simpatico ma allora troppo sollecito nel fornire i servigi del Comune di Roma al Vaticano, More solito, del resto:  per me, incrollabilmente laico, è insopportabile questo ricorrente servilismo delle laiche istituzioni pubbliche italiane a favore di Santa Madre Chiesa. Quanto a Baricco… ebbene sì, nel sonetto della settimana successiva fui io ad essere molto antipatico. Lo riconosco: meritavo una punizione. Mi scusi: c’entra, tutto questo, con il concetto di esoterismo?».

Non le sfugge certamente che di lei si parla come di un «tizzone d’inferno». Che cosa la attrae verso l’elemento infernale?
«Io sono ateo come visione del cosmo, anche se non escludo l’impensabile, l’indescrivibile, il “totalmente altro”, come lo chiama Max Horkheimer. Marxista eretico, nel suo penultimo libro parla del “totalmente altro” come di una necessaria idea collaterale che deve accompagnarci quando parliamo del certamente definibile. Pur essendo ateo contemplo il demoniaco e l’infernale come ne hanno parlato le grandi religioni».

Non è contraddittorio?
«La mia dichiarazione di ateismo è provvisoria, una messa in sicurezza di fronte all’immagine contraddittoria di Dio data dalle religioni monoteiste. Un Dio geloso, che si arrabbia, si vendica e si occuperebbe di questa piccola specie che è l’homo sapiens. Mentre per me è un concetto altissimo, sublime e parlare di Dio mi risulta difficilissimo. Al contrario, il demonio è qualcosa di prossimo alla nostra esperienza, agli istinti, alle necessità naturali e sane. Il bisogno di mangiare e di provare piacere con il sesso, per esempio. È un’energia presente nel cosmo, nell’istinto di ribellione al potere».

Come trascorre le giornate?
«Le ore diurne lavorando, invece le ore notturne lavorando. Il totale delle ore di sonno durante la settimana è di cinque o sei. Non è insonnia, è lavoro incessante. Se non avessi avuto l’incidente che mi ha spezzato le gambe e un braccio dimostrerei trent’anni di meno e sprigionerei ancora più energia. Purtroppo il 4 giugno del 2011 sono stato investito e da lì è iniziato il mio declino fisico. Il 4 giugno è il giorno di San Quirino: il mio ateismo ne è stato ulteriormente confermato».

In che cosa consiste il suo lavoro?
«Traduzioni, soprattutto dal  tedesco. Saggi per teatri d’opera. Preparazione capillare di lezioni universitarie, a beneficio degli studenti tutti laureati: da 10 anni insegno Storia della Musica in un master post-universitario. Sto preparando la seconda edizione del mio libro su Richard Strauss. Curo con assoluta esattezza le mie lecturae Dantis: una lectura integrale, dal principio alla fine della Commedia. Tengo le lecturae nella sede della casa editrice Jaca Book. Sono arrivato al XXII del Purgatorio.  Di solito, non leggo: recito direttamente, in stile teatrale. Conosco l’intero poema dantesco a memoria».

Lavoro «matto e disperatissimo»?
«Il lavoro non è disperato, è fatica e la si sopporta. Lo studio invece è felicità assoluta».

C’è qualcosa o qualcuno che lenisce la sua solitudine?
«Come dicevo, lo studio. Invece, amo la solitudine. Vorrei assolutamente che mia moglie rinascesse. Anche i miei figli, quando vengono mi fanno felice. Ma sto bene con la solitudine, è così fin da adolescente. È essa il mio vero lenimento».

Perché ritiene l’insegnamento della musica la molla della rinascita?
«Perché è il livello più alto della conoscenza. Forse neanche i musicisti lo capiscono. Platone, Damone, Aristosseno, Plutarco, anche un politico come Pericle, Lucrezio, Quintiliano, Boezio, consideravano la musica una dote indispensabile per ogni uomo di governo. Così anche, in tempi vicini a noi l’hanno capito filosofi come Adorno. La musica è matematica, regina delle scienze, che agisce sui nostri sensi e sulle nostre percezioni. Purtroppo oggi è ritenuta solo una forma di intrattenimento».

Preferisce i grandi compositori del passato?
«La musica non va valutata in base alla cronologia, ma per la sua qualità. Nella mia estetica il bello è ciò che ha forza di significato, il brutto ciò che è debole di significato o ne è privo».

Tre opere che porterebbe su un’isola deserta.
«Facciamo cinque. Don Giovanni di Mozart, il Quartetto opera 132 di Beethoven, la Sonata per pianoforte n. 32 Op. 111 di Beethoven, le Scene per il Faust di Goethe di Schumann, Parsifal di Wagner».

Il più grande direttore d’orchestra del Novecento?
«Sebbene ai direttori d’orchestra si richieda più studio che genio, le propongo una rosa ristretta: Gustav Mahler, straordinario anche come direttore, Bruno Walter, Gino Marinuzzi, Sir Thomas Beecham, e Whilelm Furtwängler. Herbert von Karajan per me è un po’ al di sotto».

Tra quelli contemporanei chi apprezza?
«Oleg Caetani, Riccardo Chailly e Riccardo Muti».

Qual è il suo pensiero riguardo ai generi musicali contemporanei?
«Quali? Me li indichi».

Cosa pensa del jazz?
«È una provincia marginale come, del resto, lo è anche Chopin. Una provincia che pure contiene opere splendide. Come quelle di Cole Porter, George Gershwin, Chick Corea, Ornette Coleman, Duke Ellington… A volte le suono, Sophisticated lady è una delle mie preferite».

Il John Coltrane di A love supreme e My favorite things?
«Mi piace molto, certo».

Keith Jarrett?
«Interessantissimo. Apprezzo il mixage e le contaminazioni, senza le quali potrebbe risultare un po’ noioso».

Le piace qualcuno degli interpreti popolari della canzone italiana?
«Odio visceralmente tutto ciò che è popolare, o così denominato. Nel suo interesse, non mi faccia andare su tutte le furie».

Cosa pensa del rap?
«Non è musica e nemmeno suono musicale. È un parlato in forma di scioglilingua accompagnato da una consolle. Perciò, essendo non-musica, non mi riguarda professionalmente».

Ha mai visto il Festival di Sanremo?
«Un paio di volte Il Sole 24 ore mi ha chiesto di seguirlo. Ho obbedito con disagio e noia. Ciò che detesto maggiormente sono il contorno di lustrini, coriandoli, luce diffusa, neon, stivaletti di marca…».

Negli ultimi anni è diventato una vetrina gender: conosce Achille Lauro?
«Com’è ovvio, più che conoscerlo, so chi è. Non ho alcuna intenzione di approfondire la sua conoscenza».

Per Uto Ughi i Måneskin sono un insulto alla musica e all’arte.
«Ha perfettamente ragione».

Quest’anno vedrà il Festival di Sanremo?
«No. Non ho intenzione di vomitare».

Salvo sorprese, alla serata finale dovrebbe partecipare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky con un videomessaggio: che impressione le fa?
«Penosa. Zelensky era un modesto attore comico che si è trovato per sua sventura in una posizione disperante, affrontata con coraggio. Altri si sarebbero dati alla fuga, invece la sua resistenza lo ha nobilitato. Purtroppo, con questa partecipazione mette la sua figura nobile in un contesto ignobile».

C’è qualcosa o qualcuno che fa eccezione alla sua contestazione della contemporaneità?
«Grrrrrrrrr….. un tipo di domanda che suscita i miei istinti omicidi. Lo volete capire, si o no, che non è questione di cronologia, bensì di qualità, di livello qualitativo? Per favore, non irritatemi ulteriormente con domande senza significato. Alla fine, non rispondo delle mie azioni. Sono un ex ufficiale di artiglieria, e ho un’indole violenta. Non contesto la contemporaneità, dal momento che anch’io sono contemporaneo a me stesso. Contesto, invece, lo schifo».

Che cosa pensa della letteratura italiana contemporanea?
«Non credo che Dio esista, almeno nei termini con cui il cattolicesimo ufficiale, il Papa, monsignor Ravasi, eccetera, ce lo rappresentano. Ma se Dio esiste davvero, ci liberi dall’incubo: ci liberi dall’immaginare che la letteratura sia Gianrico Carofiglio o Alessandro Baricco o Alda Merini! Non mi preoccupa il male, è il nulla a essere spaventoso».

Professore, lei è massone?
«Ci mancherebbe solo questo!!! Mi avrebbe potuto risparmiare una simile domanda, che mi offende gravemente e mi fa infuriare: e non perché io disistimi la massoneria, che è una realtà storica e cui attribuisco qualche pregio per quanto riguarda l’esperienza illuministica della nostra amata Europa. No, ciò che mi offende è l’attribuzione, alla mia persona, dell’obbrobrio di “far parte di qualcosa”, di “condividere essendo in sottordine”. Trovo la domanda gravemente offensiva: da querela, se avessi la sia pur minima fiducia nel trionfo della  giustizia, sia in Italia, sia in Afghanistan,  o altrove. Ma non è forse arcinoto che io voglio essere solo, che non voglio far parte di associazioni, partiti, circoli, parrocchie, cellule, di questo o quello staff, board, team, e via divertendoci  con questo sterco lessicale anglicizzante? Come potrei, Io, Quirino Principe, associarmi a persone o ad ambienti sociali che  sappiano nulla di nulla, che non sappiano usare la lingua italiana, che non sappiano leggere un codice medievale né la grafia musicale espressa in neumi, che non conoscano il greco antico, né il latino, né il sanscrito, né il tedesco, né la matematica, né l’astrofisica, né la meccanica quantistica, né gli scritti musicali di Aristosseno o di Plutarco, né la differenza tra calendario giuliano e calendario gregoriano??? Per favore, smettiamola con queste offese alla mia persona. Rammento che la mia indole è notoriamente molto irascibile, e sono capace di eccessi».

 

 La Verità, 4 febbraio 2023

«Zelensky a Sanremo puro atto di propaganda»

Carlo Freccero, cosa significa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ospite del Festival di Sanremo?

«Significa che siamo di fronte a un atto di propaganda».

Cioè?

«È sempre stato necessario far accettare al popolo un’azione impopolare come la guerra, le cui vittime sono sempre i popoli. Indipendentemente dagli schieramenti, guerra significa morte. Di solito non si scherza a un funerale».

Nel caso del popolo italiano, in maggioranza contrario all’invio di armi all’Ucraina nonostante l’informazione spinga in questa direzione, la propaganda fallisce?

«È interessante osservare il comportamento del pubblico su due argomenti. Sui vaccini ha assecondato la linea governativa, mentre sulla guerra dissente apertamente. Questo avviene per due motivi. Il primo è la paura di un conflitto nucleare che suscita una reazione di rifiuto dettata dall’istinto di sopravvivenza. Il secondo motivo è che nel nostro Paese c’è povertà e noi abbiamo già destinato molti soldi all’Ucraina. La guerra sta provocando disagi all’economia e alla nostra vita quotidiana».

Questo potrebbe essere egoismo?

«La guerra è la forma di egoismo più atroce. Ormai non si parla solo dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Vladimir Putin, ma di equilibri internazionali e dello scontro fra America e Russia. La maggioranza degli italiani non vive come Joe Biden alla Casa bianca, ma in case fredde e con spese che si  moltiplicano».

L’errore di questa ospitata è il contesto o il contenuto?

«Entrambi. Innanzitutto perché sollecitare l’invio di più armi significa elevare la tensione e aumentare il pericolo. La Russia ha già fatto presente che se si alzerà l’asticella sarà costretta a usare armi pesanti. Anche le persone che ritengono necessaria la partecipazione alla guerra non ne condividono la spettacolarizzazione a Sanremo. La metafora dell’Orologio dell’apocalisse segna 90 secondi alla fine del mondo».

Spieghi.

«L’Orologio dell’apocalisse è il Bollettino degli scienziati atomici ideato nel 1947 da un gruppo di studiosi della California, idonei a esprimere un giudizio sul pericolo nucleare. Oggi l’Orologio indica una distanza di soli 90 secondi alla mezzanotte. Neanche durante la Guerra fredda eravamo così vicini al disastro irrimediabile».

Zelensky all’Ariston è la spettacolarizzazione della guerra?

«Mentre non c’è spazio per la trattativa e per la diplomazia, tutto è affidato all’azione delle armi e l’Ucraina è diventata un cimitero a cielo aperto».

Proprio questo giustifica l’invito al suo presidente?

«È tutto più complesso. Questa guerra è un esempio di reductio ad Hitlerum di Putin analoga a quella condotta contro Saddam Hussein e Gheddafi. Ricordiamo le armi di distruzione di massa di Saddam simboleggiate dalla fialetta agitata da Colin Powell nell’assemblea delle Nazioni unite. Tutti sanno che quelle armi non esistevano, però nell’immaginario Saddam è rimasto un crudele dittatore».

I morti ucraini esistono.

«A questo proposito vorrei ricordare la frase sfuggita nel 2014 a Victoria Nuland, all’epoca segretario di Stato aggiunto, quando le fu fatto presente che l’Europa non poteva tollerare un colpo di Stato nazista in Ucraina: “Che l’Unione europea si fotta”, disse. Da quel colpo di Stato, la guerra dell’Ucraina contro le popolazioni russofone del Donbass non si è mai interrotta. Tutti conoscono la strage di Odessa, oggi derubricata da Wikipedia a incendio incidentale. Prima dell’intervento di Putin anche i giornali mainstream riportavano correttamente le provocazioni ucraine, ma appena iniziata l’invasione l’informazione è stata colta da amnesia sugli otto anni precedenti».

Zelensky è intervenuto al Festival di Cannes, alla Mostra del cinema di Venezia e ai Golden Globes: dov’è lo scandalo?

«Nel frattempo la guerra si è trasformata in pericolo nucleare e Sanremo viene usato per allargare il conflitto. Zelensky chiederà altre armi, invece bisogna dire basta».

Dire basta significa pace senza giustizia?

«Questo è argomento delle diplomazie».

Il presidente ucraino è un ex attore comico e un ottimo comunicatore.

«Non un comunicatore, ma un attore che cura molto le sue apparizioni. Il fatto interessante è che mescolare guerra con spettacolo è, in qualche modo, in continuità con la propaganda pandemica».

In che senso?

«I virologi chiedevano di vaccinarsi contro il Covid sulle note di Jingle bells. Ora Zelensky ex attore arriva al palco del Festival di Sanremo a chiedere armi. Da tempo Sanremo sembra occuparsi, più che di musica, di look transgender presunti trasgressivi. Anche a questo riguardo Zelensky è idoneo perché sono noti i suoi balletti con tacchi a spillo, nudo e lingua fuori, in perfetto stile Måneskin».

Non li ho visti.

«Li trova su Telegram».

Pierferdinando Casini ha ironizzato sulla necessità di far intervenire anche Putin per la par condicio…

«Promuovere la propaganda e l’allargamento della guerra su un palcoscenico ultra popolare come l’Ariston va contro la maggioranza dell’opinione pubblica italiana. La democrazia non conta più nulla? Infine, la cultura della guerra, se non ricordo male, è contro la nostra Costituzione».

Il Cda Rai ha convocato il direttore dell’Intrattenimento Stefano Coletta per spiegare l’invito: cosa si aspetta?

«Oltre a Coletta, sarebbe interessante ascoltare Bruno Vespa che si è prestato a fare il Beppe Caschetto di Zelensky».

 

La Verità, 31 gennaio 2023