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«Sono un Don Chisciotte che stronca gli intoccabili»

Leggere Stroncature di Davide Brullo è aprire uno scrigno di preziosi. In mezzo ai quali, certo, si confondono anche pietre fasulle. Ma sono poche. Definizioni fulminanti. Ritratti al vetriolo. Scudisciate lisergiche. Da Alessandro Baricco a Gianrico Carofiglio, da Roberto Saviano a Gianfranco Ravasi, nessuno è risparmiato. Leggere Brullo, poeta, scrittore, critico, firma delle pagine culturali del Giornale, residente a Riccione, è anche scoprire un mondo. Una concatenazione alternativa. Un sottosuolo di trame. Un ribollire critico. Innanzitutto Pangea, «rivista avventuriera di cultura e idee», da lui fondata nel 2017. Bengodi di controletture e irregolarità collegato con Intellettualedissidente.com, altro sito incandescente che si presenta «contro tutti, contro noi stessi». Infine c’è Gog, editrice che pubblica gli autori di questo emisfero. Come nel caso di Stroncature, il cui sottotitolo è: «il peggio della letteratura italiana (o quasi)». Alla fine del tour underground, ripartiamo dal via.

Davide Brullo è un Mowgli della letteratura, il personaggio di Kipling con cui si identifica perché sciolto da vincoli d’appartenenza e da timori reverenziali?

«Magari. Brullo è un verbo greco molto raro testimoniato nei Cavalieri di Aristofane. Bru bru è l’espressione dei bambini che chiedono da bere. Vengo dal mondo della poesia e questo verbo-cognome mi piace molto».

Come il protagonista del Libro della jungla lei è un cucciolo di scrittore che tira fendenti per difendersi dagli agguati della natura ostile?

«Mowgli è una figura mitica che non sta da nessuna parte. Caccia le bestie, ma non vuole stare nemmeno con gli uomini. Grazie a uno stratagemma sconfigge chi è più forte di lui e diventa il re della jungla, domando le forze ostili».

Ovvero i potentati dell’editoria?

«Sì. Anche gli scrittori che rifiutano il dialogo e preferiscono le querele anziché la disfida sulle pagine dei giornali. O i direttori che ti scaricano perché non vogliono difenderti in battaglie meramente culturali».

Per esempio?

«Per queste stroncature il direttore di Linkiesta Christian Rocca mi ha gentilmente scaricato».

Altra ipotesi da lei formulata: Brullo è «un dandy nonostante si creda un samurai»?

«Mi mancano sia il denaro che l’estro modaiolo dell’essere dandy. Che nello stile di queste stroncature ci siano snobismo ed elitismo è indubbio».

Perché scrive che stiamo vivendo nell’era del politicamente scorretto?

«Siamo massacrati dal politicamente corretto, ma bisogna distinguere. Della politica si può dire il peggio con violenza inaudita. Anzi, se non lo fai sei un cretino. In campo culturale lo stesso atteggiamento non è accettato. È come se tutto fosse avvolto in un grande profilattico di cristallo, non si può rompere le palle».

Cioè, «in Italia si può essere politicamente scorretti ma non culturalmente anarchici»?

«Esattamente. Siccome si ritiene che i lettori siano cretini, allora tutto è giustificato. Pubblichiamo un libro di Dario Franceschini, poi un giallo di Walter Veltroni… che male vuoi che faccia».

Francesco Permunian li chiama libroidi.

«Non solo quelli di politici e cantanti. Nell’acquiescenza diffusa anche scrittori ritenuti autorevoli continuano a produrre libroidi o mattoni».

La stroncatura è un genere da eroe solitario, da cavalier perdente?

«Per sua natura ha bisogno di un’individualità accesa, forse infuocata, certamente sconfitta. Di un debole che cerca di abbattere i titani. Dopodiché cosa c’è di più bello che incarnare don Chisciotte?».

È un genere che rimanda a duelli ottocenteschi.

«Anche del primo Novecento, quando nasce la terza pagina e subito se le scrivono di santa ragione. Giuseppe Ungaretti sfidava a duello chi non la pensava come lui. Al netto del narcisismo è una tempra da riscoprire. La scrittura nasce come lotta, come polemica, altrimenti è inutile».

Definisce Baricco una specie di «Vincenzo Mollica della letteratura» perché eccede in aggettivazioni. Però lo vedrebbe ministro della Cultura.

«Considerato che la politica è ridotta ad avanspettacolo devo ammettere che Totem era una bella trasmissione. Per altro Baricco è più fotogenico del ministro attuale».

Mi era parso di capire che il giovamento stesse nell’inevitabile rarefazione della sua produzione letteraria.

«Meglio un romanzo di Baricco che un saggio di Franceschini. Anche se Baricco mi ha sempre dato l’idea di uno che attraverso la letteratura voglia raggiungere un trono e poco gli importi della letteratura in sé stessa».

Sulle Consapevolezze ultime di Aldo Busi osserva che non basta scrivere un tango di subordinate per pagine e pagine per ritenersi pari «al sub-dio», anagramma dello stesso. Ce ne fossero di Busi…

«Le stroncature hanno diverse gradazioni. Un conto è stroncare Eugenio Scalfari e Baricco, un altro un grande scrittore come Busi. Il quale, in quel libro, piscia fuori dal vaso. Per restare nella metafora, altre sue stronzate sono molto più belle».

In Conversazione con Tiresia Andrea Camilleri cita «un Montalbano qualsiasi» e sottolinea di esser «stato regista teatrale, televisivo, radiofonico…». Non si può concedere un briciolo di vanagloria a un novantenne?

«La letteratura è spietata: Goethe ha dato il meglio dopo gli Ottanta».

È troppo spietato quando scrive che Gianrico Carofiglio vorrebbe essere un autore alla Michael Mann, ma le sue storie si avvicinano al Maresciallo Rocca?

«Dei giallisti italiani non se ne può più. Se penso che dall’altra parte dell’oceano c’è un “cane demoniaco della letteratura poliziesca” come James Ellroy… I nostri giallisti sembrano giocare con i lettori, piuttosto che affondare il pugnale nella storia italiana. Basterebbe studiare Alessandro Manzoni: con Storia della colonna infame ha inventato il genere giudiziario».

In che senso Elena Ferrante è «l’emblema della banalità del bene»?

«La cosa grave è che sia l’indegna rappresentante della letteratura italiana nel mondo soprattutto anglofono. Una letteratura che si riassume in Sud Italia, storia di una famiglia, scritta banalmente bene».

È massimalismo scrivere che «c’è più sapienza in una canzone qualsiasi dei Thegiornalisti che in una pagina qualunque di Paolo Giordano»?

«Divorare il cielo è il romanzo di uno che con il primo libro è candidato a essere uno dei grandi scrittori italiani. Invece scrive una sciocchezza inaudita, nella quale non c’è rischio né nella costruzione del romanzo né in ciò che viene romanzato».

Voleva scrivere la Pastorale italiana.

«Ma o sei Philip Roth o scrivi il Doctor Faustus. Altrimenti diventi il commentatore del coronavirus in Italia».

Scrive che il lettore di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati a pagina 300 si dice: me ne mancano altre 500 e non ho ancora scoperto nulla di nuovo. Invidia il successo di Scurati?

«Il successo è l’unica cosa di cui sono contento per Scurati. Quanto al resto non trovo nulla di invidiabile perché è stato totalmente vampirizzato dal tema, di fronte al quale ci sarebbe voluto il talento di Curzio Malaparte. È un’ottima idea tuffarsi nel periodo più tragico e folgorante del Novecento italiano. Ma al lettore resta l’impressione di una sfida perduta e tragicamente banalizzata».

Umberto Galimberti «è un fatale chiosatore di cliché», in realtà è considerato una philostar.

«Mi piace di più l’insegnamento di Eraclito che scelse di allontanarsi dai cittadini di Efeso e giocare con i bambini all’ombra del tempio di Artemide. Per poi ritirarsi definitivamente nei boschi».

Definisce il presidente del Pontificio consiglio della Cultura Gianfranco Ravasi «l’Arci-arcivescovo». Il suo Breviario dei nostri giorni soffre di «bulimia citatoria» inclinata dalla parte delle mode.

«Di fronte a un tema di capitale importanza, Dio, Ravasi mi appare un impresario della cultura enciclopedica. Prediligo figure marginali ed eroiche come Sergio Quinzio. E consiglio la lettura del Quinto evangelio di Mario Pomilio».

Che effetto le fa Francesco sulla copertina di Vanity Fair?

«Preferisco il Beato angelico che dipinge nelle celle nascoste dei monaci, certo di avere come unico spettatore Dio e nessun’altro».

In risposta a L’ora del blu, raccolta di poesie di Eugenio Scalfari, propone la lettera di rifiuto che Einaudi avrebbe dovuto scrivere per evitargli «l’effetto stridente da pittore della domenica che si creda Cézanne».

«Se il romanzo è spietato la poesia non perdona. Mi ha sempre incuriosito come uomini di successo, potenti, capi d’azienda, prima o poi sentano la necessità di pubblicare le loro poesie, benché grottesche».

Roberto Saviano non è un giornalista né un romanziere, ma ha solo creato il genere «pummarola western». Se il paragone è con Fedor Dostoevskij si salvano in pochi…

«Chiunque scriva si mette al confronto con alti ideali. Dopodiché non è vero che la letteratura italiana non ha grandi scrittori. Li ha, ma studiano al posto di andare in tv».

Il sottotitolo del libro è «Il peggio della letteratura italiana (o quasi)». Cosa c’è in quel quasi?

«Il libro è una selezione delle stroncature che ho scritto. L’ipotesi iniziale era un’antologia di 500 pagine. Per fortuna ridotta».

Che spazio c’è oltre la nebbia avvolgente del pensiero unico?

«Ci sono moltissime isole di resistenza. Piccole zattere dove alcuni corsari leggono libri insoliti e fanno risorgere dall’oblio autori dimenticati».

Da che cosa è nata Pangea?

«Innanzitutto dall’esigenza molto terrena di continuare a sopravvivere con il giornalismo dopo il fallimento della Voce di Romagna, il quotidiano nel quale lavoravo. In secondo luogo, dalla mia passione di raccontare storie, leggere e commentare libri che mi paiono indispensabili».

Perché ha tradotto i Salmi e il Libro della Sapienza?

«Perché mi sono laureato in Letteratura cristiana antica e sono affascinato dalla Bibbia, che mi pare il libro fondamentale della nostra tradizione letteraria».

L’ultimo suo articolo è su Clemente Rebora: nell’epoca dei selfie qual è l’attualità di un poeta che teorizzava il suo stesso annullamento?

«L’attualità di Rebora sta proprio nella sua assoluta inattualità. Uno che nel 1930 decide di incenerire sé stesso per la ricerca di qualcosa di più grande».

In chiusura le chiedo di farsi violenza elogiando qualche scrittore.

«Filippo Tuena e Gian Ruggero Manzoni sono due romanzieri straordinari e poco considerati rispetto al loro valore. Tra i poeti, che vanno scovati nelle miniere della nostra letteratura, cito Francesca Serragnoli e Alessandro Celi».

Servono riflettori potenti?

«E un desiderio folle per avventurarsi nel sottosuolo».

 

La Verità, 9 gennaio 2021

 

«Sì, noi rapper siamo diventati mainstream»

Look trasgressivo e concetti tradizionali (quasi). È il contrasto che attira l’attenzione su Luchè, rapper ora biondo pannocchia, piccoli tatuaggi al volto, più grandi sul collo e sulle mani, anelli e orecchino d’ordinanza. Fuori copione sono i suoi interventi a Realiti, seconda serata su Rai2, con Enrico Lucci dal look cangiante: total red, blue, pink. La stranezza è che vicino ad Aurelio Picca e soprattutto ad Asia Argento, il più saggio della giuria dei saggi risulta proprio Luca Imprudente, 38 anni che sembrano parecchi meno.

Allora Luchè, io non la conosco, mio figlio sì… Ma La Verità si rivolge più quelli come me che, vistala spuntare in televisione, si chiedono chi è questo Luchè?

«Sono un artista cresciuto nella periferia nord di Napoli, precisamente a Marianella, un passo da Scampia. Vengo da lì per andare oltre».

Risposta vera o per i media?

«Descriversi da soli non è semplice, si può cadere nella finta umiltà o nel narcisismo. Posso dire di essere sensibile alla creatività, che non s’identifica con il successo. Sono un vulcano emotivo».

Il nome dove l’ha preso?

«È Luca in dialetto napoletano».

Gavetta.

«Abbiamo iniziato da adolescenti, ma il primo disco l’abbiamo pubblicato nel 2005, dieci anni dopo, perché volevamo essere pronti».

Parla al plurale.

«Eravamo io e ’Nto, i Co’Sang».

Prime esibizioni.

«Live in piccoli club, una mazzata in fronte. Mi cagavo sotto perché ci si esibiva davanti a un pubblico composto da altri aspiranti rapper, persone che volevano fare la stessa cosa tua. Una nicchia bella, ma frustrante».

Facevate freestyle?

«Partecipavamo alle jam nelle piazze. C’era chi faceva i graffiti, chi si esibiva nella breakdance, chi rappava. Ma erano occasioni sporadiche».

La svolta?

«Quando è uscito il primo disco dei Co’Sang. Qualche mese dopo Roberto Saviano ci intervistò per XL di Repubblica, poi arrivarono Rolling Stone e Rumore. Eravamo un gruppo cattivo. Dopo qualche anno è arrivato il declino totale».

Declino totale.

«Nel 2012 ci siamo sciolti e ho trascorso alcuni anni davvero bui».

Motivo?

«Lo scioglimento del gruppo. Alcuni giornali diedero la colpa a me. In realtà, il rapporto con il mio socio era molto complicato. Avevamo due modi diversi d’intendere la musica. Siamo scoppiati. L’hip hop non era come adesso che è diventato il genere più mainstream al mondo. Non c’era una strada economica percorribile. Poi c’è anche un altro fatto…».

Sentiamo.

«Il rap è uno sport individuale, i gruppi non durano a lungo. Al massimo ci possono essere delle collaborazioni fra solisti».

Adesso?

«Va bene. Ma ci sono voluti tre dischi da solista per risalire».

A Realiti ha citato i suoi ristoranti a Londra e New York, da Int’o rione ne ha fatta di strada.

«In mezzo ci sono sette anni, il primo locale l’ho aperto nel 2012. In quartiere soffocavo e mi sono trasferito… Ne parlo nel libro che sta per uscire con la riedizione di Potere, il terzo cd. Ho sempre vissuto in periferia guardando oltre, anche oltreoceano. Ho lavorato dieci mesi in un ristorante di Londra, ma non mi pagavano. Poi ho provato con l’abbigliamento. Ho visto alcuni amici aprire dei ristoranti e ho imparato».

Mentalità imprenditoriale.

«Avevo messo in stand by la musica. Portavo i piatti in tavola, ma pensavo ai testi, ai nuovi ritornelli. Facevo la spola tra Napoli e Londra, 15 giorni qui e 15 lì. Il disco dei Co’Sang è nato così. Poi nel 2010, ho iniziato ad andare anche a New York, dove mi dedicavo solo alla musica. In Italia facevo due o tre concerti e con il guadagno stavo a New York due o tre mesi. Dovevamo fare il terzo disco, ma non l’abbiamo mai finito».

Scuola?

«Ho preso la maturità scientifica, poi mi sono fermato».

I suoi genitori?

«Sono l’opposto di me. Si sono laureati, insegnano alle superiori. A 50 anni mia madre ha preso anche la laurea in medicina. Sono cresciuto nella periferia più feroce d’Italia con a casa due intellettuali, persone innocenti. Vedere loro mi ha aiutato a frenare il possibile contagio della cattiveria. Dalla strada ho imparato la furbizia, mentre il cinismo me l’hanno insegnato la musica e le donne. Avevo curiosità per le persone carismatiche».

Tipo?

«Alcuni artisti americani come Jay Z e Tupac Shakur».

Eminem?

«Eminem è un rapper con grandissime doti tecniche, ma i suoi dischi non li sento sulla mia pelle. L’hip hop viene dalla black music, dal blues, dal soul, dal funk. Eminem è un genio a sé stante».

Cosa vuol dire che a Londra è diventato sé stesso?

«Vuol dire che lì ognuno poteva andare per strada vestito come voleva. È una città con meno pregiudizi e se li hanno, li tengono per sé. A Napoli mi sentivo gli occhi addosso, controllato».

Uno degli aspetti che mi ha sempre stupito in Gomorra è che nessuno di quei ragazzi ipotizza di andarsene per affrancarsi dai clan. Il mondo finisce a Scampia e Secondigliano…

«È una realtà ghettizzata. L’80% delle persone che nasce lì non ha altri input. Il mondo nasce e muore nel vicolo di casa. Mia madre ha insegnato in una scuola serale dei Quartieri spagnoli, c’erano le mogli dei camorristi: “Sono stata a Piazza Plebiscito una volta”. Sconfinare era cambiare quartiere. Se uno parla italiano dicono: “Quello è italiano”».

Avevamo così bisogno d’importare il rap dall’America?

«Tutta la musica contemporanea viene dall’estero. Il rap dall’America, il rock dalla Gran Bretagna, il reggae dall’America latina. In Italia c’è la lirica».

E la melodia.

«Certo. La esportiamo, ma mi sembra senza influenzare gli altri generi. Non credo che Madonna prenda qualcosa da Emma Marrone».

Non vorrei farle ingiallire ulteriormente i capelli, ma si può dire che il rap è di sinistra e i neomelodici di destra?

«Molti rapper, me compreso, potrebbero essere considerati figli di una cultura di destra perché i testi hanno contenuti materialisti, improntati al consumismo. La mia musica non ha niente di politico, al massimo tratta trasversalmente argomenti sociali. Rap di sinistra e neomelodici di destra è uno schema superato».

Perché lo sono destra e sinistra o perché i generi sono trasversali?

«Innanzitutto perché chi fa musica non si preoccupa di schierarsi. In secondo luogo perché la politica non è credibile né per il pubblico né per chi canta. Per esempio, i miei testi sono materialisti, ma il mio pensiero non è di destra. Poi sì, c’è qualcuno d’insospettabile che simpatizza per Salvini perché lo ritiene una figura necessaria».

Perché questo è il suo momento professionalmente migliore?

«Perché prima ero considerato un artista locale e ora vengo accettato in tutta Italia».

Perché ha cominciato a cantare in italiano.

«Ci è voluto del tempo, prima non ero al massimo delle mie potenzialità».

Che bilancio fa del suo lavoro in televisione?

«Sono orgoglioso di poter esternare le mie idee. Partendo dai social e dal gossip, che non m’interessa, c’è lo spazio per esprimere dei concetti. Il mio obiettivo è essere considerato come una persona che ha un pensiero suo. Quando finirà credo che mi mancherà».

Fedez, J-Ax, Jack LaFuria, Gué Pequeno, Sfera Ebbasta, Luchè: i rapper sono stati adottati dalla televisione?

«Più dalla tv che dalla radio che non passa i singoli di tutti».

Perché siete molto immagine?

«Sì, il look è studiato, attento alle mode. L’urban è diventato dominante nel mondo, oggi i veri influencer sono i rapper».

Anche le catenine con le medagliette devozionali che porta al collo sono una moda?

«Domanda lecita. Io non sono religioso perché credo che la religione con le sue leggi sia un metodo per controllare le masse. Però ho fede. Sono legato al crocifisso come oggetto di fede perché sono cresciuto in una comunità cristiana. La mia famiglia è credente anche se non particolarmente praticante».

Il rap una volta era un genere di rottura.

«Adesso influenza anche il pop, ma può essere ancora di rottura, altrimenti finisce tutto».

Era puro sfogo di rabbia, adesso è mainstream.

«Ci siamo sentiti tutti degli ultimi. Senza soldi e in periferia, cantavamo la voglia di riscatto».

Lei aveva genitori professori.

«Avevo 15 anni quando si sono separati. Certo, non sono mai stato povero, ma ho vissuto il degrado della periferia, un contesto intriso di criminalità. Ho visto il Bronx e Harlem… Scampia e Secondigliano sono attraversate dalla ferocia. Ci sono urla che nessuno ascolta. L’eroina, le siringhe ovunque, i morti ammazzati… Un ragazzo vorrebbe avere una fidanzata, comprarsi qualcosa, invece vive la frustrazione del vuoto».

Perché parlate tanto di credibilità?

«La credibilità viene dalla vita e dalla strada. Il rap non è una recita, una tecnica. La credibilità è tutto anche in altri campi. Per un giornalista, per un politico».

Tra i politici chi sente più vicino alla cultura della strada?

«Nessuno. Ma forse non dovrebbero neanche esserlo».

Vicino ai problemi reali della gente.

«Si parla molto di migranti, ma non è questo il primo problema dell’Italia. Che sono l’ignoranza e un sistema scolastico arretrato. Gran parte della popolazione è disinteressata a tutto ciò che non sia Belen o una partita di calcio. Non vedo qualcuno vicino ai veri problemi italiani».

Cosa significa come canta in Potere: «Tutti amano Saviano ma poi si annoiano quando raccontiamo come viviamo»?

«Che quando si tratta di film e di romanzi sono tutti compresi e desiderosi d’impossessarsi dello slang. Ora è cool usare le espressioni di Gomorra. Ma se faccio un pezzo che racconta le cose vere non ha lo stesso riscontro della finzione».

Chiudiamo con alcuni profili di napoletani o persone che c’entrano con Napoli. Luigi Di Maio.

«Non è male, ma mi arriva un po’ debole, poco incisivo».

Roberto Saviano.

«Furbo, ma anche necessario».

Marco D’Amore.

«Un talento che sarà ricordato come eccellenza napoletana da qui a vent’anni».

Maurizio Sarri.

«Il calcio è roba del popolo. Scegliere la Juventus è stato uno schiaffo a chi lo ha amato tanto».

 

La Verità, 23 giugno 2019

Gruber, Fazio, Monti: il livore ha fatto autogol?

Gli antagonisti. Gli ossessionati. Gli avversari. Quelli che si sono più esposti contro Matteo Salvini. È un intero mondo a uscire sconfitto dalle elezioni di domenica. Oltre a partiti e schieramenti, persone precise. Ma anche un sistema di pensiero. Una mentalità. L’élite culturale.

Roberto Saviano, il capofila dell’opposizione. Opposizione culturale e antropologica. Opposizione insultante, anche. Al punto che, prima o poi, arriverà a sentenza nelle aule giudiziarie. Intanto, quella elettorale è arrivata dalle urne. La Lega primo partito a Riace e Lampedusa, roccaforti del savianismo sventolato dai testimonial doc Domenico Lucano e Pietro Bartolo, è una lapide sull’accoglienza indiscriminata. Ideologo in disarmo.

Fabio Fazio. Braccio armato, esecutore, assistente dell’ideologo, non a caso un habitué degli studi di via Mecenate. La lista degli ospiti parla da sola: volontari delle Ong, militanti dell’accoglienza h24, Mimmo Lucano, Gino Strada, Nicola Zingaretti, senza dimenticare il ruolo di Carlo Cottarelli. La trattativa per la riduzione dello stipendio e il trasloco a Rai 2 era iniziata prima del voto, ma è trapelata a spoglio elettorale terminato. Con emblematico tempismo. Dottor Watson di Saviano.

Lilli Gruber, condensato di stizza nel chiodo da giustiziera. Ha trasformato la sua postazione serale nella riserva dell’ossessione antisalviniana. Indicato il bersaglio, ci pensavano i cortesi ospiti a eseguire garbatamente la sentenza. Ogni puntata un’esecuzione, in assenza della vittima. Un incontro di wrestling con il fantasma. Che, quando si è palesato, ha reso epifanica la faziosità della signora. Centrifuga di livore.

Mario Monti. L’ex premier ed ex commissario europeo è stato richiamato in servizio dopo la pensione come certi poliziotti quando c’è da fare il lavoro sporco che i novellini non riescono a svolgere. Ha rimesso la divisa di Bruxelles ed è tornato in campo a menare fendenti sui sovranisti, ignoranti di economia e mercati. Magari carezzando la riedizione del governo tecnico. Ospite fisso di Corrado Formigli e saltuario di Gruber e Giovanni Floris, che ha una liason con Elsa Fornero. Sacerdote dei rigoristi, guru dell’austerity protetto dall’Agcom. Vanesio datato.

Salone del libro. Tempio del narcisismo e dell’autoreferenzialità. Sinergia di fondamentalisti, scrittori e politici volenterosi, da Christian Raimo a Nicola Lagioia a Chiara Appendino. Siamo informati e colti, impegnati e letterati. Chi non è con noi resta fuori. In nome della democrazia, ovviamente. L’inclusione vale solo per le minoranze acquiescenti. L’esclusione della casa editrice Altaforte vicina a Casapuond resterà una macchia nella storia del tempio. Intolleranti chi?

Gad Lerner. Estensore di liste di proscrizione. Denunciatore seriale di presunte censure. Cacciatore di fantasmi fascisti. Mediatore delle «classi subalterne». È andato chez Fazio a lamentare la poca libertà nella televisione italiana causa oppressione del governo gialloblu. In compenso, lunedì prossimo su Rai 3 comincia L’Approdo, il suo nuovo programma ispirato a una storica, ma non faziosa, trasmissione degli anni Sessanta. Rintronato.

Federico Fubini, portavoce degli apparati della Commissione europea. Per lui il ministro dell’Economia Giovanni Tria è sempre sull’orlo delle dimissioni perché ogni dichiarazione di Salvini viola un parametro o infrange un patto. Che è molto più di un dogma. Quanto alla notizia dei 700 bambini greci morti a causa dell’austerity imposta dalla Troika, quella si può ignorare anche se si fa parte del Gruppo di alto livello nominato dalla Ue per la lotta contro le fake news. Furbino.

Concita De Gregorio, volto di Repubblica in ascesa nella scala degli opinionisti da talk. Avvolta in una nuvola di degnazione, dispensa le sue conoscenze alla massa. Ma sempre mantenendo una certa distanza. Nel pieno del polverone per il caso Altaforte al Salone del libro ha proposto la creazione di un codice etico per vagliare il pedigree delle case editrici. Sempre in nome della correttezza democratica. Ridateci Daria Bignardi.

Fabrizio Salini, amministratore delegato Rai a due velocità. Prontissimo a intervenire al primo lamento di Fazio per la sostituzione di due puntate di Che fuori tempo che fa, il tavolo con Max Pezzali e il Mago Forest, con altrettanti speciali di Bruno Vespa, ha alzato la voce contro la direttrice di Rai 1 Teresa De Santis. Assai meno vigile sull’assenza di programmi nei giorni immediatamente precedenti il voto, ha lasciato campo libero a Enrico Mentana. Urge tagliando.

Agcom, Autorità garante per le comunicazioni presieduta da Angelo Marcello Cardani, già capo di gabinetto di Monti. Prima ha diffidato il Tg2 per un servizio critico nei confronti dell’ex premier bocconiano sulle sue previsioni nefaste in caso di vittoria dei sovranisti. Poi ha pensato bene di redigere un regolamento che persegua chi critica donne, migranti, gay e transessuali: minoranze più che intoccabili. Tribunale del politicamente corretto.

La Verità, 29 maggio 2019

Gomorra, Saviano e quell’ambiguità dei boss

Sì, un pizzico del magnetismo di Ciro Di Marzio manca, nella quarta stagione di Gomorra. Manca il suo carisma, nel bene e nel male epicentro della saga, sopravvissuto immortale alle fini traumatiche, ma più metabolizzabili, di don Pietro Savastano, Donna Imma e Salvatore Conte. Difficile farne a meno perché la trama un filo si svuota, pur rimanendo un gran bel prodotto, forte e teso quanto basta, forse di più negli episodi 5 e 6, proprio quelli con la regia di Marco D’Amore che, senza perdere di vista il gangster movie, ha trasferito dietro la cinepresa i suoi riferimenti teatrali (Shakespeare, la tragedia greca, il tradimento di Giuda). Gli altri episodi sono diretti, i primi quattro da Francesca Comencini, anche supervisore artistico, altri due a testa da Enrico Rosati e Ciro Visco, e gli ultimi due da Claudio Cupellini (venerdì, ore 21.15, Sky Atlantic e Sky Cinema Uno, produzione Cattleya).

La seconda novità di questa stagione è lo scenario geoeconomico in cui agiscono i clan criminali. Se, nella precedente, le cosche avevano conquistato il centro storico, ora Napoli diventa soprattutto la base per traffici con ramificazioni internazionali. Senza il suo compare, Gennaro Savastano (Salvatore Esposito) si spinge fino alla City londinese per consolidare il progetto di un grande aeroporto in Campania. A presidiare Secondigliano rimane Patrizia (Cristiana Dell’Anna) che, superato l’apprendistato, ora è un boss emergente che deve affrontare parecchie difficoltà con il suo braccio destro, le famiglie alleate di Sangue blu e dei Capaccio, e il nuovo clan dei Levante, il cui potere si estende dal racket della coca a quello dei rifiuti della Terra dei fuochi. Senza disdegnare gli elementi psicologici e privati – la storia d’amore di Patrizia con Mickey Levante e l’equilibrio di Genny con la moglie Azzurra – soprattutto nei primi, più lenti, episodi, la riflessione si concentra sul potere e i metodi per esercitarlo. Genny e Patrizia comandano con mano ferma, ma dolce: lui vuole festeggiare il compleanno del figlioletto invitando i compagni d’asilo e l’intero quartiere, lei vuole recuperare il rapporto con il fratello, umile cameriere. Sono boss giusti, la cui spietatezza affiora, inevitabile, solo con chi li ostacola. Una lezione nella quale sembra intravedersi l’ispirazione di Roberto Saviano. Sono anche boss capaci di un’ambiguità ad altissima definizione: «In tanti anni che lavoro, una cosa così non l’avevo mai sentita», dice Alberto (Andrea Renzi) rivolto a Gennaro riguardo ai suoi metodi. E Gennaro risponde: «È pecché nui simm ’o cambiamento, Albe’». Proprio così. E ogni riferimento è puramente casuale.

 

La Verità, 30 marzo 2019

Il doppio FF e la strategia della provocazione

Ci mancava anche Emmanuel Macron. No, non ce lo potevamo risparmiare. Dopo Enrico Letta, ospite il 27 gennaio scorso di Che tempo che fa e, a quanto sembra, mediatore tra l’Eliseo e Fabio Fazio, dopo Roberto Saviano il 10, Matteo Renzi il 17, di nuovo Saviano e Andrea Camilleri, nell’insolito ruolo di opinionista antigovernativo, il 24 (per tacere dei vari Riccardo Gatti della Ong Open Arms e Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, sempre intervallati dalle lezioni di economia di Carlo Cottarelli), dopo tutti questi ospiti, solo per stare all’ultimo mese, il capo dello Stato francese, fumo nelle pupille dei nostri governanti oltre che di buona parte degli italiani, rappresenta a pieno titolo il vertice della strategia della provocazione di FF. Una strategia pianificata e perseguita lucidamente. Che consiste in questo: spingersi fino al limite estremo dell’opposizione esplicita, frontale, senza se e senza ma. Il supermegacontratto a 2,2 milioni di euro l’anno (più altri 10,6 per la Officina Srl, la società che produce il programma, sua al 50%) blinda il conduttore di Rai 1. Dopo il piccolo segnale di cedimento di qualche settimana fa («sto pensando di espatriare»), nell’ultima puntata FF ha garantito che per altri due anni non si muoverà dalla prima serata della rete ammiraglia. Spontaneamente, s’intende. Il risultato della strategia è binario: o paladino dell’opposizione al governo pentaleghista o martire dello stesso governo: censore, illiberale, antidemocratico. Una strategia da lucido scacchista. L’intervista a Macron, densa ma paludata trattandosi di un dialogo con un capo di Stato, è stata obiettivamente un colpo giornalistico realizzato all’insaputa della direzione di Rai 1. Siccome sarà difficile salire ancora di livello, presumibilmente dobbiamo prepararci ad altri Gino Strada, Michela Murgia, Domenico Lucano, Nicola Zingaretti…

Del resto si sa, come testimoniano il nome e cognome del conduttore più pagato della Rai, Fabio Fazio sono due. Basta cambiare la consonante al centro, dalla morbida b alla tagliente zeta, e il dottor Jekyll vira in Mr Hide. Cioè, come abbiamo avuto modo di constatare negli ultimi tempi, l’anima arboriana e goliardica che intrattiene sul filo dell’ironia e del nonsense con ospiti come Nino Frassica, Orietta Berti e Gigi Marzullo, ha lasciato campo libero all’anima savianesca, stizzosetta e militante che infarcisce le serate di intellò schierati, in rotta di collisione con la maggioranza uscita dalle elezioni di un anno fa.

Ai piani alti di Viale Mazzini abbozzano, per ora.

 

La Verità, 4 marzo 2019

«La maternità può essere un atto di ribellione»

Una storia di ossimori. Di opposti che si toccano. Di antinomie che si fondono. Essendo cresciuto con il melodramma, non poteva che essere così. Ora che è adulto dice che dalla disperazione può scaturire l’evento più lieto. Poi c’è la speranza, che non è una virtù ma un vizio. Non a caso per Edoardo De Angelis, regista quarantenne di Napoli (Perez, Indivisibili), svezzato tra Portici e Caserta da nonna Filomena, «la semplicità è la sintesi di elementi complessi». Nel Vizio della speranza (Mondadori), uscito in contemporanea con il film che ha lo stesso titolo, si autodefinisce «un ruspante sofisticato», altro ossimoro partorito dai «sofisticati intellettuali» e i «polli ruspanti della provincia», trovati alla selezione del Centro sperimentale di cinematografia di Roma dove, inopinatamente, fu preso. Uno dei suoi esaminatori era il sussiegoso Umberto Contarello, sceneggiatore di questo film tosto, ambientato a Castel Volturno, enclave nigeriana a nord di Napoli. La morte di Miriam Makeba, avvenuta dieci anni fa durante un concerto proprio lì, è un cavallo di battaglia di Roberto Saviano. Ma nella lunga lista di ringraziamenti in fondo al libro il suo nome non compare: «Ho ringraziato le persone che mi hanno aiutato in modo diretto, il riferimento a Saviano è più mediato».

Che cosa le ha fatto fare un film così tosto?

«Ero alla ricerca di una storia semplice e così sono andato sul Volturno alla scoperta di luoghi e pesrone. Quando, risalendo il fiume, alcuni pesci hanno cominciato a saltare nella barca ho pensato che la storia doveva avere una magia ma essere anche vera. Cosa c’è di più reale e magico ad un tempo di una nascita?».

Ne è venuta fuori una meditazione sulla maternità?

«Se non la intendiamo come fatto meramente ginecologico, ma come un sentimento che può essere anche di ribellione, allora sì».

Riflette sulla maternità mentre in Italia non nascono più bambini?

«È un dato obiettivo».

Un film in controtendenza?

«Mai posto il problema delle tendenze. Provo a fare film che non passino di moda, perciò non lo sono mai. Ho un’attitudine demodé».

Perché le donne hanno tutte nomi mariani? Maria, Fatimah, Virgin…

«Anche zi’ Mari’… Maria è il nome femminile per antonomasia, può racchiudere tutte le identità di donna».

Sono mariani anche altri nomi.

«Tutti i personaggi hanno in sé qualcosa di Maria: in una versione innocente come Virgin, distorta come zi’ Mari’, esotica come Fatimah. Poi tra gli africani ora c’è l’abitudine di dare ai figli il nome di un sentimento: Hope, Destiny, Happiness».

Sono storie reali?

«Reali, ma trasfigurate a fini creativi».

In che modo la speranza, virtù teologale, può essere un vizio?

«È un vizio quando fa demandare ad altri la realizzazione di sé. O quando la preghiera diventa uno sgravio di responsabilità. È una virtù quando è la pietra su cui poggiare la nostra forza per ribaltare anche le circostanze avverse».

Il vizio della speranza racconta la ribellione alla sterilità di Maria. Viene in mente Abramo: parlando di lui San Paolo usa l’espressione «sperare contro ogni speranza».

«È un film che ha diversi riferimenti biblici. Anche se poi mi sono concentrato sulla vicenda umana dei protagonisti».

L’ostinazione di Maria a portare a termine la gravidanza mentre tutto suggerirebbe l’interruzione è anche un giudizio sul ricorso facile all’aborto?

«Non mi sono voluto addentrare in questioni troppo legate alla cronaca o a uno specifico momento storico. Tuttavia penso che quando un essere umano riceve un dono, questo diventi anche un obbligo morale a migliorare sé stessi».

Nel film ci sono molte donne che ne sfruttano altre: la pappona, la kapò, anche la madre della protagonista. È consapevole che questa immagine contrasta con quella in voga, nella quale le donne sono vittime che hanno ragione a prescindere?

«Anche qui sono disinteressato a un pensiero di moda. Credo non esista una vittima a prescindere o una ragione a prescindere. Questo però rafforza in me un sentimento di grande solidarietà e protezione nei confronti delle vere vittime».

Che fine fanno i neonati dati alla luce dalle donne che affittano l’utero?

«Di alcuni sappiamo che trovano famiglie che li amano. Di altri purtroppo non sappiamo niente: non vengono censiti, non esistono ufficialmente. Sono una moltitudine silenziosa che lascia un vuoto che si sente molto forte».

Bambini che spariscono per il traffico d’organi?

«È una realtà che esiste e non riguarda solo questo tempo e questo luogo».

Ha visto anche donne che partoriscono per altri e vivono in condizioni di semi schiavitù?

«Ci sono donne che subiscono questa sorte. È una forma di schiavitù soprattutto mentale, perché viene resa ermetica dai riti vudù ai quali si sottopongono».

Come giudica la pratica della gestazione per altri?

«Già da bambino sentivo racconti del genere, ma non la percepivo come disumana. Mi sembrava una sorta di servizio sociale che avveniva spesso attraverso la Chiesa. Dava un futuro a bambini di cui una madre non poteva prendersi cura, attraverso il desiderio di altre madri e padri che non potevano averne».

Questa è l’adozione di bambini già al mondo o che stanno nascendo. La gestazione per altri avviene su commissione, dietro pagamento, spesso di coppie omosessuali o di classi medio alte.

«Nel film non si racconta la gestazione su commissione, ma di donne che restano gravide e decidono di vendere i bambini. Siamo lontani da un’organizzazione che controlla tutto. Quelle donne sfruttano il proprio corpo non avendo altre ricchezze. Racconto una condizione estrema nella quale non c’è strategia, ma reiteramento della disperazione».

Alla quale contribuisce il distacco dal figlio concepito e tenuto in grembo.

«Rendendola irrisolvibile. Il film comincia proprio con la storia di una donna che scompare perché vuole tenersi il bambino».

L’unico uomo fa da ostetrico al parto di Maria in una situazione che cita la Natività: e così?

«Non mi nascondo, quella è la mia versione della Natività, la mia idea del Natale».

La vita vince anche sulla disperazione?

«Oltre a essere un dono è anche un ingaggio».

In che senso?

«Ricevere un dono chiede di rispondere all’obbligo morale che ne deriva. Se la vita non cambia il dono si perde».

Siamo a una visione cristiana…

«È possibile, ma non ho voluto raccontare un dramma con una tesi prestabilita. Più che una dimostrazione la mia è una ricerca. Se approda a una visione cristiana può andare bene. È di sofferenza anche il contesto in cui nasce Gesù: mi sono interrogato sul motivo dell’eternità delle parabole del vangelo».

E come si è risposto?

«Credo siano eterne perché, in realtà, prima ancora di parlare di Cristo, parlano dell’uomo. M’interessa la realtà, anche la più concreta, che nasconde qualcosa di magico. Cristo è una persona concreta che nasconde in sé una forma di divinità».

A questo punto dobbiamo parlare di conversione o almeno di avvicinamento al cristianesimo?

«Sono fortemente legato alla riflessione sulla fede. In questi ultimi anni si è intensificata sia per motivi intimi personali sia perché credo che la religione sia la questione più importante per l’uomo contemporaneo. Così importante da poterlo salvare o distruggere definitivamente».

Il delta del Volturno sembra il luogo della fecondità.

«È ciò che volevo rendere. Approfondire il contesto di un posto che parlasse di ogni luogo del mondo».

È noto come avamposto africano in Italia, dove morì Miriam Makeba.

«Venne a cantare unendosi agli africani che avevano protestato contro la camorra dopo l’uccisione di sei migranti del Ghana. Nel film una donna canta Malaika in omaggio a Mamma Afrika».

Vista da Castel Volturno dov’è molto radicata pensa che si combatta abbastanza la mafia nigeriana?

«È una domanda a cui non so rispondere. Leggendo reportage e vedendo la situazione sulla Domiziana mi sembra che sia egemone sul territorio. Quest’anno sono stati scarcerati per fine pena 2500 affiliati ai clan dei Casalesi. Quello che succederà è tutto da vedere».

O i Casalesi o la mafia nigeriana. Come mai lo Stato non riesce a intervenire se è tutto alla luce del sole?

«Non mi esprimo perché non è argomento di mia competenza. Mi limito a raccogliere le storie e a raccontarle. Non per sottrarmi a un impegno civile pubblico, ma perché penso di essere più utile alla causa facendo il mio mestiere».

Che consiste, come scrive, nel chiedere agli altri di fare come vuole lei le cose belle che non sa fare?

«È così. Il set per me è un momento di grande gioia».

Fare cinema è costruire «un mondo più vero della realtà». Nel caso del Vizio della speranza cos’è?

«Il seme che diventa atto concreto».

«Creare un mondo magari devastato però un po’ più ordinato. Dove si capisse quello che c’era da capire». Il cinema ha un intento pedagogico?

«Pedagogico non so; sicuramente per me è un’arte di disvelamento che può contenere altri punti interrogativi. Però questo non basta a frustrare una ricerca che procede attraverso soddisfazioni e delusioni».

Il film ha vinto il Premio del pubblico alla Festa di Roma: sperava in una risposta diversa al botteghino?

«Incassi maggiori ci avrebbero fatto piacere, ma non sono la nostra unica priorità. Di un film così è importante che lo spettatore conservi un ricordo profondo, piuttosto che sia visto da tanti che lo dimenticano subito».

Suo figlio di un anno e mezzo c’entra con la sua evoluzione?

«Già il desiderarlo ha innescato un processo di cambiamento, poi il suo arrivo lo ha radicalizzato».

Ci svela «la scoperta commovente» con cui chiude il libro?

«È la scoperta accogliente della normalità. Una cosa che mi piace e mi basta: il rito, il divano, casa».

 

La Verità, 2 dicembre 2018

«I grandi media non capiscono il governo»

La generosità non è la prima dote che viene in mente quando si pensa a un grande giornalista. Invece, Enrico Mentana è uno generoso. Non solo perché non si risparmia nelle lunghe maratone televisive, ma perché ora si è messo in testa di restituire «almeno in parte la fortuna che ho avuto nel fare questo mestiere», creando un giornale online di giovani e per giovani (ma non solo). Poi è generoso anche nelle interviste.

Essere multitasking va bene, ma oltre al tg, le maratone, Bersaglio mobile, le ospitate, Facebook e la radio, ti mancava anche un giornale online?

«Personalmente non mi manca, ma penso che il giornale online diventerà come il film che si vede in casa. Fin quando esisteranno giornali, il futuro sarà questo».

A che punto è la selezione?

«Finora sono arrivati circa 8.000 profili».

Dirai stop a?

«10.000. L’idea è del 7 luglio, la pubblicazione dell’indirizzo mail del 17, ai primi di agosto chiudo. Una quindicina di giorni sono sufficienti per inviare un curriculum».

Ne resteranno?

«Vorrei fare 20 praticanti. Stiamo parlando di un prodotto no profit. Se dovesse produrre utili verrebbero reinvestiti nell’assunzione di nuovi giovani».

La raccolta pubblicitaria la farà la società di Cairo?

«Questa è l’unica parte che risponderà alla logica del profitto. Se sarà Cairo sarò contento perché ha le strutture per farlo bene. Però si sono fatti avanti anche altri».

Nome della testata?

«Quando l’avrò lo scriverò su Facebook, dopo averlo depositato».

Tempi di lancio?

«Al momento opportuno i tecnici detteranno tempi e modi. Io sono solo il give back della situazione, colui che vuole restituire almeno in parte la fortuna che ha avuto nel fare questo mestiere».

Di sicuro c’è solo che si fa?

«Cosa lo potrebbe impedire? Nell’era del mobile, questa dovrebbe essere la prima testata digitale rivolta ai giovani. Finora ci si è impegnati in varie direzioni per far assumere i figli, propri».

Tempo d’impegno personale?

«Non potrò essere il direttore, a meno che Cairo non me lo conceda. Ne sarò l’editore, ma non mi posso certo sdoppiare».

Qualcuno ipotizza che vuoi fare il direttore editoriale di La7.

«Che vantaggio ne trarrei? Per certi colleghi la strada rettilinea non è mai quella giusta».

Cairo come la sta prendendo?

«Presidia le sue Colonne d’Ercole e il rapporto con i dipendenti. Io stesso lo sono a tempo indeterminato».

L’ha precisato anche lui.

«So bene che non posso fare come mi pare. C’incontreremo per definire le modalità di nascita e sviluppo di questa creatura, per evitare che finisca per ledere i legittimi interessi dell’editore».

Farai concorrenza al Corriere.it e le energie spese per questo progetto potevano concentrarsi nello sviluppo di La7.it.

«Non sono convinto che lo spin off sul Web di un prodotto giornalistico che sta su altri media possa alzare l’asticella all’infinito. Per i contenuti forti il sito di un giornale deve aspettare l’uscita in edicola, una testata nativa digitale no. Se improvvisamente l’editore di Repubblica decidesse di assumere 30 ragazzi per il sito potrei illudermi di aver sollecitato un mercato che invece mi sembra statico e privo d’iniziative».

Come valuti il comportamento dei grandi media verso il nuovo governo?

 

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Le mito-biografie dei boss di Saviano

Insomma, la realtà è sempre più forte della narrazione. E anche della rappresentazione. Sono andati in onda l’altra sera i primi due episodi di Kings of crime, sottotitolo Roberto Saviano racconta le vite dei boss (share dell’1.54% su Nove, del 3.34 su tutti i canali Discovery in simulcast). Nella prima parte lo scrittore ha tenuto una lezione a un gruppo di studenti su Paolo Di Lauro, capoclan che ha ispirato il Pietro Savastano di Gomorra – La serie. Nella seconda ha intervistato in una località segreta e a volto oscurato il collaboratore di giustizia Maurizio Prestieri, a lungo suo braccio destro. Aspettiamo di vedere il terzo episodio su El Chapo perché, di primo acchito, la tentazione di dire che Saviano tende a camorrizzare il pianeta, suffragata anche dalla citazione di Curzio Malaparte posta a esergo («Che cosa vi aspettate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli») è forte.

Dunque, Saviano in giacca e cravatta ci racconta il boss Di Lauro. È materia che possiede alla grande essendo il contenuto del suo bestseller, del film che ne fu tratto e della serie di Sky, esportata in tutto il mondo. Ora ce la ripropone in forma biografica e qui, forse, si cela il pericolo. Il racconto è sostenuto da immagini d’archivio, ritagli di giornali, testimonianze. Chi ha visto la serie vi ritrova la strage del bar Fulmine, l’urina fatta bere dal boss al luogotenente come atto di sottomissione, la ragazza del pusher torturata e bruciata, l’inafferrabilità del capoclan. Solo che, mentre nella rappresentazione della fiction il male è autoevidente, nella narrazione delle gesta del boss, della sua imprendibilità, del rispetto di cui gode e del suo potere invisibile, il rischio della mitizzazione è in agguato. Paradossalmente, per sottolineare la pericolosità del sistema e dei suoi capi, Saviano ne accentua inevitabilmente il potere di fascinazione, senza che le immagini di crudeltà e spietatezza ne rendano la feroce perversione. Più asciutta e diretta risulta la testimonianza dell’intervista con Maurizio Prestieri, il suo tormento, il riconoscimento dei danni procurati, il non dirsi pentito, perché il pentimento è un fatto spirituale. Qui il rischio di mitizzazione non c’è perché c’è l’ammissione di una vita vissuta dentro un incubo: «Io sono stato a New York, ho girato il mondo. Come un malato terminale. Perché un camorrista sa la vita è breve, che alla fine ci sarà il conto, più o meno salato. O la morte o il carcere. Però la morte… Quando vivi questa vita la morte appartiene sempre agli altri, mai a te». Anche Saviano si ritrae e ascolta.

 

La Verità, 6 ottobre 2017

Piperno: «La letteratura non c’entra con le idee»

Fuori diluvia e io e Alessandro Piperno stiamo parlando da oltre un’ora in un bar semibuio di Mantova quando, abbassando ancora il tono della voce, lui confida: «Adesso vorrei essere una zanzara per ascoltare cosa si dicono quelle due ragazze al tavolo di fronte. Oppure, senza bisogno di metamorfosi, sarei curioso di sapere chi è il nostro barista, se è contento di esserlo, se voleva fare un altro lavoro, che vita interiore ha, che lutti ha sopportato. Non trovi che sia interessante? Anche al ristorante, di solito, sono sempre più attratto da quello che sta accadendo agli altri tavoli piuttosto che al mio. Questo m’incuriosisce e c’entra con il mio lavoro: le storie, le persone».

Incontro Piperno al Festival della letteratura, prima della sua conversazione su Philip Roth, che considera il più grande scrittore vivente. Piperno insegna Letteratura francese all’Università di Tor Vergata. Nel 2012 ha vinto il Premio Strega con Inseparabili – Il fuoco amico dei ricordi. Ha scalato le classifiche vendendo centinaia di migliaia di copie. Ha appena pubblicato Il manifesto del libero lettore (Mondadori), un saggio che rivela enorme padronanza della letteratura classica, familiarità con le creature che la popolano, ironia sui tic dell’editoria. Eppure non se la tira. Anzi, appare sempre un po’ spaesato e timoroso di qualche pericolo incombente. Come quello che avvertono molti dei suoi personaggi.

È qualcosa che ha a che fare con la tua cultura ebraica?

«Non so. Sicuramente ha a che fare con alcuni artisti ebrei con i quali mi sento di condividere il talento artistico, oltre ad alcune idiosincrasie. Il mondo mi fa paura. Sto per andare a parlare di una cosa che amo davanti ad alcune centinaia di persone che pagano il biglietto e vorrei avere la spavalderia che vedo in alcuni miei colleghi. Invece ho soltanto timore».

Philip Roth. Per Piperno «il più grande scrittore vivente» (AP Photo)

Philip Roth. Per Piperno «il più grande scrittore vivente» (AP Photo)

Potrebbe essere solo timidezza o la preferenza a stare dietro le quinte?

«Mi sento sempre sotto il giogo di un’intimidazione. Per strada, se una persona mi viene incontro, la prima cosa che penso non è: è un lettore che mi ha riconosciuto o qualcuno che mi chiede un’informazione stradale, ma è qualcuno che viene per farmi del male. Hai presente quei cani che sono stati picchiati e quando provi ad accarezzarli si ritraggono d’istinto? La letteratura è il solo ambito in cui sono libero di esprimermi in modo spregiudicato senza temere di essere spavaldo».

Sei figlio di madre cattolica e padre ebreo. A volte la differenza si coglie nei dettagli: quando entra in chiesa il cattolico si toglie il cappello mentre l’ebreo lo indossa. Tu preferisci indossarlo, hai scelto la ritualità sulla libertà?

«Quel mondo lì mi ha sempre interessato di più. Però sono impastato della cultura cattolica di mia madre, dei suoi sensi di colpa, delle sue intimidazioni morali. Ho anche frequentato una scuola cattolica. Se c’è qualcosa di malsano è proprio l’impasto delle due cose che forse era meglio tenere lontane. Il milieu in cui si svolgono le mie storie somiglia al mondo di mio padre, i demoni che le dominano invece vengono dal mondo di mia madre».

Com’è nata l’idea di questo Manifesto del libero lettore?

«Qualche anno fa, parlando di classici con Antonio Troiano e Piero Ratto del Corriere della Sera, saltarono fuori le fulminanti sintesi di grandi libri di Giovanni Raboni. Pur senza essere Raboni penso di poterlo fare, osservai, anche se non con la sua concisione estrema. Mi piace spiegare qualcosa, non solo suggestionare. L’idea è che è più interessante vedere la narrativa dal punto di vista di chi la fa. Credo si capisca di più di calcio ascoltando Beppe Bergomi che Fabio Caressa».

Impossibile fare patti con i gusti dei lettori?

«Lo è per me e non mi ha mai importato. È impossibile negare di rivolgersi a una certa platea. Ma se questo ti spinge a essere retorico, compiacente, caramelloso o consolatorio il gioco non vale la candela. Soddisfatti e rimborsati non è il mio modo di lavorare».

C’è una predisposizione per meglio assaporare le delizie della narrativa?

«Credo che, come la poesia, la narrativa sia innanzitutto un’esperienza sensuale. Perciò sono convinto che qualsiasi forma di generalizzazione sia un modo infantile di viverla. Tutto ciò che intellettualizza un’esperienza di fruizione artistica è infantile. Mi irrito quando m’interrogano sugli elementi sociologici di un libro. Credo che la letteratura non c’entri niente con le idee e i grandi temi. La narrativa è fatta della bizzarria di certi personaggi, del profilo di un protagonista, dei suoi tic, di un cognome strano… Quando sento dire “questo libro è l’emblema della crisi americana” mi cascano le braccia. Ho voluto esplicitare questo sentimento».

Nel tuo «paese della narrativa» si avverte una certa allergia per critici, uffici stampa, agenti…

«È un’insofferenza che non riguarda solo l’industria editoriale con la quale ho rapporti sporadici. Frequento poco i colleghi e difficilmente i giornali scrivono su di me. Ho sempre avuto questa idiosincrasia verso ciò che è istituzionale e che nel corso degli anni ho visto spesso naufragare. Al liceo non sopportavo i programmi tradizionali: I promessi sposi e Dante insegnati in quel modo gridano vendetta. All’università m’irritavano i colleghi che sentenziavano su certe metodologie critiche come fossero dogmi religiosi. Nell’editoria mal sopporto gli scrittori che pontificano. Sono un tipo mite e nonviolento, però difendo il mio modo di vedere le cose con una certa forza e, spero, arguzia».

Otto scrittori di cui non sai fare a meno: Marcel Proust, Gustave Flaubert, Stendhal, Lev Tolstoj, Vladimir Nabokov, Italo Svevo, Charles Dickens, Jane Austen. Se dovessi sceglierne uno solo?

«Con la testa sceglierei Tolstoj, con il cuore Proust».

Proponi 35 ritratti di personaggi, da don Abbondio a Philip Marlowe, da Mickey Sabbath a Raskol’nikov, con i quali mostri di avere grande familiarità.

«M’indispettisce il fatto che don Abbondio sia considerato l’emblema della vigliaccheria, Raskol’nikov del risentimento giovanile e via così. Credo che queste figure vadano prese con lo stesso piglio con cui si affrontano le persone reali. Perciò ne parlo come fossero mio suocero o mio fratello».

La letteratura può essere una realtà virtuale, autosufficiente, un rifugio, un mondo parallelo?

«Ecco cosa rispose Roth nel 1984 a una domanda simile di un giornalista del Nouvel Observateur: “Anche l’arte è vita, isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita”, ma soprattutto la cosa più bella, “lingua è vita”. Per sua stessa essenza la realtà è un dato soggettivo. Per me un personaggio letterario può essere più reale del mio panettiere».

I personaggi letterari puoi metterli su uno scaffale quando chiudi un libro, le persone le hai davanti. Nel primo caso sei tu che decidi tutto, nel secondo no.

«Tutti viviamo con dei fantasmi che gli altri possono considerare finti. Come le persone che non ci sono più o la persona amata che non hai mai incontrato. Questa è vita esattamente come quella di chi ha un rapporto coniugale normale e non è vero che lo puoi chiudere quando vuoi. C’è interazione tra ciò che avviene là dentro e ciò che avviene qua fuori. La letteratura è uno strumento per comprendere la vita e la vita lo è per comprendere la letteratura».

Segui qualche scrittore italiano in particolare?

«Un amico che stimo molto è Leonardo Colombati. Poi Walter Siti, Michele Mari, Sandro Veronesi. Con Leonardo ho rapporti stretti, con Walter li avevamo prima che andasse a vivere a Milano… Non credo che la narrativa se la passi così male».

Roberto Saviano?

«Mi ha molto interessato. Non per il suo impegno politico, ma per la forza dell’immaginario che possiede e che è notevole».

Quando scrivi?

«La mattina presto. Mi sveglio alle 5 e mezza, un caffè e mi metto a lavorare».

Non di notte?

«Di notte non connetto. Per alzarsi alle 5 bisogna andare a letto presto».

Proustianamente parlando.

«Sì, ma la similitudine si ferma all’orario di coricarsi».

Che rapporto hai con i social e il web.

«Zero. Ho giusto la mail».

Piperno: «Sono drogato di Game of thrones»

Piperno: «Sono drogato di Game of thrones»

E con la televisione?

«Sono videodipendente. Seguo anche il trash delle diete delle messicane che si sposano. Poi sono drogato di serie, dalle più sofisticate alle più cialtrone. Mad man, I Soprano, Good wife, adoro Game of thrones. Guardo i talk show, incazzandomi parecchio perché ho sempre la sensazione che tutti scelgano una posizione pretestuosa in base alla convenienza del momento».

Sorpresa: segui la politica.

«Sono uno da maratone e dibattiti su La7 o altrove. Fatico a identificarmi con un politico, direi che sto in un sistema valoriale ed elettorale vagamente progressivo e progressista. Però non è la politica la mia dimensione. Ritengo che Mickey Sabbath può dire cose più vere di Matteo Salvini».

Hai già in mente il prossimo libro?

«S’intitolerà Ipocrisia e lo sto già scrivendo. Sarà molto lungo e in prima persona. Farò i conti con una parte della mia vita che ho sempre tenuto a bada».

A una collega del Foglio hai confidato: «La mia è una vita di rimessa». C’è qualcosa che lenisce il tuo nichilismo?

«Quando la mia compagna legge le mie interviste non mi riconosce e dopo poche righe le abbandona perché c’è una discrepanza con la vita che facciamo. La luce viene dalla vita stessa: quella che conduco ha i suoi lati edonistici, il cibo, il sesso, la natura. Non percepisco l’accezione negativa del nichilismo. Anche se sono convinto che la vita non abbia un senso, cerco di viverla nel miglior modo possibile. E, a volte, la trovo gradevole».

La Verità, 10 settembre 2017