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The Deuce, verismo sulle origini del porno

Un viaggio all’origine del degrado. Un ritorno dove tutto è cominciato. La discesa agli inferi in presa diretta. Dire «New York, 1971» è fotografare un’epoca. Dire The Deuce, il soprannome della 42esima strada che porta a Times Square, significa zumare sui marciapiedi delle prostitute, dei papponi neri, delle dosi di coca, dei mafiosi italo-americani, dei bar delle scommesse, dei poliziotti corrotti, dell’Hiv che inizia a serpeggiare. Cose già viste, ma raccontate con dialoghi impeccabili, profili psicologici ad alta definizione e un realismo che non cede un millimetro né al glamour né al moralismo pruriginoso, di solito nemici in agguato di questo genere di storie. The Deuce – La via del porno, serie targata Hbo, creata da David Simon con George Pelecanos, già autori di The Wire, (il primo di otto episodi l’altro ieri su Sky Atlantic) sembra riuscire là dove hanno fallito Martin Scorsese e Mick Jagger con Vinyl: raccontare gli anni Settanta di New York. Lì, al centro c’era la nascita del rock, qui quella dell’industria pornografica.

A far scommettere sul successo di The Deuce c’è innanzitutto un cast eccellente, guidato da James Franco, anche produttore esecutivo e regista di due episodi, e Maggy Gyllenhaal. Franco interpreta due gemelli, uno che si sdoppia tra due bar nel tentativo (vano) di restare pulito e mantenere la moglie che si consola nei locali dei biliardi, l’altro che vive di scommesse e di fughe dai creditori, mafiosi, dei debiti inevasi. La prostituta di Gyllenhaal, che rifiuta la protezione del pappone e batte per mantenere il figlioletto senza cedere a sentimentalismi, è, se possibile, scritta e definita ancora meglio. A completare i pregi della serie ci sono i dialoghi scolpiti nello slang malavitoso, una sceneggiatura solida e un’estetica che ricorda il meglio della produzione dei Settanta-Ottanta, da Le strade di San Francisco a Hill Street notte e giorno. Alla fine, però, il personaggio in più è proprio la 42esima, quella strada teatro di vite disperate, di balordi che raschiano il barile, di randagi pieni di difetti, di motel al neon e lustrascarpe, resa con storie parallele (la più scontata è quella della studentessa spregiudicata) che s’intrecciano, alla ricerca di un po’ di consolazione. Lì, in quella strada e tra quei disperati, la prostituzione e la coca imperano. E quando arriva l’industria del porno sembra solo la scorciatoia per svoltare.

La Verità, 26 ottobre 2017

«Ho spiato Berlusconi per renderlo normale»

Non era facile immaginare che una serie televisiva su Tangentopoli filasse liscia senza scatenare contestazioni. In una trilogia che cita la Rivoluzione francese, il 1993 del titolo è l’anno del Terrore e, solo per rinfrescarci la memoria, è quello delle monetine tirate a Bettino Craxi fuori dall’hotel Raphael, della maxitangente Enimont, dei sucidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari, dei prodromi della discesa in campo di Silvio Berlusconi. Appena terminata su Sky Atlantic e Sky Cinema Uno, 1993 resterà a lungo disponibile on demand. All’estero finora è stata venduta in un centinaio di Paesi ma, rimanendo in Italia, ha il merito di affrontare senza schermi ideologici la cronaca, favorendone la trasformazione in storia. Il principale elemento di rottura si condensa nell’interpretazione di Silvio Berlusconi offerta da Paolo Pierobon, attore cinquantenne nativo di Castelfranco Veneto, diplomato alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano, pluripremiato per le sue prove teatrali (diretto da Eimuntas Nekrosius e, più volte, da Elio De Capitani e Luca Ronconi), noto al grande pubblico nei panni dell’obliquo Filippo De Silva di Squadra antimafia – Palermo oggi trasmessa da Canale 5. Un attore versatile che non disdegna il cinema, dove ha recitato, tra gli altri, per Marco Bellocchio (Vincere), Paolo Virzì (Il capitale umano) e Gennaro Nunziante (Quo vado?). Lo incontro nel chiostro del Piccolo Teatro di via Rovello a Milano, dov’è di casa.

Il suo Berlusconi «normale» è stata una delle sorprese di 1993. Come sono arrivati a lei?

«Mi ha contattato Lorenzo Mieli di Wildside, società produttrice della serie. Mi ha sempre sostenuto insieme con il regista Giuseppe Gagliardi e Ludovica Rampoldi, una degli autori. Poi sono cominciati i provini».

Aveva dei concorrenti?

«Penso di sì, ma mi sono stati celati. Ho fatto tre incontri prima di essere scelto».

Ci teneva?

«La primissima volta non ero convinto. “Che c’entro io?”, mi dicevo. Poi qualche amico ha insistito: “Guarda che puoi farlo bene”. Finché si è accesa la scintilla e sono andato ai provini successivi con lo spirito giusto. Era una figura molto esposta, sulla quale si sono sprecate parodie e imitazioni. Trovare una zona libera per renderlo come persona e non come personaggio mi ha stimolato».

Difficile immaginarla nel ruolo di Berlusconi vedendola nei panni di De Silva in Squadra antimafia – Palermo oggi.

«Interpretare qualcuno che al primo impatto sembra impossibile è sempre una sfida affascinante. Altrimenti il rischio della routine è dietro l’angolo».

Che cosa le hanno detto quando le hanno proposto il ruolo?

«Di fare piazza pulita di cliché e stereotipi. La maggior parte di noi conosce un Berlusconi performativo, nei panni del politico di successo, del presidente del Milan o dell’ospite di talk show. Ma chi può dire, se non i più stretti collaboratori, chi sia davvero? M’interessava spiare una battuta scambiata con Adriano Galliani all’orecchio più che un’intervista televisiva. Ho tentato di occupare quel campo libero. Più immaginazione che immedesimazione».

Ha studiato i precedenti cinematografici, soprattutto Il Caimano dove a interpretarlo è Elio De Capitani che l’ha diretta a teatro?

«Ci sono state curiose coincidenze. Quando Moretti scelse De Capitani per quella parte io ed Elio stavamo lavorando insieme. Gli dissi di non preoccuparsi perché, in fondo, un imprenditore che dirige aziende e un impresario teatrale che governa la sua compagnia non sono mondi così lontani. Ricordo che parlando di me in un’intervista, Elio usò l’espressione “vitalismo reaganiano”. Insomma, era la lezione di Giorgio Gaber: bisogna guardare al Berlusconi che è in ognuno di noi. Perciò, ci si va dentro senza paura. Il vitalismo reaganiano è la natura estroversa dell’attore. Che non esclude zone d’ombra che pure una persona come Berlusconi ha. Anche Berlusconi, in privato, è tutto e il contrario di tutto».

Pierobon nei panni di Berlusconi con Accorsi (Leonardo Notte)

Pierobon nei panni di Berlusconi con Accorsi (Leonardo Notte)

Un Berlusconi ipotetico, ma verosimile?

«Il tentativo era questo».

Come l’ha studiato?

«Lo strumento principale è stato Youtube. Un’inquadratura inconsapevole allo stadio poteva essere preziosa. Anche le intercettazioni telefoniche, dove la voce non è quella ufficiale, sono state una fonte. Quando ti confronti con una figura così, come certi personaggi scespiriani, devi fare i conti con la tua realtà quotidiana. Loro sono bigger than life e tu sei inevitabilmente più piccolo. Perciò l’attore deve stare sotto il personaggio, non andargli sopra».

Che ricordo ha di Tangentopoli?

«Ricordo l’impatto mediatico dei processi. I politici che balbettavano, la saliva di Arnaldo Forlani. Solo Craxi ha detto: “Di cosa stiamo parlando? È sempre andata così”. Poi la coerenza di Sergio Cusani».

Che cosa le suscita Berlusconi?

«La mia definizione di lui è puer aeternus».

Che cosa facevano i suoi genitori?

«Mia madre è sarta e ha la quinta elementare. Mio padre era il più giovane di nove fratelli, e gemello. Ha preso il diploma di perito chimico a Vicenza ed è entrato all’Eni. Da Castelfranco Veneto siamo andati a Pisticci, in Basilicata. Vivevamo nei villaggi per i dipendenti. Quando avevo sette anni arrivammo a San Donato, hinterland milanese».

Come le è venuto in mente di fare l’attore?

«Di punto in bianco. In casa i miei parlavano sempre dialetto veneto. Fuori non c’erano più i cieli e il sole di Matera. L’adolescenza era noiosa, tutti facevano scelte automatiche. Quando ti annoi eserciti l’immaginazione e io non volevo accodarmi, ero introverso. E, come tutti i timidi, sentivo il bisogno di esibirmi. Mi accorsi che leggevo volentieri le pagine con i dialoghi, più che certe lunghe descrizioni. Due persone che si parlano mi scaldavano».

Come si è formato?

«Ho fatto il liceo scientifico. Poi, per rinviare il servizio di leva, mi sono iscritto all’università e ho dato qualche esame. Nel frattempo frequentavo la Scuola Paolo Grassi, fondata da Giorgio Strehler e anche quella del Teatro Filodrammatici. Alla fine, tra l’una e l’altra, mi chiamarono militare. Feci obiezione di coscienza sperando di esser destinato alla biblioteca della Scuola. Invece mi spedirono sulle ambulanze del 118 a Como. Nel frattempo dovevo dare l’esame del terzo anno. I professori furono comprensivi».

Poi premi a raffica…

«Ce l’ho messa tutta. In casa non giravano molti soldi e fare una scelta così drastica rispetto ai miei mi ha responsabilizzato. Non avevo paracaduti. Sono stato fortunato. So di gente brava che sta a casa e parla con i muri. Gli intervalli tra un lavoro e l’altro si allungano… Si torna dai genitori, cose umilianti…».

Come si passa dal teatro al cinema alla televisione?

«Decidono la quotidianità, le coincidenze. Essendo sempre in scena, non riuscivo a partecipare ai provini per la tv a Roma. Mentre ero al Centro Santa Caterina di Ronconi, in Umbria, per provare Il gabbiano, sono andato a quello per Squadra antimafia. Berlusconi invece l’ho fatto da sonnambulo…».

In che senso?

«Ero in tournée con Lehman Trilogy quando mi hanno detto che l’avrei fatto io. Avevo visto l’intervista a Enzo Biagi in cui Berlusconi confidava di dormire quattro ore a notte. Anch’io dormo poco… Anziché star lì a ripetermi “sono stanco, come farò?”, ho utilizzato le sue parole come un karma. Lehman Trilogy durava cinque ore, si finiva a mezzanotte e mezza. Una volta son venuti a prendermi a Torino alle tre di notte e siamo partiti per la campagna pavese dov’era il set che simulava la villa di Arcore. Siamo arrivati all’alba, tre ore di trucco, poi prove fino a sera. Il giorno dopo ero di nuovo a teatro, però a Roma, altre cinque ore di spettacolo. Concordo con Berlusconi: quando sei stanco sei disinibito e le cose vengono meglio».

Paolo Pierobon con Luca Ronconi al Festival di Spoleto

Paolo Pierobon con Luca Ronconi al Festival di Spoleto

Le sue letture, i giornali, l’avrebbero portata a un’interpretazione diversa?

«Il rito d’inizio giornata è la lettura dei giornali al bar. Mi serve come ginnastica mentale. Non do niente per scontato e non do neanche giudizi sulla figura che interpreto. Se vuoi fare un bel lavoro il tuo punto di vista lo devi dimenticare. Il protagonista è lui non tu. Posso pensarla al contrario, ma riuscire a essere credibile nel rendere quella persona».

È un fatto di tecnica?

«Di istinto. L’opinione viene dalla testa. L’istinto deriva da una visione artistica, che è emotiva e fisica. La tecnica viene dopo».

In 1994 sarà più protagonista?

«Speriamo. Decideranno gli autori il dosaggio tra personaggi immaginari e personaggi storici».

Nell’attesa?

«Ho lavorato in un film di Andrea Segre intitolato L’ordine delle cose. Una storia di sbarchi clandestini dalla Libia all’Italia. Forse andrà alla Mostra di Venezia».

Segue la politica?

«Sono un attento, ma disorientato osservatore».

Cosa si aspetta dal prossimo film di Paolo Sorrentino su Berlusconi?

«Di lui e di Toni Servillo ho grande ammirazione. Sono curioso di vedere se sarà come Il Divo su Giulio Andreotti oppure no».

Se dovesse dirmi il nome di un attore?

«Direi Eduardo. Lontanissimo da qualsiasi possibilità d’imitazione, penso sia una delle figure più carismatiche e moderne della recitazione».

Una passione segreta, un tic?

«Purtroppo ho poco tempo, ma mi piace molto camminare, fare il flaneur, osservare la gente. Al bar leggo il giornale e ascolto quello che dicono i clienti».

Carpisce delle cose?

«A volte. Anche a teatro, prima che si spengano le luci, mi metto dietro il sipario a orecchiare il pubblico. Serve a scongiurare la ripetitività delle repliche. E mi dà l’illusione di fare ogni sera uno spettacolo diverso».

 

La Verità, 11 giugno 2017

 

Dove va a parare la terza stagione di Gomorra

Quando si arriva alla terza stagione di una serie tv, peraltro già molto celebrata dalla critica oltre che baciata dal successo internazionale come Gomorra, non è facile continuare a crescere senza sbilanciarsi e perdere un po’ l’equilibrio. È accaduto a marchi prestigiosi della serialità europea come la britannica Fortitude e la francese Les Revenants che, dopo la stagione d’esordio, hanno esasperato certi toni, smarrendo compattezza narrativa. Anche un titolo come House of Cards, già pericolosamente esposto sul crinale della plausibilità, è atteso al varco dell’incombente quinta annata. Finora la serie tratta da un’idea di Roberto Saviano ha esplorato molte vie della ferocia della camorra con originalità della scrittura, imprevedibilità narrativa e centralità del territorio realizzando il fenomeno della serialità universalmente apprezzato. «Siamo appena tornati dagli screenings di Los Angeles dove sono stati presentati i prodotti della prossima stagione», svela Nils Hartmann, direttore delle produzioni originali Sky, «e dall’insistenza delle richieste dei produttori americani sulla data di uscita della nuova stagione posso dire che esiste un prima e un dopo Gomorra. Con questa serie è cambiata la percezione della produzione italiana e forse anche europea». Per tranquillizzare tutti va detto subito che si tratta di attendere solo fino a novembre, quando decollerà su Sky Atlantic. E, banalmente, dopo le imprevedibili morti di Imma Savastano, moglie di don Pietro nella prima stagione, e di Salvatore Conte, capo della cosca rivale, oltre che dello stesso don Pietro, nella seconda, vien da chiedersi che cosa dobbiamo aspettarci nella prossima. E questo più che per vagheggiare l’escalation di una storia già estrema, per tentare di capire quali strade proverà a perlustrare una serie che ha già notevolmente elevato la qualità della produzione. «Non si tratta d’innalzare il livello della ferocia infiocchettando il racconto o studiando abbellimenti per compiacere il pubblico», sottolinea Claudio Cupellini che, insieme a Francesca Comencini firma i 12 episodi (sei a testa) della nuova stagione. «È vero, a volte, come si legge anche in questi giorni, la realtà è più cruda della peggiore fantasia. Ma noi possiamo solo inseguirla con il massimo impegno, non avendo ancora la capacità di anticiparla». Nebbie dialettiche anti spoiler a parte, comunque nella prossima stagione le novità non mancheranno. Dopo una prima scena in Bulgaria, la contesa tornerà interamente a Napoli, dove le fazioni «dei Talebani», per le barbe arabeggianti dei loro appartenenti, contenderanno il dominio sul territorio ai clan di Genny Savastano (Salvatore Esposito) e del rivale Ciro Di Marzio (Marco D’Amore). Anche un rampollo della Napoli bene rimarrà sorprendentemente affascinato dal potere dei clan camorristici: «È uno studente universitario che può condurre una vita agiata, un personaggio che persegue un’affermazione di sé in ambienti lontani da quelli abituali», illustra Loris De Luna che lo interpreterà. Comunque, si tratta di un «personaggio coerente con tutta la storia», sottolinea Cupellini. «Noi non forziamo le sceneggiature per esigenze industriali. In questo siamo diversi dalle produzioni americane», rimarca Hartmann. «Romanzo criminale l’abbiamo fermato dopo due stagioni perché la storia si era compiuta. Invece, anche se non è facile migliorare lo standard delle precedenti, di Gomorra stiamo già scrivendo la quarta stagione». Se il concept è forte «si può aggiornarlo e ricollocarlo in nuove situazioni», accenna Roberto Amoroso, direttore creativo della fiction Sky. Nella prossima stagione, oltre a un approfondimento interiore dei vari personaggi alla ricerca della consacrazione criminale, il territorio sarà ancora più protagonista che nelle prime due. E questo è «un altro aspetto che ci differenzia dalla serialità americana fatta principalmente di testo e attori che lavorano in studio», osserva Riccardo Tozzi, produttore con Cattleya. «Gomorra allarga lo spettro della visualità, inserendo il realismo del territorio come elemento fondamentale della narrazione». Finora rimasta nella periferia delle Vele e nei quartieri fatiscenti di Scampia e Secondigliano, la guerra di camorra si allargherà a macchia d’olio fino a conquistare il centro di Napoli. Nel quartiere Forcella si girava ieri una scena del quinto episodio, diretto da Francesca Comencini, in cui la cosca di Ciro deve riconquistare una zona abbandonata. L’Immortale – è il suo soprannome – stende la cartina toponomastica della città cerchiando con il pennarello il luogo dove deve esplicarsi l’azione del commando: «Per sopravvivere dobbiamo essere sempre un passo avanti a chi ci sta addosso», ammonisce Ciro. «Ma noi non vogliamo solo sopravvivere», obietta qualcuno. «Questo lo vedremo», lo zittisce il boss. Ora, in conferenza stampa, Marco D’Amore conclude, savianeggiando: «Diamo il benvenuto nella serie a Napoli, nuovo protagonista in tutto il suo splendore e le sue contraddizioni. Consapevoli che Neapolis, città d’origine greca, potrà mettere le basi della sua rinascita solo partendo dalla risposta dei suoi cittadini».

La Verità, 30 maggio 2017 

E se David Lynch si prendesse gioco di noi?

Promessa mantenuta. «Salve agente Cooper. Ti rivedrò ancora… fra venticinque anni»: parola di Laura Palmer. Si riparte da lì per la terza stagione di Twin Peaks, la serie prodotta e diretta da David Lynch e scritta con il fedele sceneggiatore Mark Frost, attesa un quarto di secolo, da ieri su Sky Atlantic e on demand. Il telefilm padre di tutta la serialità moderna, la serie culto che ha cambiato la narrazione orizzontale e verticale: una lunga lista di meriti. «Chi ha ucciso Laura Palmer?» era l’interrogativo che attanagliava «il popolo di Twin Peaks», al contempo i fan della serie e gli abitanti della cittadina circondata dai boschi ai confini con il Canada. Era il 1990 e le note di Angelo Badalamenti introducevano un tema sonoro che sarebbe divenuto sinonimo di mistero e atmosfere dark. Col passare degli episodi, però, si scoprì che l’indagine sull’assassinio della misteriosa adolescente era solo un pretesto per scatenare la fantasia visionaria del regista. Un mosaico impazzito.

Nella terza stagione si riparte da lì. Da titoli di testa in verde fluo, a segnalare una versione ancora più allucinata. E dalll’inquietante red room, il mondo parallelo soprannominato Loggia nera dove ritroviamo un Dale Cooper (Kyle MacLachlan) più stagionato e azzimato che intesse strani dialoghi con vari personaggi, uno dei quali insiste in quella che sembra una presa in giro del telespettatore: ma questo è il futuro o il passato? Man mano che la visione procede, gli interrogativi aumentano e con scarsa possibilità di risposta. Per esempio: di Dale Cooper ce n’è anche uno in versione boss criminale, jeans e chiodo nero, che semina morti nel sottobosco malavitoso. «È un mondo di camionisti», sentenzia una specie di maîtresse da bordello, mentre l’anziana Margareth con bombola a ossigeno e un grosso ceppo tra le braccia telefona al vice sceriffo Hawk per dirgli che il suo ceppo, appunto, ha un importante messaggio per lui. Nella red room, in cima a un albero spoglio, quello che sembra un cuore umano conciona a ruota libera sul tema del «doppio». Nei titoli di coda del primo episodio che abbinano i nomi degli interpreti a quelli dei personaggi, a fianco di Carel Struycken compaiono sette punti interrogativi. Fate voi.

Dale Cooper nella red room

Dale Cooper nella red room

Di trama non si può assolutamente parlare. L’unica certezza è l’estetica lynchiana, con la sua metrica pittorica che procede per quadri successivi, interpreti che agiscono uno alla volta dentro scene laconiche e desolate, alle quali il regista alterna panoramiche notturne di New York, tetri sotterranei (nei quali spunta Struycken), stamberghe tarantiniane, rimbalzando dal South Dakota, dove si consuma un omicidio con relativa mini trama noir, a Las Vegas a Twin Peaks. Tutto enigmatico e indecifrabile.

Lynch ha detto che Twin Peaks viveva nel suo subconscio. Mi sa che il mio è parecchio diverso da quello del grande cineasta…

La Verità, 27 maggio 2017

1993, Tangentopoli tra cinema americano e blob

Le monetine del Raphael e il cappio in Parlamento, Non è la Rai e Gigi Marzullo, la corsa di bianco vestiti nel parco di Arcore, le orge negli hotel della politica, i fiumi di coca, i nipotini di Stalin, Di Pietro e i suoi uomini, lo scrittore antiberlusconiano, le riunioni per valutare la discesa in campo, la starlette fragile e arrivista, le feste in terrazza dove si decidono le carriere, il Bagaglino, Marco Formentini e Gianfranco Miglio, la maxitangente Enimont, il filone della malasanità e il mago Rol che sta a Torino, persino un Massimo D’Alema capo della Fgci: c’è tutto questo e molto altro nel superpilota di 1993. E rituffandoci in quell’epoca, così recente e ancora più cronaca che storia, ci vien da dire, quasi stupendoci: sì, siamo passati di là. Nella nuova stagione della serie diretta da Giuseppe Gagliardi, le storie iniziate in 1992 accelerano e si estremizzano, prendendo una piega più drammatica. Il pubblicitario manovriero (Stefano Accorsi) ora spinge per l’avventura politica di Berlusconi, il poliziotto del Pool malato di Aids (Domenico Diele) persegue la sua vendetta concentrandosi sulla corruzione nella sanità, il leghista rozzo e ingenuo (Guido Caprino) cede all’edonismo romano, la showgirl disposta a tutto (Miriam Leone) brama un’ospitata da Costanzo, l’ex ragazza della borghesia milanese (Tea Falco) è costretta prendere in mano l’azienda di famiglia. Ci sono le storie e c’è la storia, appunto, o la cronaca che sta per diventarlo: dopo l’anno della Rivoluzione ecco quello del Terrore (cui seguirà 1994, la Restaurazione), in cui tutto diventa più cupo perché «ogni rivoluzione ha un prezzo» e il 1993 è l’anno dei suicidi, della gogna dei leader, di un mondo che implode. Ed è l’anno dei prodromi dell’avvento dell’uomo nuovo.

C’è un corposo malloppo saggistico e cinematografico cui la produzione avrebbe potuto rifarsi per restituirci la temperie dell’epopea berlusconiana, ma il pregio maggiore di questa serie sembra proprio l’aver tentato un percorso originale, provando a raccontare l’uomo e l’imprenditore senza indossare gli occhiali dell’ideologia. Così, ecco il Berlusconi barzellettiere, quello che telefona in diretta ad Aldo Biscardi perché «basta subire», e quello amaro che riflette sulla sconfitta del Milan contro l’Olympique Marsiglia: «Vincere non è così bello quanto è brutto perdere». Forse c’è fin troppa carne sulla griglia che Gagliardi arrostisce quasi come in un blob che rimbalza da una storia all’altra. Ma è il suo stile americano, dritto per dritto e senza pause, con il ritmo dei fumetti e dei film d’azione. Sì, abbiamo vissuto tutto questo, ma forse non l’abbiamo ancora pienamente metabolizzato. Ora possiamo cominciare a farlo anche grazie alla correttezza della sceneggiatura di Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo e la supervisione di Nicola Lusuardi1993 è una serie prodotta dalla Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani e va in onda su Sky Atlantic Hd e Sky Cinema Uno Hd.

Hardy in Taboo? Il primo supereroe no global

E se James Keziah Delaney fosse uno dei primi eroi no global? Che te ne pare, Alberto?

Sì, ci può stare.

logoserieconmiofiglio-cavevisioni.it

Ecco una breve lista di ragioni per le quali Taboo, protagonista il personaggio di Tom Hardy, era una serie molto attesa. È prodotta dalla Hardy Son & Baker, società di Tom e del padre Edward (Chips), commediografo. Tra i produttori c’è anche Ridley Scott. Lo sceneggiatore è Steven Knight, già autore e regista di Locke (oltre che di Peaky Blinders) interpretato da Hardy, il film che nel 2013 avrebbe dovuto vincere la Mostra di Venezia se non fosse stato trovato a selezione già chiusa. Il cast annovera Oona Chaplin, Jonathan Price e Michael Kelly tra gli altri. È trasmessa da Bbc One in Gran Bretagna, da FX in America e da Sky Atlantic in Italia. La società di Hardy ci ha investito 10,4 milioni di sterline (12,7 milioni di euro) ed è già prevista la seconda stagione.

Siamo nella Londra del 1814 dove,  per assistere al funerale del padre Horace, fa inaspettatamente ritorno James Keziah Delaney. La fama di girovago maledetto, conquistata in anni vissuti tra i selvaggi dell’Africa e del Sud America, non lo aiuta a integrarsi. E meno ancora lo aiuta l’eredità ricevuta della Baia di Nootka, una striscia di terra al confine tra Canada e Stati Uniti, strategica per i traffici della Compagnia delle Indie orientali, le mire espansionistiche dell’Impero britannico, il controllo del territorio dell’America. Da qui si dipana la trama di questa storia cupa, violenta e discretamente ambiziosa. Un dramma storico che punta sulla cura estetica, le ambientazioni e la presenza catalizzatrice di Hardy.

 

Jonahtan Price è il capo della Compagnia delle Indie orientali

Jonathan Price è il capo della Compagnia delle Indie orientali

Alcune critiche hanno sottolineato la troppa carne messa al fuoco, parte della quale potrebbe non arrivare a cottura. L’intrigo famigliare, il rapporto incestuoso con la sorella Zilpha (sarà questo il tabù?), l’esoterismo, i conflitti geopolitici ed economici, il razzismo. Tutto in un’atmosfera tenebrosa. Dopo quattro episodi proviamo a decifrarla.

Io credo che il filo conduttore sia chiaro, osserva Alberto. C’è un uomo solo contro tutti: la potente Compagnia delle Indie, la Corte inglese, l’America. Poi ci sono la passione per la sorella e il figlio abbandonato.

Sembra quasi una storia no global. In fondo, la Compagnia delle Indie è stato un grande progetto di Ordine mondiale. Un agente del capitalismo. Siamo a Londra, ma si parla di un pezzo di terra tra Canada e America che vediamo solo nel mappamondo.

Una striscia di terra importante come porta d’accesso per i commerci con la Cina. E lui ha vissuto in Africa e Sud America.

È un uomo spaventoso, che si difende da solo dai poteri forti.

Si difende per tenersi ciò che il padre gli ha lasciato.

A sorpresa. Perché tutti lo davano per morto.

Invece il tatuaggio che ha sulla schiena vuol dire: torna a prenderti ciò che è tuo.

Sembra quasi un supereroe, che usa la stregoneria, presente i pericoli, domina l’emotività della sorellastra per giocare la sua partita contro tutti. Uno sciamano violento, dal passato e dal cuore di tenebra. Questa è la parte che mi convince meno.

A me invece piace. C’è una dimensione magica ed esoterica. Delaney ha delle visioni oniriche che lo rimettono in contatto con la madre e col passato. È importante anche la sua origine mista, il padre inglese e la madre indiana.

Un supereroe dell’Ottocento, mezzosangue e no global. Non male come storia.

È così.

Bella l’ambientazione e i costumi, il cappottone e la tuba di Delaney. E scelti bene anche gli altri personaggi.

Sì, bella Londra. Anche se le location sono poche, la corte, la sede della Compagnia, il bordello, la sua casa. Ci sono alcune analogie con Frontiera (prodotta da Discovery Channel e Netflix), ambientata sul finire del 1700, tra Canada e America, in cui il protagonista, metà americano e metà irlandese, combatteva contro il monopolio della Compagnia della Baia di Hudson nel commercio delle pelli. Qui invece si parla di the e polvere da sparo.

 

i caverzan

Inganni delle casalinghe milionarie stile Vanity Fair

Non c’è aria di crisi economica nelle ville fronte oceano di Monterey, California. Le casalinghe patinate non hanno bisogno di lavorare e tra un drink e una cena di beneficenza si occupano ossessivamente della loro viziatissima prole da educare alle regole della buona società. Ma si sa come sono i bambini, perfidi e impulsivi, o desiderosi di attirare ancora più attenzioni. Così al primo giorno di orientamento scolastico la mocciosa di Renata Klein (Laura Dern) lamenta di essere stata vittima di violenza da parte del bimbo di Jane Chapman, ultima new entry della comunità. Sarà davvero lui il colpevole? Tutto fa pensare che nell’indagine sul sopruso infantile risiedano anche i segreti dell’omicidio con cui si apre il primo dei sette episodi di Big Little Lies, miniserie prodotta da Hbo e trasmessa da mercoledì su Sky Atlantic. Tratta dall’omonimo fortunato romanzo di Liane Moriarty, pubblicato in Italia da Mondadori, ideata da David E. Kelley (Ally McBeal) e diretta da Jean-Marc Vallée (Dallas Buyers Club), la serie vanta un cast di prestigio che annovera tra le altre Nicole Kidman e Reese Witherspoon, anche produttrici. Ci troviamo, dunque, in una piccola e modernissima cittadina in riva al Pacifico, dominata da madri e mogli premurose, archetipi ideali delle lettrici di Vanity Fair. Maddy Mackenzie (Witherspoon) ha già un matrimonio alle spalle e due figlie su cui riversare attivismo e nevrosi, senza peraltro avvedersi della gelosia dell’adolescente nei confronti della piccolina. Celeste Wright (Kidman) invece ha chiuso lo studio legale per dedicarsi ai due gemellini e alle scabrose esigenze erotiche del più giovane marito. Infine, c’è Jane Chapman (Shailene Woodley), sola e senza lavoro, arrivata da chissà dove e chissà perché proprio qui: inevitabilmente distonica rispetto al rango delle altre.

Non c’è aria di crisi economica tra le casalinghe annoiate di Monterey. Ma ci sono segnali di squilibri affettivi e sentimentali, celati dietro la perfezione delle vetrate e delle terrazze hi tech della upper-middle-class. Dopo i primi due episodi («Schieramenti» e «Forte istinto materno»), in cui le deposizioni di insegnanti e testimoni e le dichiarazioni degli investigatori si alternano alle vicende private delle tre protagoniste, non si è ancora vista la scena del crimine né si è scoperta l’identità della vittima. Il giallo è fitto, i dialoghi sono taglienti e improntati a un chirurgico cinismo, la trama e le ambientazioni scolpite. Cosicché regia e sceneggiatori possono prendersi anche il lusso di eloquenti silenzi in cui far parlare le espressioni delle loro ottime attrici.

La Verità, 17 marzo 2017

The Young Pope, il gioco cinematografico di Sorrentino

Di sicuro, Paolo Sorrentino si è divertito. E si sono divertiti gli attori, Jude Law, Diane Keaton, Silvio Orlando e il resto del cast, notevole per una serie tv. Perciò, verosimilmente si divertirà Continua a leggere

Dov’è Mario, serie post sulla schizofrenia italiana

L’incipit è fulminante. Probabilmente a causa di un colpo di sonno, mentre era alla guida della sua auto, di ritorno da un convegno su Bobbio, il grande intellettuale Mario Bambea è rimasto vittima di un incidente stradale. Piovono libri dopo il cappottamento dell’auto e già questo è una gigantesca presa per i fondelli dell’intellò radical chic (chirurgico il controcanto in sottofondo: erano tutti libri invenduti a dimostrazione che Bambea era un bluff). L’allarmismo, la concitazione e l’apprensione con cui i notiziari informano (nockumentary) del coma dello stimato seppur controverso studioso scrittore polemista è un gioiello di satira dell’ossequio e della deferenza che domina i media quando si tratta di parlare dell’intellettuale di sinistra, archetipo di questi anni, un filo in declino. Perché, insieme alla figura del protagonista, attraverso il suo doppio, Bizio Cappoccetti, Dov’è Mario, la nuova serie di e con Corrado Guzzanti trasmessa da Sky Atlantic, è anche una satira di tutto il contesto (“contestualizziamo”): salotti, giornalisti (Santoro, Travaglio, Floris in camei di loro stessi), editori, affinità snobistiche varie, in sintesi, dei talk show e del loro circondario da Ambra Jovinelli. Il tutto rappresentato con una precisione linguistica millimetrica: Mario Bambea era anche “premio Strega per La temperatura del bianco da cui Valter Veltroni trasse un film” (Mentana dando l’annuncio dell’incidente); “un uomo, come lo definì Napolitano, di esasperante coerenza” (la giornalista di SkyTg24).

Enrico Mentana dà l'annuncio dell'incidente a Mario Bambea

Enrico Mentana dà l’annuncio dell’incidente a Mario Bambea

Senonché l’incidente innesca il meccanismo schizoide, facendo esplodere il sonnambulismo di cui il venerato maestro era già affetto. Anziché bevendo la pozione del Dr. Jekyll, Bambea si trasforma in Bizio nel cuore della notte, quando abbandona la camera e s’intrufola nel teatrino sotto casa, per dar sfogo alla vena comica, trucida e scorrettissima (“mai investire un rumeno in bicicletta, potrebbe essere la vostra”) che tracima incontenibile, smentendo tutto il manierismo di erre arrotate e vestaglie di raso. Al fianco di Guzzanti giganteggia Dragomira (Evelina Meghnagi) la badante poetessa rumena – “fuggita dal regime di Ceausescu”  – demenzial-stralunata quanto basta per essere già cult. Indovinata anche la critica della sinistra settaria, manichea, complottarda e autoreferenziale che si rintana a Radiotre, da dove avversare la televisione corrotta e corruttrice, il Grande Fratello e Masterchef che, sussurra il conduttore frustrato, “è un format della massoneria”…

Corrado Guzzanti alias Bizio Cappoccetti

Corrado Guzzanti alias Bizio Cappoccetti

Ovviamente, finora, risulta vincente l’alter ego trash di Bambea, quel Bizio che, demolendo qualsiasi sovrastruttura, sprigiona tormentoni in romanesco e conquista l’impresario del teatrino di serie c. Si vedrà come va a finire nei prossimi, pochi, tre episodi che Sky ha programmato sulla rete della serialità con infinite repliche e dopo una massiccia campagna di lancio. Nella sua schizofrenia, Mario incarna l’Italia dell’ultimo ventennio, che convive ma non comunica, separata da tic, snobismi, complessi di superiorità da una parte, contro qualunquismi, menfreghismi e becerismi a iosa dall’altra. Ci sarà da divertirsi. Intanto, Dov’è Mario, prodotta da Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani, scritta dallo stesso Guzzanti con Mattia Torre e diretta da Edoardo Gabbriellini, ci fa intendere che forse quella separazione così estrema, quella differenza di costume, culturale e, qualcuno azzarderebbe, antropologica, che ha reso tanto complessa la convivenza dei decenni a cavallo di fine millennio si è stemperata. Oggi al governo c’è un politico che non rappresenta né l’una né l’altra parte. Ma di entrambe ha fatto emergere intolleranze e anacronismi. In questo senso la serie di Guzzanti è un geniale show postumo. Tre anni fa ci si sarebbe accapigliati molto più di quanto potrà avvenire oggi. E Santoro e Travaglio difficilmente avrebbero accettato di fare da autoironiche comparse, nella venerazione dell’intellò in crisi.

La differenza tra Rai e Sky in tre notizie

Vista da Palazzo San Macuto, Gomorra è un incubo. Anzi, un miraggio irraggiungibile. Un’entità astrale, forse: sto parlando della serie, ovviamente. Tanto per gradire, ecco qualche domanda alla rinfusa. Mentre vogliono sapere come impiega il suo tempo Carlo Verdelli, direttore editoriale dell’informazione Rai, che idea si sono fatti i vari Michele Anzaldi o Maurizio Gasparri di Gomorra? Quanti secoli ci vorranno prima che la Rai produca una serie in grado di reggere il confronto con quella di Sky? Nel frattempo, vale la pena presentare interrogazioni parlamentari su una parolaccia pronunciata da un conduttore che credeva di avere il microfono spento? Mentre ci pensiamo, oggi si è svolta l’ennesima audizione in Commissione di Vigilanza del dg Antonio Campo Dall’Orto. Un paio d’ore a giustificare, illustrare, rispondere, rintuzzare supposizioni dei commissari vigilanti dell’intero arco costituzionale su nomine, fiction, programmini da proteggere e quant’altro. Sull’argomento mi sono già espresso di recente (http://cavevisioni.it/2016/05/05/le-sedute-della-vigilanza-una-docufiction-brezneviana-2/) e non ci torno.

Antonio Campo Dall'Orto, direttore generale della Rai

Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale della Rai

Ciò di cui voglio parlare è la distanza abissale che intercorre tra la quotidianità della nostra tv pubblica, altrimenti chiamata prima azienda culturale italiana, e quella della principale tv a pagamento che agisce sul territorio nazionale. Precisazione: anche la Rai, grazie al canone che quest’anno avrà un gettito maggiorato, è una tv a pagamento. Mentre dal canto suo anche Sky, grazie a canali come Tv8, Cielo e SkyTg24, è una televisione in chiaro. Ci sono ampie parti sovrapponibili e confrontabili tra loro, soprattutto sul telecomando degli spettatori. Semmai, le differenze sono che una è una multinazionale con sede negli States, mentre l’altra, che dovrebbe rappresentare la nostra storia, è gravata dall’invadenza della politica. Rai e Sky sembrano gravitare a distanza siderale tra loro. Televisioni che corrono due gran premi diversi. Basta confrontare la quotidianità dell’una e dell’altra, basandosi sulle notizie di giornata.

Massimo Giannini, conduttore di Ballarò

Massimo Giannini, conduttore di Ballarò

Partiamo dalla Rai.

  1. La prima notizia di oggi, su molti siti e giornali, è l’epurazione di Massimo Giannini, il conduttore di Ballarò (Raitre) in rotta di collisione con il premier Renzi e nuovamente superato dal diMartedì (La7) di Giovanni Floris.
  2. La seconda notizia è rivelata dal Giornale. La produzione del reality show scolastico That’ll Teach ‘Em sul confronto tra i metodi d’insegnamento di mezzo secolo fa e quelli attuali, format inglese esportato in mezza Europa e previsto su Raidue, è stata vinta da Magnolia, società di provenienza del direttore della rete Ilaria Dallatana. Inevitabili le polemiche sul conflitto d’interessi.
  3. La terza notizia riguarda Paolo Bonolis. Definito “un fuoriclasse” da Campo Dall’Orto, il conduttore di Ciao Darwin ha parlato sia con i dirigenti Rai che con quelli Mediaset, ma alla fine ha deciso di rimanere a Cologno Monzese dove per lui si parla di un baby talent.
Ciro Di Marzio in Gomorra 2

Ciro Di Marzio in Gomorra La Serie, seconda stagione

Passiamo a Sky.

  1. La prima notizia riguarda gli ascolti di Gomorra – La Serie seconda stagione, uno show che ormai crea dipendenza. Gli episodi 3 e 4 trasmessi su Sky Atlantic e Sky Cinema Uno sono stati seguiti da 1,1 milioni di telespettatori con un incremento di ascolti dell’89 per cento rispetto agli stessi episodi della prima stagione.
  2. Fiorello ha annunciato su Twitter che la sua Edicola andrà in onda da giugno su Sky. Ma non nella pay tv, bensì su Tv8, uno dei canali in chiaro sopracitati. Saranno solo nove morning show “per vedere l’effetto che fa”. Con probabile ritorno in pianta stabile, dall’autunno. Nei giorni scorsi qualcuno aveva precipitosamente annunciato l’approdo in Rai dello showman. In realtà la firma della collaborazione con Sky risale già a qualche mese fa.
  3. Terza anticipazione: il canovaccio di Dov’è Mario?, la serie in quattro serate da mercoledì su Sky Atlantic. Con un certo scorno dei colleghi che attendevano la conferenza stampa, Repubblica ha pubblicato “l’editoriale supercazzola” a firma Mario Bambea, l’intellettuale di sinistra interpretato da Corrado Guzzanti che si sdoppierà nel comico trash Bizio.

È proprio così ovvio che Rai e Sky siano tv a due velocità? È proprio inevitabile che, parlando a un pubblico più vasto, la Rai debba perdere così tanto in qualità di contenuti e linguaggi? Non sarà che l’invadenza della politica in Rai faccia un po’ troppo da zavorra?