Articoli

«Nella mia Gomorra esiste la speranza»

Un timido che comanda malvagi criminali. Un veneto che dirige film in dialetto napoletano. Un collezionista di rock e jazz, pronto a rompere rapporti per dissidi musicali, che fa il regista. Claudio Cupellini, 44 anni, una dinastia di farmacisti alle spalle, insieme con Francesca Comencini regista di Gomorra – La serie (produzione originale Sky e Cattleya, in onda dal 17 novembre) è un uomo di contraddizioni. Contraddizioni fertili. Ci incontriamo prima di una conversazione all’università di Padova programmata dalla Fiera delle parole.

Come fa un veneto a dirigere una serie tv recitata in napoletano stretto?

«Più che un handicap, non essere del luogo è stato un vantaggio. Fin dall’inizio Cattleya e Sky non volevano registi napoletani. Io sono di Padova, Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Giovannesi, romani. Il mio orecchio è allenato da diversi anni alla parlata napoletana grazie ai miei collaboratori più stretti che sono di Caserta».

Perché i produttori volevano registi «stranieri»?

«Perché volevano uno sguardo meno coinvolto emotivamente. Un regista locale avrebbe potuto essere più indulgente con la propria città».

E lei ha avuto difficoltà a non esserlo?

«Direi di no, anche se ormai sono mezzo napoletano. Lavorando alle tre stagioni della serie ci ho vissuto a lungo. E anche prima, preparando Una vita tranquilla con Toni Servillo e Marco D’Amore, ero di casa. Un regista deve immedesimarsi con il posto dell’opera che dirige. Ma nei miei film si parla tedesco, francese. Qui anche bulgaro».

Gioco di squadra (prima stagione): Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini

Il registi della prima stagione: Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini

Il cinema è globalizzato, ma Gomorra è un prodotto glocal.

«Oggi il glocal è vincente. I broadcaster internazionali chiedono storie e costumi italiani. Pensiamo a Romanzo criminale, Gomorra, 1992 e 1993 prodotte da Wildside, a Suburra di Netflix. Lo stesso avviene con produzioni di altri Paesi, la francese Marseille, la bellissima Peaky Blinders, ambientata a Brighton».

Oltre che la lingua serve conoscere la camorra e le sue gerarchie?

«Devi conoscere le dinamiche criminali perché a Napoli devi viverci. Spesso giravamo nelle strade frequentate dalle bande. Gomorra è fiction, ma pur romanzando, siamo rimasti aderenti ai fatti. Nella seconda stagione abbiamo raccontato gli scissionisti. Nella terza si vedrà la guerra dei clan nel centro di Napoli».

Come nasce Claudio Cupellini regista?

«Fin dal liceo ho avuto la passione per la lettura, il cinema, soprattutto la musica. Queste passioni disordinate si sono consolidate frequentando la facoltà di Lettere, dove ho scoperto che il cinema le comprendeva tutte. Ho provato a fare qualche scarabocchio con la videocamera. Ero ventenne, ma c’erano ragazzi che già a 17 anni avevano prodotto i primi corti. Ho presentato un mio lavoro al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e mi hanno preso».

Ha avuto dei maestri?

«Mi sarebbe piaciuto, ma no. Ho fatto alcuni incontri che mi hanno aiutato a capire come fare il mio mestiere. I maestri sono stati i film che ho visto».

Diciamo qualche titolo?

«Tornando a casa un sabato notte su Fuori orario vidi certi bambini che facevano cose meravigliose. Il giorno seguente chiamai un amico critico che mi rivelò il titolo: L’argent de poche (Gli anni in tasca) di Francois Truffaut. Poi ho seguito il cinema americano degli anni Settanta, Scorsese, Coppola e Malick».

Parlando di registi, Padova è una città laboratorio? Cito alcuni nomi oltre a lei: Enzo Monteleone, Carlo Mazzacurati, Antonello Belluco, Andrea Segre, Umberto Contarello sceneggiatore di Paolo Sorrentino, sempre sulla rotta Padova Napoli. Dimentico qualcuno?

«Marco Pettenello, nipote di Mazzacurati, bravissimo sceneggiatore. Più che un laboratorio, a Padova c’erano un fermento e una sensibilità particolari. C’erano docenti come Gian Piero Brunetta e Giorgio Tinazzi, il Centro universitario cinematografico, organizzatori culturali come Piero Tortolina. Per il resto, a parte Contarello, Monteleone e Mazzacurati che si frequentavano, molti di noi sono andati via per affermarsi».

Marco D’Amore è il suo attore feticcio?

«L’ho fatto esordire al cinema, siamo amici. È un talento di formazione teatrale avendo frequentato il Paolo Grassi di Milano e sostenuto lunghe tournée come quella della Trilogia della villeggiatura con Servillo. È uno da “buona la prima”. Con lui facevamo un gioco: vediamo quando sbagli una battuta. Non ha sbagliato nemmeno nell’episodio in bulgaro della nuova stagione di Gomorra. Finora al cinema ha raccolto meno di quello che merita».

Marco D'Amore in Gomorra 3, che Cupellini fece esordire al cinema

Marco D’Amore in Gomorra 3, che Cupellini fece esordire al cinema

I protagonisti dei suoi film sono persone senza legami, incapaci di trovare il loro posto nel mondo.

«Certi sentimenti sono come una risacca. Il senso della separazione, dell’incomprensione, di rapporti fragili fa parte della mia storia. In Alaska il personaggio di Valerio Caprino dice a Fausto: “Se dici che sei mio amico, io ci credo e mi affeziono. Ma se mi molli divento cattivo”. In fondo, è sempre una ricerca d’amore, il bisogno di essere accettati, di non essere abbandonati».

È un bisogno che nasce da un’esperienza precisa?

«Il mestiere di regista vive di ossessioni. Ho vissuto la lacerazione della mia famiglia, ho perso amici e parenti stretti in modo improvviso. C’è una frase di una canzone di Neil Young che mi ha molto colpito. Dice: ≤Nonostante la mia casa sia stata distrutta è la miglior casa che abbia mai avuto≥. L’ho scritta dietro una foto che ritrae me e mio fratello, e che ho regalato a mia madre».

Anche il prossimo film parlerà di questo?

«Non posso anticipare troppo. Ho iniziato a scriverlo e per la prima volta sarà un adattamento. Avrà un’ambientazione nuova rispetto ai precedenti, mentre la trama sentimentale non se ne discosterà molto».

Un altro attore che ritorna nei film suoi e di Segre è Paolo Pierobon. Ci sono i clan anche nel cinema?

«Più che clan ci sono attori che provengono dal teatro e che il cinema non ha ancora sfruttato come meriterebbero. Paolo Pierobon, anche lui del Paolo Grassi, è uno di questi. Per Alaska ha accettato una parte minore, dandole un carattere. Altri come lui sono Giuseppe Battiston, Valerio Binasco, Maurizio Donadoni».

Che cosa le ha dato Roberto Saviano sul set di Gomorra?

«Saviano vive lontano, ma la sua presenza aleggia sul nostro lavoro. Per la mia carriera l’incontro con il mondo di Gomorra è stato fondamentale. Una volta entrato, però, devi avere un bagaglio tuo. Non tutti i registi possono fare Gomorra, perché richiede un impegno mentale e fisico straordinario. Per girare i miei sei episodi abbiamo impiegato 100 giorni, il tempo che di solito serve per produrre due film e mezzo».

E Stefano Sollima?

«Con Sollima abbiamo avuto una collaborazione molto fertile, soprattutto il primo anno. Ogni regista è geloso della propria autorialità, ma tra tutti c’è sempre stata complicità e stima. Mi ha coinvolto nel progetto perché gli era piaciuto Una vita tranquilla».

Che cosa pensa della critica secondo la quale Gomorra mitizza le figure dei camorrisiti?

«Siamo stati molto attenti a non essere mai consolatori. La storia del cinema e della letteratura è lastricata dalla fascinazione del male. Ma in Gomorra la fine dei criminali e l’orrore sono chiari a tutti».

Cosa ci può anticipare della terza stagione?

«Azzardo che è la migliore delle tre. Oltre alla già riconosciuta compattezza narrativa, s’impone l’introspezione dei personaggi. Ciro, Genny e gli altri attraversano una linea d’ombra conradiana: sono stati uccisi i padri, hanno vissuto lutti non superabili, ora cominciano a fare i conti non solo con le loro azioni, ma anche con quello che sono diventati da adulti».

E la sua linea d’ombra qual è? Ha un suo rifugio personale?

«Sono le passioni di gioventù, rimaste vive come allora. La musica in particolare: per me è un luogo di consolazione e di limpidezza, nel quale cancello le scorie e trovo nuovi stimoli. Sono un tipo inquieto, coltivare i miei interessi mi rappacifica».

Musica preferita?

«Conosco rock, jazz e blues dagli anni Cinquanta a oggi. Praticamente sono cresciuto dentro un negozio di dischi del centro. Ho una collezione di cd, ma ora apprezzo i vinili anche come oggetto. Per me le morti di Lou Reed e David Bowie non sono stati un pretesto per mettere una foto su Facebook».

Che rapporto ha con i social?

«Quando Facebook è esploso ho vissuto un momento di curiosità e mi sono iscritto anche a Twitter. Ora non li frequento molto. Mi provocano nervosismo, soprattutto Facebook. Mi sembra di essere in un bar chiassoso, dove si esibisce il peggio dell’umano».

Letteratura?

«Mark Twain, Dostoevskij, John Irving, troppo poco apprezzato, Jean Cocteau».

Guarda la televisione?

«In modo discontinuo. Mi sono ubriacato di serie tv, ora guardo più film».

Film della vita.

«I quattrocento colpi di Truffaut».

Gomorra è un microcosmo chiuso, un mondo senza alternative per il quale forse Leonardo Sciascia parlerebbe di realtà irredimibile. C’è speranza in un posto così?

«Personalmente non riesco a vivere senza speranza. Non credo che il microcosmo della camorra sia irredimibile. Non è un posto di cui Dio si è dimenticato. Ma lo Stato sì, e ha lasciato che un altro potere lo sostituisse. In una realtà povera dove le istituzioni non ci sono, il cittadino si affida alla criminalità. Ci sono bambini che a dieci anni hanno già visto tutto. Da padre trovo che sia qualcosa di mostruoso. La speranza è minimale, ma esistono persone che, pur con una voce flebile, combattono quotidianamente contro il male».

 

La Verità, 8 ottobre 2017

 

Cinque cose su questo inizio stagione di Sky

Upfront Pienone di star agli Arcimboldi di Milano per il lancio dei palinsesti. Poco più di un’ora tra speech, video e show. Un mix di comunicazione, divertimento, seduzione. Momento più emozionante della serata il frammento di E poi c’è Cattelan con l’intervista a Tim Roth. Peccato che, sopravvalutando l’inglese di tutti i presenti, Ale e Tim abbiano finito per confabulare tra loro. Stessa sensazione, ma la lingua non c’entra, per il dialogo con Ilaria D’Amico a proposito di un ballo, una festa, Costacurta… non s’è capito. E dire che l’hashtag era Together. Per il resto, grande serata.

Serie Tin Star promette non bene, benissimo. Roth ha il solito carisma quando fa personaggi malmostosi e borderline. Qui è uno sceriffo dalla doppia personalità che vuole resettare il passato di alcolista. Si trasferisce con famiglia da Londra al Canada, vicino Calgary: scenario mozzafiato di laghi, boschi e montagne. A rovinare tutto arriva la raffineria di petrolio e un contorno di malavitosi, difficili da tenere a bada. Come i dèmoni dello sceriffo.

X Factor e gli show Da monitorare anche l’undicesima edizione del talent musicale. La scommessa è sempre la stessa: riuscirà la nuova stagione a migliorare la precedente? Si parte sempre scettici. Poi… La giuria è per metà nuova. Al posto di Alvaro Soler, Levante, al posto di Arisa, Mara Maionchi. Confermati Fedez e Manuel Agnelli. Totale: meno internazionalità (andando indietro: Mika e Skunk Anansie) e giuria tutta italiana per valorizzare, a contrasto, i tanti concorrenti di etnie straniere. E forse più attenzione agli over trenta che ai teenagers. Momento topico, le scintille con Angelo, un concorrente segato, quando Levante gli ha detto: «Non hai incontrato il mio gusto», e Agnelli: «Il mio sì, ma l’hai preso a pugni». Risultato: 1.327.000 telespettatori medi (4.57% di share, +3% sul debutto 2016). Il resto dell’intrattenimento è un gigantesco Masterchef con i suoi spin off e gli chef che si moltiplicano in tutte le salse. Sky Arte ha sempre un’offerta poliedrica, attenta alla musica, al collezionismo e alle tendenze hipster e bobo.

Piattaforma e tecnologia Sky fa sul serio anche in chiaro. Si crede molto in Tv8, partita bene con Guess my age di Enrico Papi. Imminente il lancio di Sky Q, nuovo decoder per vincolare ulteriormente il telespettatore offrendogli qualità e servizi che promettono di diventare irrinunciabili.

Strategia Si punta sulle serie, sia di produzione internazionale (Tin Star, Babylon Berlin, Britannia), che italiane (Gomorra 3, Il miracolo di Niccolò Ammaniti, in lavorazione Zero Zero Zero dal libro di Saviano e Django dal film di Franco Nero). Il messaggio è: recintiamo la serialità. Nonostante Suburra, Netflix non deve passare.

 

«Berlusconi arrivò in elicottero e c’ero solo io»

È un torrido giovedì di luglio e Milano è un ingorgo unico per lo sciopero dei mezzi pubblici. Ma nell’ufficio di Mauro Crippa, direttore generale dell’informazione Mediaset, settimo piano di Cologno Monzese, l’aria è leggera non solo per i climatizzatori. Crippa è reduce dalla presentazione a Montecarlo dei palinsesti autunnali e si aggira scamiciato per le stanze. Eppure, riesce a rimproverarmi per l’abbigliamento: «Bene giacca e camicia, ma le scarpe…». È una gag che dura da quando ci conosciamo, una trentina d’anni, e io finisco per giustificarmi: «Le scarpe giuste sono rimaste nel trolley sbagliato». Però il cazzeggio prosegue: «Adesso dovrei fare un’intervista con Caverzan», dice alla segretaria. «Ma lei tra un quarto d’ora entrerà trafelata per ricordarmi quell’impegno improrogabile». Prima di questa, Crippa non ha mai concesso interviste a quotidiani.

Alla presentazione dei palinsesti autunnali ti sei definito un cronista non affermato, ma un manager realizzato. Cosa intendevi dire?

«Bisogna partire da lontano. Un secolo fa ero stato selezionato da Tony Pinna, vicedirettore di Panorama per andare a fare le news della Rete 4 di Mondadori. Sarebbe nata l’informazione televisiva con dieci anni d’anticipo. Invece, Mondadori vendette Rete 4 e io finii in Ibm, come dire a West Point per fare il militare. La fissazione del giornalista tv però sopravvisse per anni. Sarei stato bravo? Chi lo sa».

Poi cosa accadde?

«Dal palazzo dell’Ibm, che si trovava anch’esso a Segrate, scrutavo con desiderio quasi fisico palazzo Mondadori. Finché un bel giorno, Carlo Sartori, un grande della comunicazione italiana, inopinatamente mi assunse».

Carlo Sartori assunse Crippa in Mondadori

Carlo Sartori chiamò Crippa in Mondadori

Come ti pescò?

«Nessuna raccomandazione, ero andato a intervistarlo per Panorama. Gli piacqui, mi assunse».

Cose che oggi non succedono più.

«Non lo sappiamo davvero. Forse è una generalizzazione. Trovami un ragazzo con una grande passione per il giornalismo e uno come Sartori e magari risuccede. Il punto è: oggi c’è ancora il giornalismo?».

Tu che ne dici?

«Non esistono più le mitiche organizzazioni di un tempo. Oggi si lavora nei siti, nei blog. C’è una polverizzazione delle opportunità professionali, è svanito il valore leggendario di certi posti. Da ragazzo andavo in via Solferino solo per guardare da fuori l’ingresso del Corriere. Sarà successo anche a te…».

Lasciamo perdere. Poi cosa accadde?

«Mi occupavo della comunicazione di Mondadori e collaboravo con Panorama. Ma intanto scoprivo che i tre anni in Ibm erano stati una proficua carcerazione professionale».

In che senso?

«Avevo lavorato con i numeri uno e imparato i segreti della comunicazione aziendale».

Ora siamo dentro il palazzo di Segrate.

«E quando iniziò la guerra per il controllo della casa editrice io scelsi di stare con Silvio Berlusconi».

Perché?

«Perché mi era molto simpatico, mentre il mondo di Carlo De Benedetti mi appariva cupo, serioso ed elitario».

La «guerra di Segrate»: anni di conflitti che hanno infiammato il Paese fino a ieri. E forse non ancora sopiti.

«Un giorno ero nel mio ufficio quando sentii il rumore di un elicottero. Era Berlusconi. Spronato da una collega andai alla reception per accoglierlo: ero l’unico a dargli il benvenuto. In quello che allora era il tempio di un certo pensiero radical chic il Cavaliere era vissuto come un usurpatore. La Mondadori era in mezzo al guado, né berlusconiana né debenedettiana. Forse quella stretta di mano segnò la mia vita professionale».

Ci fu il famoso lodo. Berlusconi conquistò i libri e i periodici e tu rimanesti a Segrate.

«Di lì a poco conobbi un vero padre professionale, Fedele Confalonieri. Nel suo caso “padre” non è una parola esagerata. Fu lui a portarmi in Fininvest e, accanto a lui, fui tra quelli che crearono la moderna Mediaset. Nel frattempo, io sono invecchiato, lui no».

Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset

Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset

Parliamo di quasi trent’anni. C’è un aneddoto che rivela l’indole di questo «padre»?

«Una lezione, più che un aneddoto. Ricordo quando passò un pomeriggio a litigare fino alle urla durante un’intervista con Ezio Mauro e Curzio Maltese. Non si fanno compromessi quando in ballo c’è un amico. Silvio Berlusconi per Confalonieri era ed è intoccabile. Tutto il resto discende da questo».

All’epoca della discesa in campo da che parte stavi? Confalonieri era contrario, Marcello Dell’Utri favorevole, Gianni Letta perplesso…

«Il mio ruolo era ben più che secondario».

Però avevi un angolo di osservazione particolare.

«Stavo dalla parte delle aziende. Per noi era una complicazione. E anche una perdita. Mi è dispiaciuto non aver più avuto la possibilità di lavorare con Berlusconi».

Che cosa ricordi di quella fase preparatoria? Ci fu un episodio di svolta?

«Ricordo l’intervento a una convention a Santa Margherita Ligure di un cervello molto fine. Paolo Del Debbio teorizzò che i valori liberali dell’impresa potevano avere rilevanza nella vita politica. Cioè, l’imprenditore si stava naturalmente e quasi fisiologicamente trasformando in un politico».

Qual è il tuo bilancio dell’esperienza politica del Cavaliere?

«Ha cambiato l’Italia in meglio. Chi non lo ammette ha uno spirito povero».

La grande rivoluzione liberale non è rimasta un po’ incompiuta?

«Forse sì. Ma la mentalità degli italiani si è fatta più moderna grazie al Cavaliere. Prima con la tv commerciale, poi con la politica».

Come hai vissuto il periodo delle cosiddette «cene eleganti»?

«Sono solo fatti suoi».

Per caso ti è capitato di vedere la serie di Sky ambientata all’epoca di Mani pulite e della discesa in campo? Che giudizio ne hai?

«Hanno evitato i luoghi comuni di Repubblica e del Fatto quotidiano. Bravi».

Nel 2007 si scrisse dell’esistenza di un famigerato Gruppo Delta, una ragnatela trasversale che, attraverso te e l’allora direttore generale della Rai Mauro Masi, brigava per orientare l’informazione televisiva in favore di Berlusconi.

«Era un’idea di Repubblica che evidentemente mi sopravvalutava. Dietrologie giornalistiche: non c’è stata alcuna rete di gestione dei media».

Quindi, non sei lo squalo di Mediaset?

«Macché squalo».

Che voto daresti alla vostra informazione?

«Per tempestività, nove. Per autorevolezza, otto. Per modernità, dieci».

Com’è finita la storia con Emilio Fede che usava foto hot come arma di ricatto?

«Con una sentenza di condanna a suo carico. Sarei ipocrita se dicessi che mi dispiace. Però, certo, che tanti decenni di giornalismo finiscano così, è triste».

Emilio Fede, condannato a 2 anni e 3 mesi per tentata estorsione

Emilio Fede, condannato a 2 anni e 3 mesi per tentata estorsione

Com’è la tua giornata?

«Interessa?».

Sei pur sempre un manager realizzato, per usare le tue parole, che dirige un certo numero di testate e di programmi tv che parlano a decine di milioni di italiani…

«La mia giornata inizia prima di addormentarsi, con la consultazione di siti e testate. Poi ricomincia la mattina dopo con la lettura dei giornali. Telefono al mio vice, Andrea Delogu, senza il quale tutta la macchina non parte. Vedo i collaboratori e cerco di capire ogni giorno se stiamo facendo la cosa giusta o commettendo peccati di omissione e superficialità».

Che tipo di capo sei?

«Ascolto tutti, sono molto condizionabile dalle persone intelligenti e di talento. Non sono geloso della loro bravura, cerco di utilizzarla. D’altro canto, quando hai a che fare con alcuni grandi del giornalismo non puoi metterti a gareggiare con loro: rischi di perdere troppo spesso».

Grandi del giornalismo?

«Certo. Prendi uno come Paolo Liguori: ci vogliono due palle così per essere garantisti ai tempi di Mani pulite come lui fu da direttore del Giorno. E Clemente Mimun? Uno che ha diretto con successo tutto quello che si poteva dirigere. Mario Giordano invece è uno affilato come un coltello che ha fiutato per primo l’incazzatura degli italiani per una certa politica».

Nella carta stampata, invece, chi ti piace?

«In questo momento non perdo un Buongiorno di Mattia Feltri».

E tra i meno giovani, dell’era pre internet?

«Leggete Il provinciale di Giorgio Bocca e qualche pagina di Gianni Brera, mettetegli accanto un po’ di Indro Montanelli, di Vittorio Feltri e di Mario Cervi e avrete il mix del meglio del giornalismo italiano».

Narrativa o saggistica?

«Fino a qualche tempo fa Lansdale e Winslow. Adesso leggo più saggistica, tipo La guerra civile americana».

È il tuo libro da comodino?

«In verità, senza darmi delle arie, adesso è Vita e destino di Grossman».

Hobby preferito?

«Ascolto musica, tutta: dai Coldplay a Bach. Ma in genere mi annoio molto quando non lavoro».

Un programma che vorresti fare?

«Qualcosa in cui uno come Gerry Scotti ci faccia vedere gli Uffizi di Firenze con i suoi occhi».

C’è già Alberto Angela.

«Ma Angela è un divulgatore. A lui farei presentare uno spettacolo musicale».

Un programma che non sei riuscito a fare?

«Radio belva con Vittorio Sgarbi e Giuseppe Cruciani insieme. Si è sfiorata la rissa in studio ed eravamo in diretta. Colpa mia: avrei dovuto registrarlo. Forse oggi sarebbe ancora in onda».

Il programma che invidi alla concorrenza?

«Report. In casa nostra abbiamo le capacità e i talenti per farlo, forse ci dovremmo lavorare. Poi, quando vedo certi servizi dei nostri inviati sul campo, mi dico che basterebbe montarli insieme e metterci una sigla per avere un grande programma».

A volte sembra che la vostra informazione sia un filo smussata, rassicurante. Forse Le Iene sono i reporter più acuminati.

«A me piacciono molto Le Iene, sono giornalisti senza tessera».

Com’è lavorare con il figlio del Cavaliere?

«Definirlo geneticamente mi sembra riduttivo. Piersilvio è un leader. Sta spingendo molto per farci produrre sempre più contenuti italiani».

La tua vacanza ideale?

«Al mare con gli amici».

Che sono?

«Giovanni Toti, Paolo Liguori, Marco Pogliani e pochi altri».

Chi o che cosa ti dà speranza, oggi?

«Ha quattro anni e si chiama Marco. È mio figlio».

La Verità, 9 luglio 2017

Mediaset vuole occupare il centro del sistema tv

Video, slide, grafici, soprattutto parole chiave. Alla presentazione dei palinsesti 2017-2018 ribattezzati, per l’occasione, «nuova offerta televisiva Mediaset», andata in scena l’altro ieri nel prestigioso Hotel Hermitage di Montecarlo recuperando una consuetudine in auge una decina d’anni fa – per dare un segnale anti Vivendi alla stampa francese? o per dare uno schiaffo all’idea di essere in crisi? – la novità più significativa è negli slogan della comunicazione adottati dai dirigenti della tv commerciale di Cologno Monzese. C’è meno martellamento rutilante di un tempo, a tutto vantaggio della nitidezza dei concetti, nei filmati e negli speech con i quali il direttore generale del palinsesto, Marco Paolini, dell’informazione, Mauro Crippa, e dei contenuti, Alessandro Salem, hanno tracciato le linee guida del Biscione che verrà. Pochi e chiari slogan. A cominciare da «sistema crossmediale»: per descrivere un impegno sempre più trasversale tra tv generalista, tematica e in streaming, radio e web (Piersilvio Berlusconi ha annunciato l’acquisto di Radio Subasio, cha si aggiunge a R 101, Radio 105, Virgin radio). Poi «made in Mediaset»: per indicare la tv fatta in casa e l’impegno nelle autoproduzioni di contenuti originali, con un messaggio indiretto agli editori multinazionali, Sky in primis, autori di una tv prevalentemente fatta di format «tradotti ed estratti dal congelatore». Infine, sempre nella stessa direzione, l’ambizioso «Mediaset, la nazionale della tv»: per sottolineare la priorità dei contenuti italiani, con un’ambizione di rappresentanza del Paese che potrebbe infastidire la Rai, detentrice del ruolo di servizio pubblico.

Il vertice Mediaset alla presentazione dei palinsesti 2017/2018

Il vertice Mediaset alla presentazione dei palinsesti 2017/2018

Mediaset, insomma, punta sulla creazione e il consolidamento del talento italiano. Ed è come se, con questi slogan e queste rivendicazioni, volesse occupare il centro del sistema televisivo nel suo complesso. Un centro industriale, creativo, produttivo, editoriale. Resta da vedere se e fino a che punto ci riuscirà. Intanto, come ha specificato Salem, la produzione si sviluppa attraverso «diversi gruppi di lavoro, quello della Fascino di Maria De Filippi, quello di Antonio Ricci, quello di Paolo Bonolis, di Davide Parenti e delle Iene, i laboratori comici e dei reality. Tutto concepito come una grande e unica officina creativa dell’intrattenimento». Lo scopo è profilare più possibile il pubblico, concentrandosi sul target commerciale. Non a caso, esemplificando, Salem ha paragonato gli ascolti di una serie di programmi Rai e Mediaset (Stasera casa Mika e Le Iene, Facciamo che io ero con Virginia Raffaele e Buona la prima, Ballando con le stelle e Amici) evidenziando che, se a volte la share generale premia i titoli Rai, sul target tra 15 e 64 anni il vantaggio dei programmi Mediaset è notevole e a volte abissale.

Insomma, una nuova filosofia editoriale, una nuova confezione per contenuti solo in parte inediti. Canale 5, per esempio, riproporrà molti marchi storici. Come quelli targati Maria De Filippi (C’è posta per te, Amici, Tu sì que vales, House party) e quelli firmati da Paolo Bonolis (Music e Chi ha incastrato Peter Pan?). Tornerà il Grande fratello vip, sempre con Ilary Blasi, mentre per Scommettiamo che i conduttori sono da definire. Confermati in seconda serata Matrix con Nicola Porro e Piero Chiambretti e L’intervista di Maurizio Costanzo. Nell’access primetime saranno riproposti Caduta libera e Avanti un altro, mentre Gerry Scotti testerà The Wall, format inedito di un quiz americano rivisitato da Endemol. L’intoccabile Striscia la notizia giungerà alla trentesima edizione. Squadra che vince non si cambia, anzi. L’obiettivo è consolidare i cavalli di battaglia, «per arrivare presto a cinque serate settimanali autoprodotte internamente», ha sottolineato Berlusconi.

Maggiori novità si riconoscono nel palinsesto di Italia 1, dov’è previsto un programma inedito di Nicola Savino che, di ritorno dalla Rai, andrà anche a irrobustire la squadra di conduttori delle Iene. A proposito di ritorni, particolarmente gradito è quello della Gialappa’s band. Altre novità: Big show con Andrea Pucci, il reality Surviving Africa (conduttore da definire dopo le divergenze con Raz Degan) e l’adattamento per la rete giovane del Senso della vita di Paolo Bonolis. Tutta confermata, invece, la linea dell’informazione di Rete 4, con Dalla vostra parte condotto da Maurizio Belpietro, direttore della Verità, «una risorsa per noi fondamentale», ha sottolineato Mauro Crippa, Quinta colonna, Terzo indizio e Quarto grado. Alla quale andranno ad aggiungersi una serie di documentari realizzati da Vincenzo venuto e Madre mia, una docu-fiction con AlBano che racconterà un secolo d’Italia vista dalla famiglia Carrisi.

Dopo gli anni dei successi con Distretto di polizia, Il capo dei capi ed Elisa di Rivombrosa, per citare tre generi diversi, cui ha fatto seguito un periodo di appannamento concomitante con la crisi degli investimenti pubblicitari, la fiction e le serie tornano centrali anche in Mediaset. Dal gruppo di scrittura di Paolo Genovese uscirà la serie tratta dal film Immaturi. Poi arriveranno Rosy Abate con Giulia Michelini e Liberi sognatori, quattro tv movie per raccontare altrettante «figure eroiche della cronaca italiana assassinate dal crimine organizzato tra gli anni Settanta e Novanta», e L’Isola di Pietro con Gianni Morandi protagonista.

Dall’autunno diverrà operativa anche la nuova piattaforma digitale di Mediasetplay, illustrata da Pier Paolo Cervi. Il nuovo sistema consentirà la condivisione dei contenuti su tutti i dispositivi, con i servizi over the top, la funzione restart, la visione differita su mobile, la massima interattività tra smartphone e smart tv «senza bisogno di decoder e parabole e con l’uso del telecomando già in dotazione».

Il 2018 dovrebbe essere l'anno buono per «Adrian»

Il 2018 dovrebbe essere l’anno buono per «Adrian»

Tra le altre notizie annunciate da Berlusconi jr c’è il closing per l’acquisto del canale 20 del digitale terrestre, ma la scelta se farne una rete tematica o generalista non è ancora stata fatta. Chiusura in bellezza con Adrian di Adriano Celentano, il fumetto utopistico anarcoide disegnato da Milo Manara, musicato da Nicola Piovani e scritto da Vincenzo Cerami e Alessandro Baricco, già più volte annunciato e di cui, finalmente, si è visto un breve trailer. Dall’inizio del 2018 dovremmo riuscire a vedere tutti 13 gli episodi.

 

La Verità, 7 luglio 2017

 

«Sì alla Lega nazionale, no al lepenismo di Salvini»

A Irene Pivetti calza come un guanto il titolo dell’autobiografia di Vittorio Gassman: «Un grande avvenire dietro le spalle». Essendo diventata presidente della Camera a 31 anni, da lì in poi è difficile non mettersi a inseguire il passato. La incontro a Milano, tra mille impegni, negli uffici di Only Italia, piattaforma per la promozione di piccole e medie imprese nell’esportazione verso l’Oriente.

Presidente Pivetti, sta vedendo 1993, la serie di Sky su Tangentopoli?

«Purtroppo no, in queste settimane sono stata in Cina per lavoro».

C’è una parte dedicata alla discesa dei leghisti a Roma e il Carroccio non ne esce benissimo.

«Credo ci sia poca comprensione della Lega in generale, un fenomeno veramente fuori dagli schemi. Quando ero al liceo si teorizzava l’avvento della post politica, ma una volta che arrivò non andava bene perché non era quella che si aspettavano gli intellettuali».

Pietro Bosco (Guido Caprino) agita il cappio in Parlamento

Pietro Bosco (Guido Caprino) agita il cappio in Parlamento citando Luca Orsenigo

La Lega è dipinta come una forza ingenua, ma avulsa al Palazzo.

«La Lega comprendeva le logiche di potere, superandole. Le faccio un esempio: nel 1990 Umberto Bossi doveva avere un appuntamento a Roma con Giulio Andreotti: il numero uno della politica incontrava il numero zero. All’ora dell’appuntamento Bossi era ancora in Piazza Massari a Milano. Da dove, con calma, si avviò all’aeroporto per raggiungere Andreotti con oltre quattro ore di ritardo. Il Senatúr conosceva i codici e li usava contro il sistema. Ma i giornalisti si scandalizzavano: “Quel buzzurro arriva in ritardo all’appuntamento con Andreotti”. Anche la famosa canotta in Costa Smeralda: un messaggio, come altri, perfettamente consapevole, per dire che il Re era nudo e che quel potere poteva essere sovvertito».

Nella serie c’è una scena in cui Gianfranco Miglio sottolinea il ruolo rigeneratore dei «barbari».

«La verità e che Miglio non contava nulla nella Lega. Era una persona intelligente e stimabile, ma certamente non l’ideologo. Che era Bossi. Miglio piaceva agli intellettuali e ai giornalisti e serviva da traduttore simultaneo».

Nella prossima stagione, 1994, ci sarà una ragazza di 31 anni che diventa presidente della Camera.

«Il ’94 fu un anno importante, con una campagna elettorale molto impegnativa perché il centrodestra era diviso, con il Polo delle libertà al Nord e il Polo del buongoverno al Sud».

C’è qualcosa che ancora non sappiamo della sua nomina?

«Io avrei dovuto fare il ministro dell’Istruzione e Roberto Maroni il presidente della Camera. Ma Maroni voleva gli Interni. Allora Bossi propose Francesco Speroni per il Senato, sul quale cadde il veto di Berlusconi a causa delle sue giacche variopinte».

Come si arrivò a lei?

«Ci sono tanti padri di quella nomina, ma contò il benestare di Bossi. Ricordo che ero in macchina vicino al Castello Sforzesco quando squillò il cellularone dell’epoca: “Uè, mi sa che ti tocca fare il presidente. Vai alla Camera”. E io: “Aspetta un attimo che accosto…”. Mi disse che il partito mi avrebbe sostenuto. E fu così, soprattutto sul piano umano umano. Dal punto di vista politico, invece, ci mancava l’esperienza. Andai avanti col mio fiuto e l’aiuto delle persone di cui mi fidavo».

Che erano?

«Gianluigi Marrone, capo di gabinetto, giudice unico della Città del Vaticano e capo del personale della Camera. Vincenzo Parisi, capo della polizia, che morì di lì a poco, un grande servitore dello Stato. Francesco Cossiga, un galantuomo d’altri tempi, mente eclettica e personalità lungimirante».

È difficile reinventarsi dopo aver conquistato la vetta così giovani?

«Molto. Ma siccome lo sapevo mi ci sono preparata da subito. Devi avere coscienza che quell’esperienza è transitoria e dura finché servi».

E pur preparandosi…

«Le difficoltà restano. Quando esci da una carica così sei ingombrante. Essere imparziale mi procurò nemici politici e amministrativi. Bonificai il bilancio della Camera del 19% ogni anno: la spending review l’ho applicata ben prima di Mario Monti».

Secondo lei abbiamo completamente capito e metabolizzato la stagione di Tangentopoli?

«Metabolizzato sì, capito forse no. Tangentopoli è servita a cambiare la politica, ha distrutto i partiti e, a volte, anche delle persone. Ma non ha distrutto la corruzione».

Irene Pivetti e Umberto Bossi agli albori della Lega

Irene Pivetti e Umberto Bossi agli albori della Lega

Chi è e chi è stato Umberto Bossi?

«Chi è adesso non lo so, non vedendolo da anni. È stato la persona che ha reso davvero possibile la Seconda repubblica. Lui e Berlusconi sono una coppia simul stabunt simul cadent. Bossi ha portato la legittimazione popolare, Berlusconi gli strumenti. E con un riuscito matrimonio d’interessi sono diventati vincenti».

Berlusconi è l’Ercolino sempre in piedi della politica?

«Non lo definirei così. Berlusconi continua a dare le carte. È una persona che ha mantenuto lo spazio del centrodestra moderato, orfano della Dc. Ho dissentito sul primo accordo con Matteo Renzi: che significava opposizione non belligerante?».

E il Renzusconi di adesso lo approva?

«Questo è un accordo tecnico, finalizzato a una legge specifica. Berlusconi trova ancora le formule per presidiare quell’area priva di forze alternative».

Un’area in cui si riconosce, forse più che nella Lega attuale?

«Mi riconosco in quest’area moderata in base ai motivi originari della Lega, nella quale è sempre stata viva l’idea di uno Stato che rispetti i valori della cultura e delle libertà locali. Libertà e identità sono le parole chiave della Lega delle origini. Chi mi dà questo ha il mio voto».

E anche la sua candidatura?

«Come lei sa adesso faccio l’imprenditrice, un’attività che mal si concilia con la politica. Ho fatto un’esperienza più affettiva che efficace come capolista della Lega a Roma, ma il risultato è stato modesto».

Esclude di candidarsi?

«Adesso non ci penso. Faccio un lavoro che mi assorbe: promuovo il made in Italy in Cina».

Stando alle cronache sembra sia la Cina a prendersi l’Italia.

«Sì, a causa dell’incapacità della nostra politica di governare questo fenomeno. La Cina è una grandissima risorsa, un Paese che cura il proprio benessere e la propria crescita e con il quale si può lavorare bene se si hanno idee chiare e personalità. Le nostre istituzioni non hanno né l’una né l’altra. Amiamo dare di noi stessi l’immagine di un Paese del lusso e del futile, dimenticando che la forza dell’Italia è stata la sua capacità di progettare e realizzare uno Stato moderno a partire da un Paese agricolo e ignorante. Questo potrebbe fare di noi un grande partner della Cina. Ma ci comportiamo come nobili decaduti che non hanno voglia di lavorare».

La Seconda repubblica l’ha delusa?

«Sta durando troppo. Dovevamo destrutturare il precedente sistema per costruirne uno nuovo. Invece siamo sopra le macerie senza che si veda il nuovo progetto. Manca la visione di uno Stato capace di servire gli interessi più deboli e di inserire l’Italia al posto che merita. Ci accontentiamo della cena con Barack Obama o di stringere la mano a Donald Trump, ma la verità e che non contiamo niente».

Le piace la Lega nazionale di Matteo Salvini?

«Mi piace: la prospettiva nazionale appartiene alle origini. Ricordo quando, nel 1991, andammo con una decina di persone a tenere un comizio a Napoli. Molte altre volte siamo andati al Sud per far nascere le sezioni».

E il lepenismo le piace?

«No. Quella destra ha un’origine culturale diversa dalla nostra, che è popolare e identitaria. La Lega è un movimento delle Italie plurali, che non ha niente a che vedere con le forze sovraniste francesi».

Il tratto di unione è il rifiuto dell’accoglienza degli immigrati.

«Sono d’accordo a contrastare l’immigrazione perché e una forma moderna di tratta degli schiavi. La risposta vera però dev’essere politica: la cooperazione non è più sufficiente. Bisogna richiamare alle loro responsabilità gli Stati complici, molti dei quali sono quelli di provenienza».

Che cosa pensa di papa Francesco?

«Che è un gesuita estremamente in gamba. La sa lunga in termini di comunicazione e lascia che tre quarti del mondo lo trovi rivoluzionario, mentre lui non fa che ripetere con grande chiarezza la dottrina della Chiesa, spostando l’accento sulla misericordia. Mi piace molto. Non condivido le accuse di essere troppo innovativo. Al contrario, vedo molta ignoranza in queste critiche».

Le piace anche il suo magistero dell’accoglienza?

«Il Papa fa il Papa. E ci ricorda che gli immigrati sono persone che hanno una dignità. Non indica una linea politica. Tocca ai politici prendere le decisioni. Con Salvini spesso cito il catechismo dove dice che l’accoglienza è doverosa “nei limiti del possibile”. Il che vuol dire che ci sono istituzioni che devono fare di più per rimuovere le cause, contrastando all’origine il flusso migratorio».

A cena con Bergoglio o con Trump?

«La conversazione della cena si addice di più a un presidente. Ma un ritiro con Bergoglio lo farei volentieri».

Cosa pensa dell’altro Matteo?

«È un bravo comunicatore. Però è anche moltissimo borghese, nel senso che la sua è una sinistra adatta ai ricchi e ai colti, ma che lascia indietro il popolo».

E di Beppe Grillo?

«Ottimo uomo di spettacolo. Come politico mi ha sorpreso perché pensavo mollasse prima. Però, a questo punto, è ora che tiri fuori una proposta. L’onestà è un prerequisito del far politica. Tutta l’anima dei 5 stelle è un discorso sul metodo: i contenuti oggettivi e la visione restano ignoti».

Perché a un certo punto la sua esperienza televisiva si è fermata?

«Mi sono concentrata sul lavoro d’impresa e non mi sono più stati proposti programmi adatti. Ma è stata un’esperienza positiva».

Che cosa farà Irene Pivetti da grande?

«Svilupperò questa piattaforma di affari tra Italia e Oriente, Cina prima e Via della seta. Poi farò qualche bella vacanza di trekking».

La Verità, 4 giugno 2017

Bertolucci: «Perché non avrei allenato Federer»

Lei aveva un braccio come quello di Fabio Fognini? «Direi che il suo è più veloce. Ma è difficile fare paragoni con quarant’anni fa perché oggi sono cambiati i materiali, le racchette, le palle. E questo, com’è avvenuto in tutti gli sport, ha portato anche il tennis a una versione più violenta e fisica, causa di un maggiore stress mentale». Incontro Paolo Bertolucci il giorno dopo il match in cui Fognini, genio e volubilità, ha annichilito Andy Murray, numero uno del mondo, con una lezione di ricami e fendenti, palle corte e accelerazioni folgoranti. Bertolucci lo chiamavano Braccio d’oro per la facilità a mettere la palla dove voleva con traiettorie chirurgiche, tanto più utili in doppio, quando il campo si restringe. In coppia con Adriano Panatta hanno battuto Vitas Gerulaitis e John McEnroe, Peter McNamara e Paul McNamee quand’erano al vertice del ranking, e i mitici australiani John Newcombe e Tony Roche. Nel 1976 con Panatta, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli, Braccio d’oro vinse la Coppa Davis contro il Cile di Augusto Pinochet. Nel recente quarantennale si è ricordata quella contrastata trasferta con tanto d’interrogazioni parlamentari e di magliette rosse indossate durante il match. Bertolucci ha conquistato successi anche in singolo, fino a sfiorare l’ingresso nella top ten. Da commissario tecnico della Nazionale, nel 1998 raggiunse un’altra finale di Davis, persa a Milano contro la Svezia. Ora vive a Verona, ma al posto della racchetta impugna il microfono di commentatore per Sky. L’altra sera, durante il match di Fognini, Pasta kid, altro nomignolo affibbiatogli dal giornalista Bud Collins per giocare sulla sua passione per la buona cucina, ha accennato a qualche chilo di troppo del tennista italiano.

Paolo Bertolucci con Pietrangeli, Panatta e Barazzutti al ritorno dal Cile

Paolo Bertolucci con Pietrangeli, Panatta e Barazzutti al ritorno dal Cile

Il paragone è inevitabile: anche per lei il peso era un problema.

«Per me era un problema costante. Per Fognini è stato un ostacolo nel 2016 quando, dopo un infortunio, era cresciuto di quattro chili. Lui ha qualità fisiche eccezionali e una mobilità che non ha nulla da invidiare ai migliori del circuito».

La verità è che voi non vi allenavate. Almeno non quanto avrebbe voluto Mario Belardinelli.

«Non ci fosse stato lui l’avremmo fatto molto meno. In quell’epoca, quando non si parlava quasi di preparazione fisica, fummo pionieri. Il centro di Formia era all’avanguardia, venivano dall’estero per copiarci. Si collaborava con le federazioni di altre discipline. Con i pesisti trascorrevamo ore in palestra, guadagnando forza ma perdendo esplosività. Con i mezzofondisti avevamo un gran fiato, ma poca velocità. Con gli ostacolisti trovammo la strada maestra».

Avreste potuto vincere molto di più: rimpianti?

«Se avessimo avuto un maggiore know how avremmo trovato subito la strada giusta».

Ma un cruccio, una cosa rimasta sul gozzo?

«Forse avremmo potuto vincere un’altra Coppa Davis. Abbiamo disputato quattro finali, tutte fuori casa. Ma quella del 1976 rimane tuttora l’unica. L’avventura di quattro ragazzi cresciuti insieme, il cui sogno era prima indossare la maglia azzurra, poi passare un turno, poi arrivare in finale…».

Un altro rimpianto, forse, non aver allenato Roger Federer?

«Una decina d’anni fa ero entrato in una rosa di possibili candidati. Poi lui fece altre scelte. E anch’io le avevo fatte. Non è un rimpianto perché non fui mai direttamente contattato. Comunque, a malincuore, avrei declinato. Ritenevo che il mio tempo d’allenatore fosse passato».

Con Panatta vi sentite ancora? Vivete anche vicini, lui a Treviso lei a Verona.

«Certo. Lui mi copia sempre. Sebbene dicesse di non amare i toscani ne sposò una e si trasferì a Forte dei Marmi. Quando sono andato a vivere a Verona, dopo un po’ anche lui è venuto in Veneto».

Come mai Verona?

«Questioni di cuore. E poi si sta da Dio, si mangia e si vive bene. C’è cultura, spettacolo, qualità della vita. È comoda per chi come me va spesso a Milano. E la montagna è vicina».

Con Panatta ok. E con Barazzutti?

«Nessun rapporto e non so perché. Quando una volta gli feci i complimenti per una vittoria in Federation Cup (la Coppa Davis femminile, ndr) mi disse: “Se non mi saluti più mi fai un favore”. Da allora silenzio, ma dormo bene lo stesso».

Vi capiterà d’incrociarvi ai tornei.

«Anche nelle occasioni del quarantennale della vittoria in Davis organizzate dalla Federazione ci siamo ignorati. Sky Sport aveva realizzato uno speciale, ma io e Adriano eravamo a Milano, mentre Barazzutti e Zugarelli sono rimasti a Roma».

Come si spiega questo gelo?

«Fatico a spiegarmelo. Forse ha a che fare con la scelta per la presidenza della Federazione per la quale preferimmo candidati diversi. Mi sembra una cosa assurda».

Zugarelli è sparito dai radar?

«Credo lavori in un circolo di Roma. È molto riservato».

Si fa mai prendere dalla nostalgia?

«No, sono stagioni bellissime. A 32 o 33 anni, quando si smette, si ha tutta la vita davanti. Ho fatto il tecnico delle giovanili, poi della Nazionale di Davis. Quando mi hanno proposto di commentare le partite l’idea mi è piaciuta. Scrivo anche commenti per La Gazzetta dello sport. Mi piace parlare dell’unica cosa della quale ho una certa conoscenza. Ho sempre detestato i tuttologi».

Gianni Clerici si dice annoiato dal tennis moderno

Gianni Clerici si dice annoiato dal tennis moderno

Di recente, in un’intervista alla Verità, Gianni Clerici ha confidato che il tennis moderno lo annoia perché dominato dai materiali e da racchette troppo potenti. Cosa ne pensa?

«Clerici è un maestro della provocazione. Si annoiava anche ai miei tempi, quando c’erano Jimmy Arias e José Higueras. In ogni epoca ci sono giocatori spettacolari e carismatici. Ma sono tre o quattro, mentre i tabelloni si fanno con 64 giocatori e anche quelli che non hanno il braccio d’oro, possiedono doti mentali e fisiche per raggiungere le prime posizioni. Non nasceranno nuovi Rafa Nadal o Roger Federer, ma altri giocatori che prenderanno il testimone da questi. Il tennis evolve perché si gioca in tutto il mondo. Magari i prossimi numeri uno arriveranno dalla Nuova Zelanda o dal Marocco».

Clerici auspica il ritorno alle racchette di legno: lei che viene da quell’epoca cosa ne pensa?

«Come si può tornare alle racchette di legno? Qualcuno ipotizza il ritorno al salto con l’asta in bambù? O al ciclismo con le biciclette di Fausto Coppi e Gino Bartali? Il mondo va avanti, cambiano gli attrezzi e i materiali. Cambiano i metodi di allenamento e l’alimentazione. Ai miei tempi mangiavamo filetto e insalata, la pasta era proibita, e dopo due ore eravamo sotto il sole a correre. Oggi si fa il contrario».

Se si riguardano i match di trent’anni fa sembra che i giocatori camminino, lo stesso avviene con le vecchie partite di calcio.

«Trent’anni fa un giocatore di un metro e 85 era un atleta alto e prestante. Oggi Alexander Zverev e Juan Martin Del Potro sono 1 metro e 98 e si muovono come quelli di 1 metro e 80. È così dovunque: nel basket uno di due metri fa il play maker, una volta era il pivot».

Premesso che il tennis è lo sport individuale più completo ed esigente, c’è vita oltre il tennis?

«I giocatori di oggi non hanno molto tempo. Sono circondati dall’allenatore, dal manager, dal fisioterapista, a volte dall’addetto stampa e dall’accordatore. Vivono in team. C’è una certa esasperazione, devono stare sul pezzo 24 ore al giorno. Anche perché ci sono in ballo tanti soldi e in pochi anni possono risolvere i propri problemi e quelli dei propri figli».

E per lei c’è vita oltre il tennis?

«Certo. L’impegno come commentatore televisivo mi assorbe per 15 settimane all’anno. Poi mi dedico a tutt’altro».

Per esempio?

«Amo e seguo molto l’arte contemporanea. La famiglia della mia compagna è proprietaria del Byblos Art Hotel, fuori Verona, premiato come miglior albergo d’Europa di arte contemporanea. Appena posso viaggio, visito le mostre, conosco le vite degli artisti. Anche quando giocavo cercavo di superare il monopolio che il tennis avrebbe voluto avere sulla mia vita. Ma all’epoca si poteva».

Segue la politica?

«La seguo, ma non mi ha mai interessato direttamente. Vivo con apprensione questo momento sempre più complicato. Se non avessi gli affetti in Italia sarei andato altrove. Non perché qui si stia male, ma per aumentare le mie conoscenze».

Keith Haring. Bertolucci ama l'arte contemporanea

Keith Haring. Bertolucci ha visitato la sua mostra a Milano

Legge?

«Quando giocavo portavo sempre in valigia un libro di Wilbur Smith. Anche la Settimana enigmistica non mancava mai nelle lunghe trasferte. Ora, confesso, leggo un po’ meno, ma appena posso vado a qualche mostra. A Palazzo Reale a Milano ho da poco visto quella di Keith Haring. Mi piacciono Basquiat, Anish Kapoor, andrò alla Biennale».

Perché i giocatori italiani sono raramente all’altezza del loro talento?

«È una questione di mentalità. Il tennis è uno sport globalizzato, per 40 settimane all’anno i giocatori girano il mondo. Servono impegno, determinazione, volontà. Noi italiani abbiamo ancora un approccio tra il provinciale e l’artigianale».

È soprattutto carenza di determinazione?

«Certi ventenni stranieri sembrano più maturi dei nostri trentenni. Anche nel calcio ci sono i Cassano e i Balotelli».

Quando un nostro giocatore tornerà nella top ten come ai tempi di Nicola Pietrangeli e Panatta?

«Ci vogliono tempo, maestri e il circolo virtuoso giusti».

E quando un italiano scriverà un libro come Open di Agassi?

«Beh, anche lui è stato molto aiutato dal premio Pulitzer J. R. Moehringer».

Chi è il più grande di sempre?

«Roger Federer, senza dubbio. Lo dicono tutti i giocatori del presente e del passato. Ma tutto il tennis continua a emozionarmi. Resto ammaliato quando vedo certi colpi perché conosco le difficoltà che comportano. Pochi giorni fa ho intervistato Nadal a Montecarlo: ero come un bambino a Disneyland».

Pisoni: «Sky Arte come una casa editrice»

Nei building hi tech di Santa Giulia, Roberto Pisoni sembra quasi a disagio. Potremmo fare la nostra chiacchierata seduti sulle poltroncine che punteggiano la hall con vista sulla skyline milanese. Ma entrambi preferiamo la privacy del suo ufficio. Il direttore di Sky Arte è quello che si è soliti definire un orso. Una persona riservata e colta, che non se la tira. Per dirigere un canale che è molto più e molto meno di una rete tv «bisogna continuare a studiare», dice. E «studiare» sta per voglia di capire, approfondire, interpretare. È una predisposizione mentale, un’attitudine a discutere e discutersi. Che non significa spaccare il capello in quattro. Perché, poi, la televisione ha i suoi tempi e la sua operatività, non si scappa. Per dirigere Sky Arte ci vuole cultura e umiltà insieme. Un miscuglio insolito in un romano di 48 anni trapiantato a Milano, amante della letteratura, del cinema e della musica e cresciuto nell’epoca in cui eclettico non era ancora sinonimo di multitasking.

Un'installazione dell'artista JR al Festival di Napoli

Un’installazione dell’artista JR al Festival di Napoli

Il «canale» che dirige potrebbe essere raccontato per negazione. Non ha volti identificativi. Non ha un palinsesto bloccato. Non è monitorato dall’Auditel, per scelta dell’editore. Non innesca polemiche sui media. Anche Pisoni lavora per sottrazione. Non ama apparire, farsi fotografare, farsi intervistare. Ma ha un’idea chiara di chi è e che cosa vuol essere. «Mi piace stare dietro le quinte, lavorare con la squadra, cercare storie e contenuti da raccontare con il nostro linguaggio». Un’idea dalla quale deriva che cos’è e che cosa vuol essere Sky Arte. «Proviamo a cogliere dove ci porta il momento che stiamo vivendo. Chiedendoci come possiamo esserci e lasciare un segno. Così, poco alla volta, abbiamo riattivato un comparto produttivo e di contenuti desaparecidi dalle televisioni. Fino a qualche tempo fa, se si voleva vedere un documentario su Pompei o Firenze bisognava comprarlo all’estero. L’arte e la storia italiana erano qualcosa di televisivamente esotico. Oppure abbiamo collaborato alla realizzazione di opere da distribuire al cinema, com’è stato l’ultimo doc in 3D Raffaello il principe delle arti o, prima, sui Musei vaticani. È un tipo di prodotto che fino a qualche anno fa non esisteva. Invece, lo conferma il botteghino, esistono una domanda e un pubblico». È un discreto paradosso per un Paese come il nostro dover ricorrere a produzioni straniere per approfondire la conoscenza del nostro patrimonio artistico. Poi è arrivata Sky Arte e fin dall’inaugurazione con Michelangelo, il cuore e la pietra, 1 novembre 2012, la ricchezza italiana è diventata oggetto di attenzione e cura.

Pisoni era lì da sei mesi per prepararne il lancio, dopo aver lavorato come programmista regista a Sky Cinema. «Andavo ai festival, facevo le interviste, montavo gli speciali come tutti, dall’inizio alla fine, con la supervisione di Nils Hartmann (ora direttore delle produzioni originali Sky) e Roberto Amoroso (direttore della fiction)». La sua passione per la letteratura l’aveva aiutato da quando, al tramontar del secolo, era entrato a Studio Universal. «Ero un lettore onnivoro: amavo e amo la fantascienza e Philip Dick, i classici russi, Gustave Flaubert e gli americani da Ernest Hemingway a David Foster Wallace. Poi, con la stessa curiosità, ho cominciato a interessarmi al cinema. Sono rimasto affascinato da Erich von Stroheim, il primo grande regista del muto, un austriaco figlio di un cappellaio ebreo che si era inventato una biografia da ufficiale prussiano aristocratico. Il regista maledetto di Femmine folli e Greed, pieno di manie di grandezza, ucciso dall’avvento del sonoro. Ci ho fatto la tesi di laurea. Poi ho visto Fritz Lang, Ingmar Bergman e gli svedesi, il neorealismo italiano e Roberto Rossellini. Infine la musica. Sono nato nel 1969 e il rock, in un certo senso, mi ha salvato la vita». Bruce Springsteen, U2, Pink Floyd, Deep Purple, Baustelle, Vasco, senza trascurare il jazz e i cantautori: Sky Arte li scandaglia attraverso i backstage delle tournée e delle incisioni discografiche, le biografie, i documentari, gli anniversari e le jam session.

Viene quasi da invidiarlo, Pisoni. Ha trasformato le sue passioni in lavoro. Dirige una rete tv che racconta letteratura, cinema, musica, arte.

Libro preferito? «Ho tenuto a lungo sul comodino Le botteghe color cannella di Bruno Schulz, racconti autobiografici di un visionario. Jorge Luis Borges mi diverte sempre molto. Tra gli italiani mi piace Beppe Fenoglio».

Film della vita? «Direi 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Altri, molto amati: L’Infernale Quinlan, Stromboli di Roberto Rossellini e Heat di Michael Mann».

Disco e gruppo musicale prediletti? «Ziggy Stardust di Dawid Bowie. Gruppo: The Smiths. Canzone: Love will tear us apart dei Joy Division».

Hobby e divertimenti nel tempo libero? «Il calciotto con amici e colleghi di Sky, il martedì sera. E le carte, briscola e tressette giocate alla morte».

La Lectio magistralis di Manuel Agnelli al Festival di Napoli

La Lectio magistralis di Manuel Agnelli al Festival di Napoli

 

Da due anni Milano è sede dell’hub europeo che comprende i canali fratelli di Gran Bretagna e Irlanda, Germania e Austria. «Curiamo alcune produzioni internazionali. Come Rinascere dalle distruzioni – Palmira, Ebla, Nimrud, documentario sul lavoro di archeologi e scienziati per riportare in vita i monumenti e i siti storici distrutti dall’Isis». Ma sarebbe sbagliato farsi l’idea che bisogna essere laureati in storia dell’arte per apprezzare il canale. Con L’arte non è Marte di Mario Torre, Muse inquietanti di Carlo Lucarelli e Potevo farlo anch’io, con Francesco Bonami e Alessandro Cattelan, i doc sulla street art, i writer e le biophic di Basquiat e Banksy, l’arte diventa un gioco, un racconto mistery, un terreno familiare, un linguaggio visivo. La stessa cosa si può dire della letteratura, grazie a Booklovers e alle doti narrative di Giorgio Porrà. «Finora non abbiamo voluto identificare il canale con dei volti precisi. Ci è sembrato più importante comunicare il suo approccio e il suo stile, contaminando e mescolando i linguaggi. Così abbiamo scelto uno scettico come Cattelan e un giallista come Lucarelli per costruire il racconto sull’arte. Oppure un eclettico come Porrà per intraprendere un viaggio nella letteratura. L’obiettivo è accontentare il pubblico degli appassionati cercando, allo stesso tempo, d’intercettare anche i curiosi». Nelle ultime produzioni, circa 80-90 ore l’anno, sta crescendo il filone della storia italiana del Novecento? «Proviamo a riannodare le tracce della nostra storia attraverso piccole sceneggiature che riescano a emozionare lo spettatore». Nelle docufiction si mescolano testimonianze e recitazione. Come nel bellissimo Indro, l’uomo che scriveva sull’acqua, o nelle biografie di Aldo Moro, Primo Levi, Leopoldo Pirelli: «Figure la cui avventura biografica, pur magari non essendo affine al canale, è in grado di aprire riflessioni e approfondimenti, illuminando angoli remoti del passato e del presente. Poi ci sono quelli che hanno deciso di lasciare la tv, personalità pop anche se rimaste sul margine, magari per scelta loro: Andrea Pazienza, Piero Ciampi, Tiziano Sclavi, la stessa Mina raccontata da Mauro Balletti, suo fotografo ufficiale».

Giorgio Porrà conduce tutti i giovedì «Booklovers»

Giorgio Porrà conduce tutti i giovedì «Booklovers»

Il programmista regista appassionato che andava ai festival a intervistare registi e sceneggiatori ora i festival li organizza con il marchio della rete. Il primo a Napoli, realizzato in collaborazione con Sky Academy, il dipartimento di responsabilità sociale di Sky, e la sponsorizzazione di Banca Intesa San Paolo. Letteratura, teatro, concerti, fotografia, arte di strada, documentari. Tutto sul tema della «Rigenerazione», con artisti come Manuel Agnelli, Mimmo Palladino, Vinicio Capossela, Erri de Luca, Francesco Piccolo, JR. «Da quando abbiamo iniziato a riflettere sulla frequenza crescente dei terremoti, la rigenerazione di borghi e territori è uno dei temi che ci sta più a cuore. Così è nata ArtQuake, gioco di parole da earthquake (terremoto), che trasmetteremo in maggio, nel quinto anniversario del sisma che ha colpito l’Emilia Romagna. Siamo andati in Emilia, Friuli Venezia Giulia e nei luoghi dell’ultimo terremoto per capire come si può favorire la preservazione e il recupero dei nostri monumenti e del patrimonio artistico, sempre più fragile ed esposto agli eventi naturali».

L’idea di partenza era creare un paesaggio estetico. Una casa per l’arte e la bellezza. Pensate di esserci riusciti? «Sky Arte è un canale di posizionamento e reputazione, in cui gli ascolti non sono la priorità. È uno dei canali che vanta un apprezzamento tra i più alti della piattaforma. E che, pur non misurando gli ascolti, ha ugualmente pubblicità. Perché gli investitori ne conoscono e apprezzano la confezione e l’identità definita». Un canale che somiglia a una casa editrice. Con una cifra stilistica precisa. Basta imbattersi nei promo: una Madama Butterfly che libera decine di farfalle colorate, un Labrador nero che fa schizzare le macchie, un Arlecchino che fa volare in cielo le tessere variopinte del costume. «Sono gli ident del canale. Una specie di punteggiatura tra un programma e l’altro, che ricorda allo spettatore dove si trova in quel momento».

GQ, maggio 2017

Sky ci prova, ma i David restano autoreferenziali

C’è qualcosa che non torna nel bilancio dei David di Donatello in versione Sky. C’è un divario, una discrepanza, tra l’impegno profuso, la visibilità sui media, i mezzi e le partecipazioni prestigiose, e il riscontro nei gusti e negli interessi dei telespettatori. Le considerazioni della critica non devono basarsi sull’indice di ascolto, ciò che conta è il prodotto, la qualità dello spettacolo proposto, il suo valore estetico. Per una volta, però, fa pensare l’1,2 per cento di share (307.000 telespettatori) conquistato da Tv 8, il canale in chiaro che, insieme a Sky Cinema Uno, Sky Uno e Sky Arte, ha trasmesso in diretta la serata della 61ª edizione (673.000 gli spettatori totali). Il pericolo maggiore in questi casi è quello dell’autocelebrazione, il complesso di superiorità dell’élite culturale rispetto alla massa. La consegna dei David di Donatello, gli Oscar del cinema italiano, è un appuntamento annuale che si espone fatalmente al rischio autoreferenziale, appagato anche dal ricevimento della comunità al Quirinale. Consapevoli di ciò, autori e produttori di Sky, che da due anni ha strappato l’esclusiva alla Rai, hanno tentato una formula ironica e scanzonata della cerimonia. Lo si era visto fin dai promo con Claudio Santamaria. Lo si è rivisto nell’insolito prologo con decalogo delle regole imprescindibili per conquistare il David, recitato da Valerio Mastandrea, Luca Argentero e Alessandro Cattelan. Conferma ulteriore è stata la scelta di Maccio Capatonda e Fabio Rovazzi, autori di una breve satira filmata per il premio al montaggio. Bersagli: la patina intellettuale e l’enfasi autoriale che circondano il dorato mondo.

La conduzione a tutta velocità di Alessandro Cattelan

La conduzione a tutta velocità di Alessandro Cattelan

Anche la conduzione a velocità vertiginosa di Cattelan era pensata allo scopo. Tutto giusto, tutto studiato. Salvo il pericolo di scivolare sul lato opposto del crinale. Ovvero, perdersi un pizzico di magia e la lingua sognante tipiche del cinema. Ritrovate per un attimo con Roberto Benigni e la sua poetica dedica del David alla carriera a Nicoletta Braschi. Oppure, nello sconclusionato ed esilarante ringraziamento della miglior attrice Carla Bruni Tedeschi. Insomma, l’appuntamento c’era e lo spettacolo anche. I telespettatori sono anche cinespettatori e tutto concorreva al successo. Ma il grande evento non c’è stato. Forse, tra i candidati, mancava un grande film. Oppure un grandissimo interprete che potesse far uscire il cinema dal suo recinto, trasformando una serata autoreferenziale in un evento popolare. C’è di che riflettere: la strada è giusta, ma sembra ancora lunga.

La Verità, 29 marzo 2017

Avati: «Conosco solo il Natale della tradizione cristiana»

Quest’anno è il trentesimo di Regalo di Natale. Se dovesse fare una graduatoria dei suoi film, lei che è un regista seriale, cioè di film in serie, a quale posto lo classificherebbe?

«Sicuramente tra i primi cinque».

E dei suoi attori che classifica farebbe? In quel film c’erano Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, Diego Abatantuono, Alessandro Haber e George Eastman.

«Regalo di Natale vinse la Coppa Volpi per Carlo Delle Piane. Ma quella volta la giuria commise un errore clamoroso perché doveva assegnarla a tutti cinque, tanto la recitazione era corale. Raramente un gruppo di attori mi ha dato tanto nel suo insieme. Non farei classifiche, sono tutti sullo stesso piano».

Una scena di «Regalo di Natale», di cui ricorre il trentesimo dell'uscita al cinema

Una scena di «Regalo di Natale», di cui ricorre il trentesimo dell’uscita al cinema

Lei è notoriamente un invent-attori e un reinvent-attori. Di quale invenzione va più fiero?

«Potrei citarne tanti, da Delle Piane di Una gita scolastica ad Abatantuono di Regalo di Natale, da Neri Marcorè di Un cuore altrove a Katia Ricciarelli e Antonio Albanese nella Seconda notte di nozze…».

Lei, per Natale, che regalo si fa? Ha un rito, una tradizione che identifica con la festa della nascita del Salvatore?

«Fra il Natale della mia infanzia e quello di oggi fortunatamente le differenze restano minime. I miei genitori non ci sono più, ma ci possiamo permettere la riunione famigliare con figli e nipoti tra i quali non c’è chi non partecipi al pranzo, non vada a messa e non alimenti lo scambio di regali. Nessuno di noi contesta ciò che appartiene alla tradizione e non credo che il Natale possa essere qualcosa di diverso. In queste circostanze sono fortemente tradizionalista perché ho sperimentato che il punto di forza della mia vicenda umana sia l’avere rispettato la lezione impartita dai miei genitori, i quali, a loro volta, hanno seguito quella che veniva dai loro. Così, mi auguro avvenga per i miei figli e i miei nipoti. Anche qua non vedo alternative: il buon senso e l’esperienza di un uomo di 78 anni difficilmente possono essere smentiti da chi candida atteggiamenti modernisti o alternativi».

Quanto le manca Lucio Dalla?

«Mi manca molto. Anche se lo sento abbastanza presente, nel senso che il suo andarsene è inverosimile. Lo rifiuto. Quando penso che Lucio non c’è più non ci credo. Come per Federico Fellini. Di loro non mi mancano le musiche o i film, ma loro stessi, la loro ironia, la capacità di confidarsi, di stabilire un rapporto di profondissima intimità».

Pupi Avati con Lucio Dalla, grandi amici e compagni di jazz e di fede

Pupi Avati con Lucio Dalla, grandi amici e compagni di jazz e di fede

La possibilità di fare qualcosa insieme?

«Mi mancano le telefonate notturne di Lucio, nelle quali parlavamo non di musica, ma della vita. Lui era un nottambulo, io no. Ma condividevamo l’atteggiamento verso la sacralità. Era credente e praticante, mi chiedeva sempre se ero andato a messa. E io lo chiedevo a lui. Era più giovane di me di cinque anni, ma entrambi avevamo davanti il baratro della vecchiaia. Cercavamo di rassicurarci a vicenda. Per uno che sale su un palco a cantare, suonare, ballare avere 70 anni non era così semplice. Ci promettevamo reciprocamente che la nostra vecchiaia sarebbe stata ricca di creatività, di inventiva e di occasioni che forse finora non avevamo ancora avuto. Era un rapporto bello e confortante. Erano telefonate d’amore tra amici».

Il cinema è il suo secondo amore, il primo è il jazz. Ma come nel jazz c’è il giro armonico sul quale s’innesta l’improvvisazione anche nel suo cinema c’è una storia tra persone increspata da un limite, una malattia, un vizio, il peccato. Ha un’idea pessimista dell’esistenza?

«Non ho un’idea pessimista, ma una grande conoscenza della vita. Ho vissuto 78 anni pieni di eventi straordinari e se guardo indietro mi accorgo di essere un privilegiato, avendo visto realizzarsi sogni che 40 o 50 anni fa erano destinati a rimanere tali. Quando vendevo i bastoncini di pesce della Findus sognavo di fare un mio film. Invece, ne ho fatti quasi 50. Non posso certo lamentarmi della mia vita».

Non c’è nulla che le manca?

«Ho la consapevolezza di non aver realizzato il film della mia vita».

Intende il film sulla sua vita o il film della vita?

«Apparirò presuntuoso, ma penso di avere un talento smisurato per la narrazione. Tuttavia, fino a oggi credo di non essere stato capace di sintetizzarlo in un film. Il film che mi appaga e mi fa dire: “Ecco, qui c’è tutto, mi fermo”. Ma forse è meglio non averlo fatto, perché così continuo a provarci».

Da due anni non gira un film per il cinema (in febbraio la Rai trasmetterà Il fulgore di Dony): c’è un motivo particolare di questa pausa più lunga del solito?

«Vengo dal grande insuccesso di Un ragazzo d’oro con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio. La gioia che ha prodotto nell’ambiente questo mio insuccesso mi ha traumatizzato. Così mi sono rivolto alla televisione. Ci sono miei colleghi che hanno avuto disastri al botteghino peggiori del mio e li hanno metabolizzati in pochi mesi. Io ho stentato molto a farmene una ragione. Oggi si sono create le condizioni di astinenza tali per cui presto tornerò al cinema».

Ci può anticipare qualcosa?

«Sto girando un film gotico, nero, una storia ambientata nella laguna veneta. Tornando ad alcune atmosfere del mio cinema horror di qualche anno fa».

Ha lavorato molto per la Rai. Che rapporto ha con i nuovi dirigenti?

«Con i dirigenti precedenti agli attuali ho avuto un rapporto incoraggiante. Infatti, riuscimmo a realizzare una saga famigliare, la storia dei miei genitori e del io matrimonio che dura da 52 anni. S’intitolava semplicemente Un matrimonio e fu ben accolta anche dal pubblico. Ricordo che quando incontrai il primo dirigente per proporgli la storia di un matrimonio durato 50 anni mi disse: “Allora, è un film in costume”; come se i matrimoni di mezzo secolo appartenessero a un lontano passato. A quella miniserie speravo che, con i nuovi dirigenti, seguissero altre storie. Diciamo che siamo andati avanti con una qualche fatica, non trovando davanti quelle praterie che sono riservate ad altre produzioni».

È difficile lavorare nell’industria del cinema per una società che non ha alle spalle Rai, Mediaset o Sky?

«È impossibile. Una piccola azienda come la nostra, che vanta 70 – 80 film nei quali abbiamo fatto debuttare tanti giovani, che lavora da 35 anni senza l’incoraggiamento di nessuno, è esposta alle politiche del mercato, della globalizzazione e del potere delle major. In Italia le piccole e medie imprese sono penalizzate. Una realtà minore che ha dimostrato di saper resistere al variare delle mode meriterebbe l’incoraggiamento dello Stato anziché la diffidenza con cui è guardata».

Lei che cinema ama? Cosa va a vedere?

«Non guardo niente. Il cinema lo faccio tutti i giorni, giro, mixo, monto, la sera mi dedico a un libro o alla musica».

Davvero?

«Diciamo che guardo i film che non si possono non vedere per potere avere un’opinione sulle tendenze. Quindi sono abbastanza aggiornato sui titoli di punta, ma non vado più al cinema a vedere tutto come una volta. Anche perché molti dei film che si fanno adesso, ti basta un trailer per capire che non sono ciò che vorresti vedere. È più interessante la serialità televisiva che viene da oltre oceano. La produzione seriale americana spazia nei generi con una disinvoltura e una scioltezza invidiabili e il piacere di raccontare una storia in senso spettacolare e senza vincoli si trasmette nella fantasia e nella varietà dei prodotti. La nostra narrazione è vincolata allo schema camera-cucina. Mi chiedo perché la nostra televisione non produca i generi».

A proposito di generi inediti, quest’anno si è imposto Lo chiamavano Jeeg Robot. C’è un film italiano che ha apprezzato più di altri?

«Per rispetto nei confronti del pubblico, per qualità degli interpreti e della scrittura direi Perfetti sconosciuti».

Invece dalla serialità italiana non estrae nemmeno un’eccezione positiva?

«La serialità italiana è asfittica, le tematiche sono sempre le stesse. Quando vuole cimentarsi con l’avventura si occupa di mafia o di camorra. Oppure tratta tematiche a sfondo sociale. Se lei guarda quella americana ha un’ampiezza a 360 gradi, dalla storia all’avventura alla commedia sentimentale. Il pubblico televisivo ha diritto di avere tutti i generi. Perché in Italia non produciamo serie fantasy o di paura?».

Ha visto Gomorra o The Young Pope?

«Sky fa storia a sé. Può mettere in atto una cura per il prodotto particolare, dettata dal fatto di rivolgersi a una platea mondiale. Permettendosi investimenti preclusi alla tv italiana. Al di là del fatto che sia piaciuto o no, il budget di The Young Pope è la metà del budget annuale di Rai Fiction».

Paolo Conte. Di lui Pupi Avati dice: «Non è mai sceso a compromessi. È anche un grande poeta»

Paolo Conte. Dice Pupi Avati: «Non è mai sceso a compromessi, è un grande poeta»

C’è un regista, uno scrittore, una figura contemporanea di cui non si perde un’opera?

«Paolo Conte. Fra gli artisti e gli uomini creativi è uno dei più coerenti. Non ha mai ceduto a compromessi. È anche un grande poeta, che dovremmo far conoscere di più ai giovani».

Che cosa manca di più alla società del terzo millennio?

«La capacità d’includere le persone di esperienza. Si crede che la modernità derivi dall’assegnare una corsia preferenziale ai giovani. Invece, le grandi culture classiche, quella greca e quella romana, si basavano sull’ascolto degli anziani e dei saggi. Oggi essere anziani vuol dire essere fuori gioco. Avere una certa vita alle spalle significa conoscere le problematiche e magari anche le soluzioni, che invece, anche solo per ragioni anagrafiche, possono sfuggire ai trentenni rampanti. Il giovanilismo imperante lo avverto muscolare oltre che un tantino presuntuoso. Credo che, senza escludere nessuno, avremmo tutti un guadagno nel lavorare insieme».

 

La Verità, 24 dicembre 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

Tommassini: «Il segreto di X Factor? La nostra follia»

D’accordo, i giudici; Arisa che sclera e Manuel Agnelli che spacca il capello in quattro; Fedez che gioca con i calembour e l’empatia di Soler. Ok anche la musica e le canzoni, il meglio del pop soprattutto (rock pochino). Bene anche Alessandro Cattelan, con la sua conduzione smart, agile nel risolvere le situazioni più impreviste. E poi i social, la viralità, i fan, la buona stampa e tutto il resto. Ottimi anche gli ascolti (1.340.000 telespettatori nella semifinale di giovedì scorso, più 36 per cento rispetto al 2015). Ma lo show, lo spettacolo vero, internazionale e contemporaneo, dove lo mettiamo? E, soprattutto, dove andiamo a cercarlo?

I giudici di «X Factor 10». Probabilmente nella nuova edizione Arisa non ci sarà

I giudici di «X Factor 10». Probabilmente nella nuova edizione Arisa non ci sarà

 

Di Luca Tommassini, direttore artistico di X Factor, si parla troppo poco. Per compensare questa lacuna, i quattro coach si sono inventati il gioco di chi, nella serata, chiama per primo l’applauso del pubblico per lui. Un piccolo tormentone che è un riconoscimento. Perché una delle differenze principali tra il talent di Sky Italia e gli altri in giro per i palinsesti (altre edizioni di X Factor comprese) la fa la sua direzione artistica. La sua «breve biografia», come l’ha presentata l’ufficio stampa, è un curriculum lungo così. Dite un nome nel mondo del pop e lui ce l’ha: Madonna, Prince, Michael Jackson, Diana Ross, Robin Williams, Whitney Houston, Kilye Minogue, Alicia Keys, Gwen Stefani, Phil Collins, Jamiroquai, Katy Perry, Beyoncé eccetera. Dite un nome di cantante e artista italiano di primissimo piano, idem. E poi nel mondo della moda e della tv. Vi risparmio le liste altrimenti finisco lo spazio. Per la finale di giovedì 15 dicembre, da lunedì sera tutto il gruppo è al Palaforum di Assago: «Essere pronti in tre giorni per un live in un palco e una scenografia nuovi spaventa chiunque. Ma noi siamo tutti malati di mente e di passione».

Chi è Luca Tommassini?

«Un sognatore cui la musica ha dato tanto che cerca di restituire quanto ha ricevuto».

Missione impegnativa.

«Ma anche un piacere. La mattina quando mi sveglio se ho un’idea divento contagioso e cerco di trasmetterla ai miei collaboratori. Siamo una squadra fenomenale. Siamo arrivati su Sky Uno che non era accesa. Il nostro è puro artigianato italiano, facciamo tutto insieme a Sky e Fremantle Media, scenografie, coreografie, grafiche tutto fatto in casa».

Qual è il segreto di X Factor che ogni anno, siamo al decimo, incrementa gli ascolti?

«È la formula, che attinge da tutte queste figure fondamentali, Gigi Maresca che ora firma la scenografia, la costumista Claudia Tortora, il giovane regista Luigi Antonini. Tutta gente di altissima qualità».

Un momento dell'esibizione dei Soul System durante la semifinale

Un momento dell’esibizione dei Soul System durante la semifinale

 

E tu sei il capitano…

«Ho la responsabilità creatività del live. Spingo tutti verso la follia, anche con orari disumani… Conosco tutti, compresi quelli di “attrezzismo violento”, come si sono ribattezzati gli artigiani e i falegnami che costruiscono tutto qui, con Alessandro Voltolin, il direttore di palco».

Sempre tutto perfetto? Mai incorsi in qualche incidente?

«Nell’ultima puntata, la più vista della storia di Sky, le opere di Marco Lodola fatte con la luce si dovevano accendere in diretta. La cosa mi teneva in ansia. Infatti, alla prima esibizione di Gaia, la luce non si è accesa, e abbiamo illuminato tutto da fuori, al volo…».

Il pubblico non s’è accorto di niente?

«Non credo. Il fatto che non ci siano mai stati grandi incidenti è un mio orgoglio personale. Quando abbiamo coinvolto un’orchestra di 39 elementi e 40 tra figuranti e ballerini, sul palco c’erano quasi cento persone oltre a 12 sfere e una X gigante. Abbiamo fatto il cambio scena in 2 minuti e 40 secondi».

C’è qualcosa della tua esperienza che ti sta aiutando di più a X Factor?

«Madonna è stata la mia più grande insegnante. Dico spesso che, dopo Dio, lei è la più grande creatrice artistica del mondo. Non è una cantante o una ballerina eccelsa, eppure lo show è inarrivabile. Da lei ho imparato che lavorando dietro le quinte si può andare molto lontano».

Luca Tommassini con Madonna: «Dopo Dio è la più grande creatrice artistica del mondo»

Luca Tommassini con Madonna: «Dopo Dio è la più grande creatrice artistica del mondo»

Hai scritto un libro intitolato Fattore T – L’inafferrabile scintilla del talento: perché secondo te è inafferrabile?

«La scintilla è inafferrabile e inaffidabile. Va coltivata per trasformarla in un fuoco vero. Se ti metti in questo cammino, a lavorare, puoi averne luce, vita, energia. Ma per questo devi dare tutto, come si fa con un bambino per farlo diventare grande».

Ma il talento è un dono?

«Tutti ne abbiamo qualcuno, bisogna cercare di capire quale. E poi dobbiamo capire che farne. Sono dell’idea che da solo non basti: serve metà talento e metà lavoro, metà genio e metà impegno».

Che cosa ti fa scattare l’idea per una coreografia di una canzone?

«L’idea non è mai un problema. Sembra banale: ascolto la canzone a occhi chiusi e lascio andare la fantasia. A volte non arrivo nemmeno alla fine del brano. Conoscendo il cantante o l’attore entro in un mondo e inizio a sognare. Poi però mi do la sveglia per iniziare a lavorare».

Da mercoledì sarai anche giudice nel talent di Dance dance dance di FoxLife. La danza è il tuo grande amore: ricambiato?

«Lo è stato quand’ero bambino. A 18 anni, nel 1988, ho vinto lo Star Search International, il primo talent a livello mondiale. Grazie al ballo ho superato la depressione che mi venne appena smisi. Riprendendo, mi è passata. Ora faccio anche pubblicità per le auto, regie teatrali, ho recitato al cinema. Tornare a discutere di ballo mi attira. Ho già fatto il giudice in grandi programmi in Gran Bretagna, in Italia invece è la prima volta».

Non sono troppi i talent show?

«Assolutamente no».

Non affermano un’idea prefabbricata del talento?

«Penso di no. Per esempio, X Factor è l’occasione per mettere in scena quelli più pronti. Scegliamo 12 ragazzi che hanno già individuato le loro doti. Vengono dalla strada o dal laboratorio. Non serve una scuola, ma mettere a fuoco le loro potenzialità e portarli a un livello professionale».

Stai coltivando qualche nuovo progetto?

«Ho già lavorato nel cinema come coreografo. Ora mi piacerebbe raccontare una storia mia come regista. Magari anche nel mondo dell’opera».

 

La Verità, 13 dicembre 2016