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Domina, un gioco di ruolo della «confuse culture»

La Roma di Cesare Augusto raccontata come un grande gioco di ruolo. È questo il senso di Domina, la serie Sky original italo-britannica visibile su Sky e Now dal 14 maggio. Otto episodi di un’ora ciascuno ideati e scritti da Simon Burke (Fortitude, Strike back) e interpretati da un cast internazionale che vede Kasia Smutniak nel ruolo della protagonista Livia Drusilla, figlia di Druso Claudiano (Liam Cunnigham) e consorte di Cesare Augusto (Matthew McNulty), mentre Ben Batt è Agrippa, suo generale. Già dalla sigla lo spettatore è catturato dall’imponenza visionaria e dall’atmosfera dark che avvolge alleanze e tradimenti orditi dalla machiavellica protagonista per conservare e accrescere il suo potere. Che cosa sei in grado di escogitare per annientare i nemici e issarti al vertice dell’impero? Sfarzosa nei costumi e potente nelle scenografie, l’intenzione molto mainstream dell’opera è illuminare la figura di Livia – «l’uomo più intelligente di Roma», secondo Mecenate – e il suo ruolo di consigliera di Gaio Ottaviano (Augusto), tanto astuta da influenzarne tutta l’azione. Per alcuni studiosi, Livia è la prima first lady della storia. Ma ben oltre la storia vista dalla parte delle donne, come già in Rome e Spartacus, Domina ci mostra la capitale della civiltà come una sentina di corruzione e depravazione, ignorando figure coeve come Vitruvio e Virgilio, solo per citarne alcune.

Dopo il suicidio del padre in seguito alla sconfitta nella battaglia di Filippi e l’esilio in Sicilia, Livia fa ritorno a Roma e sposa Gaio Ottaviano per garantire a Druso e Tiberio, figli di primo letto, un avvenire al vertice della repubblica. Per essere realizzato, il piano richiede la maturazione degli acerbi eredi e soprattutto l’eliminazione, spesso violenta, dei tanti rivali che si frappongono. La dimora di Ottaviano, in conflitto con una parte del Senato e le donne gelose di Livia, diviene così crogiolo di cospirazioni, intrighi e dissoluzioni, consumate con l’aiuto della devota Antigone (Colette Tchantcho), ancella di colore promossa libera cittadina ed esecutrice del lavoro sporco per conto dell’amica e padrona. Una figura di cui non si hanno conferme dagli storici. Ma alla quale gli sceneggiatori fanno replicare a Livia che vuole proteggerla: «Io non voglio essere protetta, voglio essere inclusa». Sarà questa l’agognata contemporaneità della narrazione? Magari rafforzata dal moderno intercalare dei patrizi romani condito di «Cazzo!» e «Sono cazzate!»?

Dopo il Leonardo targato Rai, con Domina di Sky prosegue la marcia nella fiction popolare della «confuse culture».

 

La Verità, 25 maggio 2021

L’azzardo di Ammaniti è una distopia di nome Anna

Niente male come azzardo. Produrre una serie distopica nella quale un virus ha falcidiato gli adulti in un momento in cui una vera pandemia sta mietendo vittime soprattutto tra gli anziani. O la va o la spacca. Il rischio potrebbe comportare il rifiuto del pubblico televisivo, già quotidianamente sommerso da un’informazione apocalittica. Abbiamo i telegiornali farciti dalla contabilità pandemica e tutti i canali intasati di talk show pullulanti di virologi ed epidemiologi che disegnano scenari più o meno foschi: ci mancava Anna, miniserie in sei episodi tratta dall’omonimo romanzo (Einaudi), pubblicato nel 2015 da Niccolò Ammaniti, qui alla seconda prova da regista per Sky Italia (dopo Il Miracolo). Prodotta da Wildside del gruppo Fremantle e coprodotta da Arte France, The new life company e Kwaï, scritta dallo stesso Ammaniti con Francesca Manieri, la serie Sky original andrà in onda dal 23 aprile, giorno in cui tutte le puntate saranno disponibili per la visione sequenziale.
All’epidemia soprannominata «la rossa», un virus che si manifesta con strane macchie sulla pelle prima di attaccare gli organi vitali fino alla morte, sono sopravvissuti solo i bambini e gli adolescenti. In loro il virus «è dormiente», per adesso. In una Sicilia di rottami e rifiuti, dove la natura fagocita i resti della civiltà, resiste solo la legge della sopravvivenza. Ma quando Anna (l’esordiente Giulia Dragotto) fa ritorno nella casa dentro il bosco dove sfanga la giornata, il fratellino Astor (Alessandro Pecorella, anche lui debuttante) non c’è più, rapito dalla banda dei Blu. Oltre all’aiuto di Pietro (Giovanni Mavilla), coetaneo complice e rivale, Anna può contare sul Libro delle cose importanti nel quale la mamma (Elena Lietti) ha trascritto regole e consigli utili ad affrontare la vita «quando io non ci sarò più». Una sorta di lascito, di bussola per l’esistenza in cattività. «Fuori dal bosco ci sono tanti pericoli, ma voi insieme li affronterete. Siete fratelli, siete una famiglia», sottolinea, sebbene abbia istericamente allontanato il compagno al primo palesarsi dell’infezione. Tra piccole insidie e grandi agguati, tra un flashback e qualche reminiscenza da Io non ho paura, tra qualche visione onirica e le apparizioni del fantasma materno, inizia la caccia al fratellino rapito. Che è ricerca del legame con il passato e possibilità di costruzione di un futuro.

«Volevo raccontare una ragazzina costretta a superare i propri limiti, a fare la madre senza esserlo», spiega l’autore e regista. «Volevo vedere che cosa fanno i bambini senza gli adulti, come affrontano il futuro. L’adolescenza è una delle mie ossessioni. E siccome sono un biologo, mi è venuta in mente la situazione creata da un virus che li costringe a far da soli. Con l’esclusivo aiuto della memoria, di un’educazione che proviene dal passato e che si condensa in quel libro delle regole».

Insomma, la chiave interpretativa è nel passaggio di contenuti dagli adulti agli adolescenti. Forse è per questo che fin dalle parole dell’incipit rivolte dal fratellino ad Anna – «Mi racconti del fuori?» – echeggia l’aria moraleggiante dell’«andrà tutto bene» del primo lockdown. Raccontare una catastrofe epidemica in un momento come questo sperando di non creare sovrapposizioni è impresa ardita assai. «L’epidemia da Covid 19 è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese», si avverte all’inizio di ogni episodio. Certo per segnare la distanza dall’attualità. Ma forse, al contempo, anche per segnalare una certa preveggenza autoriale. Chissà se queste sottigliezze convinceranno i telespettatori. Ha un bel dire Nicola Maccanico, vice presidente esecutivo di Sky Italia, che, non essendo voluta, «la sovrapposizione con l’attualità ci ha liberato dal dubbio» di rinviarne la programmazione. Se ci sono, sono «assonanze involontarie. Anna è una meravigliosa storia di fantasia che va a toccare le domande più profonde delle persone». Tutto vero. Ancor più vera è la quotidianità nella quale cade la finzione. Pure Maccanico deve ammettere che «la sera in tv si stenta a trovare una rete in cui non si parli del Covid. Ma», assicura, «Anna è un viaggio diverso, porta speranza». Tuttavia, a conti fatti, è probabile che la storia creata da Ammaniti sedurrà più facilmente quella parte di pubblico che crede che «la pandemia ci renderà migliori». E che, sebbene per fiction, abbia voglia di un’ulteriore immersione nella tragedia dei contagi e della morte. Invece, all’Italia che ha patito davvero per il Covid, la distopia di Ammaniti potrebbe risultare un fastidioso esercizio da laboratorio. Un’epidemia da manuale. La situazione giusta per avviare il ricalcolo della civiltà ad opera dei migliori. Come quello echeggiato dalla sigla della serie, Settembre di Cristina Donà: «Tu mi dicevi che la verità e la bellezza non fanno rumore/ Basta solo lasciarle salire, basta solo farle entrare/ È tempo di imparare a guardare/ È tempo di ripulire il pensiero/ È tempo di dominare il fuoco/ È tempo di ascoltare davvero».

Insomma, la palingenesi dei buoni.

 

La Verità, 13 aprile 2021

Totti contro il tempo, il più difficile da dribblare

Scommessa vinta, e non era per niente facile. Troppe le insidie disseminate sul percorso. Troppi i pericoli. Speravo de morì prima – La serie su Francesco Totti, sei episodi da venerdì su Sky Atlantic, era un rebus impegnativo. Un discreto esercizio di equilibrio e di dosaggi. Innanzitutto, doveva essere una storia scritta e recitata in romanesco, ma in grado di catalizzare un pubblico largo, oltre i colori del tifo, i dialetti e le generazioni. Poi doveva appassionare alla figura di un campione già molto illuminata dai media. Le trappole in agguato erano parecchie, a cominciare dal «rischio monumento», ovvero il bagno retorico che avvolge le grandi personalità sportive. Per finire con il «rischio giù le mani da», ovvero lui non si tocca perché è solo nostro. Insomma, c’era più da perdere che da guadagnare a raccontare con la fiction un campione che, di norma, è oggetto di documentari. Ma era un rischio da correre, considerato che, come dimostrano Il miracolo, Diavoli, Petra, Romulus e Cops – Una banda di poliziotti, per citare qualche titolo alla rinfusa, da un paio d’anni l’obiettivo della piattaforma tv più adulta del sistema è allargare il pubblico attraverso storie più generaliste e popolari. Esattamente come quella incarnata dalla bandiera della Roma, «l’Ottavo re», il campione amato da tutti oltre gli schieramenti del tifo.

Scommessa vinta, dunque. Insieme ai produttori Wildside (Fremantle), Capri Entertainment e The New company e agli autori Stefano Bises, Michele Astori e Maurizio Careddu che hanno attinto da Un capitano (Rizzoli), l’autobiografia di Francesco Totti e Paolo Condò, firma di Repubblica e commentatore di Sky Sport. E qui i giochi di specchi tra le diverse sezioni dell’offerta Sky sono più che mai evidenti. Non a caso la campagna promozionale ha battuto tutti i record di pervasività.

La mossa vincente di produttori e sceneggiatori è stata scegliere un’angolazione attraverso la quale narrare l’intero personaggio. Un Totti privato e incerto, fra il tinello della casa di famiglia, la nuova residenza dov’è costretto a trasferirsi per allentare la morsa dei tifosi, la villa del fuoriclasse. Irrequieto e ombroso, «l’uomo dietro il campione» sente avvicinarsi come una sciagura il momento in cui dovrà appendere gli scarpini al chiodo. Il problema è «che ci pensi come uno che deve morire. Pensarci significa prepararsi mentalmente», lo smaschera e rimprovera ad un tempo Ilary Blasi. «Io mi devo preparare a entrare in campo, il resto sono chiacchiere», replica più che mai riluttante lui. Quando, dopo l’esonero di Rudi Garcia, si annuncia il ritorno in panchina di Luciano Spalletti (un credibile Gian Marco Tognazzi), gli amici storici lo allarmano con un presentimento: è venuto per farti smettere. Francesco non ci crede. In fondo, tra loro c’è sempre stata grande complicità, un’alleanza per il bene della Roma. Eppure, ben presto in spogliatoio iniziano gli attriti. Impuntature sugli orari, divieti pretestuosi. «Lo vuoi capire che non sei più insostituibile?», gli dice a brutto muso il coach. Le mancate convocazioni e le panchine radicalizzano lo scontro. Spalletti diventa l’antagonista da battere, bersaglio di un’improvvida intervista al Tg1. «Uno ha la storia più bella del mondo, ma se gli rovini il finale la butti tutta», riflette Francesco chiacchierando con suo figlio. In fondo, la storia è tutta qui: come e quando finire. Perché, a ben vedere, dietro la sagoma dell’allenatore si cela il vero nemico: il tempo. Chi glielo dice al «Capitano», al «Re di Roma», che a quarant’anni si è fatta una certa? «Sul trono mio c’è scritta la scadenza»: pian piano il dubbio inizia a farsi strada. È Ilary ad avere l’idea giusta e a mandargli Antonio Cassano, compagno di scorrerie dentro e fuori dal campo, che ha già smesso di giocare. «Anche il mondo è rotondo, ma è più grande della palla», gli dice. «Non c’è niente di più grande della palla», ribatte lui. «Io sono 100 volte più felice adesso senza la palla». «Io senza la palla non so chi cazzo sono». Dialoghi semplici, ma diretti. Efficaci nel raccontare la discrepanza tra il desiderio di perpetrare un grande sogno e il fare i conti con il limite ineluttabile. Una faccenda che riguarda tutti, anche chi gioca in prima categoria. Nel fine carriera incombente prende corpo la metafora del tempo che passa, impietoso. È la storia di una bandiera sportiva che smette di sventolare, la fine di un grande sogno. Ma è anche la storia di ogni uomo alle prese con la propria finitudine, con la vita che declina in un soffio. Un fatto al quale non ci si vorrebbe mai rassegnare.

Il regista Luca Ribuoli sceglie un linguaggio scanzonato, da commedia pop, per rendere questo travaglio profondo. Si affida all’uso del fermo immagine per presentare i personaggi, alla voce fuori campo, al romanesco che sdrammatizza, ma che a volte rimane incomprensibile, soprattutto in bocca a Pietro Castellitto, il protagonista, che appare meno spontaneo di Greta Scarano, molto naturale nel ruolo di Ilary, la moglie che vede più lontano. Come a dire che il primattore, chi è dentro, chi è immerso nel proprio travaglio, fatica ad avere la distanza critica necessaria per giudicarlo. E allora è una fortuna avere vicino le persone giuste, quelle che ti fanno aprire gli occhi. E ti aiutano a correggere le impuntature, le miopie e le bravate, nelle quali può impantanarsi persino un bravo ragazzo capace di tenere i piedi sempre ben attaccati a terra, di nome Francesco Totti.

 

La Verità, 16 marzo 2021

Perché il successo dei Maneskin sa di déjà vu

Ancora due parole per l’archiviazione del settantunesimo Festival di Sanremo. Un’archiviazione controcorrente perché, purtroppo, il verdetto finale l’ha consegnato a una sensazione di vecchio e già visto. La vittoria dei Maneskin, infatti, non è niente di nuovo. È la vittoria di X Factor, del talent show più di tendenza dell’ultimo decennio. Lo conferma il duetto con il loro coach, Manuel Agnelli, nella serata delle cover. E lo conferma il secondo posto finale conquistato da Francesca Michielin e Fedez. È la vittoria della community del talent di Sky. È la conferma della vampirizzazione della tv generalista da parte delle piattaforme (notata l’invasione dei marchi dello streaming nei break pubblicitari?). Tutto già visto, magari in modo più semplice e meno sofisticato. Ricordate quando nel 2009 vinse Marco Carta? Un quotidiano titolò: Amici vince il Festival di Sanremo. L’anno dopo ci fu il bis con Valerio Scanu. Anche allora pesò l’influenza dei televotanti, determinanti nelle giurie come stavolta: quella demoscopica, quella della sala stampa e, appunto, quella del pubblico che vota via sms. Non a caso, come si è ripetutamente vantato il direttore di Rai 1 Stefano Coletta, nell’audience di questo Festival è cresciuto il pubblico giovane. Mentre è calato quello più stagionato. Niente di nuovo, dunque. La prova del nove è data da Zitti e buoni, un brano esplicitamente rock, un genere musicale straniero all’Ariston nazionalpopolare. E il successo dei Maneskin è proprio questo: la consacrazione nazionalpopolare, la legittimazione mainstream, della generazione dell’asterisco. Né maschi né femmine. La fluidità al potere. A ben guardare roba vecchia, roba omologata anche questa. Sono passati quasi cinquant’anni da quando David Bowie, Alice Cooper e poi Renato Zero scuotevano il perbenismo dominante. Era un’altra èra: internet e i cellulari appartenevano alla fantascienza. Già Marilyn Manson un paio di decenni dopo è stato un fenomeno di riporto, un rimbalzo plastificato. Figuriamoci Achille Lauro, santificato a furor di social network, il posto dove si coagulato il verdetto di questo festival. La differenza è che quella di cinquant’anni fa era vera trasgressione e rivolta dei costumi. Oggi la generazione asterisco è fashion, mainstream, politicamente corretto, conformismo puro. Tutto déjà vu.

Incerto Amadeus se accettare l’invito del direttore generale Rai Fabrizio Salini a triplicare, sul 2022 si staglia la sagoma di Alessandro Cattelan, per anni conduttore di X Factor e neo acquisto di Viale Mazzini. Il cerchio si chiude.

«Dopo 100 film Avati mi ha donato una donna inedita»

Sono a sua disposizione, ma se possibile evitiamo di parlare delle solite cose. Di vite ne ho una decina, ho cominciato a 15 anni…».

Oltre cento film, diretta da tutti i maggiori registi italiani, molto teatro e negli ultimi anni parecchia fiction di successo, Stefania Sandrelli è all’altro capo del cellulare con la sua voce festosa. Dall’8 febbraio potremo vederla sui canali Sky nei panni di Rina Cavallini, protagonista, con Giuseppe «Nino» Sgarbi (Renato Pozzetto in un inedito ruolo non comico), di Lei mi parla ancora, il film che Pupi Avati ha tratto dai mémoire del padre di Elisabetta e Vittorio. Il cast è completato da Isabella Ragonese, Fabrizio Gifuni, Chiara Caselli, Lino Musella, Alessandro Haber, Serena Grandi, Nicola Nocella e Gioele Dix.

Signora Sandrelli, com’è andato il primo film con Pupi Avati?

«È uno dei registi che ho sempre ammirato, perciò avrei voluto lavorare con lui molto prima. Credo che insieme abbiamo fatto un bellissimo film».

È un regista che mancava alla sua ricca collezione.

«Lo aspettavo da tanto, molti suoi film mi sarebbe piaciuto interpretarli».

E con Renato Pozzetto aveva mai lavorato?

«Mai. Però quando ci siamo incontrati a serate o a teatro abbiamo sempre simpatizzato perché ammiro le persone ironiche. In più, è un grande attore, ça va sans dire».

Le è piaciuta Rina Cavallini?

«È una figura frastagliata, resa bene anche da Isabella Ragonese, negli anni giovanili. Il film comincia con la mia morte e, più che seguire il corso della vita, racconta il temperamento di Rina. Una donna che si butta, scappa, poi torna e perciò potrebbe sembrare insicura delle proprie emozioni. Invece è una donna forte e lo è fino alla fine».

Credeva che l’amore e la fedeltà all’amato fossero un anticipo d’immortalità.

«Pupi Avati ha voluto rappresentare questa idea con leggerezza, quasi per gioco, attraverso la lettera che lei consegna a Nino il giorno del matrimonio. E che nel film scompare e riappare, quasi come una carta da gioco».

Ma non è un bluff.

«No, perché contiene una promessa. Se esiste davvero un amore così totalizzante allora, forse, si può dire che è immortale. È un’idea che si può rappresentare in tanti modi. Quella di Avati è una scelta coraggiosa, è un film che può sembrare crepuscolare».

Invece?

«Invece, anche a causa dei momenti drammatici che stiamo vivendo, ci aiuta a comprendere l’importanza dei sentimenti e il fatto che possono essere salvifici, nella loro grandiosità».

La forza del film Pozzetto, è nella sua ingenuità?

«Sì, è così».

Nino e Rina sono figure d’altri tempi?

«Possono essere attuali. In un sentimento così grande tutto è concesso. Fanno lo stesso lavoro e condividono anche l’amore per l’arte. Non credo che lui sia succube di lei, Rina è una donna volitiva e passionale. Se si ama davvero, è inevitabile esserlo».

Il «per sempre» che Nino ripete oggi è un’ambizione anacronistica?

«Il per sempre può valere per molte cose. Si può prendere spunto dall’amore, ma per esempio può valere per la musica, che è la più alta delle arti. Se amo un brano musicale, lo posso sentire un miliardo di volte con lo stesso trasporto».

Le sue storie avevano questa ambizione?

«Avrei voluto che fossero per sempre, i miei compagni lo sanno… Le storie d’amore importanti, Gino Paoli, mio marito (Nicky Pende ndr), Giovanni Soldati, sono nate con questa presunzione. Ho fatto di tutto per dedicarmi totalmente e ho sofferto molto delle loro fini non volute. Non sono mai stata pronta alla fine. Mi sono sempre trovata come sperduta dentro un bosco, sola e nuda, preoccupata di coprirmi. Ma senza sapere dove andare e cosa fare».

Che cos’è l’amore per Stefania Sandrelli?

«Un mistero, lo dico col cuore in mano. È un mistero anche quando a un certo punto finisce».

È qualcosa che viene donato e può essere tolto?

«È anche un atto di coraggio, perché può esserci l’altra faccia della medaglia. Tutti noi sappiamo di rischiare, anche se magari non ci aspettiamo che possa finire».

I giovani hanno l’aspirazione al «per sempre»? O come si può trasmetterla loro?

«Io credo molto nell’esempio, perché l’ho avuto dalla mia famiglia. Da mio padre che porto dentro di me, anche se l’ho conosciuto per poco tempo. Quando i miei figli mi hanno detto che sono stata un esempio per loro, mi sono commossa… E mi commuovo anche adesso, anche se non dovrei perché mi aspetta un set fotografico…».

Diceva dei suoi figli.

«È il regalo più grande che potessero farmi… Non ho mai vissuto per essere un esempio e ho dato anche pochi consigli. Però, forse, il mio modo di amarli e condividere la vita è servito. Anche nel casino… e con il lavoro che facevo».

Oggi accade troppo spesso che si rinunci alla prima difficoltà?

«Sì, è possibile. Perché l’amore è comunque una cosa che va costruita».

Come diceva Ivano Fossati.

«Parlo guardandomi indietro. Se questa intervista me l’avesse fatta vent’anni fa probabilmente non sarei stata pronta. Quando senti che qualcosa che ami puoi perderla devi lavorarci, per quanto sia possibile».

Tra quelle che ha interpretato c’è un’altra donna che si avvicina a Rina Cavallini?

«Forse proprio questo, un personaggio inedito, è il regalo più prezioso che mi ha fatto Avati. E anche se, per com’era la storia, muoio all’inizio, mi sono sentita dentro la sua vita fino alla fine».

È strana una donna così protagonista in cui non ci sono rivendicazioni femministe?

«È magnifico, ed è un piccolo segno che dice tutto».

In che senso?

«Perché significa avere un carattere pari a quello di un uomo. Senza questo, secondo me non si riesce a condividere un tubo. Perciò ai miei dico sempre: cerchiamo di camminare uno a fianco dell’altro, non io davanti e tu dietro o viceversa. È più semplice camminare insieme».

In tanto parlare di generi vede troppo antagonismo tra uomini e donne?

«Sì, ed è squallido per ciò che conosco di uomini e donne. Trovo riduttivo ragionare in termini di genere e di quote. È vero che noi donne dobbiamo fare squadra sennò veniamo calpestate, però c’è modo e modo di farlo».

Cosa intende per riduttivo?

«Le quote rosa, per esempio. È un’espressione che un po’ mi spaventa, mi sembra senz’anima».

Qual è la figura femminile che le è rimasta più nel cuore?

«Le dico la verità, ho sempre cercato una corrispondenza alla donna italiana. Perciò preferisco i film corali, meno quote e meno genere. Ho accettato parti che non spiccavano, ma che erano ugualmente importanti. In un film ci sono cose che non si vedono e non si dicono. Il cinema corale è quello che mi piace».

La parte che ha più segnato la sua carriera è Teresa, la moglie disinibita della Chiave di Tinto Brass?

«Non direi. In Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola ho interpretato un personaggio talmente struggente che non posso non preferirlo a tutti gli altri. Una ragazza dolce e dolente che… anch’io conoscevo bene».

Anche il cinema come l’amore può aiutare a superare i nostri limiti e regalare un pizzico d’immortalità?

«Immortalità non credo. Lei ha citato La chiave e non me l’aspettavo: di sicuro quel personaggio mi ha liberato e quindi, in qualche misura, mi ha sostenuto».

Lì, i limiti si superano?

«Un attore lavora con il proprio cervello e il proprio corpo. Non ho avuto timore a mostrarmi nuda perché il corpo è uno strumento di lavoro».

È stata diretta dai più grandi registi italiani. Da chi ha imparato di più?

«È difficile… Le assicuro, ognuno di loro non mi ha mai fatto rimpiangere il precedente».

A chi è rimasta più legata?

«A Ettore Scola perché ha creduto molto in me. In ogni mio bel ricordo, un premio, un riconoscimento, lui c’è sempre».

C’è qualche ruolo di cui si è pentita?

«No, per fortuna. Però ho ben presente i film che avrei voluto interpretare».

Quali?

«Sono due. Il primo è Il giardino dei Finzi Contini, uno dei più bei film del cinema italiano. Giorgio Bassani e Vittorio De Sica volevano me, c’erano già i costumi pronti. Poi, per esigenze di produzione, furono fatte altre scelte».

E l’altro?

«È La ragazza di Bube con George Chakiris, un bravissimo attore».

Lo interpretò Claudia Cardinale.

«Anche se aveva qualche anno più di Mara, un personaggio bellissimo. Anche lì fu decisiva la produzione di Franco Cristaldi».

Come vive questi strani giorni? C’è qualcosa che la conforta?

«Sì. Intanto, mangio qualche dolce in più, anche se non dovrei. Poi mi abbandono alla musica. Credevo di leggere di più, invece quando apro un libro presto lo chiudo. La musica mi avvolge e mi piace muovermi seguendola e ascoltandola anche a un volume un po’ eccessivo. È qualcosa che mi sostiene».

Che musica predilige?

«Ne ascolto tanta. Il jazz, l’opera, la classica. A Viareggio ho assistito a tanti concerti… Ella Fitzegerald, Chet Baker, Stevie Wonder, Ray Charles, Aretha Franklin. Mio fratello era un concertista, mio nonno un melomane e mi cantava le arie di Puccini».

Ha paura del virus?

«Credo di essere una persona coraggiosa. Ma seguo in modo viscerale le prescrizioni e il corso dei vaccini che in passato hanno già salvato il mondo e dovrebbero continuare a farlo».

È giusto che le sale cinematografiche continuino a restare chiuse?

«Finché non c’è una sicurezza importante e vera sì. È una pandemia».

Della crisi di governo che idea si è fatta?

«Mamma mia… Ho sempre pensato che le persone che fanno politica, di qualsiasi orientamento, dovrebbero essere migliori di noi cittadini. Invece accade molto di rado. E questo mi fa incavolare e mi addolora».

Che sogno coltiva per il futuro?

«Mi piacerebbe dedicarmi a qualcosa nel cinema, un personaggio o un copione che mi dia speranza. Lo dico anche scaramanticamente».

 

La Verità, 6 febbraio 2021

Il cuore nascosto di Petra farà quadrare la serie?

E se la faccia una risata ogni tanto», dice il capo della mobile (Riccardo Lombardo) a Petra dopo averle dato stringate istruzioni sulla reperibilità da garantire in assenza di un collega malato. «Come no, quando ce n’è motivo, volentieri», replica poco conciliante l’ex «avvocata» ora all’archivio della questura e, causa emergenza, spostata alla omicidi. Citando un vecchio gioco per bambini, verrebbe da commentare: fuochino. Non è tanto il fatto di ridere o sorridere, quanto di stare un attimo rilassati, togliendosi quel broncio stampato in volto. Insomma, il temperamento di Petra (Paola Cortellesi) che vive in una bellissima casa immersa nel verde, popolata di grilli «che servono per il ragno», è chiaro dopo due scene. E, verosimilmente, finirà per dividere il pubblico tra chi amerà questo cipiglio scorbutico e chi lo respingerà. Anche la sensazione che sia piuttosto complessa la quadratura del trapezio della nuova serie Sky original (con Cattleya e Bartleby film), quattro episodi lunghi tratti da altrettante storie di Alicia Giménez-Bartlett, da ieri su Sky Cinema, Sky Atlantic e on demand, è immediata. Sono tante infatti le variabili da mettere in equilibrio fra ambientazione, trama, personaggi e interpreti. Il primo azzardo è reinventare Cortellesi in un ruolo lontano dalla sua zona di conforto: una poliziotta anaffettiva, con due divorzi alle spalle, sempre in impermeabile nero, ispettrice senza mai aver indagato su un caso. La seconda scommessa è Genova, città trascurata dalla fiction nazionale, qui vista sempre di notte e prescindendo dal mare per sottolineare il gotico delle storie. Più semplice risulta l’alchimia tra gli opposti, Petra e il suo vice (Andrea Pennacchi), un vedovo arruffato, buona forchetta (Petra non cucina) e un filo moralista, al quale «non sta bene avere un capo donna» (che novità). Pian piano, però, la complementarità tra i due si afferma nelle indagini su una serie di stupri perpetrati nei carruggi da un giovane incappucciato che marchia le sue vittime sul braccio sinistro. Tra il ricomparire degli ex mariti di lei e il bilancio esistenziale di lui, l’intrigo noir della serie resta in secondo piano rispetto ai misteri privati dei due investigatori. Creare una nuova coppia italiana di profiler di ambientazione nichilista non è facile. Anche se, curiosamente, i dialoghi sfiorano le domande sulla felicità. Vuoi vedere che anche Petra ha un cuore? Sarà questo il tocco mediterraneo che dovrebbe differenziarla dai polizieschi nordici, tipo The Bridge e Bordertown?

 

La Verità, 15 settembre 2020

«L’Italia dovrebbe vincere con il potere dell’arte»

Artista, artigiano, musicista, musicologo, autore, compositore, interprete, showman: Marco Castoldi, in arte Morgan. Persona controversa. Altrimenti non si spiegherebbe come possa esser finito al centro di un inestricabile ingorgo amministrativo giudiziario sentimentale culturale, sfociato nel pignoramento della sua dimora-atelier. Ora, per sensibilizzare le autorità sulla vocazione dell’artista e sul legame tra la creazione e il posto dove questa si genera e prende forma, Marco Castoldi ha pubblicato per La nave di Teseo Essere Morgan – La casa gialla, primo libro di una trilogia, corredato di numerose illustrazioni, che si apre con una lettera al ministro dei Beni e delle attività culturali.

Sulla copertina si firma Marco Morgan Castoldi. Come devo chiamarla?

Come vuole. Morgan è il nome d’arte di un cantante autore performer pianista saltimbanco partorito da una persona che si chiama Marco e si occupa di spettacolo artistico, fatto di musica e parole.

Nella casa-atelier si realizza la sovrapposizione tra persona e artista: espropriarlo vuol dire impedirgli di creare?

Sicuramente nella casa avviene il concepimento e spesso la realizzazione dell’opera. Il posto dove abita l’artista è il posto dove abitano le sue idee. E le sue idee sono la sua arte. In questo periodo ripetevo che da trent’anni sto in quarantena, per cui non c’è nulla di nuovo. Ma siccome me l’hanno tolta, non ho più nemmeno la libertà di stare in casa mia.

Dove ha trascorso il lockdown?

In case a breve termine, piene di bagagli, senza i requisiti tecnici per la mia attività musicale. Case scomode. Case casuali.

Come si mantiene? Eravamo rimasti al pignoramento alla fonte dei suoi introiti, ci sono novità?

Nessuna. Sono rimasto completamente inascoltato sia come cittadino che come artista. Il ministero che dovrebbe occuparsi di beni e attività culturali e organizzare il rapporto tra l’artista, la società e il mercato non fa nulla. Neanche fa finta di farlo.

Il pignoramento e lo sfratto sono opera di Asia Argento per il mancato mantenimento della figlia o dell’Agenzia delle entrate per il mancato pagamento delle tasse?

Non ho quasi mai mancato di mantenere le mie figlie. In realtà le cifre corrisposte sono più alte di quelle richieste. Perché oltre l’assegno mensile, ho assolto alle spese per la scuola e per le attività sportive e ricreative. Ricordo che la bambina è cresciuta con me per quattro anni. Poi ho versato alla madre 3000 euro al mese. Direi tanti per mantenere una bambina. Perciò mi è venuto il dubbio di aver mantenuto anche il tenore di vita da star della madre.

Ma gli alimenti li ha sempre pagati?

Non sempre. Ho avuto problemi con i manager. Ci sono stati momenti in cui non venivo pagato. Ho chiesto di pazientare, assicurando che avrei risolto la situazione. Negli anni ho versato qualcosa come 350-400.000 euro. Va bene, era la risposta. Poi però arrivavano le lettere dell’avvocato. Comportamenti miseri. Non si dovrebbe arrivare a questo tra persone che si sono dette «ti amo». Invece, è successo. E poi ci si atteggia a paladina della battaglia contro la violenza sulle donne.

Era insolvente anche verso l’Agenzia delle entrate?

Tutto è partito da lì. Mi hanno imputato un debito e hanno subito iniziato a pignorare le mie entrate senza discutere di rateizzazione. Non potendo più pagare gli alimenti si è innescata la catena.

Ha presentato reclamo?

L’Agenzia delle entrate è un’entità kafkiana, irraggiungibile. Sono andato di persona per definire una contrattazione basata sui miei introiti. Impossibile. L’anima della burocrazia è questa: dammi la prova che esisti, un documento con marca da bollo. Non basta vederti qui davanti, serve il documento…

Il merito di questa situazione è del suo manager?

Sono passato per diverse gestioni, tutte similmente opache. I manager di artisti non esistono come categoria. Non ci sono regole. Sono autodidatti che pensano di farla in barba all’artista. Il quale è distratto perché pensa alla sua attività creativa.

Perciò non può lamentarsi…

Anch’io ho vissuto da ricco. Le canzoni producono ricchezza. Ho avuto 100, ma loro se ne sono presi 500. Mio compito non è frugare nelle carte dei commercialisti, ma creare una canzone dalla quale tutti traggano vantaggi. Se compongo un ritornello troppo lungo la canzone non incassa due milioni di euro. Se è giusto sì. La mia responsabilità è fare canzoni perfette. Poi, improvvisamente, arriva una notifica di 2 milioni di tasse da pagare.

Con questo libro, introdotto da una lettera all’allora ministro Alberto Bonisoli, contesta il comportamento dello Stato sostenendo che, anziché penalizzarla, dovrebbe sostenerla.

L’obiettivo è mettersi attorno a un tavolo per capire il ruolo dell’artista nella società moderna. E stabilire un sistema di norme affinché le sue creazioni siano vantaggiose per tutti: artista, Stato e mercato. Sono molto competente per ciò che concerne la dimora dell’artista. È una visione che si allarga allo stato dell’arte in Italia fino alla politica del nostro Paese.

In che senso?

Com’è possibile che l’Italia che possiede il più grande patrimonio artistico al mondo sia un Paese economicamente sottomesso e indebolito nella sua sovranità, come abbiamo visto anche durante questa crisi del coronavirus? Un Paese in possesso, temo ancora per poco, di tutta questa bellezza dovrebbe dominare il mondo. Abbiamo avuto Antonio Vivaldi, cioè il maestro di Bach, Mozart e Beethoven. Abbiamo avuto Piero della Francesca, cioè tutti gli Andy Warhol messi insieme. Potrei continuare. Dovremmo governare il mondo…

Invece?

Siamo indebitati perché chi governa è ignorante e non capisce il valore della bellezza. Questi politici vanno aiutati. Vanno condotti per mano perché possano comprendere quanto vale la ricchezza di cui disponiamo.

Nel suo libro parla dell’artista «al centro del reticolo sociale».

L’artista è al centro della comunità, non più fisica o geografica, ma mediatica e virtuale. L’artista aggrega. Che cosa ricordiamo della storia del nostro Paese? I grandi artisti come Leonardo da Vinci o Dante Alighieri. La storia la fanno i grandi creatori o i grandi distruttori. Leonardo e Ludovico il Moro, Picasso e Hitler: dipende da che parte stiamo.

La legge è uguale per tutti: se un musicista rimane senza lavoro è come se accadesse a un commesso?

Il commesso ha la mia stessa dignità. Né più né meno. Ma sul piano sociale è diverso. Sui social scrivono: chi ti credi di essere? Se mi togli la casa mi togli anche il lavoro. Al commesso resta il negozio. Se non lavoro io, si ferma tutto l’indotto delle mie canzoni. A un concerto ho 50.000 persone davanti, qualche decina lavora dietro e attorno al palco, altri guadagnano con i diritti d’autore, poi ci sono le case discografiche, gli uffici stampa… Io posso sostituire il commesso in negozio, lui non può sostituire me.

Intanto il ministro è cambiato. Ora è Dario Franceschini, concittadino di Vittorio Sgarbi, prefatore del libro.

Quindi, per campanilismo dovrebbe leggerlo. Poi mi auguro di incontrarlo.

In quasi tutte le sue ultime esibizioni sono successi casini.

Sono rappresentazioni artistiche.

Con Sky siete in causa per X Factor.

Per forza. Mi hanno promesso un cachet, la mia partecipazione ha portato ascolti, ma non mi pagano giustificando il fatto con le mie intemperanze.

Anche con Maria De Filippi non è finita benissimo.

Idem. Pensando a Maria De Filippi, faccio «Ah!».

Prego?

Ah! Un’esclamazione alla Al Pacino. Nel palazzetto dove si registrava Amici una sera mi è esplosa una paura pazzesca… Sono scappato. «Dove stai andando?», urlavano. «Basta, sono un comunista, sono un comunista». Sono scappato per i campi, nella nebbia, ancora con l’auricolare addosso.

Mi prende in giro? Sembra la scena di un film…

È successo davvero.

A Sanremo sappiamo com’è andata con Bugo.

È stata un’invenzione teatrale, un’iniezione di spettacolo. Sa quanto ha reso il video a YouTube? 23 milioni di euro, con oltre 15 milioni di visualizzazioni. Ma né io né la Rai abbiamo avuto niente.

Ha rotto con Sky, ha rotto con Mediaset e con la Rai ci siamo vicini?

Tutt’altro. La Rai la amo perché è super partes. Sogno di realizzare una trasmissione che valorizzi quello che so fare. Il programma di Enrico Ruggeri è stato un buon passo avanti. Spero venga il mio momento.

Tornerà al Festival nel 2021?

Amadeus è una persona seria, ironica e professionale. Forse l’idea migliore sarebbe che io e Bugo tornassimo come ospiti. Io ospite di Bugo e Bugo ospite mio… Ci pensa? Con l’utopia di fare pace sul palco. E con la strizza che, se non riesce, si ripeterà un altro fattaccio.

Per concludere, c’è qualcosa che la fa essere ottimista?

Penso che mi rivolgerò alla magia.

Chi è Morgan?

Un angelo che va sul palco. E può essere commovente o divertente.

 

Panorama, 20 maggio 2020

Lo strano caso dell’on. Walter e mister(o) Veltroni

E poi c’è Veltroni. Walter Veltroni, con la W. Il sindaco di Roma, l’antagonista di Massimo D’Alema, la pietra angolare dell’Ulivo, il vice di Romano Prodi, il fondatore del Pd. Ex di tutto. Ma sempre presentissimo e protagonista. Creativo, poliedrico, instancabile. Ogni mese un’idea nuova, un libro, un documentario, un film. Per non parlare delle fluviali articolesse, ponderosi amarcord e ritrattoni con gli occhi al Novecento sul Corriere della Sera, o le intervistone e i commenti sulla Gazzetta dello Sport… L’ultima creazione, Fabrizio De André & Pfm. Il concerto ritrovato, sarà nelle sale cinematografiche il 17, il 18 (De André compirebbe ottant’anni) e il 19 febbraio: i fan si preparano ad assaltare le biglietterie. Walter Veltroni è un caso unico nel panorama politico-mediatico-cultural-intellettual-social… Campione mainstream, sempre neo qualcosa – regista, autore, giallista – ma anche post, pop e pure flop.

Con l’eccezione di Prodi, che ha messo la prua sul Quirinale, gli altri big della politica dell’epoca si sono defilati, hanno scelto un buen ritiro, una terrazza, una fondazione appartata. Massimo D’Alema ufficialmente lavoricchia con tutta la sua antipatica intelligenza a «Italianieuropei», salvo interessarsi di nomine di Stato dando qualche consiglio al premier. Piero Fassino dopo la sconfitta alle elezioni per la poltrona di sindaco di Torino si dedica alla Fondazione Italia Usa. Francesco Rutelli, predecessore di Uolter come primo cittadino di Roma, è presidente dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali). Altri storici sindaci ex comunisti come Antonio Bassolino e Sergio Cofferati si sono ritirati a vita privata. Come pure Nichi Vendola, altro astro del firmamento de sinistra, ora testimonial delle adozioni gay e dell’utero in affitto sul settimanale Chi? Poi ci sono Achille Occhetto, Rosy Bindi e Fausto Bertinotti che ha qualche anno in più e tiene conferenze in giro per l’Italia. Oliviero Diliberto, invece, coetaneo di WV, è tornato alla facoltà di Legge della Sapienza di Roma e, alla Giorgio Gaber, dice che, siccome «la mia generazione ha fallito, l’unico dovere morale è scomparire».

Chi conosce bene Veltroni dice che ce n’è un altro, meno noto e più gigione. Collezionista di figurine, tifoso sfegatato (della mainstreamica Juventus), goliarda, esperto, espertissimo di cinepanettoni. Purtroppo lui espone alla telecamera sempre il lato ispirato e buonista.

Più che un caso, il suo sembra un mistero. I suoi cimenti, le prove cinematografiche, autoriali e letterarie non si possono rubricare come successi, eppure… Il programma su Rai 1 Dieci cose, autunno 2016, annunciato da un’intervista su Repubblica umilmente intitolata «Così cambierò il sabato sera in tv», si arrampicò all’11% di share medio, puntualmente doppiato dallo show di Maria De Filippi su Canale 5. I film e documentari, uno all’anno dal 2014 in poi, prevalentemente trasmessi da Sky, non hanno certo sbancato il botteghino: Quando c’era Berlinguer (prodotto da Sky e Palomar, 620.000 euro al cinema), I bambini sanno (Sky, Wildside e Paolomar), Gli occhi cambiano (Rai), Indizi di felicità (Sky e Palomar, 60.000 euro), Tutto davanti a questi occhi (ancora Sky e Palomar), fino al vero e proprio film per il cinema, C’è tempo, con Stefano Fresi, che nel 2019 ha incassato 320.000 euro. Opere del Veltroni ispirato, immancabilmente accompagnate da benevole candidature ai Nastri d’argento o ai David di Donatello. Si sa come gira il fumo a Cinecittà. Nel frattempo, l’inesausto Uolter non ha trascurato la produzione letteraria sfornando, a ritmo annuale, accorati romanzi. Sconfinando infine nella narrativa noir con Assassinio a Villa Borghese (Marsilio), sempre in bella vista sui banconi cruciali delle librerie di catena.

Quindi: se le creazioni veltroniane non sono propriamente boom cinematografici o letterari come se ne spiega l’indefessa proliferazione? Lo strano caso dell’onorevole Walter e del mistero Veltroni è presto risolto: chi può dirgli di no? Realizzato da Except, puntuale come il carnevale, in questi giorni esce il documentario in cui l’ex vice di Prodi confeziona con prologo ed epilogo il filmato di Piero Frattari, un altro regista che il 3 gennaio 1979 riuscì a infilarsi al concerto di Genova con la Premiata Forneria Marconi. Alle preziose immagini, rispolverate dalla soffitta, Veltroni ha aggiunto la cornice narrativa e una serie di testimonianze di chi c’era, i musicisti della Pfm, Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida e Flavio Premoli, il fotografo Guido Harari, oltre, ovviamente, a Dori Ghezzi.

I giornaloni – chi può dirgli di no? – lo hanno annunciato come la scoperta del Sacro Graal. L’altro giorno SkySport24 ha allestito persino un salottino con Di Cioccio e Djivas per parlare di calcio da tifosi, ma anche del ritrovamento del concertone che ha segnato «l’incontro tra due diversità che sarebbero rimaste parallele se, a un certo punto, non fosse venuta la voglia di eliminare un recinto», ha buonisteggiato WV alla conferenza stampa. Dove, a chi gli chiedeva quanto pensa incasserà il nuovo documentario, ha replicato, piccato: «Non è detto che ciò che vende di più sia di per sé più bello». Quantità e qualità non sempre vanno a braccetto; giusto. Però, chissà cosa ne pensano i suoi produttori…

 

La Verità, 15 febbraio 2020

 

Il Vaticano? Un girone dantesco per Sorrentino

Dopo The Young Pope Paolo Sorrentino aveva due strade: mettere ordine nel calderone del Vaticano orfano(?) di Pio III-Lenny Belardo (Jude Law) o accentuare il disordine creativo. È fuor di dubbio che egli abbia imboccato la seconda, quella più estrema, eccentrica, febbrile. In The New Pope, la serie originale Sky da ieri sul canale Atlantic e on demand, creata e diretta dal regista premio Oscar, prodotta da The Apartment – Wildside, parte di Fremantle, la specificità del Vaticano c’è, ma è quasi un pretesto. Pre-testo. Un punto di partenza per le licenze e licenziosità poetiche, etiche, estetiche del regista-sceneggiatore-produttore esecutivo. La Cappella Sistina, piazza San Pietro e i giardini vaticani sono il luogo per eccellenza; il contrario del non luogo contemporaneo e della società liquida, come fa intendere il sempre più strategico (e stratega) cardinal Voiello (Silvio Orlando) parlando della diversità dei tempi della Chiesa. La Santa Sede è il luogo del Logos e Sorrentino lo sa o, per lo meno, lo intuisce. Intuisce che la Chiesa è un’istituzione dell’altro mondo, una realtà umana attraversata dal divino, e ne è affascinato, soprattutto per l’estetica di liturgie e riti. Tuttavia, faticando a penetrarne il mistero e a dare verticalità al racconto, la messinscena si dibatte tra vero, verosimile, falso, onirico, fantasy, virtuale, allucinato, psichedelico…

Così The New Pope è più di un sequel di The Young Pope, con personaggi nuovi e sganciamenti narrativi. E le situazioni nelle quali lo spettatore viene introdotto sono spin off del reale. Francesco II che apre il Vaticano ai migranti e parla di Chiesa povera, lo è di Bergoglio anche se muore precocemente, citando papa Luciani. Mentre la situazione in cui si vengono a trovare Lenny Belardo e John Brannox (John Malkovich) è un lungo parallelismo dei due pontefici attuali. Con le licenze che dicevamo. E con le licenziosità, parola del moralismo novecentesco, con il quale il regista continua a giocare muovendo le suore infoiate, la realpolitik di Voiello, il dandismo di Malkovich. Il quale, più che interpretare papa Giovanni Paolo III, gli presta le proprie mollezze, accettando l’iniezione dialettica dello stesso Sorrentino che, sempre per gioco, gli mette in bocca discorsi pregnanti e sincopati da guru moderno, nel terzo episodio ce ne sono ben due. Perché l’altra novità di The New Pope sono i tempi dilatati della narrazione che innesta la sintassi felliniana con accenni lynchiani. Il risultato finale è un Vaticano dantesco assolutamente imprevedibile, fucina di esotiche sorprese, rigorosamente da non prendere sul serio.

 

La Verità, 11 gennaio 2020

«Non ho fretta di tornare, aspetto Apple e Amazon»

Sandro Piccinini è appena tornato da Londra: una delle mete del suo anno sabbatico? «Per la verità, da qualche tempo Londra è la mia seconda città», racconta il telecronista sportivo ex Mediaset. «Ho cominciato a conoscerla per lavoro, poi ci ho preso casa e mi sono fatto degli amici. È una città immensa, caotica, piacevole. La Brexit? Non so se ne risentirà, è abbastanza forte per conservare tutta la sua attrattiva. C’è sempre sullo sfondo una possibile retromarcia, un nuovo referendum e la possibilità che Boris Johnson cada. Londra è sempre Londra». Miami, Cuba, Shangai, Hong Kong sono state le altre mete di quest’anno di pausa, iniziato dopo i Mondiali di Russia 2018 e trasmessi in esclusiva da Mediaset. Di cui Piccinini, sessantunenne romano, ha commentato la finale tra Francia e Croazia.

Parlando di retromarce, alcune partite di Champions League torneranno su Canale 5: e tu?

«Io e Mediaset ci siamo lasciati dopo 30 anni di matrimonio felice. Nell’ultimo giorno di lavoro ho commentato la finale mondiale. Difficile tornare insieme dopo una separazione consensuale. L’anno sabbatico è finito, ma è molto probabile che si prolunghi. Sia perché, avendo guadagnato abbastanza posso aspettare senza frenesie una proposta stimolante, sia perché il mercato televisivo è piuttosto ingessato».

Qual è stato il vero motivo della separazione?

«Continuando la metafora sentimentale, quando ci si separa dopo 30 anni non è elegante svelare il motivo. Anche le coppie migliori hanno voglia di cambiare».

Possibili ripensamenti?

«Tutto è possibile, ma li ritengo improbabili. Mi avrebbe sorpreso se mi avessero chiamato per la Champions».

Altre strade?

«La Rai non può assumere esterni da un giorno all’altro. Sky ha quasi più telecronisti che partite e Dazn è una realtà appena nata. Inoltre, io sono una figura ingombrante il cui innesto può provocare malumori che non sempre i direttori subiscono volentieri. Credo bisognerà attendere il nuovo contratto dei diritti, quando qualche nuovo marchio di streaming potrebbe ricorrere alle prestazioni di un telecronista sufficientemente popolare».

C’è qualcosa che accomuna gli addii a Mediaset di Ettore Rognoni, storico direttore dello sport, di Piccinini, voce principale del calcio, di Carlo Pellegatti e di quello, prossimo, di Maurizio Pistocchi?

«Direi di no. Isolerei la situazione di Rognoni, un dirigente che appartiene alla stagione di Carlo Freccero direttore di Italia 1, Giorgio Gori di Canale 5 ed Enrico Mentana capo del Tg5. Persone difficilmente sostituibili. Gli altri casi sono diversi tra loro. Pellegatti è andato in pensione. Pistocchi vive un dissidio con l’azienda e mi dispiace, ma è ancora lì. Dal 1996 io ero free lance e rinnovavo annualmente il contratto, fino alla separazione».

Come hai trascorso l’anno sabbatico?

«Sono stato benissimo. Molti avevano pronosticato: dopo due o tre mesi le partite ti mancheranno. Magari succederà, ma finora non è accaduto. Ho viaggiato anche in Italia, visitato bei posti, alcune mostre, ho condotto una vita più rilassata, come in una lunga vacanza. Sì, qualche sera mi è mancata la partitona di Champions, ma ti assicuro: nessun attacco di panico. Prolungare questa vacanza per adesso non mi dispiace».

È comprensibile che dopo 1800 telecronache se ne avverta la mancanza.

«In realtà sono di più. Le ho contate fino a duemila poi basta, non so se siano 2100 o 2200».

La più avventurosa?

«Bisogna tornare ai tempi delle tv locali, quando feci una cronaca senza vedere la partita».

Cioè?

«Lavoravo a Teleregione, un’emittente romana. A Firenze c’era Fiorentina-Lazio e a quell’epoca radio e tv locali non erano ammesse nella tribuna stampa con i telefoni fissi. I cellulari non esistevano. In settimana io e Raffaele Pellegrino, ora produttore al Tg5, facemmo un sopralluogo accorgendoci che nel bar della tribuna centrale c’era un telefono a gettoni. Purtroppo sugli spalti gli spettatori seguivano la partita in piedi e da quel telefono si vedevano solo le loro nuche».

Quindi?

«Inventammo il nostro sistema: ci munimmo di un sacchetto con 400 gettoni e di tanti foglietti da compilare con scritto “tiro di…”, “fallo di…”, “dribbling di…”. Pellegrino guardava la partita, aggiungeva i nomi dei calciatori e mi portava dieci foglietti alla volta. Intanto io facevo la mia radiocronaca di fantasia alla quale aggiungevo le note dei foglietti. In pratica, dicevo i fatti con uno o due minuti di ritardo».

Nessuno se ne accorse?

«Non c’erano le pay tv e le partite in diretta a smascherarci. Solo Tutto il calcio minuto per minuto, che però si collegava sporadicamente. Il problema era il gol, infatti speravamo finisse zero a zero. Invece vinse la Fiorentina 3 a 0. Alla fine della partita mi ritrovai con una decina di gettoni e un mal di testa feroce».

La telecronaca più difficile?

«Juventus Milan, finale Champions League del 2003, 20 milioni di telespettatori su Canale 5. I calci di rigori fecero l’80% di share, chissà che cosa guardava il residuo 20%. Fu una telecronaca stressante di una partita equilibrata, noi eravamo la tv del presidente del Milan. Ma non arrivò mezza telefonata di protesta».

Quella più emozionante?

«Francia Croazia del Mondiale 2018, che arrivò al termine di un mese di telecronache, esperienza entusiasmante anche se non c’era l’Italia di mezzo».

Il più grande telecronista di sempre?

«All’inizio mi piaceva Giuseppe Albertini della tv della Svizzera italiana, poi telecronista del Mundialito Fininvest. In assoluto però prediligevo Enrico Ameri, l’unico sempre in sincronia con l’azione, capace di trasmettere il pathos del pubblico».

Nelle telecronache di oggi l’eccesso di protagonismo dei commentatori si sovrappone all’evento?

«Si parla troppo. I telecronisti stanno ridiventando radiocronisti. In tv non si deve dire tutto quello che già si vede, basta accompagnare l’azione, magari dicendo il nome del giocatore. Troppe parole soffocano il telespettatore. Telecronista, seconda voce, bordocampista: un diluvio. Per distinguersi, si eccede».

Un nome in positivo?

«Massimo Callegari, che lavora in Mediaset e a Dazn. Mi sembra quello più misurato e vicino al mio stile. Conosce i tempi del calcio, avendolo giocato».

Ti mancano i programmi, tipo Controcampo?

«Non particolarmente. La mia passione è per la telecronaca, i programmi sono stressanti. Ora, non facendone da tempo, potrei sperimentare nuove idee. Ma ci vorrebbero le persone giuste».

Il programma preferito?

«Il più delle volte dopo il novantesimo cambio canale. Il Club di Fabio Caressa è tranquillo, forse troppo. Non mi dispiacciono quelli di Federico Buffa e Giorgio Porrà, ma non è che corro a casa per non perderli. Sono programmi perfetti per arricchire l’offerta delle pay tv».

Chi sono stati i tuoi maestri?

«Ameri, di cui conservavo le cassette audio. Poi ho rubacchiato qua e là. Da Rognoni a Fabio Galimberti, direttore di TeleRoma56, dove approdai dopo quel Fiorentina Lazio. E poi Michele Plastino, che mi ha insegnato a stare in studio».

È stata l’estate delle rivoluzioni: come vedi Maurizio Sarri alla Juventus?

«Bene, se la società è convinta della scelta. Se fai la rivoluzione devi crederci, come dimostrò Berlusconi quando prese Arrigo Sacchi. Sarri è un grande allenatore e i giocatori sono fortissimi. Quando un allenatore propone metodi nuovi i campioni possono avere un attimo di smarrimento. Ma siccome alla Juventus c’è la cultura del lavoro non vedo pericoli».

Antonio Conte all’Inter?

«Stesso discorso. Conte ha lavorato bene in situazioni diverse e ha le carte in regola per continuare a farlo. Io penso che le partite le vincano i giocatori, ma lui è maniacale e pretende dedizione totale. Molti dicono che l’Inter si è mossa benissimo sul mercato, per me si è mossa bene».

La Roma che lascia andare Francesco Totti e Daniele De Rossi?

«James Pallotta ha dimostrato di saper essere brutale e di non farsi condizionare dalla mozione degli affetti. È accaduto quando Totti ha smesso di giocare. E con De Rossi che avrebbe potuto essere utile alla causa un altro anno o due».

Ieri è partito il campionato: preferisci sbilanciarti sul podio finale o dare i voti al calciomercato?

«Il calciomercato non è ancora finito, quindi… La Juve mi sembra un gradino sopra Napoli e Inter che vedo sullo stesso livello».

Mauro Icardi a chi farebbe più comodo?

«Al Napoli. Ma anche alla Juventus, perché l’Higuain di adesso… Ma servirebbe più al Napoli, anche per l’entusiasmo che porterebbe».

La Juventus vincerà la Champions?

«È una competizione in cui la fortuna ha un ruolo fondamentale. Sorteggi, infortuni, arbitraggi. Tutte le ultime 20 vincitrici hanno goduto di un momento favorevole. Pensiamo al Chelsea di Di Matteo, massacrato dal Napoli nei gironi eliminatori. La Juventus può arrivare in fondo, ma tante squadre si stanno rinforzando. Per esempio, se il Barcellona prende Neymar…».

Concordi con Mourinho che a proposito del Var ha detto che «solo i ladri possono essere contrari alle telecamere di sicurezza»?

«Concordo, anche se capisco chi non ama il Var al 100%. In Manchester City Tottenham al 94° un gol è stato annullato perché il pallone ha sfiorato una mano. A volte l’eccesso di zelo mortifica lo spettacolo. Ma nessuno tocchi il Var, sempre meglio del far west di prima».

Quanta strada farà l’Atalanta in Champions?

«Dipende molto dal sorteggio. È una squadra solida, entusiasta, che ha fatto una buona campagna acquisti. Ma in Champions tutti giocano con questo spirito».

Il Milan arriverà quarto?

«Vediamo le ultime mosse di mercato, Leao è un ottimo acquisto. Dipende da quanto la società sosterrà Marco Giampaolo. È un grande test anche per Paolo Maldini».

Dove farà il telecronista Sandro Piccinini?

«Fra due anni, spero in un nuovo grande gruppo dello streaming, tipo Amazon o Apple, ai quali potrebbe servire un telecronista popolare. Prima la vedo dura. Aspetto, tranquillo».

 

 

La Verità, 25 agosto 2019