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«Se si dimentica la famiglia la selezione sarà spietata»

Una militante della moderazione, ma pur sempre una militante. Non più giovanissima, Paola Binetti conserva l’innocenza degli ideali e, sebbene nel settembre 2022, dopo quattro legislature, non sia stata rieletta (nella sua circoscrizione la lista di Noi moderati non superò il 3%), la si trova al lavoro nell’ufficio della Camera dell’Udc: «Continuo a occuparmi dei temi che ho sempre seguito. Per me, la politica è servizio alla ricerca di soluzioni ai bisogni della gente». Neuropsichiatra, saggista, esperta in materia di bioetica, qualche giorno fa nella sala capitolare del Senato, «strapiena», è stato presentato il suo Elogio della moderazione. Nella moderna dialettica politica (Cantagalli), appena uscito.

Professoressa Binetti, come definirebbe la moderazione?
«È un atteggiamento che deriva dalla convinzione nei propri valori, dal desiderio di condividerli con gli altri e dalla ricerca dei toni che favoriscano questa condivisione al fine della realizzazione di un progetto. La politica non è solo idee, ma anche concretezza e collaborazione per raggiungere dei risultati».
L’invito alla moderazione è un auspicio, una mozione d’ordine, un programma di governo o un’utopia?
«È una conditio sine qua non se si vogliono davvero realizzare riforme solide».
Che seguito può avere questo invito in una società ad altissimo tasso ideologico come la nostra?
«Può anche cadere nel vuoto. Ma se ciò avvenisse si allargherebbe la distanza già enorme tra il Paese e la classe politica».
È una battaglia donchisciottesca?
«Diciamo che conserva il valore dell’utopia e, in una certa misura, della speranza. Credo ancora che si possano cambiare le cose».
Gran parte della comunicazione, tipo i talk show, inclina dalla parte opposta.
«Questo dimostra le responsabilità del mondo dell’informazione. Alla presentazione del libro al Senato alcuni dei relatori hanno raccontato che quando vengono invitati ai talk show sono esortati a non essere troppo buoni perché l’audience si regge sulla conflittualità».
Un altro avversario della moderazione sono i social media, il posto in cui il conflitto diventa odio.
«L’esercizio dell’odio è un sasso che rotola e diventa valanga. Si basa su un’informazione lacunosa e una cultura fatta di slogan. Bisognerebbe rileggere una volta in più ciò che si è scritto prima di postarlo».
Walter Veltroni ha scritto un pamphlet intitolato Odiare l’odio, come per stabilire una gerarchia dell’odio sano e tollerabile.
«Senza la virtù del perdono è difficile praticare la moderazione e andare per primi incontro all’altro. Guardiamo ciò che accade tra Palestina e Israele: vige un’idea di giustizia rivolta a sé stessi e che sa solo pretendere».
Chi sono i moderati in Italia?
«Non necessariamente il gruppo di Noi moderati di Maurizio Lupi. Più ci si avvicina al centro e più, teoricamente, ci si avvicina alla moderazione. Questo luogo lo individuo, storicamente, nell’Udc. È un modo di fare politica che permette di dialogare con gli altri in base alle proposte e ai valori che si presentano. Coloro che si oppongono per principio, come talvolta fanno le opposizioni, sono per definizione non moderati».
Qualche indicazione in positivo?
«In Forza Italia ci sono tanti moderati. All’interno di Fratelli d’Italia, un tempo identificati come destra-destra, anche. Nel Pd c’è una componente a disagio di fronte a certe scelte attuali. Sostanzialmente, l’Italia è un Paese moderato perché attento a temi fondamentali come il lavoro, la scuola e la salute, che tutti vogliamo migliorare».
Ma con l’introduzione del sistema maggioritario per favorire l’alternanza si penalizza la rappresentanza.
«Alla presentazione del libro, Giancarlo Giorgetti ha detto che è nel governo come ministro perché i voti li prende Salvini. A volte è l’elettore a privilegiare chi buca lo schermo, ma poi, per governare, servono persone moderate».
Il tentativo di ricreare il centro di Matteo Renzi e Carlo Calenda è una delusione dalla quale è difficile riprendersi?
«È stata una grande delusione perché è apparso chiaro che le differenze principali sono legate alla personalità di entrambi: uno stile di vita con poca moderazione e una gran voglia di affermazione personale oltre la proclamazione di alcuni principi condivisi».
Nella lotta alle diseguaglianze si è proclamata l’abolizione della povertà mentre in realtà si è penalizzato il lavoro?
«Innanzitutto, penso che in questo contesto di consumismo esasperato dobbiamo recuperare tutti una certa sobrietà. Per esempio, apprezzo la legge europea che invita a riparare i cellulari, evitando l’obsolescenza programmata e la frenesia di avere quello di ultima generazione. Poi è corretto sanare le situazioni di povertà vera, sapendo che “i poveri li avrete sempre con voi”. La povertà si può lenire, non abolire del tutto».
Un approccio ideologico ci ha illuso che fosse possibile?
«Era il tallone d’Achille del reddito di cittadinanza. Equiparando le politiche del lavoro alle misure di contrasto alla povertà ai giovani conveniva accedere al sussidio invece di andare a lavorare».
Com’è possibile che la politica per la famiglia «nucleo fondativo della nostra società» sia il terreno della collaborazione tra conservatori e progressisti se una certa cultura lavora per smembrarla?
«Ha ragione. Crescono le famiglie cosiddette mononucleari e le coppie che scelgono di non sposarsi. Ma la verità è che la vita si allunga e si allungano le stagioni in cui dipendiamo dagli altri. La composizione della popolazione è illustrata dalla piramide rovesciata, più vecchi e meno giovani. In assenza del welfare famigliare chi si prenderà cura degli anziani? Serviranno eserciti di badanti. Per fortuna è stata approvata la legge 33/2023 che prende atto di questa emergenza. La riscoperta della famiglia sarà obbligatoria, altrimenti i costi sociali ricadranno tutti sullo Stato».
Serve una politica più efficace per incrementare la natalità?
«Assolutamente. E non solo perché non nascono più bambini e si devono tramandare cultura, storia e identità. La scienza ha aggiunto anni alla vita e condizioni migliori per i malati. Disabilità e cronicità saranno le nuove povertà. Ma l’assenza della famiglia produrrà costi insostenibili per lo Stato e creerà una selezione spietata».
Può esserci dialogo se per la sinistra la teoria gender, definita «il pericolo più brutto» da Francesco, è il cardine dei diritti civili?
«Il primo dato intangibile è il rispetto della persona qualsiasi sia il suo orientamento sessuale. Le discriminazioni non vanno tollerate. Ma ciò non significa che si possano negare i valori fondativi della convivenza civile costruita negli anni. La famiglia e la vita sono alla base di tutte le società».
Ma il presidente francese Emmanuel Macron e l’Unione europea operano in direzione opposta.
«L’errore più grave è stato non inserire nella Costituzione europea il richiamo alle nostre radici elleniche e cristiane. Fu la Francia a opporsi maggiormente. Esiste una frontiera che chiamiamo valori non negoziabili. Sono pochi, ma ci sono e ci impegniamo a difenderli, senza colpevolizzare le donne che abortiscono. A loro che, per vari motivi, fanno scelte diverse, vanno tutta la nostra empatia e solidarietà. Ma non possiamo negare che quell’embrione, se lo si lascia in pace, in nove mesi diventa un bambino. Non a caso l’intestazione della legge 194 è “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”».
Quanto può favorire il dialogo per la costruzione del bene comune la continua richiesta di abiura del fascismo a esponenti del governo?
«Si abiura a un giuramento, ma la generazione che governa è tutta post-fascista e non ha mai prestato alcun giuramento».
Perché quando un post-comunista va al governo nessuno gli chiede l’abiura del comunismo?
«Perché avremmo una nuova guerra civile. Non chiedo a nessuno di abiurare un credo di un secolo fa, mi basta la sua vita, quello che è ora».
Il tratto distintivo di questa cultura è essere anti?
«Noi tentiamo di essere proattivi, cercando di capire di cosa hanno bisogno le persone accanto a noi».
Perché i diritti su cui si insiste oggi, eutanasia, suicidio assistito, aborto, sono imperniati sulla morte?
«Ci vuole coraggio a vivere perché la vita è bellissima, ma non è sempre facile. Sono felice che nel 2010 sia stata approvata la legge 38 per l’accesso alle cure palliative delle persone che soffrono fino all’ultimo momento della vita. L’accompagnamento alla vita gli uni degli altri è lo scopo di una società realmente solidale».
Crede anche lei che esista un’élite culturale che si ritiene superiore e pregiudichi il dialogo alla pari?
«Sì, c’è qualcuno che si ritiene più uguale degli altri come ne La fattoria degli animali di George Orwell. La forza che ci spinge a migliorare è il riconoscimento delle nostre fragilità».
Ha ragione Matteo Salvini quando dice che nelle opposizioni prevale la politica dei No: No-Tav, No-Tap, No-Ponte eccetera?
«Assolutamente. È un’opposizione sterile, non animata da proposte positive. Il bambino di tre anni si afferma attraverso il no. I manuali di psicologia evolutiva lo chiamano “l’alba del principio d’identità”».
Come spiega che oggi su questi temi molti vescovi anziché partire dalla dottrina sociale della Chiesa parlano del salario minimo e contrastano gli accordi con Paesi terzi per l’accoglienza ai migranti?
«È difficile anche per i vescovi distinguere tra missione spirituale e scelte personali e politiche. Oltre la dottrina sociale, la carità ci guida a perseguire e difendere ciò che conta davvero. Nell’ultimo capitolo della Dignitas infinita si suggeriscono i comportamenti relativi alle contraddizioni contemporanee, dall’immigrazione al gender, dall’utero in affitto alla violenza digitale. I cattolici, e i loro pastori in primis, dovrebbero tener conto di tutte queste situazioni, non limitarsi ad alcune».
Il centro come aggregazione politica è una chimera?
«Se lo si intende come partito, sì. Se lo si intende come luogo del confronto, può essere il punto di sintesi della democrazia. Non è l’inciucio, non è il governo di larghe intese. Vediamoci in centro a prendere un caffè. È il posto della mediazione, della ricerca e della condivisione del bene comune».

 

La Verità, 4 maggio 2024

Un reality dei migliori per guarirli dalla «melonite»

A un certo punto, nel bel mezzo di una stagione intrisa di patologie incontrollate – dall’invasione dei migranti all’inflazione, dall’innalzamento ritmato del tasso sul costo del denaro ai blocchi del traffico orditi da Ultima generazione – una strana sindrome prese a diffondersi negli interstizi delle centrali del potere. Colpiva per contagio, attraverso la confermazione reciproca che si espandeva con la frequentazione del medesimo circuito mediatico. Gli stessi talk show, gli stessi editoriali, gli stessi siti d’informazione. Un gioco al rimbalzo che propagava il virus della melonite senza che chi lo contraeva se ne avvedesse, tanto era una patologia condivisa e aggravata dalla sicurezza di essere nel giusto. Sì perché essa attecchiva più facilmente sul terreno arato dal complesso di superiorità. All’inizio si era manifestata come un malessere a bassa intensità, un nervosismo serpeggiante del quale non si riuscivano a individuare le cause né a circoscrivere le fasce a rischio. Poi, a un anno dalle elezioni che avevano consegnato il Paese alle destre, pian piano la nebbia si era diradata. La melonite era la malattia delle élite. Il morbo dell’establishment. Una patologia ossessiva che colpiva le classi dei migliori, lasciando immuni gli strati umili.

Dopo decenni di controllo del potere, improvvisamente, si era andati a votare e Giorgia Meloni aveva inusitatamente vinto. Il maggior partito della sinistra, abituato a governare per diritto divino senza bisogno di primeggiare, aveva accusato il colpo e, pur con i suoi tempi, aveva sostituito il grigio segretario figlio della tecnocrazia post-democristiana, con una giovane militante cresciuta tra la Svizzera e i centri sociali, molto sensibile all’armonia dei colori.

Nel Paese occidentale dove, secondo alcuni autorevoli studi, gli operatori della comunicazione erano spostati più a sinistra rispetto all’orientamento dell’opinione pubblica, sembrava di vivere in una sorta di distopia. Fu così che la melonite prese a ramificare nelle sue diverse varianti. La variante Bilderberg, per esempio, aveva colpito la conduttrice del talk show più seguito nei salotti cool. Allorquando pronunciava il cognome del premier come in un rap compulsivo – allora la Meloni, intanto la Meloni, adesso la Meloni – l’inflessibile anchorwoman con un passato da europarlamentare ulivista, non riusciva a trattenere l’arricciamento del labbro superiore in una smorfia di ribrezzo che sembrava un tic nervoso. Era lo stadio più acuto. Pur avendo teorizzato la necessità di dare maggior potere alle donne per contrastare la politica del testosterone, ora che, per la prima volta, si era affacciato un premier donna, il talk della giornalista di sangue tedesco era divenuto il focolaio del contagio. Che, con l’abitudine a intervistarsi tra loro, si espanse rapidamente tra i conduttori della rete.

La variante livida aveva intaccato l’espressione facciale del direttore del giornale della più influente famiglia imprenditoriale il cui cognome identificava il capitalismo italiano per eccellenza. Ciò nonostante, sul quotidiano di sua proprietà si esibivano le firme più antagoniste e radicali del villaggio. Nel caso del megadirettore, un habitué del focolaio, la melonite si manifestava con un impercettibile digrignar dentale che alla lunga gli stampava in volto una piega di tristezza sabauda. Quando poi era costretto a pubblicare sondaggi che certificavano la popolarità del premier, lo stridore dei denti diventava ancora più fastidioso.

La variante più goliardica, insidiosa e paragura si esprimeva invece nella narrazione di uno dei siti più consultati dal bel mondo. Il suo era un caso da manuale perché proprio l’avvento del nuovo premier aveva determinato la svolta nelle cadenze del portale. Prima irriverente ai diktat della gente che piace, si era convertito al verbo quirinalizio, istituzionalizzandosi. Al mefistofelico fondatore del sito, ogni tre post ne partiva uno contro il premier e il suo cerchio tragico di cui prospettava l’imminente autodafé, l’isolamento interno e l’emarginazione internazionale. Fino ad attribuire al primo ministro certe crisi di panico e il ricorso a psicofarmaci.

Infine, l’ultima variante era quella nera. Una vecchia storia che affiorava limacciosa, soprattutto in prossimità degli appuntamenti elettorali. E colpiva alcune firme del giornalismo militante annidato nell’altro giornale di proprietà della solita famiglia di grandi imprenditori. A riassumerle tutte, quasi un prontuario sanitario vivente, c’era la variante iconografica che aveva infettato irreparabilmente un fotografo dal glorioso passato. Com’era nella sua estetica, egli non risparmiava sfumature e si abbandonava a insulti e sputacchi per esternare il disprezzo contundente. Rabbia, visceralità, saccenza, snobismo: gli ingredienti c’erano tutti. Ma i suoi toni erano talmente accaniti che pochi lo consideravano davvero mentre lui seguitava a invecchiare peggio.

L’espandersi del virus però qualche effetto l’aveva prodotto anche sul premier, a sua volta affetto dalla sindrome di accerchiamento. Così, anziché contornarsi di consiglieri competenti e collaboratori autorevoli, si era colpevolmente trincerato con poche persone fidate, principalmente famigliari.

Svelata anche dal sorprendente successo del pamphlet di un generale dei paracadutisti sfuggito alle maglie dell’editoria di regime, le conseguenze della distopia finivano per cristallizzarsi. Da una parte i migliori, colpiti dal virus. Dall’altra il premier, sempre più propenso ai compromessi per non inciampare sui poteri forti a ogni disegno di legge e arroccato con il clan, collezionista di gaffe. Sembrava una situazione irreparabile. Nessuno aveva un’idea. Nessuno coltivava lo straccio di un vaccino.

Finché un giorno accadde un fatterello all’apparenza marginale. Si sa com’è, a volte l’ispirazione viene da un episodio minore. Un giornalista e scrittore che viveva a Roma in una confortevole abitazione foderata di libri e opere d’arte, un intellettuale abituato a vagliare gli argomenti uno a uno, decideva di abbandonare i propri agi e di recludersi nella casa di un famoso reality show. Senza giornali e telefonino quanto sarebbe resistito? Chissà. Così a un grande produttore televisivo venne l’idea. Perché non proporre alle persone affette dalla melonite un periodo di detox? Sì, un reality show dei migliori. Più che un vaccino, il reality poteva essere la terapia della realtà parallela, la bolla nella quale gli ammalati erano immersi. L’idea divenne virale. Il produttore era sicuro e depositò il progetto. Male che andasse, sarebbe stato un interessante esperimento sociale, dai promettenti risvolti comici. Messe a punto tutte le precauzioni, dotata la casa di ogni comfort, si erano rotti gli indugi. Pur scettici e riluttanti, i colpiti dal morbo avevano accettato di entrare nella bella residenza dove sfogare tra loro le accuse contro il nemico. Allo scopo di disintossicarsi, avevano rinunciato a giornali, tv, siti, wifi e a tutte le tecnologie indispensabili per dettare la linea. Non era stata una passeggiata, tutt’altro. Il complesso di superiorità era duro a morire. Gli inquilini avevano dovuto superare pericolose ricadute e crisi di astinenza. Fu trovata anche qualche monografia giornalistica antipremier fatta entrare di soppiatto nella casa. Ma, alla fine, ce l’avevano fatta ed erano tornati rigenerati e ringiovaniti alla loro vita e alle loro professioni. Il sistema dell’informazione ne aveva guadagnato in equilibrio e capacità di valutare l’operato della politica senza pregiudizi. Il clima di tutto il villaggio aveva acquistato in serenità. E anche il premier si era tranquillizzato. Ora non aveva più alibi per rinviare la realizzazione del suo programma di governo. Nel Belpaese era iniziata una nuova èra. Certo, non che fosse tutto perfetto. Alcuni problemi persistevano sul fronte internazionale. Soprattutto a causa del comportamento dei poteri continentali e degli Stati fratelli, ingerenti in campo economico e invece latitanti quando si trattava di condividere le crisi sovranazionali. Ma i più ottimisti erano convinti che, ben presto, qualcuno avrebbe cominciato a mettere la testa anche su questo…

 

La Verità, 26 settembre 2023

A DiMartedì succede che Rossella difenda il popolo

Non aveva nemmeno finito di rispondere alla domanda di Giovanni Floris – «Direttore, le piace Giorgia Meloni?», «No, non mi piace…» – che già era partito l’applauso dello studio. È così: pur di mettere fango nella macchina lanciata contro il premier si prendono a bordo gli ex avversari, i berlusconiani d’antan, chi è scomparso dai radar. Dev’essere stato per rientrarci a tutti i costi che lunedì scorso Carlo Rossella ha rilasciato una stupefacente intervista al Fatto quotidiano dicendo le peggio cose del capo del governo. Prontissimo di riflessi, il conduttore di DiMartedì l’ha convocato nel suo studio per offrirgli il poligono di tiro più comodo e ravvicinato al bersaglio inerme (La7, martedì ore 21,35, share del 5,6%, un milione di telespettatori). Infatti, in diretta su Stasera Italia di Rete 4, la premier aveva appena risposto ai giornalisti presenti a Palazzo Chigi al termine della consultazione con le opposizioni sulle riforme istituzionali, ma Floris non doveva essersene accorto se, interrogando Rossella, continuava a sottolineare che snobba i media e le conferenze stampa.

Dunque, il «presidente di Medusa film», secondo il sottopancia (non lo è più dal 2020 ndr), e messo sul piedistallo dal conduttore – «una lunghissima carriera ai vertici del giornalismo italiano, ex direttore della Stampa, del Tg1, del Tg5 e di Panorama» – puntava e sparava. «La Meloni non è la mia tazza di thè, come dicono gli inglesi. Non mi piace la sua politica, non mi piacciono le sue idee, non mi piace la sua arroganza». Il fatto curioso è che, nonostante l’abbronzatura di chi sembrava appena sceso da uno yacht, Rossella argomentava parlando di «popolo». Proprio così.

Al giornalista del Fatto aveva detto di non aver mai conosciuto la premier e di rifuggirne l’eventualità ma, chez Floris, ne stigmatizzava la propensione a non guardare negli occhi i suoi interlocutori e, insomma, l’inclinazione alla «tirannia». Nientemeno. Ovviamente non poteva mancare il parallelo qualificante: «Nel 1922 è andato al potere lui, nel 2022 è andata al potere lei». Ma la continuità di idee è palese. «Nel cocktail della Meloni» c’è una dose di fascismo, di autoritarismo… Infatti, assicurava l’azzimato Rossella, lei «non vuole capire le idee degli altri» perché «è distante dal popolo, non è certo vicina al popolo». Gli dia retta la premier, che lui il popolo lo conosce bene, perché «da ragazzo ero un po’ snob e quando tornavo al mio paese mi pigliavano per i fondelli per il mio snobismo». Tra i molti dubbi se ne sia davvero guarito, di sicuro c’è che, d’ora in avanti, l’indimenticato autore della rubrica «Alta società» sul Foglio sarà richiestissimo nei talk show dei migliori.

 

La Verità, 11 maggio 2023

Il Corriere della Sera vuole chiudere Cartabianca

Anche i grandi critici televisivi hanno le loro piccole (o grandi) fissazioni. Un po’ come certi docenti universitari hanno le loro piccole (o grandi) predilezioni. Se poi sono la stessa persona la faccenda è ancora più bizzarra. Prendete Aldo Grasso, titolare della lettissima rubrica «A fil di rete» sul Corriere della Sera. Che non ami Cartabianca è risaputo. Ma ieri, dopo un insistente lavoro ai fianchi, il principe dei critici ha rotto gli indugi e ne ha chiesto la chiusura definitiva. «È finita Cartabianca e, in tutta sincerità, spero non torni più». Inequivocabile. Tassativo. Inelegante, anche. È noto che in questa stagione il talk show di Rai 3 condotto da Bianca Berlinguer ha attraversato momenti difficili, finendo nel mirino dei censori del Pd (Valeria Fedeli, Andrea Romano eccetera) e di svariati altri commissari vigilanti. Il casus belli è stata la partecipazione del professor Alessandro Orsini, disallineato al verbo draghiano sulla guerra in Ucraina (in precedenza altri ostacoli erano stati accatastati a causa della collaborazione con Mauro Corona). Ne è scaturita una polemica durata settimane che, sebbene camuffata sotto l’esigenza di adeguare i talk show a dei toni più decorosi, aveva in realtà come obiettivo la normalizzazione dell’unico spazio che ospita opinioni dissonanti. A ben guardare è proprio il dissenso a fare obiezione al critico del Corriere: «Ogni volta che il reale appare nella sua drammaticità, dobbiamo registrare come i talk inquinino il dibattito pubblico, creino <mostri>, diffondano menzogne e malafede, favoriscano l’indistinguibilità. Per questo, l’ospite più ricercato è quello considerato <scomodo>, l’intellettuale dai toni wagneriani, costantemente in dissenso». Insomma, meglio la noia, il calo degli ascolti, preoccupazione che appartiene alle «logiche volgari del mezzo» e alle tv commerciali, e il monopensiero piuttosto che «la contrapposizione, il tafferuglio, il parapiglia»: elementi che giustificano la richiesta di soppressione del programma.

Ovviamente la replica di Berlinguer non poteva farsi attendere: «Vi sembra normale che il critico televisivo del gruppo editoriale al quale appartiene la trasmissione mia diretta concorrente, DiMartedì, si auguri la chiusura d’autorità di Cartabianca?», ha scritto la conduttrice sulla sua pagina Facebook. «E dico <d’autorità> dal momento che gli ascolti ci hanno costantemente premiato». Oltre l’ineleganza, Berlinguer adombra il conflitto d’interessi. E si chiede: «Chi altri dovrebbe giudicare se non quegli stessi cittadini che pagano il canone e gestiscono il telecomando, della qualità e del gradimento di una trasmissione? O a decidere del destino di un programma… devono essere, in singolare sintonia, il critico televisivo del gruppo editoriale concorrente e una parte della classe politica?».

Per dissimulare una presunta ossessione per la conduttrice ed ex direttrice del Tg3 Grasso scrive che «per me Bianca Berlinguer potrebbe anche presentare Sanremo». In realtà, nel pieno della polemica di qualche settimana fa, intervistato dal Foglio – altra testata convinta della necessità di spianare le residue asperità dell’informazione tv – aveva detto: «Bianca Berlinguer segue uno schema fisso: vede uno strambo nelle trasmissioni altrui e subito lo paga. Corona, Scanzi e adesso Orsini».

Fortunatamente i palinsesti Rai della prossima stagione sono già stati decisi. In ogni caso non c’è da preoccuparsi: di solito gli interventi censori ottengono l’effetto opposto a quello che si prefiggono.

 

La Verità, 25 giugno 2022

Aboliamo la Vigilanza, residuato dell’era sovietica

Un angolo di Unione sovietica in Italia. Un retaggio della vecchia Urss. Oppure una scheggia di regime putiniano. Ce l’abbiamo oggi nel nostro Paese: è la Commissione di Vigilanza sulla Rai. Denominazione ufficiale: Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Emblematico, no? Propaggine di un’epoca che s’immaginava finita con la caduta del Muro di Berlino. Avrebbe dovuto essere asfaltata nel secolo scorso, invece continua a vigilare. Già la stessa esistenza di un organismo composto da politici che sorvegliano l’operato di un’azienda che si occupa d’informazione e intrattenimento è significativa. Se poi aveste assistito a una sua seduta nell’austero Palazzo San Macuto avreste di che sorridere. San Macuto è un palazzo nel cuore della Roma politica, specializzato nell’ospitare commissioni dal fascino sinistro come quella per l’antimafia e quella per la sicurezza della Repubblica, il famigerato Copasir. Seguire un’audizione è un’esperienza memorabile. Come guardare una docufiction brezneviana, uno show distopico, viaggiare con la macchina del tempo. Banchi d’aula in teak, microfoni snodabili, riprese con telecamera fissa. Mentre a livello planetario la comunicazione viaggia sul web e gli esperti studiano come liberarsi dalla cappa degli algoritmi, nel nostro pittoresco Paese sopravvive un posto dove l’amministratore delegato della più importante azienda culturale deve giustificare come un esaminando perché promuove Tizio, rimuove Caio o pensa di affidare un programma a Sempronio. Non a caso è in questa commissione dove la politica ridimensiona, rimonta ed esautora i manager che, puntualmente, a ogni cambio di governo annunciano l’attesa rivoluzione in Rai. Nelle riunioni della Vigilanza a San Macuto sono state affossate la riforma delle newsroom di Luigi Gubitosi, quella della media company di Antonio Campo Dell’Orto e ora sta subendo violenti colpi di maglio il piano editoriale per generi di Carlo Fuortes.

L’audizione del 15 giugno era stata convocata perché l’amministratore delegato «fornisca chiarimenti» a proposito della rimozione di Mario Orfeo dalla direzione dell’area Approfondimenti e del suo ritorno al Tg3, il trasferimento di Antonio Di Bella nella casella degli Approfondimenti e il passaggio di Simona Sala al daytime. C’era poco tempo, ma Fuortes doveva spiegare oltre il domino di nomine, l’ipotesi di vendita della sede di Viale Mazzini ed eventuali decisioni riguardo al Piano editoriale, con particolare riferimento ai talk show. In queste audizioni l’ad siede tra un dirigente Rai che lo accompagna per solidarietà e il presidente della Commissione, che in questa legislatura è Alberto Barachini di Forza Italia. Al termine della comunicazione dell’amministratore convocato, dopo aver dondolato il capo in segno di disapprovazione, sono intervenuti i vari commissari. L’altro giorno gli autori dei niet più inappellabili sono stati Valeria Fedeli e Andrea Romano del Pd e Michele Anzaldi di Italia viva, per l’occasione allineatissimo alle dure critiche dei colleghi vigilanti del suo ex partito.

Il tema che sta davvero a cuore ai commissari dem e pure di Forza Italia sono comunque i talk show. Dopo le polemiche di qualche settimana fa, in coda alla partecipazione remunerata, poi trasformata in gratuita, del professor Alessandro Orsini a Cartabianca di Bianca Berlinguer, sembrava che la questione degli ospiti e dei loro contratti fosse stata archiviata per sempre. Invece no. Non potendo più contestare la decisione di spostare Orfeo al vertice del Tg3, ormai approvata dal Cda, Barachini ha rispolverato la grana esercitando il suo potere di «indirizzo e vigilanza» su come vengono scelti ospiti, esperti e opinionisti e se costoro debbano essere contrattualizzati. L’idea è commissionare un sondaggio a un istituto demoscopico per chiedere lumi ai telespettatori. Non è difficile immaginare che la demagogia avrebbe facile presa: un idraulico o un elettricista che prestino la loro opera hanno diritto alla sacrosanta mercede; un docente universitario che abbia studiato decenni o un giornalista che abbia conquistato autorevolezza in qualche materia e spendano una serata in tv invece di farsi i fatti propri o di andare in un canale concorrente, no.

In un’informazione pubblica che di fatto risponde a un governo di unità nazionale, con tutti e tre i telegiornali appiattiti sulla linea di Palazzo Chigi, i talk show politici – cioè la sola Cartabianca, perché anche Porta a Porta è filogovernativa – sono l’unico spazio che ospita punti di vista dissonanti. Stabilire criteri di approvazione degli ospiti significa espropriare conduttori e autori dell’autonomia produttiva. E puzza di intenzione normalizzatrice. Come si sa, la campagna anti-talk occupa da settimane le testate governative, dal Foglio al Corriere della Sera, quest’ultimo di proprietà dello stesso editore di La7, rete lastricata di programmi concorrenti della Rai. La proposta del sondaggio di Barachini ha trovato l’opposizione di Fdi e 5 stelle e l’approvazione di Pd, Italia viva e Forza Italia.

Personalmente e assai più modestamente propongo un sondaggio sull’abolizione della commissione di Vigilanza, ultimo pezzo di Unione sovietica attivo in Italia. Sarebbe il modo per avviare il riassetto del servizio pubblico, iniziando a sganciarlo dalla politica. Chissà se il Pd, che ha più sedi in Rai che nel resto del Paese (copyright Michele Santoro), lo appoggerebbe.

 

La Verità, 17 giugno 2022

 

I chierici dell’atlantismo danno il pass al dissenso

Il fastidio, il disappunto, l’insofferenza, l’irritazione, la contrarietà: scegliete voi il sostantivo che più vi aggrada, la sostanza non cambia. La postura psicologica, l’atteggiamento mentale e il senso di superiorità con cui i sacerdoti della cultura, intellettuali autorevolissimi, titolari di cattedre accademiche e giornalistiche, analizzano il dibattito in corso sulla guerra in Ucraina è sempre la medesima. Man mano che le posizioni pacifiste conquistano consensi il disappunto dei benpensanti si fa gradualmente più intollerante. Gli esempi virtuosi sono Enrico Mentana, che si onora «di non invitare chi sostiene o giustifica l’invasione russa in Ucraina», e Bruno Vespa, che «ha sempre tenuto la barra dritta», lo elogia Aldo Grasso sul Corriere della Sera. Tutti gli altri conduttori di talk, rimandati al tribunale dell’ortodossia teleatlantica. «C’è chi insegue il prof. Orsini e chi intervista il presidente Zelensky e queste sono differenze sostanziali», rincara il critico televisivo del principale quotidiano nazionale. Dietro la difesa del contraddittorio c’è «un senso di abbandono e di incombente catastrofe», si allarma. Perciò è più che mai urgente «porre un confine tra la libertà di opinione e il circo con le ballerine russe». Cioè, chi dissente non è quasi mai attendibile, è impresentabile, inadatto (unfit) al vero dibattito democratico.

In alcuni casi, come nella campagna che Il Foglio persegue da giorni, l’insofferenza verso gli «altrimenti pensanti», come si chiamavano i dissidenti nell’era dell’Unione sovietica, si carica di moral suasion nei confronti del troppo liberale Urbano Cairo. Suvvia, è così bravo come editore del Corriere della Sera, «che a sfogliarlo ogni mattina si sente di nuovo il profumo della classe dirigente», cosa aspetta a mettere in riga i feudatari di La7 «descamisada»? La strategia della persuasione non disdegna i toni del bullismo verso gli irregolari. Nelle redazioni dei giornali seri, almanacca Giuliano Ferrara, «non esplodono i narcisismi comici di professori della serie B promossi nella serie A della Grande Storia per il loro quarto d’ora di fama». Però, «l’editore dovrebbe riflettere», consiglia il fondatore del Foglio, perché «siccome da nessuna parte spuntano le bischerate putiniane e i negazionismi tipici dei talk show di fattura nazionale italiana», qui è in gioco «la tenuta mentale e morale di un mezzo di comunicazione di larga udienza e influenza». In buona sostanza, se non si fa pulizia di questi impresentabili «anarcosituazionisti», faremo presto a mollare La7 al suo destino di televisione inaffidabile.

È la demonizzazione del dissenso, prosecuzione dell’arte della guerra nel campo dell’informazione. «In termini psicoanalitici si tratta di una proiezione inconscia dell’aggressività degli spettatori», spiega Massimo Recalcati. «È in piccolo quello che accadde con la guerra. Esiste una torbida attrazione umana per lo scontro, la violenza, il conflitto, la lotta a morte, la contrapposizione bellica. L’aspetto preoccupante», prosegue il cattedratico sulla Stampa, «è che sempre più la nostra televisione si presta ad alimentare questa logica primitiva facendo molto spesso scivolare dietro le quinte i contenuti del dibattito». Detto in modo più diretto, la televisione è diventata un territorio per spiriti primordiali e istinti belluini. E tutto in nome dell’audience, qualcosa di riprovevole e deprecabile. Quasi quanto i sondaggi che evidenziano in modo corale la contrarietà degli italiani all’invio di armi in Ucraina. Si manifesti con gli ascolti tv o nei rilevamenti degli istituti di ricerca, l’orientamento dell’opinione pubblica resta un fatto superfluo.

Sospettati d’intelligenza con il nemico, da settimane i conduttori dei talk show sono costretti a giustificare il proprio lavoro e gli editori devono spiegare ad autorità politiche esterne come la commissione di Vigilanza sulla Rai e quella di controllo sui Servizi segreti (Copasir) perché nelle loro televisioni si invitano Tizio o Caio. È inquietante ciò che sta accadendo a #Cartabianca di Bianca Berlinguer dopo che l’idea d’invitare il professor Alessandro Orsini ha scatenato il fuoco di fila di numerosi esponenti di un partito che si chiama democratico. Siamo alla «morte dei talk», scrive in un lungo articolo su The Post International Carlo Freccero: «Oggi si processa il concetto stesso di dissidio e conflittualità».

«Penso che il talk show per l’approfondimento giornalistico per un’azienda che fa servizio pubblico non sia l’ideale», ha scandito l’amministratore della Rai Carlo Fuortes davanti alla Vigilanza. «È un format più adatto all’intrattenimento, ai temi leggeri, non a quelli importanti». Per i temi importanti, gli esperti devono essere approvati da codici deontologici e super-organismi. Difendere il criterio del conflitto delle interpretazioni, per esempio invitare ospiti filorussi e anti-Nato, per Recalcati equivale a «invitare a un dibattito sulla pedofilia un pedofilo praticante», o «sulla Shoah uno storico negazionista». Siamo davvero arrivati a questo? Davvero il pubblico televisivo non ha sufficiente maturità per valutare e pesare le diverse posizioni? L’allarme diffuso durante la pandemia contro la partecipazione ai talk show di no-vax ha impedito all’Italia di essere uno dei Paesi con la più alta percentuale di vaccinati al mondo?

La pax culturale e la tregua del buon senso richiedono l’allineamento dei disturbatori. Accantonata quando bisognava schierarsi con l’Ucraina o con la Russia, improvvisamente rispunta la complessità. I se e i ma riaffiorano per fare la radiografia al dissenso. I custodi dell’atlantismo vogliono distribuire il pass di quello accettabile. Allo scopo, potrebbero creare una nuova commissione da aggiungere a quella di Vigilanza. E chiamarla Sorveglianza ed esclusione. Ovviamente, in nome della democrazia.

 

La Verità, 17 maggio 2022

«Macché spie, il rischio è demonizzare il dissenso»

Non indossando l’elmetto, Corrado Formigli si attira le critiche e le ironie dei media più atlantisti, ma il suo Piazzapulita su La7 è uno dei talk più problematici del panorama televisivo nostrano. Ospita voci diverse e innesta il dibattito in studio con immagini e reportage dal fronte, «40 o 50 minuti ogni puntata», sottolinea: «è il nostro marchio di fabbrica».

Come vanno gli ascolti dall’inizio della guerra?

«Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina la nostra media era del 5,7% di share. Dal 24 febbraio a oggi si è assestata sul 6,3%, per noi un risultato eccellente».

Questa crescita ha un motivo preciso?

«Intanto, la mia passione personale per il tema. Fin dai tempi dei programmi di Michele Santoro ho sempre fatto l’inviato di guerra. Per Piazzapulita ho realizzato reportage su Kobane, in Siria, su Falluja e Mosul, in Iraq… Poi, ma non certo in secondo luogo, la passione, l’esperienza e le capacità di Gabriele Micalizzi, Alessio Lasta e Luciana Colluccello sono stati un altro nostro punto di forza. Siamo l’unico talk che propone reportage sul campo».

Però la guerra non si vede moltissimo.

«Non è proprio così, raramente si sono visti tanti cadaveri per le strade e missili schiantarsi sugli edifici. A Kramatorsk un pezzo di missile ha sfiorato la macchina sulla quale viaggiava Luciana Colluccello. È una guerra che si combatte con ordigni lanciati a distanza. Stare in prima linea con la fanteria vorrebbe dire rischiare la vita. Ma il nostro primo problema è un altro».

Quale?

«Evitare le fake news. I canali Telegram mostrano il conflitto girato dai soldati e bisogna sminare la propaganda per far affiorare i fatti. L’esempio dell’immagine della donna con il ventre marchiato da una svastica è significativo. Micalizzi aveva trovato quella foto a Mariupol, perciò si è pensato fosse opera del battaglione Azov. Qualche giorno dopo la stessa immagine è ricomparsa vicino a Kiev, collegata alle torture di Bucha, quindi gli autori potevano essere russi. Alla fine, non sappiamo chi ha commesso quella violenza, ma solo che quella donna è stata uccisa e mutilata».

Come scegliete gli ospiti delle puntate?

«Distinguiamo tra competenza e battaglia delle idee. In tema di diplomazia, di geopolitica o di strategia militare cerchiamo ospiti che abbiano esperienza sul campo. Alberto Negri è uno dei più importanti inviati di guerra degli ultimi 30 anni, il generale Vincenzo Camporini è stato capo di Stato maggiore della Difesa, Riccardo Sessa è stato ambasciatore in Cina e in Iran, per citarne alcuni. Sul piano delle idee, quando Michele Santoro e Paolo Mieli si confrontano esprimono visioni diverse, ma il loro dibattito è utile al telespettatore, oggi senza bussola».

Le capita di pagare qualche ospite?

«La stragrande maggioranza viene a titolo gratuito, altri te li assicuri in esclusiva per un certo tempo. È come un patto di fedeltà che anche il pubblico apprezza. Ma si tratta sempre di cifre modeste, corrisposte in cambio di una competenza e di un tempo che ti danno».

Sono mai stati contestati dal pubblico o da qualche esponente politico?

«La reazione più violenta l’ho registrata riguardo al professor Alessandro Orsini. Il giorno dopo, il mio telefono era intasato da commenti alla sua partecipazione provenienti da alti livelli della politica, della cultura e del mondo universitario. Perché fai parlare Orsini? Non sai chi è? Erano supposizioni ipotetiche, mai circostanziate».

Una volta invitato qualcuno ha mai avuto la sensazione che potesse trattarsi di un agente segreto?

«Macché. Orsini no di certo, lo conosco da diversi anni. Ma secondo lei un agente sotto copertura usa i talk show per fare propaganda? Perché accada ci vorrebbero un conduttore imbecille, un pubblico privo di capacità di discernimento e che gli altri ospiti fossero sotto anestetico».

Qualche telespettatore le ha contestato l’invito a Steve Bannon.

«L’ho trovato surreale. Stiamo parlando dell’ex capo stratega del presidente americano Donald Trump. Io non scelgo tra buoni e cattivi. Se fosse utile a comprendere ciò che c’è nella mente di Vladimir Putin inviterei pure il diavolo».

C’è qualcuno che vorrebbe intervistare e non le è ancora riuscito?

«Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, ci ha già detto no due volte, mentre ho apprezzato l’intervista che gli ha fatto Christiane Amanpour sulla Cnn. Un altro che sto cercando di invitare è Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore della Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva Anna Politkovskaja».

L’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes ha detto alla commissione di Vigilanza che i talk show non sono più adatti a una corretta informazione: cosa ne pensa?

«Penso che quelli fatti bene lo siano e quelli fatti male non lo siano. Trovo che usare la parola talk show in generale come metro di ogni nequizia sia sbagliato».

Che opinione ha dell’interesse del Copasir e della Vigilanza riguardo ai meccanismi dell’informazione?

«Per conto mio la Vigilanza andrebbe abolita. In tutto l’Occidente è un unicum che una commissione di politici indichi i criteri di fattura di un programma televisivo, di invito degli ospiti e se vadano pagati o meno. La ritengo una realtà di sapore sovietico».

In guerra si demonizza il nemico, nell’informazione si demonizza o ridicolizza il dissenso?

«Il rischio lo vedo molto forte. Non sto dicendo che chi dissente non abbia spazio perché ne ha. Il problema è ciò che avviene dopo: l’attacco concentrico dei soliti politici che guardano troppo la tv anziché fare cose più utili e del plotoncino dei social che si erge a tribunale dei talk. Quando questo attacco viene amplificato dai giornali si crea un clima avvelenato».

Piazzapulita mette di fronte bellicisti e pacifisti: può dire quali si dimostrano più intolleranti verso le posizioni altrui?

«Mi sono stupito quando Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari internazionali, con la quale avevo un accordo di partecipazione a quattro puntate, ha criticato su un giornale il fatto che avessi invitato il professor Carlo Rovelli, un grande intellettuale nonché uno dei maggiori fisici mondiali, su posizioni pacifiste».

Il Foglio ha scritto che Urbano Cairo appare un editore bifronte: governativo e bellicista con il Corriere della Sera, problematico o polifonico con La7. Cosa ne pensa?

«Se un editore è polifonico tanto di cappello, Cairo non ha bisogno che Il Foglio gli insegni il mestiere. L’articolo al quale si riferisce mi descriveva come putiniano dopo una puntata con Roberto Saviano e la figlia di Anna Politkovskaja. È il solito tentativo di etichettare qualcuno come serve a chi scrive. Quell’articolo citava un sondaggio sulla popolarità di Putin all’82% tra gli italiani, mentre si trattava di un rilevamento del suo gradimento presso i russi fatto dal Levada Center, un istituto di ricerche non governativo, di cui ho intervistato il direttore, Denis Volkov. Rifiuto la riduzione in burletta dei talk show. Non capisco perché invitare una sera Santoro è un crimine, ma delle sei puntate in cui ho mostrato la distruzione di Mariupol nessuno ha scritto una riga. Quelli che sostenevano il potere del telecomando e sminuivano la capacità della televisione di orientare i consensi ai tempi di Berlusconi premier oggi fanno esattamente il contrario».

Oltre a riproporre Santoro ha scoperto Orsini e la professoressa Donatella Di Cesare, invitato Bannon, ospitato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio…

«Orsini l’ho lanciato perché ne avevo colto la forza dirompente, ma l’ho lasciato ad altri perché non amo costruire il programma su un solo ospite. Come detto, si citano solo gli ospiti che servono a costruire lo schema senza ricordare gli altri, Paolo Mieli, Mario Calabresi, Stefano Cappellini, Maurizio Molinari, la lista è lunga. Se invito Evgeniy Popov, deputato russo e, insieme con Vladimir Solovev, uno degli anchorman più influenti, mi serve per far capire come funziona la propaganda russa. Non conosco altre vie per capire cosa c’è nella testa di Putin se non parlare con le persone che gli sono vicine. Credo che il pubblico italiano comprenda questa operazione».

Che cosa pensa di #Cartabianca e della pressione cui è sottoposta Bianca Berlinguer?

«Penso che un editore abbia il diritto di cambiare o spostare nel palinsesto un programma sulla base di una sua valutazione. Vale sia nel pubblico che nel privato. Ma se il cambiamento, come mi pare stia avvenendo per #Cartabianca di Bianca Berlinguer, segue l’attacco proveniente da una parte politica, da un esponente del governo, da qualche componente della Vigilanza, a quel punto l’odore di censura è molto forte».

L’ha convinta Enrico Letta che ha intervistato giovedì sera?

«Ho colto la sua posizione gelida nei confronti di Giuseppe Conte, il quale pone un problema di unità della maggioranza. E, in secondo luogo, mi pare abbia iniziato un percorso di riallineamento alla nuova strategia del premier Draghi, meno schiacciata su Washington».

Per tornare alla domanda?

«Credo che Letta colga la nuova posizione più macroniana di Draghi con un certo sollievo perché agevola il rapporto con un pezzo importante della base del partito, contraria all’invio di armi in Ucraina».

Che cosa pensa della conversione atlantica del Pd?

«Credo che si fosse allineato a Draghi anche a scapito del necessario dibattito interno. Ha conquistato nuovi consensi ma spostandosi verso il centro, trascura temi come lo ius soli e i diritti civili che, personalmente, condivido».

Qual è la sua lettura della visita del premier alla Casa Bianca?

«Penso sia un uomo capace di comprendere la posta in gioco. Parla con Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen. Credo abbia tentato di far capire che il negoziato è una condizione vitale per la sopravvivenza dell’Europa».

Alcuni osservatori vedono nelle sue mosse l’ambizione alla carica di segretario generale della Nato.

«Secondo me vuole rimanere abbastanza a lungo dov’è».

Si candiderà?

«No. Nel 2023 potrà coagularsi una coalizione di forze e Draghi potrebbe essere candidato a guidarla».

Così la politica continuerà a delegare la guida del Paese?

«Se Giorgia Meloni otterrà una grande maggioranza deciderà il centrodestra, se invece si concretizzerà una situazione più complessa Draghi sarà ancora un’opzione. L’alternativa è tra Meloni e Draghi, non vedo terze possibilità».

 

La Verità, 14 maggio 2022

L’unico dilemma risolto è da che parte stia Carofiglio

Su Rai 3, la rete diretta da Franco Di Mare, dove stanno per essere accantonate Bianca Berlinguer, Luisella Costamagna e, in autunno, accolto Marco Damilano, si è affacciato Dilemmi di Gianrico Carofiglio, ex magistrato e senatore del Pd nonché scrittore di successo e frequentatore di talk show, qui alla prima esperienza da conduttore. Dico subito che Dilemmi è un programma ben congegnato, che si propone come il tentativo di riqualificare la formula dell’approfondimento riportando il confronto su «temi cruciali» nell’alveo del dibattito civile. Le regole vengono esplicitate dal conduttore all’inizio della puntata: vietato attaccare la persona, vietato manipolarne gli argomenti, obbligo di portare le prove dei propri. Inoltre, i contendenti hanno un tempo fisso a disposizione. Fin qui tutto bene, dunque. Niente furbizie o toni della voce che si alzano, come vediamo quotidianamente a tutte le ore e su tutte le reti. I nodi arrivano quando si analizza la cornice in cui la discussione è racchiusa. Perché, dietro questa parvenza di oggettività, Dilemmi è un programma furbo e, in questo senso, molto ideologico (lunedì, ore 23,20, share del 5,4%, 713.000 telespettatori).

Lunedì sera si discuteva del dilemma del fine vita. Prima dell’ingresso dei due ospiti, Marco Cappato e suor Anna Monia Alfieri, il tema è stato introdotto da Carofiglio con un monologo aperto con queste parole: «Vivere come si vuole significa forse anche poter morire come si vuole, ovvero essere padroni del proprio destino». Un’espressione che ha chiarito subito la scelta di campo del conduttore, perché «essere padroni del proprio destino» vuol dire eliminare la possibilità che il destino non sia in nostre mani, come per esempio può far pensare il fatto che non siamo noi a decidere se quando e come venire al mondo. La parte verso la quale inclina il presunto arbitro imparziale si è ulteriormente esplicitata nei suoi frequenti interventi di contrappunto al discorso di suor Alfieri, a fronte dell’assenza di intermezzi durante la comunicazione, peraltro efficace, di Cappato. Infine, per fugare eventuali dubbi residui sul tipo di soluzione prospettata al dilemma, è arrivato l’elogio del suicidio di Lella Costa, costruito con citazioni da Romain Gary, Sergej Esenin e Vladimir Majakovskij, tutti morti suicidi. Presentato come un talk asettico, in realtà Dilemmi è un talk-panino, con il dibattito incartato tra due lezioncine. Un programma emblema del meccanismo dell’establishment culturale che, dietro una parvenza di oggettività, spaccia come migliore il pensiero della sinistra dei diritti in auge.

 

La Verità, 11 maggio 2022

Il Papa spericolato vuole parlare ai lontani

Il mezzo è il messaggio e abbiamo un Papa spericolato. Detta in sintesi, la questione è tutta qui. All’indomani dell’ospitata di Francesco nello studio di Che tempo che fa retto da Fabio Fazio si rincorrono analisi e interpretazioni attorno all’evento. Il Vicario di Cristo in terra che si fa intervistare in un talk show abitualmente frequentato da politici, imprenditori e star dello spettacolo diventa un personaggio mediatico al pari di Bill Gates, Barack Obama e Lady Gaga. Diventa uno scoop giornalistico. Bergoglio ha fatto questa scelta fin dall’inizio del pontificato, concedendosi a giornalisti diversamente autorevoli e specializzati. Se il fatto s’inflaziona, però, il titolare della Cattedra di San Pietro entra nel flusso della comunicazione e perde sacralità.

Il caso più emblematico sono state le conversazioni di Francesco con Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Altre volte è comparso all’interno di programmi televisivi. In questi casi il rischio di subire manipolazioni è inevitabile. L’intervista concessa al conduttore di Rai 3 è stata registrata nel pomeriggio e, come ha notato il sito Dagospia soffermandosi sui salti dell’orario segnato dall’orologio del Pontefice, è stata tagliata e lavorata. La cosa in sé non desta particolare scandalo. Ciò che conta è che anche questi aggiustamenti siano stati concordati con la Sala stampa della Santa Sede. In passato non è sempre stato così. Scalfari andava a trovare Bergoglio a Santa Marta privo di registratore, senza prendere appunti e vergava l’articolo basandosi sulla sua veneranda e forse selettiva memoria. Come sappiamo, la versione riportata sul quotidiano non era particolarmente aderente alle parole del capo della Chiesa. Eppure, Francesco ha continuato a incontrarlo, correndo ancora il rischio. In tv il potere dell’intermediatore è inferiore a quello di un giornalista della carta stampata che non attenda il visto finale per la pubblicazione. E ancora minore sarebbe stato se la conversazione fosse avvenuta in diretta. Quindi, da questo punto di vista, Bergoglio è stato un po’ meno spericolato.

C’è poi un altro effetto collaterale: l’approccio dell’intervistatore si allunga sulla figura dell’intervistato. Nel caso di Fazio, il proverbiale buonismo condito di malizia left oriented si è addensato nelle insistenti domande sui migranti e le emergenze ambientali, nella speranza di strappargli qualche anatema contro i sovranismi, causa di tutti i mali del pianeta. Francesco deve averlo deluso osservando che è «un’ingiustizia» il fatto che l’accoglienza sia delegata all’Italia e alla Spagna. Sull’ambiente e il riscaldamento climatico, è apparso invece più mainstream. Ma la mielosità del conduttore ha rischiato di contaminare l’intero confronto. Non sono state poste domande sugli scandali dentro la Chiesa e il celibato dei preti e non si è parlato dei cristiani perseguitati in tanti Paesi del mondo. In un’ora d’intervista il tempo per farlo c’era.

Nel marzo di due anni fa, a pandemia appena esplosa, il quotidiano La Repubblica chiese degli interventi a personalità della cultura su cosa stavano imparando dal lockdown. Fazio fu tra i primi a distillare il proprio decalogo. Un paio di giorni dopo, interpellato dal vaticanista del giornale, Bergoglio confessò sorprendentemente che era stato molto colpito dalle sue parole. Molti giustamente si scandalizzarono: mentre il mondo precipitava in un tempo cupo e fior d’intellettuali anche non credenti cercavano conforto in Fëdor Dostoevskij e Sant’Agostino, il capo della cristianità citava un conduttore televisivo di moda.

L’altra sera Bergoglio è stato più prudente e ha dosato gli abituali temi mondialisti con la dimensione pastorale. Per esempio quando ha parlato della necessità e del «diritto al perdono». O quando ha detto  che la Chiesa deve «ripartire dall’incarnazione di Cristo… il Verbo si è fatto carne». Una sottolineatura che i resoconti euforici sui temi sociali hanno ignorato. È un altro dei rischi che lo spericolato Francesco corre usando i media mainstream. Perché lo fa? Perché spera d’intercettare un pubblico diverso da quello che frequenta le chiese. Facendolo paga dei prezzi. Ma scandalizzarsi troppo rischia di farci somigliare ai farisei che inorridivano perché Gesù andava a cena con i pubblicani e le prostitute.

Speriamo solo di non trovarcelo da Lilli Gruber…

 

La Verità, 8 febbraio 2022

Gualtieri, la chitarra e i talk show imperturbabili

A un certo punto, ieri mattina ad Agorà, condotto da Luisella Costamagna, è comparso Roberto Gualtieri alla chitarra mentre strimpella Bella ciao. Una clip già vista centinaia di volte, che gli autori del programma di Rai 3 hanno pensato bene di riproporre per omaggiare il neosindaco di Roma. È un dettaglio, ma a volte certi dettagli illuminano ampi scenari. Succeda quel che succeda, i talk show proseguono imperterriti con i loro format, i politici di prima, seconda e ventesima fascia, visti e rivisti in tutte le salse e da tutte le angolazioni. Pazienza se l’audience vivacchia e la sfiducia generale della popolazione nei confronti della politica sta fagocitando la partecipazione al voto degli elettori che in queste amministrative ha toccato il punto più basso: 43,93% al ballottaggio di domenica e lunedì. Per inciso, va detto che la sfiducia verso la politica investe anche le istituzioni di vertice della Repubblica visto che, nei momenti più critici, si ricorre sistematicamente, ma con esiti alterni, a personalità non elette (Mario Monti, Giuseppe Conte, Mario Draghi). Tornando alla telepolitica e al suo lieve ma decisivo distanziamento dalla realtà, tutta la faccenda si potrebbe sintetizzare con la parafrasi di un noto slogan: talk show pieni, urne vuote. Anche i talk, però, registrano dei vuoti, soprattutto nelle platee del pubblico (Speciale Elezioni TgLa7, 675.000 telespettatori, 3,1% di share), stanco delle solite facce di giornalisti, abbonati dell’ospitata.

Il tema del giorno è la sconfitta del centrodestra con annessa resa dei conti tra i suoi leader e l’euforia che soffia tra i dem. I palinsesti ne traboccheranno a lungo, in attesa che, scongiurato il ritorno del fascismo, emerga un’altra tigre da cavalcare. Intanto, il manuale della narrazione unica consiglia di sottacere la sconfitta di Giuseppe Conte e del suo modello di comunicazione mutuato dal Grande fratello. Mentre, al contrario, non è nemmeno pervenuto il fatto che Mario Draghi abbia drasticamente ridotto il ruolo della televisione e cancellato quello dei social, rendendo necessario un ricalcolo del sistema. Si sa, la gran cassa mainstream si autoriproduce e rafforza con lo strabismo. Le voci dissonanti alla Massimo Cacciari e Alessandra Ghisleri sono marginalizzate. Per la cronaca, il primo ha detto che l’unico dato di queste elezioni amministrative su cui riflettere è l’astensionismo, e la seconda che nelle grandi città il centrodestra non ha mai sfondato essendo più radicato in provincia. Che però, stavolta, non era chiamata al voto.

 

La Verità, 20 ottobre 2021