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«America divisa, Biden dovrà trattare su tutto»

Buongiorno Federico Rampini, innanzitutto come sta, visto che ha contratto il coronavirus?

«Sono ufficialmente guarito nell’Election Day, martedì 3 novembre ho avuto il primo tampone negativo dopo tre settimane. Avevo avuto sintomi lievi, e mi sentivo già guarito».

Una volta scoperto il contagio, avrebbe preferito farsi curare in Italia o la sanità americana si è comportata bene?

«Non posso fare paragoni perché non uso la sanità italiana da vent’anni. Su quella americana ho collezionato impressioni negative, è costosa e talvolta anche inefficiente. Da qui a descriverla come un inferno – uno stereotipo tra gli italiani – ce ne corre. Non si spiegherebbe perché tanti nostri connazionali vengono a curarsi qui in ospedali di eccellenza dove lavorano anche bravissimi dottori italiani, cervelli in fuga. In particolare la lezione del coronavirus è stata appresa, la reazione sia federale sia dello Stato di New York ha dato miglioramenti evidenti. I tamponi sono facili da fare, con poche attese, risultati veloci, gratuiti per tutti».

Federico Rampini vive negli Stati Uniti da vent’anni. Ha da poco pubblicato Oriente e Occidente. Massa e individuo (Einaudi). I suoi interventi a Stasera Italia su Rete 4 e soprattutto le sue corrispondenze per Repubblica sono state un osservatorio privilegiato per seguire le elezioni americane.

La probabile vittoria di Joe Biden possiamo definirla vittoria zoppa o vittoria di Pirro?

«Vittoria zoppa. Non c’è stata l’Onda blu che molti democratici si aspettavano. La presidente della Camera, la leader democratica Nancy Pelosi, era convinta di guadagnare seggi, invece pur conservando la maggioranza ha perso dei parlamentari. Molti parlavano addirittura di una conquista democratica del Texas: una favola. Ma soprattutto i democratici hanno fallito il sorpasso al Senato. Biden dovrà negoziare tutto con i senatori repubblicani, dalle manovre economiche alle nomine. Forse gli fa piacere perché gli consente di “sterilizzare” l’ala sinistra di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Però l’equilibrio politico che esce da questo voto, se tradotto nei criteri europei, assomiglia quasi a un governo di coalizione rossoblu».

La battaglia di Trump arriverà fino alla Corte Suprema a maggioranza repubblicana?

«È la sua speranza, soprattutto in Pennsylvania. Qui però c’è un paradosso. Grazie alle nomine da lui effettuate la Corte ha una soverchiante maggioranza repubblicana: sei contro tre. Però la cultura giuridica della destra in America è molto legata al federalismo, rispetta fino all’estremo l’autonomia e le prerogative dei singoli Stati. Le leggi elettorali sono di competenza locale, non esiste una regola federale su come si contano le schede o sul voto per posta. I giudici di destra dovrebbero fare violenza ai propri principi, andando a immischiarsi nel conteggio dei voti».

Come le proteste delle «due Americhe» di questi giorni potranno trovare una conciliazione?

«Non sono ottimista. Da un lato abbiamo avuto un meraviglioso spettacolo di partecipazione di massa: hanno votato 160 milioni, il 67% degli aventi diritto, un massimo storico da oltre cent’anni. D’altro lato questa grande mobilitazione non è all’insegna della rappacificazione. L’affluenza è salita sia tra i democratici sia tra i repubblicani perché ciascuna delle due Americhe è convinta di doversi difendere dalle prevaricazioni dell’altra. Questo rifiuto di dialogare, lo vedo crescere dal giorno in cui mi trasferii a vivere in questo Paese, ormai più di vent’anni fa. Abitavo in California quando ci fu l’elezione contestata in Florida nel 2000, Bush-Gore. L’ostilità tra le due Americhe era aspra già allora, non è legata al personaggio Trump. Lui ne è un risultato».

Come giudica la decisione delle reti televisive di tagliare in diretta la denuncia di Trump di brogli e la censura cui l’ha sottoposto Twitter?

«Sono decisioni senza precedenti, nel paese del Primo emendamento dove perfino l’apologia del nazismo è consentita. Però è senza precedenti anche un presidente che dichiara corrotto e illegittimo il sistema elettorale del suo Paese. Se Trump si ostina a descrivere gli Stati Uniti come il Venezuela, scatena reazioni di autodifesa che sono estreme ma comprensibili».

Che lezione si può trarre dal fatto che anche stavolta sondaggisti e media hanno clamorosamente sbagliato le previsioni?

«Non hanno imparato nulla dalla débâcle del 2016. Fino alla vigilia del voto assegnavano la Florida a Biden, per esempio. Tutti i numeri erano sbilanciati in favore di Biden, mai nell’altra direzione. Una vergogna. Il disastro del 2016 poteva essere spiegato dall’anomalia del fenomeno Trump. Perseverare quattro anni dopo nella sottovalutazione del suo consenso è imperdonabile».

Scambiano i loro desideri per fatti?

«Questa tornata elettorale ha smentito una rappresentazione dell’America che da quattro anni prevale sui media progressisti: Cnn, New York Times, Washington Post. Hanno raccontato una vasta reazione di rigetto verso Trump, che non c’è stata. Hanno annunciato svolte epocali a ripetizione, ciascuna delle quali doveva affondare questo presidente: lo scandalo del Russiagate, l’impeachment, il coronavirus, la recessione, le proteste contro il razzismo dopo l’uccisione di George Floyd. La geografia elettorale invece è stabile. Grosso modo i rapporti di forze dei due schieramenti sono rimasti al 2016, come se nulla fosse accaduto. Trump è sempre rimasto un presidente di minoranza, i suoi consensi oscillano attorno al 45% a livello nazionale, ma quel consenso è intatto. Gli spostamenti, dove ci sono stati, sono modesti. Il più significativo per assegnare la Casa Bianca a Biden, è la parziale riconquista di voti operai nell’Upper Midwest: Wisconsin e Michigan. È la “missione compiuta” del vecchio Joe, il salvatore dopo la sconfitta di Hillary Clinton. Però la maggioranza degli operai ha continuato a votare Trump».

Perdono di vista l’America profonda?

«La maggior parte degli intellettuali progressisti e dei giornalisti di sinistra non prova neppure a capire l’America profonda. Preferisce giudicarla, usando categorie morali: razzista, ignorante, fascista, bigotta. Ha perso ogni curiosità. Sia chiaro, anche dall’altra parte dominano stereotipi e pregiudizi. Fox News ha dei commentatori che descrivono New York e la California come Sodoma e Gomorra. Purtroppo questo fa bene al conto economico di tv e giornali, per cui nessuno ha interesse a cambiare atteggiamento».

Perché l’onda del Black Lives Matter non ha fatto crescere l’Onda blu di Biden?

«Trump è andato un po’ meglio del previsto anche tra gli afroamericani, a dispetto di tutta la retorica sulla “rivoluzione antirazzista” di Black Lives Matter. Certi afroamericani considerano positivo il bilancio economico dei primi tre anni di Trump, e non gli addebitano il disastro della recessione post-pandemia, anzi pensano che le sue ricette siano più adatte a tirare fuori l’economia da questa crisi. Le proteste antirazzismo in certe zone hanno danneggiato la sinistra. Se sei afroamericano e commerciante, o piccolo imprenditore, o proprietario di ristorante, e hai visto gli spacciatori e i capi gang del tuo quartiere mettersi le magliette di Black Lives Matter, impugnare le mazze da baseball, spaccare le vetrine per svuotare i negozi, giustamente voti per chi sta dalla parte della polizia. Lo slogan “togliamo fondi alla polizia”, pur sconfessato da Biden, è stato gridato nelle piazze per mesi, ha l’appoggio della sinistra radicale, ed è realtà nelle due maggiori metropoli americane grazie ai loro sindaci democratici: Bill de Blasio a New York, Eric Garcetti a Los Angeles».

Quanto Trump ha pagato la gestione superficiale e altalenante della pandemia?

«Di sicuro chi ha votato per Biden mette in testa alle priorità una risposta più efficace alla pandemia».

C’è la possibilità che dopo pochi mesi Biden si dimetta per far subentrare la sua vice Kamala Harris?

«Non ci credo. Questo rientra nei sogni di quella sinistra ultra politically correct che non accetta un presidente bianco, maschio, anglosassone e pure anziano. Fin dalla sua scelta di Kamala l’hanno voluta descrivere come la vera presidente. Biden non si farà da parte, finché la salute lo assiste. Quel che è molto probabile, è che non intenda ricandidarsi per un secondo mandato. Kamala aspetti il 2024».

L’identità progressista non sfonda perché è una «coalizione delle minoranze»?

«Trump ha avuto successo tra gli ispanici in Florida. L’idea che gli ex immigrati siano naturalmente di sinistra è un’illusione del partito democratico. Gli ex immigrati venuti da Cuba ma anche dal Messico o da Portorico, se hanno avuto qualche successo economico diffidano di una sinistra che istintivamente cura ogni problema a colpi di tasse e spesa pubblica. Se hanno ottenuto la cittadinanza americana nel rispetto delle leggi, diffidano di una sinistra radicale che vuole aprire le frontiere anche a chi entra violando le leggi».

Paul Auster che ha detto che per i suoi elettori «Trump è un culto religioso, lo seguono come i tedeschi seguivano Hitler».

«Ci sono dei filonazisti tra i seguaci di Trump. L’atteggiamento da culto religioso esiste, ma c’è il fenomeno speculare a sinistra. Certi ultrà di Black Lives Matter, o i pasdaran del politically correct che fanno le purghe dei moderati nelle redazioni dei giornali, sono eredi dei grandi risvegli protestanti puritani dell’Ottocento”.

Secondo lei, Biden, sensibile ai diritti civili, che politica adotterà nei confronti della Cina?

«Nessuno sconto alla Cina, ormai anche i democratici la giudicano un rivale minaccioso, da fermare. Però Biden investirà in una politica delle alleanze con Europa, Giappone, Corea del Sud».

Come spiega il fatto che in Cina oggi l’epidemia sembra sconfitta?

«Una scrittrice dissidente cinese ha appena pubblicato in inglese il suo Diario da Wuhan, la città dove abita. Descrive i metodi autoritari usati nel lockdown, però dà atto anche di una forte adesione volontaria della popolazione».

Quanta responsabilità ha il governo cinese nella mancanza di trasparenza con cui è stata gestita la pandemia?

«Enormi, gravissime, imperdonabili. Però siamo ormai nella seconda fase, dove il bilancio che conta è un altro: l’economia cinese è già ripartita, l’Occidente no».

 

La Verità, 7 novembre 2020

 

«Noi siamo romantici, ma Instagram ci inganna»

Confortevole e conformista, ma con un grande avvenire davanti. Però non è chiaro se dobbiamo rallegrarcene o no: perché il più attraente dei social, il più cool, nel verbo dei suoi adepti, oltre un miliardo, un po’ ci ruba l’anima. Ci seduce e banalizza, ma anche ci educa. E quindi difficile emettere una sentenza univoca. Lasciando perdere Tik Tok, prateria per adolescenti, Instagram è l’avanguardia, la frontiera del meglio, il club delle élite. A svelarne tutti i segreti è da poco in libreria Instagram al tramonto (La nave di Teseo), ultimo saggio di Paolo Landi, autorevole advisor di comunicazione che ha lavorato a lungo per Benetton e oggi cura l’immagine di Bologna fiere, Ovs e numerosi altri marchi. Nel 2006 il suo Volevo dirti che è lei che guarda te – La televisione spiegata a un bambino, pubblicato da Bompiani con prefazione di Beppe Grillo, preconizzava il declino della vecchia tv. Ora questo Instagram al tramonto è talmente anticipatore da risultare controintuitivo.

Quando l’ho visto in libreria mi ci sono tuffato.

«Pensi che il titolo originario era Instagram spiegato alla Ferragni».

Non male neanche questo.

«Già, ma avrebbe potuto risultare presuntuoso».

Perché Instagram al tramonto?

«È un titolo volutamente ambiguo. All’imbrunire, mentre si torna dal lavoro o si è da poco arrivati a casa, Instagram registra il picco di like perché tutti fotografano tramonti».

Il picco deriva dall’orario o dal soggetto?

«Le due cose coincidono. Al tramonto si postano suggestive foto di tramonti. A quell’ora Instagram è molto frequentato».

Instagrammer romantici?

«Molto, si direbbe».

Come Volevo dirti che è lei che guarda te anche questo saggio smonta la nostra illusione di essere protagonisti mentre siamo manovrati, orientati, addomesticati?

«Crediamo di usare un mezzo liberamente e invece ne siamo usati. Nel libro del 2006 intuivo che la televisione sarebbe stata superata da altri media. Instagram ha futuro, anche se potrebbero esserci evoluzioni e mutamenti».

Niente tramonto, quindi?

«Mi sembra presto, siamo ancora nella fase ascendente. Pochi anni fa Avatar, un film su Second life, fece il record d’incassi e sembrava che tutti dovessimo avere un alter ego virtuale. Oggi chi parla più di avatar? Credo che con Instagram dovremo fare i conti ancora per un po’».

Che vantaggio ne trarremo?

«Lo capiremo meglio più avanti. A un certo punto al cervello umano non son più bastate la scrittura e la televisione, la letteratura e il cinema, e ha ideato un modo di comunicare più veloce e istantaneo. Mi chiedo che cosa cerchiamo con queste innovazioni? Come le altre invenzioni hanno migliorato la nostra vita, spero che anche i social la migliorino».

Instagram sta per?

«Fonde i concetti di instant camera e telegram: un’immagine veloce pubblicata sul momento».

Il social dell’attimo fuggente?

«Il primato dell’istante».

Senza memoria?

«La sua forza è l’immagine usa e getta. Quando arriva un post nuovo quello precedente non si guarda più. Dopo 24 ore le storie si cancellano».

Niente archivio?

«Non si ritrova nulla. L’altro giorno avevo letto una frase che diceva… Un attimo che la cerco… L’avevo vista proprio su Instagram e adesso – a proposito di archivio inesistente – non riesco a ritrovarla. Eccola su Google: “Non dialogare mai con un idiota perché ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza”. È Instagram».

Si dice «siamo» e non stiamo su Instagram o su Twitter: i social ci fanno essere e se non ci sei non sei?

«Ci costringono a essere qualcuno e ad avere un’identità».

Non esistono la contraddizione e il contrasto: in tempi in cui si parla molto di odio e di haters è un fatto positivo?

«Direi di sì, è un social borghese. Non mi pare che gli haters aiutino a illuminare il dibattito politico o sociale».

Invece Instagram è educato?

«Più di Twitter certamente. Anche se alcuni profili cattolici attirano odiatori e i commenti sono pieni di bestemmie».

Con il cristianesimo perde il suo aplomb?

«È un fenomeno strano. Sui profili dei testimoni di Geova o del Dalai Lama non è così. Solo la religione cattolica attira aggressività e blasfemia. È difficile capire le cause, il cattolicesimo innesca la bestemmia, che invece non esiste nelle religiosità orientali».

Perché sono più di moda?

«Le star di Hollywood non le vedo a recitare il rosario, mentre partecipano ai riti buddhisti tibetani. Forse è anche una forma di provincialismo, non so cosa c’entriamo noi italiani con il Dalai Lama».

Cosa vuol dire che Instagram «rende metafisica l’economia, la spiritualizza»?

«Per esempio omologa tutte le professioni. Un parrucchiere, un dogsitter, un avvocato, un blogger e un promotore finanziario sono tutti sullo stesso piano. Se il lavoro perde potere di distinzione siamo in un sistema economico diverso da quello vissuto finora. Il lavoro è dematerializzato».

Un social del superfluo?

«Tutto scorre in superficie, rapporti umani compresi. Ma la visione che dai di te stesso non è veritiera».

Non è troppo definire l’economia digitale la rivoluzione industriale del XXI secolo?

«Siamo ancora in una stagione pionieristica, non sappiamo bene cosa ci aspetta. Convivono le generazioni che hanno assistito al cambiamento e i nativi digitali. Possiamo intuire che il lavoro cambierà e cambierà anche il rapporto con i beni di consumo, dei quali ci si può appropriare molto facilmente. Se ti piace un abito, vai sul profilo di un influencer e lo compri pagandolo con lo smartphone, senza bisogno di strisciare la carta di credito».

Gli influencer cambiano il concetto di tempo, di prestazione d’opera e di competenza?

«Mentre tutti giocavano con i like, loro hanno capito che potevano fare i soldi, Chiara Ferragni per prima. Le modelle andavano nello studio fotografico, si vestivano, si truccavano, destinavano il loro tempo a quell’occupazione. L’influencer è insieme pienamente ozioso e pienamente occupato. È sé stesso quando si veste, viaggia, sorseggia un vino, indossa un orologio. La competenza non è richiesta, forse è utile un po’ di gusto. Anzi, molti non hanno nemmeno quello, cosa c’è di più opinabile del gusto?».

Dietro l’apparenza patinata si nasconde l’ipermercato di un capitalismo più sfumato e invasivo?

«È un ipermercato che vende merci ed emozioni insieme. Se clicchi su un bel tramonto spunta il resort dal quale goderselo, se clicchi sul sorriso di un bambino ecco il più soffice dei pannolini. Instagram fonde emozioni e merci e le vende insieme».

Anche gli spot lo fanno.

«Con gli spot guardi, ma non partecipi. Persuasione e acquisto sono due atti distinti. Su Instagram clicchi sul tramonto e compri subito la vacanza».

Perché non è ancora stato conquistato dalla politica?

«Perché non è adatto. La politica viaggia su Twitter perché richiede sarcasmo, intuitività, vis polemica. Instagram è soprattutto immagine e l’immagine dei politici non è così accattivante».

Riflettendo sui social, finora si è parlato di narcisismo ed esibizionismo. Perché lei insiste sullo snobismo?

«Si mettono i like per entrare in un club che non ci appartiene. È un meccanismo di ascesa sociale, se sono un tifoso di calcio vorrei che Ronaldo mi mettesse il cuoricino. Invece, anche se accadesse, non sarebbe di certo lui a farlo, ma chi cura il suo profilo. Instagram mantiene distinte le classi sociali».

A forza di consumare continuamente, l’unica cosa che consumiamo è Instagram stesso?

«La sua grande raffinatezza è di essere un prodotto, un brand. Come la Playstation. Crediamo di goderci le foto dei nostri amici, invece in quel momento qualcuno ci profila e ci inserisce in un database».

È il social più conformista e omologante?

«Mentre ti illude di essere libero di postare le foto che ti piacciono ti uniforma. E finisci per postare le foto che postano tutti. Di sera i tramonti, in spiaggia i piedi, quando ci si fa i selfie le linguacce. Instagram è un propulsore di conformismo».

L’ultimo dei 15 screenshot fotografati da Oliviero Toscani è il suo.

«Ci sono dentro in modo critico».

Pentito?

«No, ma medito di uscire».

Quindi è pentito?

«Se vivi nella contemporaneità devi usare ciò che la contemporaneità ti offre. Non demonizzo Instagram e non biasimo chi ama esserci, ma mi piace farne un uso consapevole. Mi chiedo chi sarà la nuova classe dirigente: la massa che sta lì a postare tramonti o qualcun altro? L’élite del futuro emergerà dagli Instagrammer o da qualche altra cosa che ancora non sappiamo? È un fenomeno massificante, ma finora tutti i media hanno favorito il progresso dalla specie umana».

Io continuo a diffidare, se ci si pensa un attimo prima di postare un’opinione o un sentimento alla fine non si posta. Le cose preziose restano fuori.

«Le cose che ritenevamo preziose, la pancia di tua moglie incinta, il neonato, sono corrotte dalle immagini che mettiamo su Instagram. Le custodivamo nel privato e ora sono schiaffate davanti a milioni di persone. Instagram appartiene al nostro tempo, ma non è obbligatorio».

Ce la faremo? O vincerà l’omologazione?

«È difficile capire come finirà. È come se Instagram ci educasse ad avere una dimestichezza digitale. Penso che alla fine ci sarà qualcuno che dirà che il gioco è finito e adesso fate quello che dovete fare, cioè comprare. Secondo me si arriverà a un sistema più raffinato di domanda e offerta dei bisogni. Indotti o meno».

 

La Verità, 15 dicembre 2019

 

Spinoza Live smaschera il festival di piaggeria

Le canzoni? Le canta, le cita o le fa citare. Dopo Claudio Bisio è toccato a Pio e Amedeo inchinarsi ai testi del cantautore-conduttore nell’esibizione più sulfurea del festival. Istruzioni a Claudio Baglioni su come fare tris nel 2020, con loro due al fianco. Anzi, mettendosi di fianco: «Magari tu fai un cartoon, una cosa tipo Baglion… se non lo prende la Rai lo vendiamo a Mediaset…». Il segreto però è niente ospiti stranieri: «Dilla tutta che lo facciamo al 100%. Prima…» «… gli italiani», ha completato lui. Ottima performance, rovinata dal pistolotto finale con citazione da Uomini persi: «Anche questi cristi/ Caduti giù senza nome e senza croci/ Son stati marinai dietro gli occhiali storti e tristi/ Sulle barchette coi gusci delle noci…». Festival di piaggeria.

«Il vincitore di Sanremo andrà all’Eurofestival. Dove potrebbe trovare Berlusconi»; «Pubblico tutto in piedi per Riccardo Cocciante. Che bastardi»; «A Patty Pravo invece dei fiori hanno consegnato le opere di bene»; «Motta canta Dov’è l’Italia? L’ha scritta durante gli scorsi Mondiali»; «Sanremo è l’apostrofo rosa tra un duetto di Baglioni e uno spot della Tim»; «Ricordiamo che in questo momento le tv del Venezuela stanno parlando della drammatica situazione a Sanremo»; «Stavo pensando che avendo vinto Sanremo Giovani l’anno scorso, Ultimo avrebbe potuto ritirarsi all’apice della carriera»; «Quando vedo duetti in cui non è coinvolto Baglioni me lo immagino dietro le quinte legato tipo Ulisse». Sono alcuni dei tweet di Spinoza Live, account di Spinoza.it, antidoto cult alla lentezza liturgica delle serate. Viva l’irriverenza.

 «Ho sempre detto di no perché è una fatica immane, ma se mi alleno bene non lo escludo». Ha risposto così Al Bano Carrisi a Giorgio Lauro e Geppi Cucciari di Un giorno da pecora che gli chiedevano se avesse mai pensato di condurre Sanremo. «Anni fa me lo proposero, ma ora sulla base delle due trasmissioni che mi hanno fatto condurre su Canale 5, ho notato che ci potrebbe essere una chiave nuova». Che sarebbe? «Basta aver visto 55 passi Nel Sole per capirlo…». Quanto all’edizione in corso Al Bano ha commentato: «Se fossi stato al posto del mio amico Baglioni avrei tagliato un po’ di più certe referenze nei miei confronti». Troppo autoreferenziale? «Sì. Ma non so se sia un difetto o un pregio». L’occhio del critico.

 Ma se non fosse stato «meno invadente dell’anno scorso» Baglioni che cosa avrebbe potuto fare? Fra i tanti, dittatore artistico è il nomignolo più adeguato al suo egocentrismo. «In realtà il Festival di Sanremo è il gruppo spalla del concerto di Baglioni», ha sintetizzato @fraguarino su Twitter. Straripante.

La Verità, 8 febbraio 2019

 

Adrian di Celentano? Più Jack Folla che Black Mirror

Le polemiche continueranno, garantito. È sempre stato così. Se parla perché parla, se tace perché tace. Basta scorrere Twitter, la nuova macchina del fango di cinguettii-schizzi. La tv è monocorde, però se arriva un prodotto diverso, e diversissimo dal linguaggio di Canale 5 che lo trasmette, non va bene lo stesso. La verità è che Adrian è stroncabilissimo. Ingenuo, imperfetto e, al netto dell’estetica e delle musiche, un po’ datato. Anche gli ascolti non sono stati strabilianti: share del 21.9% nella prima parte, quasi 6 milioni di spettatori, e del 19.1 nella seconda. Per di più, è arrivato al culmine di un’attesa decennale che predispone alla reprimenda.

Ma ricominciamo da capo, provando a separare la tara dal prodotto. Adrian è un biopic di Celentano in forma graphic novel realizzato da grandi firme (Nicola Piovani, Milo Manara, Vincenzo Cerami, finché è stato in vita). Il resto è contorno; compreso il live dal Teatro Camploy di Verona, produttore Gianmarco Mazzi, con il suo cameo di tre minuti, giusto per dire che la battuta su di lui rompi co…i va cambiata e per bere un bicchiere d’acqua, chiosato dal fulminante «bevimi» di una groupie in platea. Al casting di Nino Frassica e Francesco Scali per entrare nell’Arca della bellezza, con annessa presa in giro della televisione, segue il monologo sul pubblico pecorone di Natalino Balasso. Celentano mostra di tenere solo al cartoon apocalittico. Un orologiaio che vive in Via Gluck, in realtà un angolo dei Navigli con darsena e cupola che resiste tra grattacieli e soprelevate, si erge supereroe contro il regime dominante. Siamo nel 2068 e la bottega nido d’amore con una Gilda (Claudia Mori) particolarmente focosa, è il posto dell’autenticità frequentato da vecchie smemorate e ragazzi in cerca della formula dell’amore (che ovviamente si trova nei testi di Adrian). È l’eterna lotta della bellezza contro il potere, dell’artigianato contro il pensiero unico, della tradizione contro la globalizzazione gestita dai politici, i servizi segreti e l’informazione asservita… L’infelicità diffusa è cominciata quando l’uomo è passato da dire «io sono» a dire «io ho». Ci vuole un nuovo Sessantotto…

Per dare ordine alla serata si usa un’impaginazione didascalica, divisa in anteprima, aspettando Adrian, Adrian e backstage finale. Ma tra il fumetto e la parte live i nessi sono ipotetici. La vacuità di oggi condurrà alla distopia di domani? Prefazione e postfazione dal vivo son buttate lì. Mentre il cartoon, più Jack Folla che Black Mirror, è levigatissimo. E mostra i suoi troppi anni di gestazione.

 

La Verità, 22 gennaio 2018

 

 

Zoro si accorge che tra Rai 3 e La7 c’è differenza

Con l’esordio di Propaganda Live su La7 si è completato il quadro dell’offerta tv del venerdì sera. Dopo il timido debutto, settimana scorsa, di Fratelli di Crozza su Nove, superato dalle audizioni in differita (ma in prima tv in chiaro) di X Factor su Tv8, era interessante capire la risposta di La7 e la gerarchia delle reti outsider. Il programma condotto da Diego Bianchi, in arte Zoro, è il primo consistente innesto firmato dal direttore Andrea Salerno nel palinsesto della rete di Urbano Cairo. Un breve antipasto dello stesso piatto era stato offerto da Skroll di Makkox, Marco D’Ambrosio, striscia quotidiana prima del tg. È molto presto per trarre conclusioni perché i linguaggi si devono amalgamare e si devono irrobustire le sinergie (è intervenuto anche Enrico Mentana), tuttavia si può già sottolineare la sensazione che su La7 esista un problema di diversificazione. Appena si esce dal canone del talk show, e di un talk show molto politichese, il pubblico si disperde. Il risultato del 3% di share non è pessimo, ma nemmeno entusiasmante. Probabilmente c’è da lavorare sullo stile e l’inflessione di Zoro, molto legati alla sinistra romana che forse non soddisfa a pieno il pubblico in uscita da Otto e mezzo di Lilli Gruber (5.9%): un pubblico più benpensante e stagionato per il quale, forse, la lingua di Twitter è poco attrattiva. Se poi ci si mette la lunga spiega di Marco Damilano del significato di «propaganda» («Marco la prende sempre da vicino», il commento in tempo reale di Makkox), si può capire un certo ricorso al telecomando. Il rodaggio potrebbe riguardare anche scelte di temi e tempi di trattamento. Il programma sfiora le tre ore, il che non giustifica la dilatazione di certi servizi, in particolare quello realizzato da Zoro, per nove giorni di luglio a bordo di una nave di una Ong in azione nel Mediterraneo. Anche perché il filmato dall’Aquarius, preceduto da un pistolotto di Roberto Saviano e seguito dall’inchiesta di Francesca Mannocchi sui campi di detenzione a Tripoli, arrivava dopo quella di Valentina Petrini in Nigeria di Nemo, nessuno escluso di mercoledì e il servizio nel deserto del Tenerée di Piazza pulita di giovedì, peraltro seguito da un interessante dibattito in cui Paolo Mieli è risultato più efficace e realista di un Gino Strada, puntualmente ideologico.

Per tornare alla gerarchia delle reti minori, il debutto di Propaganda Live non sembra aver penalizzato Fratelli di Crozza, salito al 3.8% di share (dal 3.5 di una settimana fa). Tra i due litiganti, però, continua a godere Tv8 con la differita in chiaro delle audizioni di X Factor, assestatosi al 4.2%.

La Verità, 1 ottobre 2017

Dopo il numero 0 di «M» arriverà il numero 1?

Prendiamolo come un numero zero. Come una puntata pilota. M, il nuovo format di Michele Santoro è un esperimento in tutti i sensi (Rai 2, giovedì, ore 21.15, share del 4,78%). Intanto, il momento della messa in onda per testare l’efficacia della nuova formula. Poi, la divisione in due serate della monografia dedicata ad Adolf Hitler, il primo «mostro» della serie, con l’interrogativo, un tantino forzato, se un fenomeno come quello del Führer può tornare. Santoro entra in uno studio teatrale molto solenne, diviso in due ampie gradinate attraversate da una passerella rossa. Di fronte a lui sta seduto Andrea Tidona che interpreta il protagonista della serata. Mentre ai lati siedono, ben distanziati tra loro, gli «esperti»: lo scrittore Giuseppe Genna, la storica Simona Colarizi e il direttore del Tg La7 Enrico Mentana, coinvolto in quanto possessore di una ricca biblioteca riguardante Hitler e il nazismo. Sulla gradinata opposta trovano posto invece ospiti giovani e in maggioranza di origine straniera, sollecitati dalla coetanea Sara Rosati. Il risultato è uno studio con citazioni classiche, da architettura primo Novecento. Le due parti, esperti e giovani, devono animare il dibattito intergenerazionale e interetnico, con la regia del conduttore che si sdoppia e triplica in tutti i ruoli: intervistatore del redivivo Adolf e dei comprimari dell’epoca, mediatore del dialogo tra le gradinate (reciprocamente sorde), garante del percorso narrativo e della scaletta che comprende il lancio delle minifiction (con accento romanesco) incentrate sull’ambiguo ed esemplare rapporto tra il dittatore e la nipote Geri Raubal (Verdiana Costanzo), l’esito del sondaggio sul possibile ritorno di Hitler e il resoconto delle reazioni alle opinioni spericolate di Youssef, un ragazzo di origine marocchina con cittadinanza italiana, che sostiene che una dittatura sincera sia meglio di una democrazia ipocrita. Prevedibilmente, i frequentatori di Twitter lo subissano di critiche (non tutte riferibili), come fa pure un Mentana particolarmente coinvolto nella querelle.

Se l’idea di fondo è la contaminazione alta dei linguaggi del teatro, del cinema e della televisione in un registro un filo pretenzioso forse più adatto a un canale tematico, è inevitabile che Santoro finisca per recitare tutte le parti in commedia: autore, sceneggiatore, narratore, regista, conduttore.

Insomma, il numero zero di M, realizzato dalla Zerostudio’s di Santoro stesso, appare ancora molto perfettibile. Ma i numeri zero si fanno apposta per capire se ha senso proseguire nella numerazione. Tanto più che dall’autunno Santoro sarà stabilmente su Rai 3. Alla prossima puntata.

Nel match Report-Coca Cola vince il pubblico

Sarà a causa della corporeità generosa o perché quando raccorda i vari servizi con quella sua erre francese, qualche volta accenna a un vago sorriso, fatto sta che la conduzione di Report di Sigfrido Ranucci per ora sembra avere una tonalità più calda di quella, distaccata, di Milena Gabanelli (Rai 3, ore 21.25, share del 7.7%). Ho atteso la seconda puntata per commentare la nuova edizione perché la prima non mi aveva del tutto convinto. Pur soffrendo di allergia verso i cuochi e la retorica del cibo che tracima dai palinsesti di tutte le reti, il servizio che metteva a nudo le complicità e i conflitti d’interessi tra chef, sponsor, eventi culinari e critici gastronomici mi aveva lasciato un interrogativo. Pizzicare i popolarissimi Joe Bastianich & Co e le guide che distribuiscono stelle e cappelli mi sembrava una via troppo facile per assicurarsi l’audience alla prima uscita dell’edizione senza la storica fondatrice. Sarà mica che dalle inchieste sui poteri forti ci si accontenterà di fare il contropelo ai poteri medi?

Informazione pubblicitaria della Coca Cola

Uno spot pubblicitario della Coca Cola mostrato da «Report»

La seconda puntata mi ha ampiamente smentito. L’inchiesta intitolata «Dio Coca Cola» ha puntato il bersaglio grosso. Il contenuto divino della bibita inventata come medicinale nel 1866 da un farmacista di Atlanta è zero come quello calorico della sua versione dietetica. A meno che non si voglia considerare l’uso distorto che se ne fa in certe celebrazioni religiose in Messico, paese in cui la percentuale di persone obese o affette da diabete causa la sua eccessiva assunzione è di gran lunga superiore alla media. I governi che hanno tentato d’introdurre la soda tax non solo in America centrale, ma anche nella nostra Italia, sono divenuti oggetto delle convincenti attenzioni del colosso dei soft drink. Lo ha confermato Renato Balduzzi, ex ministro della Salute: «Vennero a trovarmi al ministero i vertici della Coca Cola». E alla fine la soda tax scomparve dall’agenda del governo Monti, certamente non perché il premier tecnico fosse stato in passato consulente della multinazionale americana. Non sono invece totalmente diluite le particelle di titanio di cui l’analisi chimica effettuata da Claudia Di Pasquale ha rilevato l’esistenza in tutte le bevande di proprietà del marchio. Le dosi sono infinitesimali e quasi certamente non nocive. Ma un importante centro studi sull’alimentazione francese suggerisce approfondimenti. È una delle numerose opacità documentate dalla puntata dell’altra sera di Report cui la multinazionale ha risposto in diretta su Twitter e successivamente durante il dibattito live su Facebook. Le principali materie del contendere sono gli esigui risarcimenti che il marchio di Atlanta versa alle regioni italiane dove hanno sede i quattro stabilimenti (dai 6 ai 30.000 euro circa l’anno) per lo sfruttamento delle acque pubbliche e la scarsa trasparenza dell’assetto societario del colosso il cui 23% rimane anonimo.

Durante la messa in onda c’è stata un’unica interruzione pubblicitaria, a pochi minuti dalla fine. Mentre si fa un gran parlare di riforma della tv di Stato vien da chiedersi se una Rai privatizzata avrebbe trasmesso un’inchiesta così.

Il «Gazebo» che svela il backstage della politica

Telecamerine e Twitter, satira e riprese rubate, raid notturni e vignette: siamo a Gazebo social news, striscia quotidiana di Diego Bianchi, alias Zoro, l’antinarratore della politica di Rai 3. È un’allegra compagnia de sinistra quella che manda in onda tutti i giorni questo racconto atipico delle cose della politica (dal martedì al venerdì, ore 20.10, share del 5,35 per cento nella puntata speciale post referendum). Un antiprogramma, verrebbe da definirlo. Attorno a Zoro che, t-shirt barba e romanesco spinto, è l’incarnazione dell’anticonduttore, si esibisce il fumettista Marco Dambrosio, alias Makkox: persino struggente l’altra sera la parabola di Renzi che rivede la sua storia immerso nella realtà virtuale di un Oculus, ma a un certo punto, causa moscerino, perde la connessione e rimane solo. Poi c’è Missouri, vecchio tassista promosso direttore del «Tg bello» per motivi di satira, che scarrozza Zoro nella notte romana dello spoglio referendario. Infine, Marco Damilano (L’Espresso) e Francesca Schianchi (La Stampa), antiospiti da talk show, che illustrano l’evoluzione della giornata fornendo parole chiave e link utili per comprenderla. E Zoro che fa? Annoda il racconto usando uno schermo tv sul quale manda i reportage, le incursioni, i filmati. Uno schermo che diventa finestra aperta sui palazzi della politica alla quale tutti, coautori, pubblico in studio e pubblico a casa, si affacciano per capirci qualcosa. Tra un filmato e l’altro, Zoro si ferma e dice due parole di spiega, sottolinea, se è il caso digita rewind e rimostra un particolare significativo (l’altra sera, per esempio, la stretta di mano in piazza Montecitorio tra Giorgia Meloni dei Fratelli d’Italia e Alfredo D’Attorre di Sinistra italiana). Poi ci sono i tweet che, contestualizzati, risultano assai più sapidi. Un altro dei punti di forza è l’agilità della strumentazione che permette rapidità negli spostamenti. Con una telecamerina digitale Zoro e soci vanno da un palazzo all’altro regalando riprese inedite, oblique, sporche. Passano dalla Maratona di Mentana al discorso della sconfitta di Renzi a Palazzo Chigi, dove si soffermano sul volto e le mani della moglie Agnese Landini, dal Comitato del No della minoranza Pd, dove acciuffano Massimo D’Alema, a piazza Montecitorio, dove spuntano leghisti che issano cartelli con «Salvini premier». Cose che nessun tg e nessun talk show mostra. Lo fa un antiprogramma «barbone» (hanno la barba Zoro, Missouri, Damilano e Makkox) e certamente di nicchia, che ha come mission il backstage della politica, di cui fa parte anche Twitter. Mentre i programmi tradizionali si dilungano in analisi e scenari, Gazebo va dietro le quinte per documentare e mostrare dettagli, certamente con un orientamento predefinito e con qualche eccesso voyeuristico. Che, tuttavia, possono aiutare a capire più di tante, interminabili, discussioni.

La Verità, 7 dicembre 2016

Il Papa nuovo protagonista dell’immaginario quotidiano

Fumata bianca, habemus The Young Pope. Venerdì sera è partita la nuova, scandalosa, serie firmata da Paolo Sorrentino e quei geniacci della comunicazione di Sky si sono inventati l’idea del fumo che esala dal tetto della sede di Santa Giulia a Milano, come fosse un conclave della tv. Il giorno prima, vigilia del debutto, il fumo era nero. Una trovata, una forma di comunicazione fantasiosa. Anche ardita, in un certo senso. Un editore televisivo, laico e molto techno, prende a prestito una formula artigianale usata dal Vaticano per un annuncio di carattere sacro (chissà se è anche un segnale di fumo mandato dal primo al secondo). Anche architettonicamente il salto è notevole: dal tetto della Cappella Sistina a quello del palazzo di vetro di Santa Giulia. Un salto spazio-culturale. Ma forse, soprattutto, uno scherzo, un’efficace furbata.

Altrettanto geniale, in questi giorni, è stata l’idea di Mauro Pallotta, il Banksy romano, che aveva disegnato sul muro di una viuzza di Borgo Pio un graffito che ritraeva papa Francesco: issato su una scala a pioli armato di pennello, gioca a tris con il simbolo della pace (fate l’amore e non la guerra). Divertente anche la guardia svizzera che, nascosta dietro lo spigolo del muro, fa il palo mentre Bergoglio completa l’opera. Qualche tempo fa lo stesso Maupal aveva ritratto il Papa come Superman, una versione che non aveva incontrato il gusto del capo della Chiesa cattolica. Anche stavolta, con zelo forse eccessivo, i Vigili urbani della capitale hanno rapidamente provveduto a cancellare il murale, a dimostrazione del fatto che non sempre gli uffici decoro hanno nell’elasticità e nell’ironia la loro qualità migliore. Doti che invece ha ulteriormente confermato di possedere, se mai qualcuno ne dubitasse, Rosario Fiorello.

Il graffito di Mauro Pallotta con il Papa che gioca al tris della pace sui muri di Borgo Pio

Il graffito di Mauro Pallotta con il Papa che gioca al tris della pace sui muri di Borgo Pio

L’altra mattina, nel corso dell’imperdibile Edicola Fiore, lo showman siciliano ha preso spunto dalla vicenda del graffito per inscenare una gag delle sue su chi fosse l’autore della proditoria cancellazione. Dopo la telefonata al Comune di Roma, con annessa smentita dell’ufficio Decoro, ha squillato in Vaticano, facendo finta di parlare direttamente con Bergoglio: «Ciao Franci… Sì, ci vado tutte le domeniche… Volevo sapere: il graffito di Borgo Pio… Non ne sapete niente?». Una trovata comica, conclusa affettuosamente con canzone liturgica e «Viva il Papa».

Durante «Edicola Fiore» Rosario ha simulato una telefonata a Bergoglio: «Ciao Franci...»

Fiorello finge di telefonare al Papa: «Ciao Franci»

Tre episodi che hanno in comune un tratto di fantasia e genialità. Ma soprattutto hanno in comune l’oggetto della comunicazione: il Papa e il Vaticano. Il dettaglio non è trascurabile. Quella che fino a qualche anno fa era un’istituzione austera e distante sta diventando accessibile e familiare fino al punto da diventare argomento di gag e provocazioni. Il Papa viene tirato dentro negli scherzi e negli show da comici e artisti di strada (il primo fu Maurizio Crozza con le parodie di Ratzinger). È un percorso inverso a quello inaugurato da Benedetto XVI, quando inaspettatamente, decise di aprire un account su Twitter, dando vita a una comunicazione più smart tramite un social media che si pensava non si addicesse al Soglio pontificio. L’iniziativa del papato che si protende verso la gente comune è stata successivamente potenziata dalle frequenti interviste ai media di Bergoglio e soprattutto dalle telefonate ad amici e persone sconosciute.

Ora però il flusso del messaggio scorre in senso contrario. È la società, attraverso il mondo dello spettacolo e della comunicazione, che prova a coinvolgere la Santa Sede. Il Papa è uno di noi. È uno che c’entra con noi, con il nostro immaginario e i nostri linguaggi. È qualcuno con cui si può dialogare. Che questo giovi alla missione cristiana della Chiesa è ancora da dimostrare. Viviamo in una società dominata dalla necessità della connessione continua e dalla dittatura della visibilità, in cui tutto è comunicazione. A grandi linee vien da pensare che forse si è più propensi ad accettare le idee di qualcuno di familiare piuttosto che di qualcuno di estraneo o inaccessibile. Oppure, ai ministri della fede cristiana gioverebbe astrarsi e rendersi più misteriosi? Risposte precostituite non ce ne sono, il dibattito è aperto. Per inciso, il dubbio se alla Chiesa convenga avvicinarsi maggiormente alla società o invece non sia proprio la distanza a renderla più attrattiva, è il tema che attraversa The Young Pope. Deciderà il pubblico il colore della fumata.

 

La Verità, 22 ottobre 2016

I social network, padri putativi del futuro

Il  dominio delle nuove tecnologie, di Internet e dei social network, è contro la famiglia. C’è un disegno preciso. Una logica economica scientificamente costruita e perseguita. Lo afferma Massimo Gandolfini, medico chirurgo specialista in neurochirurgia e psichiatria, consultore vaticano per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II nonché leader del Family Day. Nel libro-intervista realizzato con Stefano Lorenzetto (L’Italia del Family Day, 234 pagine, 15,5 euro, appena uscito da Marsilio editore) afferma che non è assolutamente un caso se “le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay e gender”. Non è una questione di omofobia o di tabù per certi orientamenti sessuali. No. Per Gandolfini è vero il contrario: la famiglia è un ostacolo al potere sugli individui dei grandi marchi della new economy. Perché i potenti dell’economia digitale preferiscono parlare di individui piuttosto che di persone. “Si dà il caso – dice Gandolfini a Lorenzetto – che nel febbraio 2013 le 200 più importanti aziende americane, tutte insieme, abbiano chiesto e ottenuto da Obama e dalla Corte suprema l’abrogazione del marriage act, la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come unione tra uomo e donna. Tra questi colossi c’erano Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Ebay… Multinazionali in grado di orientare l’opinione pubblica e determinare le sorti dei governi”. Una visione maliziosa o apocalittica? Un’interpretazione antimoderna e oscurantista del progresso? Certamente, una bella sassata contro il vetro levigato e luccicante della Rete nuovo paradiso terrestre. Chissà se Carlo Freccero, che tra qualche giorno al Festival della Comunicazione di Camogli dedicato al tema Pro e contro il web terrà una lezione su “Media apocalittici e integrati”, prenderà in considerazione questa analisi di Gandolfini.

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Da qualche tempo la critica contro la Rete ha iniziato ad allargarsi a macchia d’olio. Ho scritto critica, ma in qualche caso si potrebbe cominciare a parlare di rifiuto, di ribellione. Se ne evidenziano sempre più i lati oscuri, le ambiguità.  Internet, e tutto ciò che ne consegue, social network e connessione h24, non è più l’eden della comunicazione. L’eldorado della democrazia. Ci si accorge che il web inevitabilmente riproduce e amplifica i limiti e le ossessioni di chi la usa. E si cominciano a mettere dei paletti per frenare l’ondata invasiva della new technology. È di oggi la notizia proveniente dalla Francia che annuncia i primi accordi tra aziende e sindacati per tutelare “il diritto alla disconnessione“. Niente mail, niente messaggini di emergenza, niente più reperibilità costante fuori dall’orario di lavoro per i dipendenti di aziende con più di 50 persone, come consente la Loi Travail. Si è scoperto che la connessione abbassa la qualità del lavoro, aumenta lo stress, toglie quella lucidità che proviene dal distacco, dal recupero di una distanza psicologica di sicurezza. Troppe sollecitazioni fanno sì che, come ha sintetizzato il sindacalista Jérome Chemin, “non agiamo più, siamo costretti a reagire di continuo”.

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Nel nostro circo mediatico, dopo l’invenzione del neologismo webete, Enrico Mentana è diventato il guru dell’anti-Rete. Un ruolo consolidato dai successivi post su Facebook, sempre conditi di fulminanti giochi linguistici come l’ultimo riguardante “i Bufala Bill del Far Web“, i quali, senza darsi troppa pena a documentarsi, discettano contro il giornalismo fazioso che non darebbe certe notizie per amplificarne altre. Storia vecchia come la stilografica. Che, tuttavia, “i Bufala Bill” suffragano con il 77esimo posto assegnato da Reporters sans frontières all’Italia nella classifica della libertà di stampa. In realtà, scrive Mentana, quella posizione così bassa non ci è affibbiata “per la scarsa qualità o indipendenza dei nostri giornalisti, ma per l’esatto contrario”, ovvero a causa delle loro coraggiose inchieste che li espongono alle minacce della criminalità o a imputazioni giudiziarie. Come si vede la critica al web di Mentana non nasce da un neoluddismo del Terzo millennio, tant’è vero che la confeziona su Facebook. Ma riguarda l’uso che alcuni – molti, troppi – fanno dei social (Twitter in particolare). In sostanza, non c’è una sorta di stupidità da like, quanto una stupidità di persone che fanno uso di strumenti digitali. C’è una presunzione diffusa nella società contemporanea, una megalomania mediatica per la quale chiunque, avendo a disposizione una tastiera o uno smartphone, si sente in diritto di mettersi sul pulpito a pontificare e impartire lezioni all’universo mondo. Nessuno darebbe mai un mitra a uno psicolabile che si aggira in una piazza affollata. Salvo il fatto che il web non uccide (ma bisognerebbe riflettere anche su certi fenomeni di cyber-bullismo) la questione è la stessa. Ecco perché si comincia a riflettere sul fatto che la Rete è uno strumento incontrollato, nel quale ognuno senza autorevolezza alcuna può dar libero sfogo alla parte peggiore di sé.

 

 

Qualche giorno fa anche Alessandro Sallusti in un editoriale intitolato “Tenete i cretini fuori da Internet” ha proposto una sorta di moratoria digitale. “Non so se da qualche parte esista un interruttore di Internet. Se esistesse il mio sogno sarebbe di spegnerlo e vedere l’effetto che fa – ha scritto il direttore del Giornale -. Che diavolo ce ne facciamo di tutta questa presunta democrazia, di questa libertà senza regole e confini? A mio modesto avviso nulla, se non illudersi di esistere postando nel mondo stupide fotografie”.

Inventando "webete", Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Inventando “webete”, Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Chissà che cosa ne pensano le multinazionali citate da Gandolfini nell’intervista con Lorenzetto. A differenza di quella di Mentana e di Sallusti, o anche della scelta introdotta dalla legge francese, quella del leader del Family Day non è una critica all’uso soggettivo dell’economia digitale, quanto alla cultura che la alimenta e la sta trasformando in un nuovo potere dominante. Al quale, per dispiegarsi senza freni, serve una società debole. “Perché le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay o gender? – si chiede Gandolfini -. Perché una società debole, formata da figli con orientamenti sessuali incerti e mutevoli, è altissimamente condizionabile da qualsiasi input proveniente dall’esterno. Non esiste più il contraltare rappresentato dai valori della famiglia tradizionale. Anzi, a dirla tutta, – scherza ma non tanto Gandolfini – non esiste più nemmeno l’altare”. In questo modo le persone vivono “in uno stato di anomia. La relazione diventa esclusivamente individuale. Avremo un mondo di figli che non hanno più genitori, nel senso che ne avranno cinque o sei, e che cercheranno le ragioni della loro esistenza nella cultura corrente, nel consumismo, nei prodotti, basti vedere che cosa già rappresentano per loro oggetti come l’Iphone o l’Ipad… E con chi puoi instaurare una relazione forte, significativa, realmente accudente, se non esiste più la famiglia? Con Facebook, con Twitter, con Google+, con Instagram…”. Sono questi, i social network, i nostri nuovi genitori putativi.