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Cara Paola, dopo le nonne sono arrivate le mamme

Un film italiano in vetta alla classifica dei più visti dell’anno. Non accadeva dai blockbuster di Checco Zalone (i primi due diretti da Gennaro Nunziante) nel 2014 (Sole a catinelle), nel 2016 (Quo vado) e nel 2020 (Tolo Tolo). Ma quelle erano commedie d’autore, potremmo dire, ed era il momento d’oro di Luca Pasquale Medici (vero nome dell’artista barese). Il caso di C’è ancora domani, il film del debutto alla regia di Paola Cortellesi che ha superato i campioni delle major Barbie e Oppenheimer, è assai diverso. Ed è, oggettivamente, qualcosa di inaspettato. Un piccolo grande miracolo cinematografico. Un film che è diventato fenomeno di costume e che bisogna assolutamente vedere. Un film che, secondo il pensiero corrente, connette il retroterra patriarcale di parecchi decenni fa ai tanti femminicidi che affliggono il nostro tragico presente. Quasi che, in mezzo, tra il dopoguerra e il terzo millennio non ci fossero state le vittorie dei movimenti di liberazione della donna che altri film hanno ben raccontato. Mostrando che dopo il «domani» della Cortellesi c’è anche il dopodomani del femminismo.

Sulle ragioni del sorprendente successo del suo film si è esercitato qualche giorno fa sul Corriere della Sera il maggior critico cinematografico italiano. Il grande asso nella manica dell’opera, scrive Paolo Mereghetti, è «il suo valore educatamente pedagogico». Non è necessario dilungarsi sulle scelte narrative operate dalla regista e già scandagliate in queste settimane (dal bianco e nero al formato del neorealismo fino agli accenni di musical che trasformano i momenti delle violenze in altrettanti balletti) perché le ragioni del boom vanno rintracciate altrove. Il film non racconta una storia di ribellione e di emancipazione, ma una quotidianità di sottomissione e umiliazione. Delia, la protagonista interpretata da Cortellesi, è una vittima che sembra subire in silenzio fino alla catarsi collettiva finale. «Diversamente da tanti film emotivamente più coinvolgenti», scrive ancora Mereghetti, questo «offre a chi sta in sala una piccola, semplice, lezione di vita, di quelle che non vogliono offendere e che non pesa troppo condividere… Il film di Paola Cortellesi parla senza gridare… e alla fine ci fa sentire più buoni e bravi proprio perché abbiamo condiviso con lei una (rassicurante) lezione di educazione civica». Fin qui, tutto chiaro.

Purtroppo, due giorni dopo la riflessione del critico è arrivata l’intervista concessa dalla regista e interprete a Walter Veltroni sul medesimo Corriere della Sera e la nebbia ha subito appannato lo schermo. «Dopo questo anno per te fantastico, cosa ti auguri per quello che viene?», chiede l’ex segretario dem all’intervistata. «In primo luogo che vengano difesi i diritti delle donne», è la spiazzante risposta. Ma «i femminicidi continuano, in tutto il mondo», chiosa l’intervistatore. Risposta: «Sono il segno di un’idea di possesso maschile che è dura a morire». Per spiegare com’è nato il film, finalmente Cortellesi svela di aver voluto raccontare i diritti «di quelle donne che non si è mai filato nessuno. Ho ascoltato tanti racconti di nonne e bisnonne che hanno vissuto quel tempo». Così, con la regia di Veltroni, da Giulia Cecchettin si arriva ai ceffoni del marito-padrone e alla remissività della moglie-vittima. Vietato eccepire, però, perché la vittima è, per definizione, intoccabile e incontestabile. Anche se, come spesso accade, lo spiegone impoverisce l’opera, che è lì in tutta la sua autosufficienza, e indulge all’autocommiserazione.

Dopo un rapido scambio su Facebook, su consiglio di Michele Anselmi, un’autorità spesso disallineata in materia di cinema, ho visto su Prime Video Contro l’ordine divino, un film svizzero del 2017 (regia di Petra Biondina Volpe) per certi versi anticipatore di C’è ancora domani. Anno 1971, in un paesino di montagna non lontano da Zurigo il tempo si è fermato tanto che le donne ancora non votano e per lavorare devono avere, previsto per legge, il consenso del marito. È così che Nora, stanca delle faccende domestiche e delle rudezze del suocero, decide di appoggiare le embrionali proteste dei collettivi femminili. Battaglia impervia perché vanno sconfitte la radicata mentalità maschilista, una cultura bigotta e certe grette posizioni anche nel presunto sesso debole: «Le donne in politica vanno contro l’ordine divino», predica un’odiosa zitella che smania a qualsiasi abbozzo di emancipazione. Ma i soprusi continuano umilianti. Così, tra gruppi di autocoscienza alla scoperta del potere della vagina e uno sciopero rosa che manda in tilt i maschietti del borgo, ci si avvicina al referendum del 7 febbraio. Quando, finalmente, le donne conquistano il diritto di voto con ampio ritardo su tanti Paesi considerati più retrogradi. Ciò che interessa, però, è che qui le donne non sono vittime soccombenti, ma protagoniste del loro destino. Detto altrimenti, in termini generazionali, tra le «nonne e bisnonne» care a Cortellesi, e le nipoti di oggi, ci sono state le mamme e le zie. Non un dettaglio da trascurare.

 

La Verità, 31 dicembre 2023

«Sono impaziente, però dico sempre la verità»

È il Signornò della politica italiana. Mai che qualcosa gli vada bene, che gli si senta promuovere qualcuno o qualcosa. Nei talk sbuffa, manifesta insofferenza, tutti lo temono. In questa intervista con Panorama, Massimo Cacciari parla dei 100 giorni del governo Meloni, dello sprofondo del Pd, della Chiesa post-Ratzinger e dei giovani di Ultima generazione, bocciati anche loro come le sardine.

Professor Cacciari, è una mia impressione o è più critico con il Pd che con Giorgia Meloni?

È una sua impressione. Sul Pd ho critiche radicali, con la Meloni una distanza culturale complessiva, il che non significa che non sappia apprezzare il valore storico di una donna per la prima volta presidente del consiglio in Italia, e il valore della persona per avercela fatta.

Siamo arrivati a 100 giorni di governo, sta per finire la luna di miele con gli italiani?

Le lune di miele finiscono per legge di natura. La durata del governo dipenderà da come saprà affrontare i nodi della crisi, ben oltre la stessa finanziaria.

Le sembra che si pratichino troppe correzioni di rotta?

Rispetto alle promesse elettorali. Nella sostanza si procede sul «binario Draghi» – e si sapeva bene che non poteva essere diversamente. Su quei binari mi sembra si proceda con l’accelerato.

Sapersi correggere è anche una dimostrazione di forza?

Certamente sì. Ma, le ripeto, si è corretto ben poco. Sulle accise? Ma, appunto, ogni persona ragionevole sapeva già distinguere promesse da possibilità reali. Le vere questioni riguardano come «garantire« un debito che si aggrava di giorno in giorno, e come realizzare il Pnrr.

Perché c’è poca attenzione anche da parte delle opposizioni al Pnrr?

Perché neppure loro avrebbero saputo come portarlo avanti. Soprattutto per il Sud, dove andrebbero investite il 40% delle risorse messe a disposizione.

Pandemia, guerra in Ucraina, inquinamento e riscaldamento globale: si passa da un’emergenza all’altra?

È lo «stato dell’emergenza». Questa è la questione davvero epocale. Che mette in crisi i funzionamenti elementari dello Stato democratico. Tutto sembra avvenire, come per la pandemia, per cause «naturali» – e allora è necessario siano gli «scienziati» o i «competenti» a decidere, e che le decisioni siano rapidissime -così ogni confronto e discussione si trasformano in «perdita di tempo». La verità è che occorre reinventare la nostra democrazia. Meglio però far finta di nulla e sopravvivere, come fa la nostra politica.

Gli Stati nazionali decidono sempre meno?

Sopravvivono. Contano ancora, eccome, perché nessun organismo sovra-nazionale funziona davvero, a partire dall’Onu. Ma sulle questioni globali e di fronte allo strapotere delle multinazionali e degli scambi finanziari sono, singolarmente presi, del tutto impotenti. La nostra chance è sempre quella: l’unità politica europea. Unità che si allontana sempre più.

Perché ha stupito quando ha detto che questo governo ha meno bisogno di ingraziarsi la Chiesa perché su questioni come la famiglia e l’aborto c’è già una sintonia di fondo?

Perché è ovvio sia così; sulla carta, almeno. Poi, questo governo, se vuole mantenere buoni rapporti col Vaticano, dovrà radicalmente cambiare tono su altre questioni, a partire dalla tragedia degli immigrati.

Anche sull’inverno demografico c’è intesa?

Certo. La Chiesa non può che essere per una famiglia «che generi». E così penso dovremmo essere tutti consapevoli che una civiltà che non genera più è destinata a scomparire, a prescindere dalla nostra fede o dalle nostre filosofie.

Perché le sue affermazioni spiazzano i suoi interlocutori e anche lei si irrita di fronte a certe domande?

Perché ho questo grave difetto: l’impazienza. Me ne scuso con i miei interlocutori. Per quanto riguarda le mie idee, penso che spiazzino soltanto gli ipocriti: spesso non faccio che affermare come stanno le cose puramente e semplicemente.

In un’altra occasione ha detto che Giorgia Meloni è un’esponente di destra ma non è la Le Pen, sempre spiazzando i suoi interlocutori.

La destra francese ha caratteri propri che vengono da molto lontano. Non ha da «farsi perdonare» regimi fascisti perché non ce l’ha fatta a formarli – in compenso ha pienamente collaborato coi nazisti, come i repubblichini nostrani. Ma per certi versi – integralismo, nazionalismo, anti-semitismo – è stata anche peggio di quella italiana. Io credo che Giorgia Meloni mostri di aver pienamente superato tutta questa ideologia, a differenza della Le Pen.

C’è discrepanza tra i sondaggi su Giorgia Meloni, per ciò che valgono, e l’atteggiamento prevalente dei media?

Forse. Ma i sondaggi valgono ancora meno dei media che ormai, forse con l’eccezione della tv, non formano in alcun modo l’opinione pubblica. Gli italiani da vent’anni vanno cercando qua e là un’offerta politica decente. Assaggiano Renzi, poi i 5 Stelle, poi Salvini, ora la Meloni. I voti, fuorché residui zoccoli duri, come per il Pd il quadrilatero emiliano, sono mobili qual piuma al vento.

Ha avuto qualche contraccolpo a livello di visibilità e nei rapporti personali per le posizioni critiche assunte nel pieno della pandemia?

Di visibilità e popolarità, glielo assicuro, non me ne importa nulla. Ho criticato la gestione politica della pandemia, e non certo i vaccini. E credo che i fatti mi abbiano dato ampia ragione. Ora per fortuna abbiamo svoltato, e non ha più senso parlarne.

Studiosi e intellettuali come Giorgio Agamben e Carlo Rovelli ora sono visti con diffidenza, mal tollerati?

Agamben è il filosofo italiano più conosciuto al mondo. Non ha certo bisogno della tolleranza dei media italici.

La crisi della sinistra italiana è tutta figlia di quella europea o ci mette anche del suo?

Ci mette del suo, perché la sua è una storia del tutto particolare. Non si tratta della storia di una socialdemocrazia, come più o meno in tutti gli altri Paesi europei, ma di quella di forze diverse e per un lungo periodo anche divise; non solo Pci e Psi, ma anche sinistra Dc. Comporle non era difficile, era semplicemente impossibile. Il Pd poteva nascere soltanto da un nuovo progetto, e cioè dal riconoscimento da parte di tutti i soci della conclusione delle loro rispettive esperienze. È mancata ogni analisi storica e critica, e di conseguenza ci si è arrangiati a sopravvivere sull’eredità. Ciò ha condotto a una crescente subalternità, prima culturale e poi anche pratica, alle potenze economiche e politiche che guidano i processi di globalizzazione.

Dopo la sconfitta elettorale Enrico Letta ha detto: non siamo riusciti a connetterci con chi non ce la fa. Secondo lei come può avvenire questa riconnessione?

Come si può credere a un segretario che esce con simili battute dopo una generazione che se le sente dire da tutti coloro che hanno ragionato sull’involuzione del suo partito?

Guardando al cammino intrapreso per il congresso le sembra che il Pd sia sulla buona strada?

Faccia un congresso aperto, serio, con tutto il gruppo dirigente dimissionario, con un programma che preveda un partito a struttura federale, che punta a un nuovo rapporto col territorio. Faccia tutto quello che non si sta facendo.

Per chi voterà tra i quattro candidati?

Non andrò a votare. Avrei votato Gianni Cuperlo se si fosse impegnato in questi anni in una battaglia interna dura e esplicita, formando una sua corrente.

A che cosa si deve il fatto che quasi tutti gli ultimi segretari del Pd o hanno lasciato la politica o hanno lasciato il Pd: Veltroni, Renzi, Martina, Epifani, Bersani.

In alcuni casi ai raggiunti limiti di età. Renzi non ha lasciato nulla, anzi, credo che ne sentiremo parlare ancora a lungo. Veltroni ha sbagliato tutto lo sbagliabile, lasciamo perdere. Martina mi sembrava in gamba. Ha forse i limiti caratteriali di un Cuperlo, non ama battersi.

Aprire al ritorno di D’Alema e Bersani è una buona mossa?

Non torna nessuno, mi creda.

Che cosa perde la Chiesa con la morte di Joseph Ratzinger?

La grande speranza della nuova evangelizzazione d’Europa e quella ancora più grande di una pace tra cristianesimo d’Oriente, russo, e d’Occidente.

Che cosa pensa delle proteste dei ragazzi di Ultima generazione?

Ci sono sempre stati movimenti giovanili. Emergono e affondano come le sardine… primavere senza estate. Le forme stesse della comunicazione inducono tale precarietà. Non sta a me dare consigli – odiosissimo mestiere – ma direi loro: organizzate gruppi di discussione, di studio, date vita all’interno di scuole e università a iniziative autonome. Senza pensiero critico non ci si oppone al politichese regnante.

Conserva qualche elemento di speranza o è totalmente scettico sul futuro dell’Italia?

Disperare è impossibile. Anche il suicida, diceva Giacomo Leopardi, spera qualcosa; magari di distruggere la vita di chi gli sopravvive.

Approva il presidenzialismo?

Non sono mai stato contrario al presidenzialismo in sé. Sono contrario a riforme spot, ora le Regioni, domani il Parlamento, dopodomani il presidenzialismo. Una riforma istituzionale è di sistema o non è. Mi dicano che cosa col presidenzialismo deve mutare per Parlamento, Regioni e autonomie, e poi discutiamo.

Può essere un modo per irrobustire il processo decisionale e resistere alla globalizzazione degli stati di emergenza?

Potrebbe esserlo, sì. Ma alle condizioni che ho detto.

Ha mai pensato di tornare in politica?

Forse nell’aldilà, ormai.

 

Panorama, 25 gennaio 2023

Mondiali di calcio? Per la Rai un’occasione sprecata

Martedì mi ero fatto un bel programmino mondiale. Su Rai 1 erano previste Portogallo-Svizzera alle 20, interessante per vedere i lusitani senza Cristiano Ronaldo, e Spagna-Marocco alle 16, dal risultato non scontato, con i nordafricani pieni di calciatori di qualità, da Hakimi (Paris Saint-Germain) a Mazraoui (Bayern Monaco), da Amrabat (Fiorentina) a Zyech che apprezzo dai tempi dell’Aiax. Il programmino era semplice: siccome nel pomeriggio ero impegnato, avevo pensato di registrare entrambe le partite rinviando a fine giornata la scelta, evitando d’imbattermi in notiziari sia televisivi che online (cosa tutt’altro che semplice, basta pensare alla funzione di Google Discover). Arrivato a sera inizio a guardare in diretta il Portogallo ma, dopo un paio di smorfie del Cr7 panchinaro e di gol nella porta elvetica, mi oriento sul match tra le nazioni divise dallo stretto di Gibilterra che, considerati i contenziosi storici pregressi, forse non sarebbe stata solo una sfida di calcio. Sul campo, però, non sembra esserci acrimonia, la partita è godibile e il telecronista Dario Di Gennaro trova pure modo di avvertire d’emblée i telespettatori che il «16 dicembre Walter Veltroni racconterà Pio La Torre su Rai 3». Tornando al matc, la Spagna di Luis Enrique «fa la partita» ruminando il suo tiki taka con gli enfant prodige Gavi e Pedri, il Marocco se ne sta rintanato, replicando con blitz affidati a Zyech e Boufal. Alla fine dei tempi regolamentari siamo ancora «a reti inviolate» e si va ai supplementari.

Il vantaggio di guardare una partita registrata è che si possono annullare le pause come l’intervallo, le sostituzioni e gli infortuni, applicando una sorta di tempo effettivo. Pigiando il tasto di avanzamento, però, mi accorgo che la registrazione si avvicina pericolosamente alla fine e nella mia testa si affollano i calcoli tra il tempo mancante al completamento dei supplementari e quello registrato ancora residuo. Tra recuperi e interruzioni realizzo che se «si ricorrerà alla lotteria dei rigori» il segmento rimasto è disperatamente insufficiente. Mentre il nervosismo sale, l’immagine si blocca su Sarabia che «stampa sul palo» la più ghiotta delle occasioni. Dopo 2 ore e 55 di registrazione, su Rai 1 parte L’Eredità: il risultato è che, non so bene perché, i rigori posso solo sognarmeli. Non resta che tornare alla programmazione in diretta per provare a recuperare il finale di partita. Ma al Circolo dei mondiali una giornalista esperta di ciclismo con braccialetto arcobaleno – i diritti, i diritti -, un’ex olimpionica di salto in alto che recita da zia stralunata e una madamina torinese sdilinquita per le sorti della povera Juventus sono ai saluti. Pubblicità, promo di Bruno Vespa e  si va sul cazzeggio della Bobotv. Maltratto il telecomando digitando il 5058 di Raisport (sulla piattaforma Sky) dove volteggia una coppia di pattinatori, ma non c’è tempo di ammirare le gambe di lei che, al primo salto atterra male. Anzi, vista la superficie, «agghiaccia», senza bisogno di aggettivi. Su Sky Sport il rullo informa della vittoria del Marocco ai calci di rigore. Ma pure Alessandro Bonan non dispone di filmati, esclusiva Rai. La quale li usa con parsimonia e, chissà se per motivi ideologici, ha scelto di non dedicare ai mondiali qatarioti né una rete né spazio adeguato. Non resta che riparare nervosamente su Youtube…

 

La Verità, 8 dicembre 2022

«Media con l’elmetto per affari e conformismo»

No Tav, no green pass, no war: insomma, no global. Ugo Mattei sta finendo di scrivere, per l’appunto, Il diritto di essere contro, in libreria a fine aprile da Piemme. Docente emerito di Diritto internazionale all’Università della California, insegna Diritto civile a Torino. Dove, nel febbraio del 2021, si è candidato sindaco nella lista «Futura per i beni comuni» ottenendo il 2,32% dei voti. Risponde al telefono da Berkeley, dove si trova per motivi di studio.

Professore, è disposto ad ammettere che i vaccini hanno frenato la circolazione e i danni del virus?

«Che valore può avere una mia ammissione, non sono un virologo. Siccome all’inizio non temevo il Covid non mi sono vaccinato, per non approfittare della corsia preferenziale dei professori. Quando ho cominciato a informarmi i troppi riprovevoli interessi in gioco mi hanno confermato nella scelta. Così pure i comportamenti repressivi delle istituzioni. Mi sono trovato a difendere i valori liberali di uguaglianza e inviolabilità della persona contro l’autoritarismo paternalista del governo Draghi. Visto che la sinistra non offriva spazi di resistenza, nelle piazze ho avuto per compagne molte persone e realtà inaspettate».

È contento che Draghi ha deciso di ridurre alcune restrizioni?

«Diciamo di sì, altrimenti Sergio Chiamparino mi dà del barboton. La sospensione che m’interessa di più è quella dell’obbligo del green pass rafforzato agli over 50 per andare a lavorare. Un vulnus terribile».

Perché sulla guerra russo-ucraina si è riprodotto lo stesso schema visto sulla pandemia?

«Perché c’è chi pensa in modo vigile e chi, come si diceva un tempo, mette la testa a partito. Esercitare la critica è una ginnastica democratica che richiede allenamento. Se per un anno smetti di criticare Draghi, difficilmente ti ravvedi e t’improvvisi critico adesso».

Che cosa contesta a questo governo?

«La deriva autoritaria. È un’attualizzazione del fascismo degli anni Venti».

Addirittura? È passato un secolo…

«Il blocco che portò al potere Benito Mussolini è lo stesso che sostiene il governo Draghi: la finanza angloamericana. L’asse che da Wall street passa per le banche, la Confindustria e arriva all’industria della guerra».

E la deriva autoritaria?

«Il fascismo esautorò il Parlamento concentrando il potere nel Gran consiglio del partito. Sparì anche l’opposizione. Draghi affida i processi decisionali alle cabine di regia, abusa dei decreti legge. Le istituzioni di garanzia sono inerti, a cominciare dalla Corte costituzionale. Basta vedere cos’è successo agli articoli 9 e 41 della Costituzione».

La svolta ecologica?

«Esatto. La biodiversità, l’ecosostenibilità e il rispetto della salute e dell’ambiente anteposti alla tutela della libertà e dignità umana. L’esempio più clamoroso di autoritarismo l’abbiamo davanti».

Sarebbe?

«La politica emergenziale. Si sospende lo stato di emergenza per il Covid, ma rimane quello per motivi bellici. Poi toccherà all’emergenza ambientale».

Scenario apocalittico.

«Berkeley è il posto più liberal e politically correct del pianeta e sono tutti preoccupatissimi del virus. Bene, da quando sono qui nessuno si è mai sognato di chiedermi una certificazione vaccinale. In biblioteca c’è l’indicazione d’indossare la mascherina, ma nessuno si trasforma in sbirro. In Italia chiunque si sente in diritto di additare il trasgressore e perseguire i diritti di una minoranza non allineata».

Com’è la guerra russo-ucraina vista da lì?

«Un vero movimento contrario non c’è. Gli americani diventano sensibili quando i cadaveri sono in casa. Gli Stati Uniti sono gli ultimi beneficiari di questa guerra. Far saltare l’asse tra Germania e Russia è uno degli scopi non dichiarati».

Il pensiero prevalente qual è?

«La vulgata attribuisce le cause all’ego smisurato di Putin. Alcuni colleghi, soprattutto storici, hanno uno sguardo più complesso».

È casuale che la complessità si trovi tra gli storici? La visione della cronaca spinge a semplificare?

«Il qui e adesso è la logica della società dello spettacolo. Questa è una guerra spettacolare. Una guerra diversa, interpretata con categorie antiche».

Qual è la diversità?

«Se la compariamo con altre guerre, diciamo che Putin si è impantanato. Ma non ci accorgiamo che l’aviazione non è ancora stata utilizzata. Mentre, per esempio, la Guerra del golfo è stata combattuta principalmente nei cieli. Prima si bombarda e poi si entra con i soldati. Non credo si possa dire che Putin non ha l’aviazione… Poi c’è un’altra diversità».

Quale?

«Finora si combatteva per impadronirsi dei cieli o dei mari. Invece questa è una guerra psicologica, che mira a conquistare la mente per la costruzione dell’uomo globale, attraverso i meccanismi tipici della società del controllo. La propaganda ha raggiunto livelli sofisticatissimi. La cronaca ci fa vivere in un eterno presente, i social e il Web hanno modificato le nostre menti, capaci di livelli di attenzione sempre più brevi. Perciò abbiamo una capacità critica sempre più limitata. Farsi un’idea precisa nel profluvio d’informazioni è complicato. Basta vedere il caso della fotografia della presunta carneficina attuata dai russi pubblicata dalla Stampa».

Che invece era un bombardamento di Donetsk di questi giorni.

«Un’altra diversità è l’uso massiccio di politiche di marketing, compatibile con il fatto che tanti poteri traggono interesse da questa guerra. Le multinazionali come il gruppo Exxor che con Rolls Royce produce motori per le navi ed è consorziato con Leonardo per i sistemi di precisione. Biden vicino alle elezioni di metà mandato che accontenta l’industria bellica e spera di vendere il gas all’Europa. La Germania che per la prima volta dalla fine della Guerra mondiale ha destinato 100 miliardi ad armamenti».

Però si registrano i primi negoziati e circolano bozze di trattativa.

«Appena se n’è cominciato a parlare Biden ha dato dell’assassino e del criminale di guerra a Putin».

In quale considerazione dobbiamo tenere il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina e la sua volontà di entrare nell’Ue?

«Con la latitanza dell’Onu, che è deputato all’applicazione del diritto internazionale, la trattativa si serve di diplomazie erratiche, le telefonate di Macron, le mediazioni di Erdogan… Vedremo se si riunirà il Consiglio di sicurezza. Non mi sembra si stia facendo di tutto per riportare questa crisi nei confini della legalità».

E la volontà dell’Ucraina di entrare nell’Unione europea?

«Non è una richiesta che si può far valere in modo unilaterale. Da quanto tempo la Turchia chiede di entrare nell’Ue? L’autodeterminazione è un principio giuridico che si attua in relazione agli equilibri geopolitici. Ci sono aree del mondo che hanno una vocazione storica di cuscinetto, la cosiddetta sfera d’influenza. Nel 2014 in Ucraina c’è stato un colpo di Stato, la rivoluzione arancione del 2004 aveva ispiratori ben precisi. Togliamoci l’illusione che la Nato sia un’organizzazione che ha come scopo la pace e l’amicizia tra i popoli».

Come giudica l’azione del governo italiano?

«Siamo una colonia. L’Italia non ha alcuna autonomia in politica estera. Gli ultimi che hanno provato a guadagnarsela come Enrico Mattei, Aldo Moro e Bettino Craxi hanno fatto una brutta fine. Per conquistare autonomia serve una classe politica di altissimo livello, non un banchiere di Goldman Sachs».

Come giudica l’invio di armamenti all’esercito ucraino?

«Lo trovo illegale e contrarissimo all’articolo 11 della Costituzione che rifiuta la guerra come strumento di soluzione di controversie internazionali. Poi lo trovo immorale perché serve a continuare questo conflitto negli interessi del capitale finanziario. Infine, politicamente suicida perché toglie all’Italia qualsiasi possibilità di mediazione».

In questi giorni è stato approvato l’aumento delle spese militari da 25 a 28 miliardi l’anno.

«Era quello che la Nato voleva da tempo. Invece di fare l’interesse degli italiani, Draghi prima ha fatto quelli di Pfizer ora quelli di Lockheed. Se si studiano i pacchetti che controllano i mercati ci si accorge che sono ben integrati. Non stupiamoci se i gruppi editoriali sono così schierati».

Ha sentito l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati proclamarsi a favore dell’invio di armamenti in Ucraina?

«Possiamo non parlarne? Mi piange il cuore».

Cosa sta succedendo alla sinistra?

«È diventata un avamposto del globalismo finanziario americano. I democratici con le loro politiche identitarie influenzano il Pd che a sua volta rende la sinistra italiana organica alle multinazionali. Una volta c’era la sinistra radicale, ma è stata decimata dal Covid, forse per ragioni anagrafiche».

Secondo Walter Veltroni la guerra di Putin è contro i valori occidentali.

«È una lotta contro il globalismo di matrice anglosassone. Finita la guerra fredda si è imposto il pensiero unico, mentre Putin cerca di affermare un mondo multipolare».

Tra i valori dell’Occidente da difendere c’è la libertà sessuale come dice Veltroni?

«Kirill è un capo religioso. Neanche papa Francesco che sta a Roma è favorevole ai gay pride».

Parlando di ciò che succede a sinistra, lei ha collaborato a lungo con il Manifesto

«Ero nel consiglio d’amministrazione quando lo presiedeva Valentino Parlato».

Cosa pensa del fatto che di recente abbia censurato un articolo di Manlio Dinucci, storico collaboratore, per un articolo in cui scriveva che l’invasione era largamente prevista?

«È un fatto triste. Il Manifesto paga la scelta mainstream di fare la Repubblica di sinistra. Sono le conseguenze di due anni di covidiozia. Se ti schieri con il governo sulla pandemia poi stenti a ritrovare un pensiero critico anche su altri temi. Ritengo sbagliato continuare a dividerci fra destra e sinistra».

Cosa intende dire?

«Credo che serva un grande lavoro per ricostruire le condizioni di legalità costituzionali. Una volta fatto, si potrà tornare a dividersi. Per questo il Cln, il Comitato di liberazione nazionale che raggruppa molte sigle della società civile, promuove una grande manifestazione il 27 marzo alla Porziuncola di Assisi. C’è bisogno di rilanciare un’iniziativa di opposizione a un governo che ci sta portando a una situazione drammatica».

 

La Verità, 19 marzo 2022

L’autismo dei migliori avvelena ogni dialogo

Siamo diventati un Paese autistico. Cioè, lo siamo da tempo, ma è come se la pandemia da Covid-19 avesse radicalizzato e accelerato una tendenza in atto. Forse era inevitabile. Era inevitabile che l’avvento di un fatto inedito come un’epidemia planetaria portasse a esasperare le differenze, a divaricare le weltanschauung, le diverse visioni del mondo. Da una parte c’è infatti l’ideologia con i suoi derivati, il primo dei quali è il complesso di superiorità strisciante nell’area progressista. Dall’altra c’è il pragmatismo, magari un po’ qualunquista del buon senso. Le conseguenze delle due concezioni sono uno spettacolo quotidiano sotto gli occhi di tutti. Parlando della pandemia, nel primo caso si pontifica a reti e giornali pressoché unificati, sicuri di essere dalla parte giusta della storia. Nel secondo si rischia di amplificare posizioni poco credibili e spesso molto rudimentali. Tuttavia, considerando il fatto che, come si è soliti dire, la scienza procede per approssimazioni e giunge a regole definitive solo dopo infinite prove sul campo, forse sarebbe il caso di non distribuire certezze e imporre comportamenti come fossero dogmi assoluti e incontrovertibili. Lo dico da vaccinato fino alla terza dose.

Questa lunga premessa serve solo per sottolineare che le guerre di religione hanno fatto il loro tempo. Purtroppo, però, spesso accade che l’autismo dei buoni avveleni i pozzi del dibattito, riducendo drasticamente gli spazi del dialogo fin quasi a renderlo impossibile. L’abbiamo visto in modo esemplare l’altra sera quando, mentre stava tentando d’illustrare dei dati, l’ex presidente di Pubblicità Progresso e consigliere Rai, Alberto Contri, è stato costretto ad abbandonare #cartabianca per non sottostare alla gragnuola d’insulti scagliati dal giornalista saltafila Andrea Scanzi. Il tutto con l’approvazione degli altri ospiti (tranne uno) e nonostante il tentativo di Bianca Berlinguer di sedare gli animi. È un copione che si rifrange all’infinito, come l’immagine tra due specchi, nelle strisce d’informazione quotidiana di La7, di cui Otto e mezzo è l’esempio più plastico. La conduttrice, infatti, con i suoi cortigiani abituali, è la campionessa assoluta di questo autismo dei migliori. Quello che mal tollera le voci dissenzienti, le depotenzia nella loro capacità espressiva. Il catalogo è ricco. Nonostante la giornalista-scrittrice si spertichi negli inviti pubblici ad abbassare il grado di testosterone in politica per dare finalmente spazio all’empatia femminile, appena si appropinquano alla sua cattedra Giorgia Meloni o Maria Elena Boschi subiscono un trattamento da posto di polizia venezuelano. Al di là dell’appartenenza di genere, la discriminazione riguarda diffusamente le posizioni di tipo conservatore e si applica ai temi etici, alla giustizia, alla gestione dei flussi migratori oltre che, ovviamente, al Covid. Il problema è che la conduttrice di Otto e mezzo prolifera dentro e fuori la rete di appartenenza dove, non a caso, la tentazione di promuovere «un’informazione meno democratica» è di casa.

Secondo Ernesto Galli della Loggia il peccato è già ampiamente commesso: «Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva», ha scritto restando voce solitaria sul Corriere della Sera, «capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione». Nel dibattito televisivo «la modernità diviene un feticcio da adorare» e a illustrarne le meraviglie, ha proseguito lo storico, viene regolarmente «chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra». Regolarmente maltrattato.

Il trampolino di lancio è sempre quello, l’autismo dei buoni. Cioè l’incapacità di mettersi in discussione e di ascoltare visioni diverse. Come definire per esempio il comportamento del Fatto quotidiano in materia di giustizia? La sequela di smentite alle sue tesi giunte dalle sentenze sulla mega tangente Eni o sulla trattativa Stato-mafia sono per caso servite a ridurre il digrignar di denti che attraversa le pagine del quotidiano diretto da Marco Travaglio? Ancor più testardi dei fatti, si prosegue monoliticamente nella medesima direzione.

Dubbi non sono ammessi. Dopo esser stato contestato da larga parte dei movimenti femministi e fermato in Parlamento, ora il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia viene riesumato dalla rete Re.a.dy (Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni) che unisce regioni ed enti locali a guida progressista attraverso «azioni informative e formative» rivolte «a tutta la popolazione» per promuovere iniziative di sostegno dell’agenda Lgbt. In pratica, Re.a.dy opera per affermare un ddl Zan strisciante e mascherato in appoggio alle giornate del Gay Pride, nell’ambito del quale l’associazione stessa è nata. Siccome si è dalla parte del giusto, si procede imperterriti. Lo stesso si può dire per le campagne per la legalizzazione della cannabis e il suicidio assistito promosse in pieno stato d’emergenza. Il quale, evidentemente, ha importanza intermittente. Come ha ben reso il tweet di Gavino Sanna (presidente dell’Associazione consumatori del Piemonte): «Maestà, il popolo ha fame. Dategli bagni inclusivi e linguaggio gender neutral». Ma forse l’esempio più involontariamente comico di autismo dei buoni è la recente intervista concessa da Carmen Consoli al Corriere della Sera. Dopo aver spiegato di aver scelto il padre di suo figlio in un catalogo per la fecondazione assistita praticata in una clinica specializzata a Londra, rispondendo a Walter Veltroni che le chiedeva quale fosse oggi «la virtù che sta sparendo più pericolosamente», la cantante siciliana ha detto: «Empatia. Una notevole diminuzione di empatia, una grande rimonta del narcisismo. Crea sterilità. È tutto usa e getta. Le persone si trattano come se fossero un telefonino». Testuale. L’autismo è inscalfibile e impedisce di pensare a sé stessi in modo critico. Nel caso non ha aiutato a farlo nemmeno l’intervistatore, autore a sua volta anche del pamphlet Odiare l’odio, il cui titolo postula da solo che c’è un odio buono e uno cattivo. E, ovviamente, quello buono è il suo.

Recita il vocabolario Treccani alla voce autismo: «In psichiatria, la perdita del contatto con la realtà e la costruzione di una vita interiore propria, che alla realtà viene anteposta, come condizione propria della schizofrenia e di alcune manifestazioni psiconevrotiche».

Post scriptum Per fortuna esistono piccole, ma significative eccezioni. Esempi di rottura dell’impermeabilità nei confronti del reale e di chi la pensa in modo diverso. Li enumero sinteticamente. La convention di Atreju, dove sono sfilati i leader di tutti i partiti. La decisione di Repubblica di arruolare Luca Ricolfi tra i suoi editorialisti. La revisione dei toni critici di Antonio Socci su papa Francesco. Non è detto che dietro questi esempi ci siano intenzioni romantiche. Di sicuro non ci sono complessi di superiorità.

 

La Verità, 16 dicembre 2021

 

«Tv e giornali sono pieni di tronisti della letteratura»

Uno scrittore selvatico. Un autore che sceglie il margine. Solitario, fiero, iconoclasta. Posseduto da una furia lucida e distruttiva. Contro la religione e tutte le chiese, compresa quella dell’editoria e dei salotti letterari. La politica l’ha abbandonata svariati decenni fa. La televisione la evita. La tecnologia e i social li usa il meno possibile. Originario del Polesine, vive a Desenzano del Garda, dov’è stato a lungo bibliotecario comunale (quella biblioteca affacciata sul lago è un posto eletto). I suoi libri sono sassate, gorghi neri, storie di perversioni ordite in una cornice grottesca che svela una satira mostruosa e amara. Sto parlando di Francesco Permunian: «Ho compiuto 70 anni e non devo fare alcun esercizio di paraculaggine perché non appartengo ai tre ambiti che sostengono la produzione letteraria in Italia».

Quali sono?

«Le università, le scuole di scrittura e i media. L’emblema di queste sinergie era Umberto Eco. Anni fa Ferdinando Camon, che gentilmente aveva presentato un mio libro, mi disse che per imporsi serve un buon editore e la collaborazione con un giornale. Invece il mio istinto mi porta a starmene fuori dalla pista del circo. Se entro anch’io nella pista non posso più scrutare le maschere. Poi c’è l’orgoglio di chi è nato in un paesino tra l’Adige e il Po nel 1951, anno della grande alluvione».

Come si esprime questo orgoglio?

«Se riuscirò ad affermarmi lo farò solo per il valore della mia scrittura, della mia qualità letteraria. Questa è stata la sfida di tutta la mia vita. In un diario di Valentino Zeichen, il poeta muto della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, ho trovato questa riflessione: “In una società come l’attuale, dove tutti hanno ambizioni letterarie, che centuplica di anno in anno gli autori, la probabilità di venire letti in un futuro prossimo è pressoché nulla. Poiché il mercato suddivide la notorietà passeggera fra tanti autori, interscambiabili, è preferibile che l’eccezione non si manifesti per non essere d’intralcio”».

Cosa voleva dire?

«Zeichen viveva orgogliosamente al margine, come uno spatriato nella patria delle belle lettere. E non si manifestava per non essere d’intralcio all’andazzo letterario generale».

Il suo ultimo libro, Giorni di collera e di annientamento, pubblicato da Ponte alle grazie, è un anti-romanzo?

«È un romanzo che disobbedisce alle regole delle scuole di scrittura oggi tanto in voga: quindi, sì. Non è un ovetto confezionato secondo i loro dettami da manuale scolastico. Non è il frutto di una ferita di plastica e senza sangue, anche se tecnicamente perfetta».

Dove nasce la sua furia contro il mondo dell’editoria e la religione bislacca?

«La storia inizia e finisce con le anguane, figure palustri mostruose della mitologia. Le immaginavo nella grande palude in cui si era trasformato il Polesine dopo l’alluvione. Appartengono a quel sacco amniotico adolescenziale che mi ha influenzato psichicamente prima che letterariamente. Queste anguane, silenti nel percorso del libro, rispuntano per partecipare al sabba finale. Dalla palude del Polesine a quella dell’editoria, anch’essa popolata di mostriciattoli, il passo è breve».

E la religione?

«È l’altro bersaglio. Tuttavia, in questo libro nichilista dalla prima all’ultima pagina, c’è un barlume, un chiarore antelucano che il protagonista intravvede in lontananza, scrutando la Strada dei crocefissi che i pellegrini percorrevano a piedi nel secolo scorso. Come fece David Herbert Lawrence con la sua compagna prima di fermarsi sul Garda ad abbozzare L’amante di Lady Chatterley. È la mia idea giansenista di religione, pura e lontana dal potere clericale. Altrettanto, vorrei la letteratura immune dalla corruzione dell’editoria».

Il protagonista del libro, un crooner di provincia che vorrebbe diventare il nuovo Fred Bongusto, vince il Premio Strega cui lo iscrive il suo manager. Cosa vuole esprimere con questo corto circuito?

«La casualità e l’arbitrarietà dei premi. Roberto Vecchioni fa parte della giuria del Campiello, Walter Veltroni ne è il presidente. È l’esempio plateale di come la letteratura sia ridotta a mondanità e marketing editoriale».

Da dove ha tratto la storia di don Fifì che rinuncia alla carriera canora dopo aver vinto il premio Strega?

«Eravamo al Castello Sforzesco per la presentazione di La terra della prosa – Narratori italiani degli anni zero di Andrea Cortellessa. Con me c’era Eugenio Baroncelli, un autore molto apprezzato che pubblica da Sellerio, che m’invitò a Ravenna. Dove scoprii che era un cantante di un gruppo rock. È lui, in un certo senso, ad aver ispirato la figura del mio protagonista».

Le scuole di scrittura sono posti così meschini?

«Sono centinaia in Italia. Anche a causa dei bassi compensi dei giornali, ho diversi amici che ci lavorano per arrotondare. Non ne possono più, loro per primi vedono che è inutile. Non si diventa scrittori perché ti danno il diploma della scuola. La voce per cantare o ce l’hai o non ce l’hai. Pietro Citati diceva che la grande scrittura non si insegna, tuttalpiù si può insegnare a scrivere decorosamente».

Sbertuccia i vincitori dello Strega che diventano pastonisti dei grandi quotidiani.

«Sono la maggior parte, devono mantenere visibilità. Se lo sai gestire bene lo Strega è un’assicurazione sulla vita. Come lo Zecchino d’oro o il Festival di Sanremo».

Un editor che va a Predappio sul sidecar di fabbricazione teutonica di una naziprostituta è il peggior sberleffo alla letteratura da talk show della domenica sera?

«È una presa per il culo che manda a ramengo tutta l’intellighenzia radical chic. Io prendo in giro il potere, la politica e la religione, salvo solo la scrittura. Non mi ammorbidiscono né i salotti della sinistra né quelli che sono contro i salotti della sinistra».

Però non tutti i vincitori dello Strega sono malvagi, Emanuele Trevi elogia la sua scrittura nella fascetta promozionale del romanzo: è una contraddizione?

«No, assolutamente. Il suo apprezzamento non ha a che fare con lo Strega vinto nel 2021, Trevi è un estimatore della mia scrittura da 20 anni. Fu il primo a lodare Cronaca di un servo felice, il mio primo romanzo rifiutato da una trentina di editori. In caso di ripubblicazione si è detto pronto a scriverci un saggio».

Cosa intende per librificio?

«È la produzione sfrenata di romanzi e romanzetti. E un romanzificio, soprattutto. Le piccole editrici sono con le spalle al muro e quindi investono sulla quantità. Chi resta a galla dopo due o tre settimane viene ripubblicato, gli altri scompaiono. Vellicando il narcisismo imperante, le scuole di scrittura hanno trasformato l’editoria in un reality di massa. Come i telespettatori i lettori non vogliono più fare il pubblico, ma salire sul palco come avviene nei reality».

Che cosa pensa delle classifiche di vendita?

«Alberto Arbasino diceva che valutare la letteratura in base alle classifiche è come valutare i ristoranti in base al numero dei coperti. Vincerebbe sempre un Motel Agip dell’autostrada».

Sono farcite di volti tv e di autori del giornalismo militante?

«È il trionfo del fazismo di massa, di cui i tronisti della letteratura sono i corifei. È la società di massa delle lettere».

Un dispositivo indistruttibile?

«Gli editori non sono benefattori, ma imprenditori che devono far quadrare i conti. È inutile arrabbiarsi. Se incassano con i libri di cantanti calciatori e giocolieri, poi magari riescono a pubblicare qualche buon romanzo. Ma non tutti sono Roberto Calasso o Elvira Sellerio che combinavano la qualità con il bilancio».

Mischiando devozioni e perversioni la sua farsa tocca i vertici del grottesco?

«Se guardiamo agli scandali degli ultimi anni, non mi pare di aver inventato nulla. La Chiesa è devastata dalla pedofilia ed è un miracolo che Cristo riesca ancora a tenere in piedi la cattedra di San Pietro. Poi c’è una cosa più sottile: l’ipocrisia del perbenismo cattolico, il quieto vivere piccolo borghese che riduce il messaggio a pratica devozionale. È difficile da smascherare. Io osservo da fuori anche questo spettacolo, forse il più bello e potente, una macchina di potere, preghiere e grida infernali».

Preti stravaganti, prostitute naziste, dentisti sposati con bambole di plastica: è così infernale la provincia?

«È la mia percezione. Rendo tutto paradossale e parodistico per far deflagrare quei personaggi, che altrimenti diventerebbero macchiette».

Non rischiano di esserlo già?

«Il prossimo lavoro sarà intitolato I demoni beati, da una frase di Gottfried Benn, contenuta nel suo saggio Invecchiare come problema per artisti. E sarà ancora peggio! Alzando al massimo il voltaggio rischi infatti di stonare, ma è un rischio da correre».

Nella sua opera, si sente in sottofondo una risata mostruosa e disperata.

«Onestamente è così. Il nichilismo passa per la lotta con il demone, per la paura d’impazzire. Sono le ossessioni con cui devo fare i conti. Uso la scrittura come terapia. Perciò la mia è una letteratura di sopravvivenza, di vita e di morte».

Per l’uomo contemporaneo la salvezza viene dalla tecnologia e dalla finanza.

«Sono cose estranee al mio mondo. Ho altre ossessioni, leggo poesie e diari. La tecnologia e i social li frequento il minimo indispensabile, con l’aiuto di mia figlia. Resto nel sacco amniotico della mia provincia».

Dal quale evade con internet.

«Certo. Oggi, per esempio, ho saputo che nel 2023 l’editore Francisco Magallanes di Buenos Aires pubblicherà il mio libro».

 

La Verità, 6 novembre 2021

«La strada per il Colle passa dal centrodestra»

Patti chiari e intervista lunga, Bruno Vespa è un maestro di ospitalità che sa mettere a proprio agio l’interlocutore invitato nell’accogliente casa di Cortina d’Ampezzo dove, come tutti gli anni ad agosto, l’ex direttore del Tg1 e conduttore di Porta a porta, la Terza camera del Paese, trascorre un paio di settimane di vacanza. I patti sono che non si parla di televisione e di Rai, ma di politica e del suo Quirinale – Dodici presidenti tra pubblico e privato (Rai Libri), ora che è iniziato il semestre bianco che porterà alla scelta del successore di Sergio Mattarella (sé medesimo?) nel prossimo mese di febbraio.

A tutte le elezioni del presidente della Repubblica il candidato più accreditato viene giubilato. È successo a Giovanni Spadolini, Giuliano Amato, Franco Marini, Massimo D’Alema, Romano Prodi…

«Tranne che a Francesco Cossiga, sul quale funzionò il patto di ferro stabilito in precedenza tra Democrazia cristiana e Partito comunista».

Stavolta a chi toccherà?

«A nessuno perché ancora non c’è un candidato esplicito. Ci sono tanti aspiranti coperti, ma nessuno si scopre per non esser costretto a dire di esser stato giubilato».

Parlando di candidati coperti, anche lei, come si legge nel libro, ha rischiato di correre a sua insaputa.

«Quello è un fatto divertente. Silvio Berlusconi disse a Matteo Renzi che siccome, a suo avviso, conosco bene l’Italia… “perché non eleggiamo lui?”. Era solo una battuta, che fu Renzi a riferirmi».

Anche il patto del Nazareno fu tradito quando Renzi estrasse dal cilindro Sergio Mattarella. Come giudica il suo settennato?

«Mattarella è uno dei presidenti più amati, forse il più silenzioso di tutti. Ha incaricato tre maggioranze diverse in tre anni, muovendosi bene in momenti delicati. Soprattutto in occasione della formazione del primo governo Conte e in quella della mancata nascita del Conte ter».

Anche la crisi dell’agosto 2019 non è stata uno scherzo.

«No. Ma la maggioranza imperniata su M5s e Pd è stata una scelta più facile, tant’è vero che se n’era già parlato dopo il voto del marzo 2018».

Quando non diede l’incarico a Matteo Salvini nonostante il centrodestra avesse la maggioranza relativa?

«Non era sufficiente. È vero che il mandato a Roberto Fico fu molto più lungo di quello concesso a Elisabetta Alberti Casellati. Ma Salvini avrebbe dovuto cercarsi 50 parlamentari e sarebbe stato un governo fragilissimo. Poi fu Renzi a mandare all’aria l’ipotesi Pd-M5s in televisione. Mentre fece nascere il secondo governo Conte e ha impedito la nascita del terzo».

È il king maker dei governi pur con un partito infinitesimale.

«I sondaggi lo penalizzano, ma ha 47 parlamentari e conta di farli pesare anche nell’elezione del prossimo capo dello Stato».

Un po’ come faceva Bettino Craxi?

«Craxi aveva il 13%, Renzi era più forte nel Pd».

Con poco determina molto?

«Come Ghino di Tacco: bisogna passare per Radicofani».

Mattarella si è opposto anche alla scelta di Paolo Savona ministro dell’Economia.

«Quasi tutti i presidenti hanno imposto dei ministri, ma l’hanno fatto con il consenso del premier incaricato. Il veto su Savona è l’unico caso in cui un governo non è nato perché il capo dello Stato ha respinto un ministro».

Com’è cambiata la figura del presidente nella Seconda repubblica?

«È cambiata con l’avvento di Berlusconi. Mai Oscar Luigi Scalfaro si sarebbe comportato come fece se non fosse stato Berlusconi capo del governo. Scrivergli una lettera di galateo istituzionale alla quale Giuliano Ferrara, ministro per i rapporti con il Parlamento, rispose giustamente per le rime, fu un comportamento inedito nei rapporti tra Quirinale e Palazzo Chigi».

Con l’avvento di Berlusconi i presidenti sono diventati più interventisti?

«Sì, certo. Lo hanno tenuto sotto tutela. Che lui sia propenso alle scappatelle è evidente, ma loro lo hanno ripetutamente messo in collegio».

Nel caso della nomina di Mario Monti seguita all’invito a dimettersi a Berlusconi di Giorgio Napolitano si è parlato di «dolce colpo di Stato».

«L’ha scritto il sociologo vicino alla sinistra tedesca, Jurgen Habermas. Sicuramente fu un comportamento anomalo, tutto documentato. E emerso a posteriori fa una certa impressione. Tuttavia, dopo la guerra che gli fece Fini, Berlusconi aveva una maggioranza risicatissima, puntellata dai cosiddetti responsabili».

La lievitazione dei poteri del capo dello Stato è conseguenza dell’indebolimento della classe dirigente attuale?

«Non c’è dubbio. È una supplenza di debolezze crescenti. E meno male che Mattarella si è comportato con equilibrio in situazioni che stavano scappando di mano. Direi che Draghi è stato il suo capolavoro».

Dipende anche dal fatto che i presidenti si sono assunti il compito di ridimensionare il centrodestra, dopo Berlusconi anche Salvini?

«Per Scalfaro, Berlusconi era un marziano. E non c’è dubbio che Salvini al governo sia vissuto come un’anomalia legittima».

Anomalia legittima… vengono in mente le convergenze parallele.

«È legittimo che Salvini sia al governo, ne ha tutto il diritto. Anche Mattarella ha chiesto la partecipazione di tutti. Ma non c’è dubbio che sia vissuto come un’anomalia, basta vedere i frequenti scontri con il Pd. Il fatto che due partiti come Lega e Pd approvino insieme riforme importanti è un miracolo congiunto di Mattarella e di Draghi».

L’anomalia è dovuta al fatto che Salvini è cresciuto nella Lega, partito dell’antipolitica come lo era Forza Italia?

«La Ztl della società italiana non si rassegna all’idea che ci sia la destra al governo. È un percorso lungo, vedremo come andranno le prossime elezioni. Il Pd è il legittimo punto di riferimento della classe dirigente e delle élites culturale, burocratica e, in parte, anche imprenditoriale italiana. Anche quando ha il consenso della maggioranza degli italiani, il centrodestra ha la vita più difficile…».

In questi anni Mattarella avrebbe potuto pronunciarsi a proposito delle varie crisi che hanno attraversato la magistratura?

«È una domanda alla quale preferisco non rispondere, per un riguardo al capo dello Stato. Posso solo dire che la magistratura sta vivendo la crisi più grave della storia repubblicana , ancora non si è capito come possa superarla e il Presidente della Repubblica lo è anche del Consiglio superiore della magistratura».

Scalfaro è quello che esce peggio nella galleria dei suoi ritratti?

«Sì, lo metterei in coda alla lista».

Mattarella rimarrà contrario all’idea di prolungare il mandato fino al 2023?

«Credo che il libro dimostri l’assoluta fragilità delle previsioni sul Quirinale. Nel merito ci sono due scuole di pensiero. Una per la quale Mattarella resterà fino a fine legislatura. L’altra, come lui ripete, che non accetterà prolungamenti. Secondo me la prima ipotesi è irrispettosa e con qualche elemento di debolezza. Si rieleggerebbe Mattarella, ma non per sette anni. Credo non si possa fare un contratto con il capo dello Stato in cui si dice: va bene, grazie, adesso ci porti a elezioni e poi te ne vai. Se si elegge Mattarella, lo si elegge per l’intero settennato».

Con Napolitano andò più o meno così.

«Ma decise lui di andarsene dopo due anni. Non si può fotocopiare Napolitano in una situazione diversa».

Oggi la situazione è ancora più complessa per l’emergenza sanitaria e il ruolo internazionale di Draghi.

«Non c’è dubbio che togliere Draghi da Palazzo Chigi sarebbe un peccato, ma il Paese potrebbe essere accompagnato a elezioni dal suo ministro dell’Economia, Daniele Franco. È sicuro anche che dal Quirinale Draghi potrebbe rivestire un ruolo superiore in campo internazionale. Ma parlarne ora è fantascienza. Tutto si deciderà tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio».

Una volta Napolitano le disse che erano maturi i tempi in cui il Quirinale avrebbe potuto essere occupato da un uomo proveniente dalla destra. Previsione realistica, profezia precoce o fantapolitica?

«Servono particolari condizioni politiche e sociali perché un uomo di destra vada al Quirinale. Oggi per la prima volta il centrodestra è decisivo per eleggere il capo dello Stato. Naturalmente conviene che sia una scelta condivisa».

Il Corriere della Sera è già sceso in campagna per il Quirinale?

«L’elezione del presidente della Repubblica è il gioco politico più appassionante dei prossimi sei mesi. È normale che i giornali ci costruiscano un giallo a puntate».

Sperando di piazzare il loro investigatore?

«E chi sarebbe?».

Walter Veltroni è un’importante editorialista del Corriere.

«Walter ha grandi capacità negoziali. Sta a lui convincere il centrodestra a votarlo».

Il giudizio generale sul governo Draghi è positivo: poteva segnare maggiore discontinuità nella lotta al Covid?

«La discontinuità è rappresentata dalla scelta del generale Figliuolo. Siamo passati dalle primule alla rinascita della Protezione civile che era stata lasciata morire».

Vera discontinuità sarebbe stata cambiare Roberto Speranza?

«Difficile cambiare il ministro della Sanità in piena emergenza».

Quanto crede al partito unico del centrodestra?

«In astratto, tra Lega e Forza Italia è possibile, anche se non si fa dalla sera alla mattina. Con la Meloni serve ancora più tempo».

Sul piano dei numeri sarebbe conveniente?

«La storia dice di no. Tutti i partiti che si fondono riducono i loro consensi. Ma le circostanze attuali potrebbero essere più favorevoli all’unificazione».

Come valuta la strategia di Enrico Letta di puntare sull’alleanza con Conte?

«È un esperimento interessante. Vedremo come finirà».

Chi è messo meglio in vista delle amministrative del 3 ottobre?

«E chi lo sa? I sondaggi agostani sono un non senso, quelli affidabili arrivano a tre settimane dal voto. Sono chiamati alle urne venti milioni d’italiani in mille comuni…».

Anche in Italia avremo una grossa coalizione?

«Qualcuno poteva immaginare Letta e Salvini insieme al governo in una situazione come questa? La grossa coalizione c’è già, ed è stata una fortuna. Per la sua collocazione internazionale, Salvini ha fatto bene a entrarci. Come la Meloni a starne fuori, perché avrebbe contato molto poco».

 

La Verità, 14 agosto 2021

Da Altri a Virtù: dizionario del buonismo da day after

Non bastano il coronavirus, la reclusione e i bollettini quotidiani della Protezione civile. Tra gli effetti molto collaterali dell’epidemia troviamo il profluvio di lectio magistralis. Uno tsunami. Articolesse, pensierini, interventi, interviste, commenti, elzeviri, confessioni e rivelazioni dei guru da quarantena. Tra i quali va annoverato anche Giuseppi Conte con il suo invito a riflettere sulla «scala di valori». Sono i nuovi maître à penser. Gli intellò da day after. Un diluvio, un’ondata buonista che ha invaso le pagine dei giornaloni, i video, i profili social, il display del cellulare. Il guaio è che questo isolamento claustrofobico ci fa stare iperconnessi. Abbiamo tempo – troppo – per leggere le istruzioni dei migliori. I sacerdoti del bene, come li chiama Giampiero Mughini. Lo scrittore in odore di premio, frequentatore di talk show. L’ex politico regista e scrittore pure lui. L’attore da festival e cover di magazine. I conduttori tv mainstream…

Con l’hashtag #lecosechestoimparando Repubblica ha rotto la diga e siamo stati travolti dalla nuova lingua etica. Meglio, da un modo nuovo di usare la solita. Fatta di parole più ispirate, intrise di afflati, esortative, protese a migliorarci. Screziature linguistiche suggerite dal tempo straordinario. Cariche di promesse, di propositi, di spinte al cambiamento. Come se fossero un’unica, gigantesca lettera a Babbo Natale. Anzi, letterina (che magia le piccole cose). Perché abbiamo appreso persino l’ora in cui sorge il sole. Poetico no? Sembriamo una immensa scolaresca. Una classe di buoni che ha imparato la lezione. Ora che abbiamo messo la testa a posto stiamo soffocando nella melassa. Ariaaaaaaa.

La romantización de la cuarantena es privilegio de clase! (Il romanticismo della quarantena è un privilegio di classe!): lo slogan partito dai balconi della Colombia, ora virale sui social, è una sana sferzata di realismo.

Altri. Perdersi negli altri, riscoprire gli altri, accorgersi degli altri, dedicarci agli altri, amare gli altri. Improvvisamente siamo tutti innamorati degli altri. È nato l’altrismo, degno compare del buonismo. Elio Germano, l’ideologo, attore pluripremiato e frequentatore di centri sociali, ha il profilo giusto: «La felicità è quando riusciamo a perderci negli altri», ha confidato a 7 Corriere della Sera. Anche Fiorello ha seminato «altruismo, altruismo, altruismo». Egocentrismo delle star travestito da fervorino.

Baricco. Alessandro. Al fondo di ventimila battute il guru dei guru ammette che «abbiamo troppa paura di morire». Suvvia, la pandemia è solo un nuovo livello del suo Game. Ma c’è lui con la sua «audacia». «Non sono particolarmente in forma, ma niente mi impedirà di scrivere qui alcune cose che so. È il mio mestiere». Mr. Wolf del progressismo. Per il narcisismo non c’è vaccino.

Bene. #andràtuttobene. Tutto cosa? Bene per chi? Campagna dilagata dai balconi. A braccetto con l’altro slogan: #celafaremo. Striscioni, lenzuolate, flash mob, post it, hashtag, claim, spot istituzionali. Strategia del sorriso, dell’incoraggiamento, dell’ottimismo. Intanto non si trovavano mascherine e finivano i posti di terapia intensiva. «No. Non è andato tutto bene. Prima di uscire sul balcone a cantare Azzurro o Volare bisognerebbe pensare a luoghi come Bergamo. Lo fareste, lì?» (Domenico Quirico, La Stampa).

Cose. Piccole. «Nel tempo ho imparato che le epifanie si dimenticano… Quelle che invece non si dimenticano più sono le piccole cose» (Daria Bignardi, Repubblica). Serve aggiungere altro?

Democrazia. Walter Veltroni, Corriere della Sera: «La democrazia non è per sempre, come il gioiello della pubblicità. La democrazia vince sfide e domina cicloni. Oggi, nell’ora più buia, la democrazia deve essere il rifugio di garanzia di ogni italiano». Picco di retorica, con Parlamento latitante.

Dopo. Quando ne usciremo. Quando saremo fuori. Saremo così, saremo cosà. Il mondo sarà cambiato. La società, il sistema, l’economia, la politica. Dopo, tutto sarà nuovo, migliore. Perché ci ricorderemo delle piccole cose. Degli insegnamenti. Faremo tesoro. Il dopo idilliaco, paradisiaco, edenico. Ma il durante si allunga. Mago Otelma e i suoi adepti.

Ecosistema. «Devo ricordarmi che è ora di riconnettermi alla Terra e all’ecosistema» (Fazio su Rep). Supplente di Greta Thunberg.

Imparare. Il 26 febbraio Gianrico Carofiglio twittava: «Contro l’isteria collettiva comunico che oggi: 1) ho viaggiato in aereo tra persone serene e senza mascherine; 2) sono andato in metropolitana e tutti erano tranquilli; 3) ho preso parte a una tranquilla e affollata presentazione di un libro. Ci tenevo a farvelo sapere». Qualche giorno dopo, il passato da magistrato ha fagocitato il presente d’autore: «Norma da adottare: “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità competente e finalizzato a contrastare la diffusione di epidemie è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 1000 a 5000”». Per provare a colmare la distanza tra i due tweet ha riempito una pagina di Repubblica. Invano.

Libri. #nonfarticontagiare. Flash mob promosso dalle sardine con un libro fra i denti. Da acquistare (insieme al cerchietto). È l’«antidoto culturale». I ritardi di Amazon tra le cause dei decessi.

Oblio. «Una promessa: non ci sarà nessun oblio». Titolo del Corsera ad un articolo di Paolo Giordano. Svolgimento: «Non voglio dimenticarmi che l’origine della pandemia non è un esperimento militare segreto, ma nel nostro rapporto compromesso con l’ambiente e la natura, nella distruzione delle foreste, nella sventatezza dei nostri consumi». Memorie da instant book.

Porti. «Sempre aperti. Per tutti»: in entrata però. In uscita, non possiamo andare da nessuna parte.

Prometto. Il verbo della «letterona» vergata da Fabio Fazio su Repubblica. Variante barricadera dell’autore: «Mi sono ripromesso di pretendere che chi ha ruoli di responsabilità di governo sia più preparato di quelli che da lui sono governati». Vasto programma.

Scala. Di valori, ovviamente. Quella che il premier suggerisce di ripensare e che Fazio vuole rimettere in ordine. E dove, al primo posto, figura «stare vicini alle persone a cui vogliamo bene». Se è in disordine stiamo lontano.

Virtù. Le migliori. Indispensabili a scalare i valori di cui sopra. «Fuor di retorica, se ne sente molta» ha scritto Veltroni. «Gli italiani stanno rispondendo al più lungo coprifuoco della loro storia mostrando le loro virtù migliori. Sobrietà, compostezza, umanità». E zero turpiloquio.

 

Panorama, 1 aprile 2020

 

 

Lo strano caso dell’on. Walter e mister(o) Veltroni

E poi c’è Veltroni. Walter Veltroni, con la W. Il sindaco di Roma, l’antagonista di Massimo D’Alema, la pietra angolare dell’Ulivo, il vice di Romano Prodi, il fondatore del Pd. Ex di tutto. Ma sempre presentissimo e protagonista. Creativo, poliedrico, instancabile. Ogni mese un’idea nuova, un libro, un documentario, un film. Per non parlare delle fluviali articolesse, ponderosi amarcord e ritrattoni con gli occhi al Novecento sul Corriere della Sera, o le intervistone e i commenti sulla Gazzetta dello Sport… L’ultima creazione, Fabrizio De André & Pfm. Il concerto ritrovato, sarà nelle sale cinematografiche il 17, il 18 (De André compirebbe ottant’anni) e il 19 febbraio: i fan si preparano ad assaltare le biglietterie. Walter Veltroni è un caso unico nel panorama politico-mediatico-cultural-intellettual-social… Campione mainstream, sempre neo qualcosa – regista, autore, giallista – ma anche post, pop e pure flop.

Con l’eccezione di Prodi, che ha messo la prua sul Quirinale, gli altri big della politica dell’epoca si sono defilati, hanno scelto un buen ritiro, una terrazza, una fondazione appartata. Massimo D’Alema ufficialmente lavoricchia con tutta la sua antipatica intelligenza a «Italianieuropei», salvo interessarsi di nomine di Stato dando qualche consiglio al premier. Piero Fassino dopo la sconfitta alle elezioni per la poltrona di sindaco di Torino si dedica alla Fondazione Italia Usa. Francesco Rutelli, predecessore di Uolter come primo cittadino di Roma, è presidente dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali). Altri storici sindaci ex comunisti come Antonio Bassolino e Sergio Cofferati si sono ritirati a vita privata. Come pure Nichi Vendola, altro astro del firmamento de sinistra, ora testimonial delle adozioni gay e dell’utero in affitto sul settimanale Chi? Poi ci sono Achille Occhetto, Rosy Bindi e Fausto Bertinotti che ha qualche anno in più e tiene conferenze in giro per l’Italia. Oliviero Diliberto, invece, coetaneo di WV, è tornato alla facoltà di Legge della Sapienza di Roma e, alla Giorgio Gaber, dice che, siccome «la mia generazione ha fallito, l’unico dovere morale è scomparire».

Chi conosce bene Veltroni dice che ce n’è un altro, meno noto e più gigione. Collezionista di figurine, tifoso sfegatato (della mainstreamica Juventus), goliarda, esperto, espertissimo di cinepanettoni. Purtroppo lui espone alla telecamera sempre il lato ispirato e buonista.

Più che un caso, il suo sembra un mistero. I suoi cimenti, le prove cinematografiche, autoriali e letterarie non si possono rubricare come successi, eppure… Il programma su Rai 1 Dieci cose, autunno 2016, annunciato da un’intervista su Repubblica umilmente intitolata «Così cambierò il sabato sera in tv», si arrampicò all’11% di share medio, puntualmente doppiato dallo show di Maria De Filippi su Canale 5. I film e documentari, uno all’anno dal 2014 in poi, prevalentemente trasmessi da Sky, non hanno certo sbancato il botteghino: Quando c’era Berlinguer (prodotto da Sky e Palomar, 620.000 euro al cinema), I bambini sanno (Sky, Wildside e Paolomar), Gli occhi cambiano (Rai), Indizi di felicità (Sky e Palomar, 60.000 euro), Tutto davanti a questi occhi (ancora Sky e Palomar), fino al vero e proprio film per il cinema, C’è tempo, con Stefano Fresi, che nel 2019 ha incassato 320.000 euro. Opere del Veltroni ispirato, immancabilmente accompagnate da benevole candidature ai Nastri d’argento o ai David di Donatello. Si sa come gira il fumo a Cinecittà. Nel frattempo, l’inesausto Uolter non ha trascurato la produzione letteraria sfornando, a ritmo annuale, accorati romanzi. Sconfinando infine nella narrativa noir con Assassinio a Villa Borghese (Marsilio), sempre in bella vista sui banconi cruciali delle librerie di catena.

Quindi: se le creazioni veltroniane non sono propriamente boom cinematografici o letterari come se ne spiega l’indefessa proliferazione? Lo strano caso dell’onorevole Walter e del mistero Veltroni è presto risolto: chi può dirgli di no? Realizzato da Except, puntuale come il carnevale, in questi giorni esce il documentario in cui l’ex vice di Prodi confeziona con prologo ed epilogo il filmato di Piero Frattari, un altro regista che il 3 gennaio 1979 riuscì a infilarsi al concerto di Genova con la Premiata Forneria Marconi. Alle preziose immagini, rispolverate dalla soffitta, Veltroni ha aggiunto la cornice narrativa e una serie di testimonianze di chi c’era, i musicisti della Pfm, Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida e Flavio Premoli, il fotografo Guido Harari, oltre, ovviamente, a Dori Ghezzi.

I giornaloni – chi può dirgli di no? – lo hanno annunciato come la scoperta del Sacro Graal. L’altro giorno SkySport24 ha allestito persino un salottino con Di Cioccio e Djivas per parlare di calcio da tifosi, ma anche del ritrovamento del concertone che ha segnato «l’incontro tra due diversità che sarebbero rimaste parallele se, a un certo punto, non fosse venuta la voglia di eliminare un recinto», ha buonisteggiato WV alla conferenza stampa. Dove, a chi gli chiedeva quanto pensa incasserà il nuovo documentario, ha replicato, piccato: «Non è detto che ciò che vende di più sia di per sé più bello». Quantità e qualità non sempre vanno a braccetto; giusto. Però, chissà cosa ne pensano i suoi produttori…

 

La Verità, 15 febbraio 2020

 

«Ho vissuto 8 vite, meglio rimorsi che rimpianti»

Gli abusi sessuali, la tentazione di farsi del male ogni giorno, il nazismo e l’infanzia in Uruguay, il cinema d’autore, David Mamet, le zie zitelle, la lobby dei pedofili, papa Francesco, la dittatura del politicamente corretto, Andy Warhol e David Bowie, C’eravamo tanto amati, i gesuiti di Milano, l’Eliseo laboratorio culturale, gli alcolisti anonimi, la madre scappata che mandava libri, La Recherche a 15 anni, Ce n’est qu’un début, Lucrezia Lante della Rovere e Marina Ripa di Meana, il teatro come catarsi, Nanni Moretti e i morettiani, la difficoltà di stargli vicino, il mio psicanalista diventerà pazzo, la lectio magistralis a Broadway, il Fondo unico per lo spettacolo, Muhammad Ali, Cercare segnali d’amore nell’universo

Luca Barbareschi apre file in continuazione, parla per metafore, fa connessioni, salti logici e temporali. Siamo nel suo ufficio nel labirintico ventre del Teatro Eliseo di Roma che ha acquistato cinque anni fa e di cui è direttore artistico. Ci sono anche Maria Letizia Maffei, capo ufficio stampa del teatro, e Monica Macchioni, responsabile della comunicazione di Barbareschi. «Mi sento un po’ sorvegliato», abbozzo. «Sorvegliano me», replica lui con ragione.

Primo file: Montevideo, Uruguay.

«La storia comincia con una nave di emigrati sulla quale salirono mio padre e mia madre che, come si dice, non venivano da soldi. Mio padre era il capo partigiano degli ebrei di Milano, mia madre un’ebrea tedesca. Pensavano che il nazismo non sarebbe mai finito – e avevano ragione: solo due giorni fa hanno massacrato di botte il capo rabbino di Buenos Aires. Partirono dopo la guerra… Anni dopo, sulla nave mia madre era incinta…».

Lei è del 1956, è un secondo viaggio?

«Esatto. Arrivati in Uruguay, mi ha scodellato. Ho vissuto fino a cinque anni a Montevideo, in una casa divertente, un seminterrato. Sopra abitavano il macellaio kosher e un antiquario ebreo che ci dava l’arredamento. Ma siccome i mobili li vendeva, vedevo la mia cameretta cambiare ogni tre o quattro mesi, un letto a muro, poi un lettone… La casa era in continua trasformazione, probabilmente l’amore per il teatro è nato lì».

Milano, Italia.

«I nazisti venivano a rifugiarsi in Sudamerica. Tornammo a Milano, dove ho vissuto fino a 18 anni, poi in America fino a 25».

Il liceo dei gesuiti Leone XIII.

«Mamma era scappata dopo un anno e mezzo e mio padre era in Medio Oriente a fabbricare aerei. Due zie, sorelle del nonno paterno, mi misero in collegio. Era frequentato dalla Milano bene, c’era un clima cupo, non si sapeva niente… Ero un bambino solo, volevo attenzioni come chiunque a quell’età. Un’età in cui non si ha consapevolezza, non si sa come comportarsi se un prete vuole toccarti. Tendi a fidarti. Per te sono esplorazioni, invece l’adulto sa di abusare. Ancora adesso, oltre i sessanta, vivo con il dubbio di essere colpevole, ogni giorno ho la tentazione di farmi del male».

Ha più rivisto il suo molestatore?

«È morto. Qualche anno fa sono andato a trovare il preside del Leone XIII. È tutto cambiato. Gli ho regalato Michael Kohlhaas, un racconto di Heinrich von Kleist ispirato a un episodio reale del sedicesimo secolo in cui un commerciante di cavalli, vittima di un sopruso di un potente, cerca giustizia per tutta la vita. Non volevo soldi, ma pubbliche scuse. Invece, mi ha minacciato. Per fortuna c’è il Papa».

Il Papa.

«Gesuita anche lui. Ha appena concluso il summit sulla pedofilia. Da qualche parte si deve cominciare, visto che in Italia non si fa niente. Siamo l’unico Paese dove i pedofili non vengono arrestati. La pedofilia è inguaribile, un adulto che violenta un bambino di quattro anni è malato. L’altro giorno in America uno ha chiesto di essere ucciso, perché ha detto che, prima o poi, l’avrebbe rifatto. Le racconto un fatto».

Prego.

«Sono stato a trovare una donna a Tor Bella Monaca. Una che fa le pulizie, semi analfabeta, con sette figli tutti ripetutamente violentati dal padre, che lei ha denunciato, facendolo condannare a 45 anni di galera. Bene: tutti i sette figli sono laureati. “Come ha fatto, signora?”. “Li ho portati tutti i sabati a trovare il padre in carcere. Ha sbagliato, ma un papà ce l’avete: voi potete diventare uomini migliori”. Dalle sventure si deve imparare. Sa che cosa mi ha insegnato Muhammad Ali?».

No.

«Quella mattina Gianni Minà non si era svegliato, così ci sono andato io e gli ho chiesto: “Chi è il campione?”. Per risposta mi ha dato un jeb, piano, al plesso solare. Mi sono afflosciato come un sacco vuoto. “Stand up, stand up”, urlava. Quando mi sono alzato, ha detto: “Now, you are a champion” (Ora tu sei un campione ndr)».

Secondo file: gioventù e militanze varie.

«La politica non mi appassionava. Fino a 15, 16 anni mia madre continuava a mandarmi libri. Era il suo modo di dimostrarmi che mi voleva bene. A 15 anni avevo letto Franz Kafka e Alla ricerca del tempo perduto. Sono cresciuto a pane e Leonardo Sciascia, pane e Claudio Magris, la terza del Corriere…».

Niente politica.

«Nel Movimento studentesco c’erano le ragazze più belle, ma le scarpe inglesi mi hanno tradito. Andai a una manifestazione, San Babila e la Statale sono vicine, indossando l’eskimo. “Ciao, tu sei un compagno? Non ti ho mai visto…”. “Certo”, alzai il pugno, ma lui abbassò gli occhi e vide le Church. Mi menarono. Alla prima vetrina rotta mio padre mi chiuse in casa. Io scandivo “Ce n’est qu’un debut”, “Marx, Lenin, Ho Chi-Minh”, lui urlava: “Chi è Lenin?”. Io zitto, lui giù un ceffone. “Chi è Ho Chi-Min?”. Ancora muto, altro ceffone. Ripetevo slogan da idiota. La contestazione con Mario Capanna era così. Qualche anno fa l’ho incontrato a giocare a golf al Miramonti di Cortina».

Dopo i ceffoni prese altre strade?

«Mi piaceva il motocross. E leggere, come le dicevo. Poi la musica, vede le chitarre, il sax… Sono polistrumentista, mio padre suonava con Franco Cerri e Lelio Luttazzi».

Altro file: l’America. Perché non è rimasto a vivere lì?

«Facevo il cameriere e lavoravo un po’ per la televisione. Interviste, come quella a Cassius Clay… Studiavo all’Actors studio. I docenti erano Dustin Hoffman, Elia Kazan, Shelley Winters, Paul Newman. Per restare in America devi diventare americano nella testa. Io ero troppo europeo. Non riuscivo a integrarmi fino in fondo, fu una decisione sofferta».

Tornato in Italia…

«Sono precipitato in una palude di veti e odi politici, dove l’arte non è contemplata. Le nostre piazze sono piene di monumenti a statisti che nessuno ricorda, mentre ci ricordiamo di Michelangelo e Caravaggio. Eppure continuiamo ad accapigliarci solo per la politica».

È per questo che continua ad andare a Los Angeles?

«La mia società produce spettacoli lì, ma siamo artisti non impiegati. Il 12 febbraio 2006 ho tenuto una Lectio magistralis a Broadway, fu una grande emozione. Ero a New York vent’anni prima da pischello, se me l’avessero detto non ci avrei creduto. C’era Anna Strasberg, Al Pacino stava facendo China doll. Fu commovente».

Lucrezia Lante della Rovere.

«Era una donna talmente bella. Inevitabile l’invidia. Eravamo belli anche insieme, a teatro c’erano le code. La gente vive di fiabe. Certe passioni nascono nei momenti d’infelicità, s’instaurano delle alchimie. Ero il suo pigmalione. Mi era simpatica anche sua madre, Marina Ripa di Meana».

Bel match di caratteri.

«Per lei il teatro era il mondo, prendeva in giro tutti, metteva in piazza il privato. Una volta dovevamo festeggiare il compleanno di Lucrezia. Mi aveva giurato che saremmo stati solo noi quattro, con Carlo (Ripa di Meana ndr). Entrati in salotto eravamo su La vita in diretta di Rai 1. Allora dissi a Marina: “La prossima volta che fai piangere Lucrezia ti meno”. Da quel giorno mi ha ribattezzato “Il ceffo”. Però mi adorava».

Perché finì con Lucrezia? Chissà quante ne avrà combinate.

«No, è che è difficile stare con me. Sono esigente, nessuno ci obbliga a recitare o a suonare, ma se scegli di farlo non ci sono mediazioni. Era vulcanica e umorale, ma non riusciva a reggere le mie pretese. È diventata un’ottima attrice».

Non s’è fatto mancare niente.

«Mai rimpianti, piuttosto rimorsi».

Che si pagano.

«Ho vissuto sette, otto vite meravigliose. Vede quella foto? È il ricordo del concerto dei Velvet Underground al Max’s di Kansas City autografato da Andy Warhol. Ero un ragazzo, ero seduto vicino a David Bowie».

E gli alcolisti anonimi?

«Ti aiutano a condividere il dolore. Ho fatto un periodo di rehab a trent’anni. Andavo avanti indietro da Los Angeles. Gli psichiatri dicono che l’inizio della cura è quando realizzi di avere un problema. Alcol e cocaina pensi di gestirli, sbagliando. Andai da uno psichiatra a Londra, mi diede un libro e iniziò a parlarmi di me. “Qualcuno le ha telefonato, come fa a sapere queste cose?”. “Crede di essere unico? Lei rientra in una casistica molto comune”. Siamo cresciuti con il mito di Jimi Hendrix e James Dean, ma l’eroismo del nostro male non esiste».

Cioè?

«Autocompiacimento: pensiamo che la nostra dannazione sia epica e romantica. I media costruiscono il mito del bello e dannato. Ma morto. Sembra che cantino bene perché sono tormentati. Sono convinto che canterebbero meglio se fossero sani. Soprattutto, canterebbero ancora. Sa qual è il vero problema?».

Sentiamo.

«La mancanza del padre. Non ho ancora trovato uno schema narrativo che spieghi tutto questo meglio della storia di Edipo. Tanto più in Italia, dove ci sono madri possessive e invadenti».

Non il suo caso.

«Io sono uno strano esperimento genetico. Mia moglie dice che impazzirà anche il mio psichiatra. In realtà, mi curo con il teatro, che è una palestra dell’anima che funziona a contrasto. La gente va in palestra per caricarsi di pesi, io a teatro mi alleggerisco l’anima».

Il suo momento di massima popolarità fu con le liti finte di C’eravamo tanto amati?

«Ma no… In televisione ho fatto anche altro… Ricordo un Io contro tutti da Maurizio Costanzo sulla pubblicità nei film. Lo slogan era “non s’interrompe un’emozione”. Citai le campagne pubblicitarie firmate da Woody Allen, Wim Wenders, Federico Fellini. Walter Veltroni replicò che quella era un’emozione commerciale. Ecco: la doppia morale, il conformismo di sinistra, quello per cui oggi uno come Ennio Flaiano, per dire, viene celebrato solo in Svizzera. Al cinema ho fatto Summertime di Massimo Mazzucco che vinse a Venezia come opera prima, Bye Bye Baby di Enrico Oldoini, In nome del popolo sovrano di Luigi Magni…».

Si spalanca la porta ed entrano Vittorio Sgarbi, Sabrina Colle e Stefano Lucchini, potente direttore delle relazioni esterne di Banca Intesa. Loro sono reduci da un dibattito con il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli, io vedo in pericolo la prosecuzione dell’intervista. Invece no, dopo qualche minuto di saluti e di scambio d’informazioni, si congedano.

Nuovo file: Banca Intesa.

«È uno dei principali sponsor dell’Eliseo. Con l’approvazione del ministro Bonisoli stiamo preparando un progetto per Roma. Se fossimo in un Paese normale parlerei di lobby virtuosa, ma qui si ha paura solo a pronunciare la parola. Comunque, è il miglior media desk d’Europa. Abbiamo fatto insieme quattro film e tre fiction. L’Eliseo è un luogo di condivisione, un luogo per la comunità, un pezzo di storia di Roma e della cultura italiana. Negli archivi ho trovato i carteggi tra Harold Pinter e Luchino Visconti, le foto di Igor Stravinski. I politici intelligenti se ne accorgono. In questo studio si sono seduti tre presidenti del consiglio, sono venuti il ministro Giovanni Tria e Matteo Salvini».

Gode di un trattamento di favore? Cosa mi dice dell’avviso di garanzia per traffico di influenze?

«Confido nell’opera della magistratura. Anche perché quale sarebbe il reato? Il fatto che passo il tempo a tentare di convincere i politici che la cultura ha bisogno di finanziamenti? È una cosa quasi comica. L’Eliseo è un Tric, un Teatro di rilevante interesse culturale, ce ne sono 18 in tutta Italia, costa 5,6 milioni all’anno, un terzo del Piccolo di Milano e la metà del Teatro Argentina di Roma. Improvvisamente, dal 2015 il contributo del Fus (Fondo unico dello spettacolo ndr) si è ridotto a un terzo dell’entità precedente, proprio mentre si avvicinava il centenario. Abbiamo parametri di qualità uguali o superiori a quelli di teatri che ricevono ben più di noi. Sono stanco di prendere lezioni di morale da chi paga gli attori in nero. Se la finanza controllasse i borderò di tutti rideremmo parecchio. Sfido i miei colleghi dei teatri lirici e non a un confronto dal vivo in televisione su questi argomenti. Scommetto che nessuno si presenterà».

Quando faceva politica in An si occupava di questi temi. Poi?

«Ci ho creduto, ma poi tutto si è impantanato. Siamo stati commissariati dall’Europa con Mario Monti. Quelli che mi davano lezioni di bon ton democratico, Italo Bocchino e Gianfranco Fini, mi pare abbiano qualche problema. Tornerei domani in politica se esistesse la possibilità di farla sul serio».

Adesso c’è il governo gialloblù.

«Salvini è uno che non vende fumo. Siccome è un campo che non conosce, non parla di cultura e di cinema. L’Eliseo è un laboratorio culturale del Paese. Luoghi come questi sono carne viva, determinano la qualità della convivenza civile. Credo che questo discorso Salvini e il premier Giuseppe Conte lo capiscano molto bene».

Cosa pensa del cambiamento scaturito dal voto del 4 marzo scorso?

«Penso tristemente che non ci sia nessun cambiamento. Ovvio che la politica precedente, da destra a sinistra, ha fallito. Stentiamo ancora a diventare un Paese coeso. Mettiamola in positivo: mi auguro che nei vari settori scelgano per competenza e non per appartenenza».

Paolo Savona, Giovanni Tria non sono competenti?

«Certo che sì. La politica sceglie i politici. Ma poi sono le nomine in Rai, in Finmeccanica, all’Eni a fare la differenza. L’impasse della Tav di questi giorni è ridicola. I grandi progetti devono avere una visione ampia. Che non può essere la decrescita felice, ma la crescita responsabile».

Auspica il ritorno di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi?

«Credo che ci siano delle stagioni. Berlusconi al massimo può fare il padre nobile. Renzi mi piaceva. Se dovessi dare un consiglio non richiesto gli direi di sparire davvero per due anni, senza incancrenirsi in risse e litigi. Se hai fatto degli errori, devi fermarti. Tra due anni sarà ancora giovane».

Fausto Brizzi, da poco scagionato dalle accuse di molestie sessuali, è davvero un genio come ha detto?

«Certo, per questo dirige la divisione cinema dell’Eliseo. È un grande showrunner, uno che corre più di me, un uomo generoso. È la prima volta che lavoro con un regista che mi presenta altri registi, a suo dire migliori di lui».

Il Me too.

«Chiacchiere e distintivo. Peggio: ha fatto del male alle donne qualsiasi molestate nei supermercati o nelle imprese di pulizia. 26 anni fa ho fatto uno spettacolo intitolato Oleanna, scritto da David Mamet. Era la storia di una carezza verbale trasformata in stupro psicologico. Prima c’era stato il caso di Popi Saracino, il professore che secondo l’accusa aveva violentato una sua allieva. Ora, ci sono le rivelazioni a scoppio ritardato: trent’anni fa mi hai palpato una tetta… È una forma d’involuzione del pensiero politicamente corretto. In Gran Bretagna una docente nera, lesbica e di sinistra improvvisamente non può più insegnare in università perché si è espressa contro le associazioni Lgbt. Capisce? Si avvera la profezia di George Orwell secondo la quale avremmo inventato una lingua che ci avrebbe permesso di parlare senza esercitare lo spirito critico».

Ho visto delle foto sue a una serata con Alessandro Baricco, Francesco Piccolo, Ritanna Armeni: era completamente a suo agio?

«Sì, perché ero a casa mia. Il giorno dell’apertura dell’Eliseo, cinque anni fa, c’erano Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Silvio Orlando e tutto il cinema d’autore. Avrei potuto fare lo spavaldo oppure dire: “Da oggi c’è un posto non dogmatico, questa è casa vostra”, come ho fatto. È venuto giù il teatro… Io guardo al prodotto non per chi votano i registi. Quelli che danno lezioni sul cinema d’autore spesso fanno il procedimento inverso».

La solita doppia morale?

«Se Moretti fa un bel film lo applaudo. Il guaio, semmai, sono i morettiani e gli imitatori. Se lo fa Barbareschi, è sempre un film di Barbareschi. Per capirci, senza far paragoni, non giudico il Faust in base al fatto che Wolfgang Amadeus Mozart era coprofilo. Tra 50 anni potrebbero distruggere quello che ho fatto come artista in base alle mie debolezze e farla pagare ai miei figli».

Si fa o no la serie tv su Calciopoli?

«Sì, per Sky, sarà pronta tra un anno. Ma non sarà su Luciano Moggi, scudetti e partite comprate, come la volevo. Sarà sui procuratori. Le società incombono, la Fiat e non solo. Mi accontento. Siamo un Paese che non vuole diventare adulto».

Il suo romanzo autobiografico s’intitola Cercando segnali d’amore nell’universo: vasto programma. Cercarlo nei posti giusti a portata di mano?

«Infatti, l’ho trovato in mia moglie che è la donna della mia vita. Solo una calabrese può stare vicino a un ebreo come me. Donna straordinaria e tostissima».

Attore, regista e produttore teatrale, televisivo e cinematografico, in Italia e negli Stati Uniti, direttore artistico… chi è Luca Barbareschi?

«Come dice Walt Whitman: “Sono vasto, contengo moltitudini”. Oppure, altra definizione, ognuno ha la testa bacata a modo suo».

 

La Verità, 3 marzo 2019