Tag Archivio per: virologi

«Senza conformismo non risulterei provocatorio»

Buonasera. Scusate la voce. È la mia». Esordisce così Saverio Raimondo nello show Il satiro parlante, visibile su Netflix. «Del resto», prosegue, «ho preso la voce da mio padre che è un delfino mentre mia madre è un gabbiano. Voi direte: con quella voce non dovresti parlare in pubblico. Vero. Ma con il fisico che mi ritrovo potevo fare o il comico o il nano nei film porno. Ho sempre sbagliato tutto nella vita. Ed eccoci qui. Sono il secondo di tre figli, mia madre voleva una femmina e mio padre un aborto. Si misero d’accordo per abortire una femmina e io li ho delusi». Saverio Raimondo è il più caustico e sulfureo dei comici in circolazione e Il satiro parlante è un gioiello di anticonformismo. A cominciare da quando suggerisce agli spettatori di ridere e applaudire fragorosamente, indipendentemente dall’efficacia delle sue gag, per non «fare la figura del pubblico di merda». In fondo, dice Raimondo, «vi chiedo solo un’ora d’ipocrisia in più rispetto alle altre 23 della vostra giornata». Dal 18 giugno su Disney+ sarà disponibile in streaming Luca, il nuovo cartoon della Pixar ambientato nelle Cinque terre, scritto e diretto da Enrico Casarosa. Mentre il 19 e il 20 ripartirà in tour da Senigallia e Carpi.

Con questa voce non può che doppiare i cattivi?

«Fin da bambino ho sempre preferito i cattivi, per me hanno sempre avuto più fascino. Oggi i buoni sono antieroici e quindi contendono un po’ di carisma ai cattivi. Già a nove anni ho interpretato Scar del Re Leone in una recita scolastica, una cosa miserabile…».

Cattivo fin da piccolo?

«Umanamente sono un buono. Ma la mia satira si distingue per una nota cinica, perfida e anche feroce, se possibile».

Dura andare contro tutto questo buonismo?

«Mai stato facile essere scorretti. Chi si lamenta del politicamente corretto montante o si è svegliato tardi o ha poca memoria. Per chi fa il mio lavoro misurarsi con il conformismo è stimolante. La comicità è una corsa a ostacoli. Senza, non riuscirei a essere provocatorio».

Il politicamente corretto facilita i comici e affligge le persone comuni? Non si può più dire niente…

«Dipende dal contesto. A volte un’espressione che supera la censura della tv viene contestata sui social. Così la libertà di parola si abbina alla libertà di movimento. Chi può esprimere la propria opinione nel più ampio spettro dei media gode della massima libertà. Tant’è vero che si può dire che non si può più dire niente. Una volta i censori erano figure grigie, adesso chiunque assurge a censore e anche questo, paradossalmente, è sintomo di grande libertà».

Nel cartoon Luca presta la sua voce insolente a Ercole Visconti, un bullo che se la prende con i due ragazzini protagonisti della storia.

«La mia voce è insolente per natura e anch’io sono stato discriminato a causa sua. Sono contento che un’eccellenza come la Pixar ne abbia colto il lato positivo. Perché se è vero che Nemo è profeta in patria, è anche vero che ci vuole orecchio per cogliere le voci fuori dal coro».

Sta per caso parlando di Mario Giordano?

«Potremmo incidere insieme una hit estiva, creando un duo di voci bianche».

Anche l’umorismo nero è nella sua natura: quando se n’è accorto la prima volta?

«L’umorismo nero lo scopri quando ti accorgi che la morte, la malattia e la disgrazia appartengono al nostro sistema immunitario. È un anticorpo che serve ad affrontare le curve della vita. A me non piace come esercizio umoristico, ma quando coinvolge il comico che lo usa».

Perché la sua satira non è livida e livorosa?

«Perché non nasce dalla rabbia. Se nella vita subisco un torto non provo rabbia, ma mi dispiaccio. Credo che la satira sia frutto di un lavoro, mentre la rabbia è un sentimento non elaborato».

Il suo bersaglio principale è l’ipocrisia?

«Sì, ma in senso paradossale. Ciò che non digerisco è l’ipocrisia sull’ipocrisia, cioè la condanna ipocrita all’ipocrisia».

Esempio?

«Considero l’ipocrisia una conquista sociale. Sono regole più o meno implicite per vivere in una società nella maniera meno violenta possibile. Condannare l’ipocrisia come uno dei grandi mali sociali è ipocrita perché, in realtà, tutto sommato ci fa bene. La buona educazione è ipocrita: molti di noi sono educati anche quando non verrebbe spontaneo».

Parlando del linguaggio corrente lei dice diversamente abili al posto di handicappati?

«Bisogna cogliere le sfumature. Dire handicappato nel mio caso non è ironizzare su di lui, ma su chi si esprime con quel termine».

Gabriele Salvatores e Carlo Verdone si ribellano al politicamente corretto perché rende più difficile far ridere.

«Chi l’ha detto che il comico sia un lavoro semplice? Personalmente trovo stimolante quando il gioco si fa duro. Il moralismo d’accatto e accattone che ci circonda m’ispira perché sono un saltatore d’ostacoli. Ok, ci sono persone che si offendono per una battuta. E poi? O si sono violate davvero delle leggi e si va sul penale, oppure parte l’onda di proteste su Twitter. In fondo, non è così grave: sopravvivono sia l’offeso sia l’offensore. La missione del comico è la provocazione, trovo ridicolo che si stupisca che la sua provocazione provochi».

Fra qualche anno il cattivo del cartoon Luca verrà cancellato dai censori di turno?

«Forse già fra qualche mese».

Come il principe azzurro di Biancaneve che ora passa per molestatore.

«Però è sempre lì, scopa lo stesso e se ne frega».

È ipocrisia quella di alcuni suoi colleghi satirici che in spogliatoio anziché contare i centimetri del pisello contano le censure subite?

«Certo. Le denunce per mancanza di libertà d’espressione sono un’espressione della libertà d’espressione».

Come nel caso di Fedez che si è detto censurato dalla Rai nei programmi Rai?

«Esatto. Quella volta hanno fatto tutti una figura buffa, e noi abbiamo visto che la libertà di parola è confrontarsi, non aprire bocca senza criterio. Anzi, lì forse abbiamo visto all’opera troppe libertà. Compresa quella di registrare una telefonata in incognita».

Per trafiggere un politico bastano poche parole anche senza imitazioni e travestimenti?

«Sì, ma trovo che stiamo sopravvalutando le parole. È vero che hanno un peso, ma non credo che siano così taglienti come le riteniamo».

Anche perché ora i politici fanno i simpatici.

«Rendendosi tremendamente antipatici. Non c’è niente di più antipatico della simpatia, come i comici ben sanno. L’esempio di Paolo Villaggio grande antipatico spiega tutto».

Letta vuole il Pd empatico.

«Operazione disperata».

È difficile far ridere sulla pandemia?

«Per me è un soggetto di grande ispirazione. All’inizio, c’era molto moralismo, ma adesso che la retorica è caduta c’è voglia di ridere in faccia al virus. Che, fortunatamente, per la maggioranza è stato un disagio più che una tragedia».

Che cosa l’ha divertita di più?

«Da cittadino ho trovato divertente il modo paternalistico e propagandistico in cui è stata gestita dal precedente governo. Nei tg si vedevano i camion di fiale dei vaccini che attraversavano il Brennero, sembravano notizie del traffico… Come essere umano mi ha divertito la nostra goffaggine alle prese con distanziamenti, mascherine, gel igienizzanti…».

L’unico rimedio trovato dal progresso scientifico è stato chiuderci in casa?

«È piuttosto triste. All’inizio la quarantena era necessaria. Ma averla adottata con disinvoltura a distanza di mesi ha tolto autorevolezza della comunità scientifica. Il fatto più ridicolo però è il tentativo della politica di gestire il virus con la burocrazia».

Tipo?

«Le autocertificazioni. E il coprifuoco alle 18 che è lì in tutta la sua ridicolaggine».

L’unica cosa da chiudere di sicuro erano le bocche dei virologi che si contraddicevano?

«Ho spesso pensato che molti virologi nella loro esposizione mediatica abbiano fatto più male alla scienza dei no vax».

Anche perché i no vax non hanno la patente della scienza infusa.

«E vanno meno in televisione, fortunatamente».

Chi è il virologo che ha trovato più comico?

«Massimo Galli: borbottava sempre e andava in tv a dire che non voleva andare in tv».

Risorgerà il mondo di prima, cinema discoteche e stadi, o è un mondo vintage?

«Penso che ritornerà. Mi colpisce il fatto che non siamo stati in grado d’inventarci un nuovo mondo, ma stiamo lavorando per far tornare quello di prima. Forse non era così male, è il massimo che riusciamo a fare noi umani. Un mondo con dei limiti e dei lati oscuri che vanno accettati. Credo ci voglia un po’ di sana rassegnazione».

Qual è il segreto del Pd che perde le elezioni ma governa sempre?

«Mi verrebbe da dire: fortunatamente. Credo nei pesi e contrappesi delle istituzioni. E quindi anche che il potere degli elettori vada limitato».

Niente voto ai sedicenni come propone Letta?

«Sono per limitare il voto più che per estenderlo perché credo che si eserciti in modo emotivo e scriteriato».

Cosa pensa dell’Erasmus obbligatorio?

«Che nessuna bella esperienza, com’è l’Erasmus, possa restare bella se resa obbligatoria».

Dopo la Lega europeista vedremo Salvini vegano?

«I selfie con il seitan non li ho ancora visti. Salvini cambia opinione velocemente, potrebbe tornare antieuropeista in pochi secondi».

Federazione del centrodestra: 2 più 2 fa 4 o 0 come dice Bossi?

«Ho fatto lo scientifico e quindi dovrei sapere la risposta. In realtà, la politica non risponde alle regole della matematica».

Del caos nel M5s tra Grillo, Casaleggio, Conte, Di Maio e Jean Jacques Rousseau cos’ha capito?

«Non mi ha appassionato, ma mi sono fatto qualche risata amara. Sospetto che il M5s non sia in difficoltà come si racconta. Un po’ come il Pd che si dice in crisi da 50 anni e c’è sempre. Magari la crisi è la nuova forza e loro sanno qualcosa che noi non sappiamo».

Nel suo spettacolo dice che le battute contro i 5 stelle sono vietate come quelle sugli handicappati, stavolta parola sua.

«Vero. Anche le notizie recenti non mi smentiscono. Di fronte a persone inadeguate e inadatte avremmo fatto meglio a parcheggiare sugli spazi riservati».

Collabora con Massimo Gramellini su Rai 3, con Porta a porta di Bruno Vespa e fa Pigiama rave su Rai 4: è uno stand up comedian mainstream?

«No, sono la dimostrazione che anche coltivando la nicchia si può lavorare. Per me non è importante il successo, ma lavorare. Perché alla fine del mese la padrona di casa non mi chiede quanti follower ho, ma l’affitto».

La Verità, 12 giugno 2021

Anziani, cisgender, virologi Parolario del 2020

Il 2020, il più tragico bisestile dell’ultimo secolo, sarà ricordato come l’anno della pandemia, della nascita del movimento Black Lives Matter, delle morti di Diego Armando Maradona e di Paolo Rossi. Difficile che il parolario che lo riassume possa essere molto spensierato. Anche perché, alle tragedie vere, si aggiunge quella artificiale del politicamente corretto, nemico del buon senso.

 Anziani. Non è un paese per… Vecchi è troppo dispregiativo. Come ha scritto Ferdinando Camon in A ottant’anni se non muori t’ammazzano, nelle terapie intensive i medici sono indotti a scegliere morti più accettabili di altre. In generale, i vecchi sono messi al margine e accompagnati soavemente all’uscita. Ora a fare il lavoro sporco c’è il virus: l’età media dei decessi è 81 anni. Chiamati anziani, trattati da vecchi. Neolingua di George Orwell.

 App. Abbreviazione di applicazione che, a sua volta deriva da Apple… Anzi no, ma quasi. Apple, infatti, significa mela e avendone scelta per logo una morsicata, il marchio di Cupertino sbandiera il peccato originale. Quello mortale delle app «Immuni» e «Io», volute dal governo ancora in carica, è che t’infilano in un ginepraio districabile solo con l’ausilio di un tecnico della Nasa. Cashback o Crashback?

Balconi. Luogo di resistenza collettiva o solitaria durante il primo confinamento. Misto di folclore e conformismo colorito di bandiere arcobaleno, Andràtuttobene, Fratelli d’Italia e altri inni, non sempre nazionali. Desolatamente vuoti nella seconda ondata.

Bancoscontri. Ovvero i famigerati banchi a rotelle voluti dal ministro Lucia Azzolina. Plastico esempio del distacco dalla realtà del governo tuttora in carica. Dovrebbero servire al distanziamento tra gli alunni, ma arrivano fuori tempo massimo. Normali banchi monoposto pronti all’uso sono meno coreografici.

Black Lives Matter. Movimento nato in America dopo la morte di George Perry Floyd procurata da un poliziotto di Minneapolis. Il fatto suscita giusta indignazione in tutto il mondo. Negli Stati uniti il Black Lives Matter origina un secondo movimento, denominato Cancel culture, la cancellazione anche retroattiva di persone e realtà ritenute ostili alle minoranze di razza e di genere. Tra i suoi esiti l’abbattimento delle statue di Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt, l’eliminazione dagli archivi delle piattaforme streaming di Via col vento e l’epurazione dalle testate liberal dei giornalisti non allineati. In Svizzera l’azienda dolciaria Dobler cessa la vendita degli storici Moretti. Tragicomica senza riparo.

Cisgender. Neologismo inserito nell’aggiornamento del dizionario Devoto Oli. Indica quegli stravaganti esseri umani che, crescendo, confermano il sesso della nascita. Uomini che si sentono maschi e donne che si sentono femmine. Grazie alla cultura gender e alla narrazione arcobaleno, il mantenimento del sesso originale diventa una delle infinite varianti. In questi casi l’inglese viene sempre in soccorso.

 Crisi. Di governo. Ciclicamente evocata, minacciata, infine posticipata. Raramente paventata in modo meno credibile. Con l’epidemia in corso e la vaccinazione in arrivo non si può certo andare a votare. Per i partner di governo incollati alle poltrone dal terror panico della non rielezione e del successo del centrodestra l’alibi è perfetto. Vedi rimpasto.

Decrescita. Fiaba narrata da qualche pifferaio magico in disarmo che, tuttavia, ammalia frotte di politici dotati d’istruzione in modica quantità. Abbinata all’aggettivo «felice» forma l’ossimoro meno componibile del Terzo millennio. Lingua delle favole.

Discoteche. Luoghi del male. Focolai della seconda ondata. Quelle della Costa Smeralda, in particolare. Il Billionaire e i suoi gemelli. Per dire, nelle discoteche del Salento è filato tutto liscio. Ma in Puglia non c’è Flavio Briatore. E soprattutto a settembre ci sono le regionali.

Dpcm. Decreto del presidente del consiglio dei ministri. Uno dei tanti acronimi di cui consiste la comunicazione del governo in carica. Che di solito si estrinseca nel «Casalino show», format ordito dal portavoce di Palazzo Chigi nel quale il premier dovrebbe annunciare le prescrizioni per i cittadini, ma poi risponde alle domande sulle cene con la sua fidanzata. La decodifica delle norme è il sinistro rompicapo delle festività. Lingua della supercazzola.

Ecosostenibile. Parola magica che apre ogni porta. Secondo il verbo, condiviso anche da papa Bergoglio, del premio Nobel mancato Greta Thunberg, qualsiasi creazione, da una linea dell’Alta velocità a una pagnotta casalinga, dev’essere tassativamente ecosostenibile o almeno «bio». Ecologia nuova religione universale.

Ferragnez. Un tempo si sarebbe scritto Ferragni & Fedez. Ditta di influencer, fuoriclasse del marketing. La legge del privato che è pubblico non risparmia il di loro pargoletto. Versando 100.000 euro, avviano una raccolta fondi a sostegno del reparto di terapia intensiva del San Raffaele di Milano. Premiati con l’Ambrogino d’oro. Lui scivola nella beneficenza esibita filmandosi in Lamborghini mentre distribuisce 5.000 euro a 5 sconosciuti. Crasi milionaria e furbetta.

Giganti. Del web. Trionfatori della lotteria della pandemia. Chiusi in casa, siamo perennemente connessi. Tutto avviene online. Mentre il Pil mondiale crolla del 10% le 90 maggiori aziende dell’informatica aumentano il profitto di 800 miliardi. Pagando le tasse nei paradisi fiscali.

Inglaliano. O italiese. Lingua della quotidianità, misto di italiano e inglese. Ma non c’è integrazione perché, mentre la popolazione continua a usare l’italiano, il Palazzo comunica british. Sembra che dette così – Task force, Green New Deal, Recovery fund, Cashback, Next Generation Eu – siano realtà di simultanea realizzazione. Ma l’inglese non è la bacchetta magica di Harry Potter. Infatti lentezze, cavilli, conflitti interpretativi, burocrazie, ponti che crollano e vaffa sono sempre in italiano.

Involtini. Primavera. Addentati in favor di telecamera da alcuni conduttori di La7. Il nemico da sconfiggere è il razzismo anticinese, non il virus. Prelibatezza esotica per paladini della correttezza politica.

Mascherina. Dispositivo salvavita. Ora. All’inizio dell’epidemia è ritenuto inutile anche da certi soloni dell’Oms. Nel febbraio scorso ne abbiamo spedite gratuitamente parecchie tonnellate in Cina. Salvo poi cercarle invano quando sono divenute imprescindibili.

Negazionisti. Fino al 2019 erano coloro che negavano l’Olocausto. Con la comparsa del Covid sono anche le frange di complottardi no-mask e teorici da «è tutta una montatura». In ritirata dopo la seconda ondata. L’anatema viene riciclato contro chi eccepisce sulla gestione dell’emergenza.

Paura. Da emozione infantile e da film horror a sentimento planetario. Se non si trasforma in panico può essere salutare, suggerendo prudenza. A volte produce effetti collaterali positivi, come per il governo tuttora bizzarramente in carica, non a caso ribattezzato il governo delle tre paure: del Covid, di perdere la cadrega, dell’uomo nero Salvini. Fumetto dark.

Primula. È la forma dei gazebi dove sarà somministrato il vaccino. Un fiore di color ciclamino(?) ornerà i presidi per l’immunizzazione. Come nel caso dei banchi a rotelle, dei monopattini e delle app, il governo giallorosso tiene molto all’estetica. Si spera che sotto le primule si trovino anche le siringhe e le celle frigorifere.

Rimpasto. Rimpastino. Riassetto. Verifica. Tagliando. Adeguamento. Cambio di passo. Allargamento della squadra. Con il ritorno del teatrino della politica e del governo di palazzo si è rispolverato l’intero vocabolario della Prima repubblica. Tornano anche i pontieri, i tessitori, gli sherpa, i consigliori e i sussurratori come Goffredo Bettini e Gianni Letta. Rimpasti, rimpastini, rimpastati. Lessi, bolliti e ribolliti.

Sardine. Assembramento antisalviniano. Movimento detentore del record mondiale di anacronismo. Desaparecido.

Sessismo. Anatema intermittente a seconda dei soggetti coinvolti. Confronta il trattamento subito da Mauro Corona dopo il «taci gallina!» rivolto a Bianca Berlinguer nella concitazione di #cartabianca con quello avuto da Luciana Littizzetto per il pezzo su Wanda Nara nuda a cavallo che ha suscitato la domanda «il pomello della sella dov’è finito?». I buoni fanno satira e hanno sempre carta bianca.

Stati generali. Nel clima da Rivoluzione francese in cui ci ha catapultato il governo curiosamente in carica, politici, banchieri ed eurocrati sono stati convocati a Villa Pamphilj per «progettare il rilancio» del Paese. Per le indagini sulla scomparsa del piano redatto da Vittorio Colao è stata creata una task force che include Indiana Jones, Ultimo e Federica Sciarelli.

Task force. Organismo affiancato ai vari ministeri per velocizzare l’applicazione dei rispettivi programmi. In realtà, generatore di burocrazie parallele e nuove clientele. Teoricamente significa unità operativa, in pratica è causa d’inestricabili conflitti amministrativi. Ne servirà una nuova per coordinarle tutte?

Virologi. Neosacerdoti del Comitato di salute pubblica. Brancolano nel buio come gli investigatori, ma pontificano come oracoli. C’è il talebano della chiusura totale, il profeta delle ondate, il pasdaran dei tamponi, l’oltranzista del virus sconfitto. La pandemia trascolora in commedia dell’arte. E adotta la lingua di Totò quando il ministro degli Esteri, possibile futuro premier, parla di «vairus». La farsa continua.

 

Panorama, 20 dicembre 2020 (versione integrale)

«L’industria dell’eros ha ucciso la passione»

Lunga vita a Barbara Alberti. Scrittrice, sceneggiatrice, regista, titolare della posta del cuore, commentatrice di fatti di costume. Soprattutto, demolitrice di luoghi comuni. Ribelle al politicamente corretto. Anticonformista senza codici. Anarchica a tutto campo. Basta leggere i suoi interventi su Vanity Fair, bibbia del conformismo glam nella quale, fortunatamente, resiste qualche isola trasgressiva (la rubrica di Roberto D’Agostino). Nell’ultimo articolo, in una sorta di dialogo con l’aldilà, Alberti ha scritto che l’eros «è morto in un portone, dimenticato. Non era più il putto con la faretra, ma un vecchio clochard avvolto in un cappottone pieno di buchi».

Chi l’ha lasciato morire?

«Non posso che risponderle con le parole pronunciate dallo stesso Eros in quell’articolo: “Siete stati voi. Ero il dio del mistero, avete fatto di me un articolo di mercato. L’industria del sesso è tutta contro di me. Sono riusciti a vincere la mia immortalità. Hanno reso finito l’infinito. C’è una congiura mondiale per abbattermi”».

Quand’è iniziata e perché quest’agonia?

«È iniziata quando l’eros è diventato un affare pubblico, un blasone, uno status, qualcosa da sbandierare, un’infinita chiacchiera, un “bavardage sur le sexe”, parafrasando Roland Barthes. Ma le pare sensato che se in una coppia muore il desiderio, invece di fare i conti col proprio rapporto, si ricorra a un estraneo, un sessuologo, e si aspetti da lui la soluzione? Una ragazza molto schietta anzi ruspante, non più desiderata dal marito, dopo anni di castità forzata, quando lui le propose di andare insieme dal sessuologo, esasperata rispose: “E che può fare per noi? Giusto se mi scopa!”. C’è della verità in questa rozzezza. Tra parentesi: in caso di disturbi funzionali, farsi curare è ottima cosa».

Nei giornali, nelle riviste, nella pubblicità, nei social non si parla d’altro: l’industria erotica smorza la passione?

«Che bella parola fuori moda: passione. Evoca incontri clandestini, relazioni pericolose, struggimento, attesa, desiderio… Riguarda un tempo perduto. Non questo in cui siamo telecomandati, e da uomini ci siamo trasformati in consumatori bulimici e annoiati, spesso virtuali».

Denuncia che si è persa la sacralità del sesso: da una femminista non me l’aspettavo.

«Chiariamoci sulla femminista: difendo con passione i diritti delle donne, calpestati ogni giorno. I maschi ci ammazzano con la complicità di un’intera società, e contano sulle pene spesso irrisorie. L’abolizione della legge sul delitto d’onore è una finzione. Ma non faccio parte del femminismo ufficiale, spesso ideologico e formalista. E inetto: perché non scendiamo in piazza quando riducono la pena di un assassino che ha ucciso con 27 coltellate la sua donna? Perché non facciamo sciopero? Siamo in tante. Fermeremmo il Paese. Spesso è un femminismo da copertina, o da sfilate ai premi. Sono una femminista indipendente. Sì, il sesso è sacro. È lo scambio più vero e profondo fra due esseri. Il sesso è – sempre – una piccola trascendenza».

Che fine ha fatto il gusto della trasgressione?

«È diventato una regola. Manette, fruste, sesso sadico telematico… che mancanza di fantasia. Che noia. Ormai la trasgressione esiste solo nella sua forma più bestiale, la violenza. Già 30 anni fa il geniale Carlo Verdone aveva intercettato il ridicolo trash del “Famolo strano” di due piccolo borghesi alla moda».

Perché se il sesso non è mai stato così facile i sessuologi si arricchiscono?

«Siamo regrediti a una minorità perenne, abbiamo paura del libero arbitrio, e vogliamo che ci istruiscano su tutto, da soli non ci sappiamo nemmeno più soffiare il naso. C’è anche il sexual coach, un professionista che ti insegna cosa e come devi desiderare. Meglio farsi monaci».

Scrive che il detonatore della passione era il pudore, ma il suo senso non è più tanto comune.

«Lo si ritrova nella grazia istintiva dell’amore. Ci ammonisce Apuleio, nella favola di Amore e Psiche: finché Amore è segreto, al buio, i due amanti sono felici. Ma appena Psiche si confida con le sorelle vengono separati, con guai a non finire».

La spinta al sesso in età avanzata è figlia di una società iper-competitiva?

«Più ancora sulla rimozione della morte. Beati i miei nonni, quando la parola vecchio non era stata eliminata dal linguaggio come fosse un insulto, mentre è il nome di una stagione. L’ultima. La più avvincente, un’adolescenza senza futuro: come ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman giochi a carte con la morte, e ogni giorno in più è una vittoria. I miei nonni avevano ancora il diritto di essere vecchi, senza sconciarsi con le plastiche per fare i finti giovani, non dovevano essere produttivi, smart e sexy fino all’ultimo respiro. La pubblicità ci vuole consumatori fino alla fine, non sappiamo più stare né davanti alla vita né davanti alla morte».

Ha preso le difese degli uomini perché sempre sotto esame: anche questo da una femminista non me l’aspettavo.

«Sì, poveretti. Ho molta comprensione per loro perché hanno quella disgrazia, l’erezione. Alle donne è stata risparmiata la prova di un sesso così evidente e infido. L’invidia del pene l’hanno inventata i maschi, per mascherare un complesso d’inferiorità, non immotivato. In teoria sarebbe invidiabile: l’asta, lo scettro… se obbedisse per davvero. Ma non è così. Io, da quando ho capito come funzionava li ho sempre trattati bene, in considerazione della loro sventura. Che incubo, dipendere tutta la vita da un servo infido che ti lascia magari quando più ci tieni. Non dà retta nemmeno all’amore, quello. Un nemico in casa, che espone al giudizio. Il Viagra è solo l’esorcismo di un’eterna paura. Meno male che sono nata senza. Orgogliosa come sono, dopo il primo fiasco me lo sarei tagliato – si dice, ma poi chissà. Per questo la donna vive più a lungo, per il bene della sua sessualità segreta. Per questo invecchia meglio. Una vecchia fa le torte, balla coi nipoti. Ma l’uomo, condannato a quella prova eterna, non si consola».

Perché ha criticato il body positive, la nuova tendenza a valorizzare l’imperfezione del corpo?

«Per l’aggressività con cui la libertà di aspetto viene proclamata, come se fosse un nuovo vangelo, o un canone obbligatorio. Odio gli schemi.  La bellezza va rispettata, come il suo contrario. Trovo giustissimo che la si smetta di sfottere le persone per il loro sembiante. Ma crederò di più in questo movimento quando vedrò fra le attiviste del body positive delle brutte vere. Quelle che vanno a parlarne in tv sono tutte belle, solo un po’ sovrappeso. E le meno avvenenti dove le mettono? Le nascondono in cantina? Che siano loro le prime a macchiarsi di body shaming?».

Ha visto che nel nuovo 007 James Bond si defila e la nuova protagonista sarà un’eroina di colore?

«Il fatto che sia una notizia, è la misura di quanto sia forte il razzismo. Guardi l’America: com’è possibile che dopo centinaia d’anni di convivenza esistano ancora bianchi e neri? Non si sono mai mischiati veramente. I bianchi non hanno mai perdonato i neri di essere la prova del loro colonialismo feroce e invece di riscattarsi, continuano a cercare di opprimerli. Donald Trump, più simile al Joker di Batman che a un uomo politico, davanti alla polizia che trucidava a freddo gli afroamericani, ha osato dire che quando un poliziotto uccide un nero è come quando un battitore di baseball sbaglia il tiro, elevando l’uccisione di un cittadino di colore a sport nazionale».

Replicando alle critiche, l’attrice si è detta grata per aver potuto sfidare gli stereotipi di razza e di genere perché «ci stiamo allontanando dalla mascolinità tossica». Cosa ne pensa?

«Magari fosse vero che ci stiamo allontanando. Lashana Lynch è bella da levare il fiato, è brava, ha carisma, porterà comunque qualcosa di audace e di nuovo».

C’è un modo antagonista di vivere l’appartenenza di genere?

«Non lo conosco. Io scelgo le persone, il sesso viene dopo».

Appunto: l’espressione «mascolinità tossica» mostra che siamo in piena guerra dei sessi?

«È un’espressione su cui preferisco non pronunciarmi».

Un certo femminismo estremo è responsabile di questo antagonismo?

«Perché, esiste un femminismo estremo? Magari. La situazione delle donne in Italia sarebbe molto migliore. Vedo solo tante signore che sfilano in passerella».

Che cos’è per lei il sessismo?

«Razzismo allo stato puro. Non ti considero una persona, ma solo secondo i miei pregiudizi sul tuo sesso. Non sarà facile uscire da questa follia millenaria».

Non è un’accusa di cui si abusa?

«Mai quanto si abusa delle donne. Finché questa forma di razzismo è così viva non è mai inutile reagire. Ma all’ideologia preferisco il gesto rivoluzionario – l’utopia, il sogno, l’umorismo. La mia femminista preferita resta Sabina Guzzanti, una dea della trasfigurazione attraverso la comicità».

Carlo Verdone ha detto che il politicamente corretto impedisce agli sceneggiatori di scrivere e che di questo passo i comici non faranno più ridere.

«Soprattutto diventeremo sempre più stupidi. Bisogna guardarsi dalla censura sul linguaggio. Possibile che non si riesca a reagire alla prepotenza se non facendone un’altra, ugualmente autoritaria?».

Cosa pensa del dibattito suscitato dall’editore Alessandro Laterza per aver detto che all’orizzonte non intravvede nuove Elsa Morante?

«Per il parere di Laterza ci si può offendere come scrittrici, ma non come donne. Non ha mica detto che le donne sono negate per la scrittura, ha detto di preferire la Morante alle contemporanee, sarà padrone di dirlo? Penso invece che oggi ci sia una letteratura femminile senza precedenti: Chiara Barzini, Isabella Santacroce, Elisa Fuksas, Michela Murgia, Chiara Valerio, Federica De Paolis, Tiziana Gazzini, ma potrei fare una lista lunghissima. Io, per esempio, preferisco Chiara Barzini a Elsa Morante. Sui gusti letterari non si discute. Mi piace la battaglia, non il vittimismo aggressivo e gratuito, che nuoce alla causa. La censura libertaria è un ossimoro».

Come vive questo tempo di restrizioni?

«Come nella canzone di Franco Battiato Fisiognomica: “E se ti senti male, raccomandati al Signore”».

Apocalittica o minimizzatrice?

«Spaventata e ottimista. Spero di vivere, anche se noi vecchi siamo in prima linea».

Chi è il suo virologo di fiducia?

«Nessuno. Tutti soubrette. Ognuno è il capo di una religione che considera l’unica valida. Parlano tanto di vaccini, e non si trova nemmeno quello antinfluenzale».

Che cosa le manca di più?

«La libertà. Un bacio a mia nipote. Non temere gli altri e me stessa come untori. Il rito collettivo del cinema, la grande affabulazione in una sala buia, questo antico sogno».

 

La Verità, 28 novembre 2020

 

La docuserie delle Iene sulla lotta anti-Covid

C’è Alessandro, un ragazzo che ha scritto alle Iene perché non sapeva come fare a mandare un messaggio a suo padre di 77 anni, sedato in terapia intensiva. C’è Mario, un paziente anziano e paraplegico, da due settimane tra i sub intensivi. C’è Angela, un’ex farmacista già dializzata, prima ricoverata tra gli infettivi, poi entrata in terapia intensiva e ora finalmente riportata nella sezione infettivi. «Siamo tornati all’ospedale di Padova per raccontarvi come stiamo affrontando la seconda ondata», dice Alessandro Politi infilandosi camice, mascherina e visiera prima di imboccare il corridoio del Monoblocco, avamposto di 150 posti letto. È la quarta settimana che, come in una docuserie, Le Iene raccontano «La prima linea della lotta al coronavirus» a contatto con medici, infermieri e malati, con servizi arricchiti da brevi tutorial sulle parti più tecniche (Italia 1, martedì ore 21,20, share dell’8,7%, 1,6 milioni di spettatori). Si capisce cos’è la nutrizione parenterale per i pazienti che non possono mangiare. Si imparano i diversi modi di somministrare l’ossigeno in base alla gravità della malattia. Dottori e infermieri spiegano senza retorica le loro azioni. Politi e Marco Fubini aggiornano sullo stato di salute dei «nostri amici». Dopo aver parlato con Alessandro, il primario della terapia intensiva si presta a mostrare al padre il suo videomessaggio: non potrà vederlo, ma sentirlo sì… La distanza dagli affetti è la sofferenza maggiore. Lo dice anche Mario, sorridente sotto la barba lunga perché i suoi indicatori stanno migliorando. Passa la giornata «pensando». A cosa? «Alla famiglia, alle mie cose. Ventiquattro ore sempre in questa posizione, mi muovo solo per evitare le piaghe. La mente non si ferma mai. È durissima». Mostra la foto delle nipotine e dei compagni delle bocce, anche loro in carrozzella. Arriva il giorno del ritorno a casa: «Per me è come rinascere la terza volta». Camilla, la figlia di Angela, è incinta e, dopo un periodo già difficile – trapianto di rene, rigetto, depressione, nuova dialisi – è arrivato il Covid. Ma nell’attesa della nipotina ora la «quasi nonna» sta ritrovando il sorriso: «Voglio sperare positivo, si fa la stessa fatica che a pensare negativo. Quindi…». Politi torna da Alessandro con un filmato che mostra lo stato del papà: «Fa male vederlo così, ma l’ho rivisto e questo mi fa sperare, perché davanti alle difficoltà è un leone».

Volti, rughe, letti, speranze… Si capisce cento volte di più che cos’è il coronavirus da un servizio così che in dieci dibattiti tra virologi.

 

La Verità, 19 novembre 2020

«Provo a restare umano, nonostante il virus»

Buongiorno Enrico Montesano, o devo chiamarla Monteinsano?

«Mi chiami come vuole (ride). Un po’ di follia non guasta. Com’era quella frase di Friedrich Nietzsche… “Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella che danza”».

Sì, ma la sostanza è che ha una nuova popolarità negativa.

«Non tanto negativa».

Se la chiamano Monteinsano…

«Quando Massimo Gramellini scrive certe cose, quel suo “Caffè” diventa una ciofeca».

Figurarsi se Er Pomata di Febbre da cavallo non ha la battuta pronta. È o non è un pezzo di storia della commedia italiana? E non solo al cinema, pure a teatro e in televisione. Il suo Fantastico del 1988, in coppia con Anna Oxa, detiene ancora il record di ascolti e di vendita dei biglietti della Lotteria Italia. Record ne ha mietuti anche al boxoffice e l’elenco dei titoli memorabili sarebbe lungo. Regista, autore, attore, comico, la politica ha sempre stuzzicato Montesano. Ultimamente si è espresso in modo critico sulla gestione dell’epidemia da coronavirus e ha appoggiato la Marcia per la liberazione di sabato scorso a Roma. L’altro giorno, invece, è stato fermato dalle forze dell’ordine perché non portava la mascherina.

Montesano no-mask?

«L’ho detto anche da ospite di Barbara D’Urso su Canale 5: prima di tutto tengo alla salute del prossimo. Se stanno bene familiari e parenti, sto bene anch’io. Sono una persona di buon senso e mi comporto in modo responsabile».

Cosa vuol dire?

«Che non vado agli aperitivi, non frequento le discoteche ed evito i posti dove c’è confusione. Per strada, se qualcuno mi viene incontro cambio marciapiede e scelgo percorsi alternativi, ci sono tante strade vuote. Stamattina sono uscito per comprare il pane e non ho incontrato nessuno».

E la mascherina?

«Non la porto, ma la tengo in tasca. Entrando dal panettiere l’ho indossata».

All’agente che l’ha fermata perché non la indossava prima ha detto che non riesce a respirare e poi che il Dpcm contraddice una legge dello Stato che prescrive di essere riconoscibili.

«Con il cappello e gli occhiali, se metto la mascherina chi mi riconosce? La legge e il decreto si contraddicono, ma la legge prevale. Poi, dopo 52 anni di polvere di palcoscenico, ho un certo affaticamento dei bronchi. Perciò la mascherina la metto il necessario. Come ha detto il professor Matteo Bassetti, se sono a cinque o dieci metri di distanza, chi posso infettare?».

Fa ostruzionismo da attaccabrighe?

«Assolutamente. Caso mai è questo Dpcm che confligge con la legge».

Perché non è andato alla Marcia per la liberazione di sabato scorso mentre ha partecipato a quella per la liberazione di Chico Forti?

«Perché quella in favore di Chico Forti non si prestava a interpretazioni errate com’è successo per la Marcia per la liberazione, dove si è detto di tutto tranne ciò che importava agli organizzatori. Io non ci sono andato perché a queste manifestazioni a volte spuntano gruppi strani. Avevo detto da subito che aderivo, ma che non avrei partecipato».

Lei rifiuta la definizione di negazionista, preferisce il termine minimizzatore?

«Mi definisco critico. Il negazionismo riguarda l’Olocausto e significa negare una cosa accaduta. Io non nego che esista questo curioso virus. Purtroppo c’è».

Cosa intende per curioso?

«Sorvoliamo se sia naturale, determinato dal salto di specie o sviluppato artificialmente. Esiste. Quello che non trovo giusto è terrorizzare, spaventare la popolazione. La prima parola che sento quando accendo la tv è Covid, l’ultima quando spengo è lockdown. Che è una parola americana, lo sa che nel vocabolario inglese non si trova? Lo usano nei penitenziari americani quando mettono un detenuto in isolamento. Allora parlano di lockdown».

E lei lo rifiuta?

«Non mi rassegno al confinamento».

Il consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi ha detto che è stata «una misura di cieca disperazione».

«Certamente molto rigida e senza che ne abbiamo avuto grandi risultati. Per contro, ora cominciamo a vederne le conseguenze economiche. Chi non l’ha adottata, come la Svezia, in percentuale sta più o meno come noi».

Forse se non avessimo chiuso staremmo peggio?

«Che ne sappiamo. Si potevano fare scelte diverse».

Per esempio?

«Lockdown localizzati. I nostri governanti sono in una situazione scomoda, non do loro addosso per partito preso. Però trovo strano che a Chiasso si debba indossare la mascherina e oltre il confine no. Paesi come la Svizzera stanno uscendo bene senza adottare misure così drastiche. D’accordo con il professor Giulio Tarro, la ricercatrice Antonietta Gatti, Alberto Zangrillo e Bassetti auspico che la seconda ondata abbia una carica virale più blanda e ci risparmi un’altra chiusura totale».

Si profila per il periodo natalizio.

«Manco potemo fa l’albero? Che palleee!».

Si fida di più dei virologi che ridimensionano il pericolo?

«Io non sono un esperto, ma leggo di tanti medici austriaci o inglesi che in alcuni documenti esprimono punti di vista meno allarmisti».

I dati non giustificano l’allarme?

«Non lo so… Parlare di casi mi sembra un’espressione generica. Molti medici dicono che una persona positiva asintomatica non è malata. Positivo a che cosa? Siamo pieni di virus, il nostro corpo reagisce… Perché tranne qualche medico di famiglia, nessuno dice: non vi intossicate, non fumate, mangiate sano, prendete le vitamine che aumentano le difese… Poi può capitare che una persona con altre malattie si contagi. Io credo che il virus esista eccome. Ma numerosi medici dicono che i pazienti che hanno la febbre e i primi sintomi si possono curare senza correre in ospedale. Questo mi conforta e non è invitare a fregarsene delle precauzioni. Gli italiani sono persone di buon senso».

Quando è nato il CanaleMontesano su YouTube dove legge brevi testi di Adolf Huxley, George Orwell, Michel Onfray?

«È nato durante il confinamento per fare compagnia a chi era chiuso in casa. Ho iniziato con i miei personaggi, Torquato il pensionato, Famo Blas, Il conte Tacchia, il Figlio di papà… Poi vedendo che queste letture avevano successo li ho lasciati un po’ in disparte».

Chi sono i suoi seguaci?

«Persone desiderose di aprire un po’ gli occhi. Mi suggeriscono letture, mi mandano i libri a casa… Questo rapporto col pubblico vuol dire che c’è bisogno di questi pensieri e che tanti sono stanchi delle urla dei talk show o dei reality».

È sempre stato un grande lettore?

«Abbastanza».

Ultimamente si è spostato su nuovi autori?

«Un po’ più mirati. Critici del pensiero unico. Poi un libro porta l’altro. Il filosofo Gunther Anders fa un riferimento a Hannah Arendt, un altro cita Elias Canetti… Non compro libri online perché voglio che i negozi del vicinato sopravvivano. Proviamo a rimanere umani, con i nostri pregi e difetti, e allontaniamo questo transumanesimo incombente».

Che cosa la preoccupa?

«Lo scienziato che vuole sostituirsi a Dio, vuole modificare la natura umana».

Cosa significa «Eretici e guerrieri», lo slogan con cui conclude i suoi video?

«È una frase di Carlos Castaneda che invita a mantenere una libertà di giudizio».

C’è troppo conformismo?

«Domina il politicamente corretto. Ne parlavo già nel mio spettacolo del 2007 intitolato È permesso? È permesso criticare il pensiero unico stimolandone uno alternativo?».

Legge La teoria della dittatura di Onfray, parla di terrorismo sanitario: estremismo?

«Forse per contrastare decisioni altrettanto estreme. La paura non è una buona compagna perché abbassa le difese immunitarie. Nella trasmissione della D’Urso ho citato una frase sul concetto di salute diffusa dall’Oms quando era un organismo affidabile: “La salute è uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia”».

Cosa c’è dietro?

«In rete gira una battuta in romanesco sui prodotti esportati dalla Cina: “Ao’… er coronavirus è l’unica cosa cinese che dura tanto”».

È merito del governo se rispetto alla Francia, alla Spagna, alla Gran Bretagna abbiamo una percentuale di contagi inferiore?

«A maggior ragione questa diffusione della paura non è giustificata. E tutte queste restrizioni sono una contraddizione. Se i risultati sono buoni perché dobbiamo stringere la vite ancora di più? Forse non siamo noi i complottisti, ma qualcun altro. Faccio sempre salvi i nostri uomini di governo… Magari c’è qualcosa che viaggia al di sopra della Merkel, di Macron, di Conte».

Cosa vuol dire?

«La quarta rivoluzione industriale, il Nuovo ordine mondiale».

La globalizzazione, il 5G.

«Non ne sento il bisogno, stavo bene pure con il 3G. Vorrei un referendum per capire se ci serve davvero».

Vede molti effetti nocivi?

«Perché questa corsa senza interpellare i popoli? Giustamente ci preoccupiamo del Covid-19, ma non conosciamo i danni collaterali che il 5G può provocare. Ci sono studi che documentano che le grandi epidemie si presentano sempre in corrispondenza di rivoluzioni tecniche e tecnologiche».

In televisione la chiamano ancora? Con i suoi spettacoli, intendo.

«Forse c’è un po’ di timore. Potremmo fare un programma che stimolasse domande negli spettatori, ma forse non si vuole proprio questo. Ricorda quella massima: Castigat ridendo mores (corregge i costumi ridendo ndr)».

In questa crisi i lavoratori dello spettacolo sono stati tra i più penalizzati.

«Dopo la bellissima manifestazione di Milano ce ne vorrebbe una anche a Roma. Forse queste norme trascurano le reali necessità del mondo dello spettacolo. Dietro un primo attore c’è un indotto enorme, la scenografia, il trucco, il facchinaggio, i trasporti, il personale, tutti i servizi. Il teatro è vita e cultura. Un teatro accende la vita della via dove si trova. La gente ha anche bisogno di distrarsi, invece è tutto fermo».

Sugli aerei si sta gomito a gomito, negli stadi all’aria aperta possono entrare solo mille persone.

«L’Olimpico può tenerne fino a 70.000, possiamo farne entrare 30.000? Io capisco che non dobbiamo mettere in ginocchio le compagnie di volo, ma gli aerei sono anche abitacoli angusti con circolazione della stessa aria. Durante il lockdown, avevano chiuso persino i parchi ai bambini…».

Beppe Grillo è partito da un blog e poi ha fondato un movimento: il suo obiettivo qual è?

«Vorrà dire che se un comico vi ha distrutto un altro comico vi salverà. Guardi che è solo una battuta, niente più. Non voglio fondare nulla».

 

La Verità, 17 ottobre 2020

Aiuto! Siamo precipitati nella rivoluzione francese

Con colpevole ritardo, qualche sera fa vedendo in un talk show le facce a tutto schermo di Andrea Crisanti e Massimo Galli, mi si è accesa la lampadina: aiuto! È tornata la Rivoluzione francese. Con i suoi annessi e connessi. Con i suoi organismi repressivi, il controllo sociale e l’apparato linguistico di riferimento. Improvvisamente, la scintilla ha collegato tutti i cavi. I due professori citati sono tra gli oracoli anti-Covid più ascoltati dell’etere e non solo. Ma la suggestione sarebbe stata identica se al loro posto fossero comparsi Walter Ricciardi e Silvio Brusaferro o Ilaria Capua e Fabrizio Pregliasco. Non è un fatto di nomi o di preferenze tra virologi, di cariche ufficiali dei singoli, o di schieramento tra allarmisti e minimalisti. No, è il sentimento percepito dal semplice cittadino e telespettatore, quello che all’epoca era il Terzo stato. Ora comanda il Comitato tecnico scientifico, ma lo potremmo tranquillamente ribattezzare Comitato di salute pubblica. Anzi, l’espressione sarebbe più calzante, più rispondente alla realtà. Che cos’è infatti se non un Comitato di salute pubblica un organismo di scienziati e politici che arriva a controllare i nostri comportamenti fin dentro le sale da pranzo e le camere da letto?

Lentamente, attraverso slittamenti differiti e graduali, scopiazzature e scelte linguistiche siamo finiti dentro una macchina del tempo che ci sta riportando a 230 anni fa. Se la situazione non fosse tragica per le morti che ci stanno devastando, o drammatica per la comicità nella quale ci catapulta il tenero dilettantismo di buona parte della compagine governativa, sembrerebbe di essere precipitati in un videogame, un gioco di società, una distopia storico-politica nella quale orientarsi con apposita segnaletica, bonus e upgrade. Magari compulsando nervosamente la miracolosa piattaforma Rousseau, tanto per rimanere al secolo dei Lumi.

Purtroppo non è così. Durante la Rivoluzione, il Comitato di salute pubblica creato dalla Convenzione nazionale affiancò il Comitato esecutivo provvisorio per ribaltare le sconfitte militari, domare la rivolta vandeana e le altre insurrezioni antirivoluzionarie. Oggi il nemico non è politico – meglio: non è, in primo luogo, politico – ma sanitario. Un subdolo virus che sta mietendo vittime e mettendo in ginocchio l’intero pianeta, non solo l’Italia (il fatto è inconfutabile, qui si riflette sulle modalità di contrasto).

Per trasformarsi in Comitato di salute pubblica, il nostro Cts viene affiancato dal ministro della Sanità, dal titolare degli Affari regionali, dal capo dell’Economia e dal premier, il quale legifera attraverso i famigerati Decreti del presidente del consiglio dei ministri. Il potere legislativo è accentrato in poche mani ed esercitato con motuproprio dal sovrano senza che, in buona sostanza, le assemblee parlamentari possano intervenire, dialettizzare, contribuire. C’è lo stato di emergenza a sostenere la presunta necessità di poteri speciali, usati per prescrivere comportamenti virtuosi ai cittadini (Massimo Cacciari: «Serve lo stato di emergenza per dire alla gente di indossare la mascherina?»). Ma non per attrezzare strutture e infrastrutture a fronteggiare la crisi (ritardi sui tamponi, sui vaccini antinfluenzali, sull’adeguamento dei trasporti, sui servizi alla scuola). Si può interrogarsi a lungo se si tratti di uno stato d’eccezione giustificato. Fatto sta che negli altri Paesi europei, che versano in condizioni peggiori dell’Italia, non vige, a eccezione della Francia.

Il filosofo Giorgio Agamben ha più volte osservato che il ricorso alla legislazione di emergenza trova nella Rivoluzione del 1789 la sua origine storico-giuridica. Ma se dal presente andiamo a ritroso di qualche anno ci imbattiamo in altre non vaghissime assonanze che, dall’epoca immediatamente prerivoluzionaria, arrivano al presente. Il governo attuale è sbocciato facendo a meno del suffragio dei cittadini, grazie a una spregiudicata manovra di palazzo appoggiata da Beppe Grillo, novello Robespierre, fondatore di un movimento dalle forti nervature giacobine, nato a sua volta nelle piazze con i Vaffa urlati contro l’Ancien régime. Ovvero la famosa casta alla quale era già stato assestato il primo colpo dalla «rivoluzione dei magistrati» chiamata Tangentopoli. Dopo aver preso il potere, il movimento dell’antipolitica ha cominciato a epurare i dissidenti. Ora, in assenza di un leader riconosciuto, il M5s è guidato da un reggente e da un Direttorio, anch’esso di rivoluzionaria memoria. Come lo sono pure gli Stati generali che, essendosi a sua volta trasformato in casta, il movimento è costretto a convocare alla ricerca dell’identità perduta.

Corsi e ricorsi non solo linguistici, nei quali è rinvenibile il ruolo, defilato ma determinante, di Marco Travaglio, Jean Jacques Rousseau de noantri. All’epoca, gli Stati generali furono l’ultima spiaggia dell’aristocrazia monarchica per tentare di evitare la presa della Bastiglia da parte dei rivoltosi. Quelli indetti nel giugno scorso dal governo Conte avrebbero dovuto fornire le risposte per uscire dalla crisi sanitaria ed economica. In realtà, osservando le code per i tamponi e l’introvabilità dei vaccini antinfluenzali, si sono rivelati per quello che erano: una passerella in favore di telecamera, una fiera degli annunci. Ciò che conta è la nuova mappa ideologica da applicare sulla realtà, con le sue formule e i suoi slogan. Se poi, con la nuova enciclica sulla fraternité, ci si mette anche papa Francesco, allora siamo davvero spacciati. Così, mentre tra il Vaticano e l’M5s, oltre alle simpatie per l’Illuminismo, si registrano convergenze anche sulla nuova geopolitica filocinese, i soliti complottisti parlano di Terrore, proprio così; diffuso dai virologi oltranzisti, alleati del ministro Roberto Speranza, perfetto, nonostante l’aria spaesata,  nel ruolo dell’intransigente capo della polizia Joseph Fouché, pronto a far controllare dagli agenti in quanti sediamo a tavola.

C’è da augurarsi che il finale sia diverso da quello di oltre due secoli fa. Forse no, forse stavolta non rotoleranno teste sotto sanguinose ghigliottine. Ma di questo passo, nell’ultimo stadio del game distopico nel quale siamo precipitati, rischiamo di vedere decapitati interi settori economici, dalla ristorazione al turismo, dal mondo dello spettacolo allo sport, per stare ai primi che sovvengono.

Forse no, forse non moriremo di Covid. Ma abbiamo molte probabilità di morire di fame.

 

La Verità, 16 ottobre 2020

«Bollettini e decreti hanno trasmesso insicurezza»

Di Luciano Gattinoni, professore emerito dell’università di Gottinga in Germania, ex direttore scientifico del Policlinico di Milano, già presidente della Società mondiale di Terapia intensiva, si legge online che è stato lo scopritore dei benefici dell’ossigenazione in posizione prona in alcune patologie polmonari. Se in tanti servizi televisivi nei reparti Covid-19 si vedono i pazienti distesi a pancia in giù lo dobbiamo a questo medico rianimatore di fama internazionale, un signore milanese di 75 anni che si esprime con una modica quantità d’ironia. Quello che invece nelle bio spunta appena è che è anche un «pianista di talento».

Che musica suona, professore?

«Suono in un quartetto che si chiama Mnogaya Leta, che in russo bizantino vuol dire tanti auguri o anni felici. Siamo quattro voci, due tenori e due bassi, più pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. Il nostro genere è il negro spiritual, il gospel, che è alla base del blues e del jazz».

Mnogaya Leta… Suona il pianoforte e anche canta?

«Esatto, sono il secondo tenore. Cantiamo insieme dal 1961, eravamo al liceo, tre al classico e uno allo scientifico. Poi due abbiamo fatto medicina, uno agraria e il quarto economia».

Mnogaya Leta… Fate concerti, tournée?

«Tournée è parola grossa. Concerti sì, ne abbiamo all’attivo un migliaio, quasi tutti in Italia».

Ci sono; ne faceste uno anche a una festa dei Cattolici popolari, preistoria del 1980, Old time religion, Go down Moses

«Sì, sono brani nostri. Eravamo noi».

Risolta la reminiscenza, veniamo al presente, professore: possiamo dire che l’Europa sta uscendo dal tunnel del coronavirus?

«Sicuramente l’invasività dell’epidemia sta diminuendo, ma se siamo fuori lo sa solo il Padreterno. La Sars scomparve spontaneamente, speriamo succeda anche stavolta. Le previsioni si basano su modelli matematici, ma se si avesse la pazienza di metterle in fila, si constaterebbe la modesta validità delle previsioni degli esperti. E si concluderebbe che nessuno lo è».

Esperto deriva da esperienza, ma…

«Nessuno l’ha già vissuta. Ognuno cerca di incasellare ciò che vede nelle proprie conoscenze. Ma se ciò che succede è inedito, l’incastro perfetto non riesce».

Stiamo imparando a contrastare meglio il Covid-19?

«Fino a qualche settimana fa parlavamo tutti di polmonite. Ora si è scoperto che il polmone è una delle vittime del virus. L’aumento della coagulabilità del sangue causata dal virus produce trombi che possono interessare vari organi. Ma se chiede perché in alcuni pazienti il virus è stato quasi innocuo, in altri ha causato la morte o una patologia mediamente grave, non lo sappiamo. Perché non sappiamo come si muove nell’organismo».

Per il Covid-19 non c’è vaccino e la Sars è scomparsa spontaneamente: la scienza mal sopporta l’imprevisto?

«No. La scienza si occupa di ricerca che riguarda ciò che è inatteso. Nel rapporto con l’imprevisto si misura la genialità dell’uomo, l’azione su ciò che già si conosce è normale lavoro».

Il filosofo Alain Finkielkraut parla dell’imprevisto «come supremo metodo di conoscenza».

«Sottoscrivo».

Se non si è trovata la cura, a cosa dobbiamo il calo di contagi e decessi?

«A una serie di fattori. Alcuni studiosi sostengono che il virus sia mutato, altri dicono che il merito è del lockdown. Personalmente, nutro qualche dubbio perché anche ora che si è riaperto da due settimane la diminuzione continua. Ci sono meno ricoveri perché stiamo cominciando a capire cos’è questa malattia e a curare meglio i pazienti».

Il calo dipende da una modificazione del virus, dal cambiamento del clima, dalle nostre contromisure?

«Non c’è una sola ragione che spiega tutto. Dipende da una combinazione di elementi, ma in quale proporzione non sappiamo».

Parliamo del «prima»: cosa pensa delle voci che ipotizzano la creazione del virus in laboratorio, del fatto che l’epidemia fosse iniziata già nel 2019, che varie fonti l’avevano prevista in anticipo, che la Cina abbia nascosto il contagio?

«Per evidenti ragioni culturali e politiche ci sono obiettive difficoltà a sapere che cosa sia davvero successo in Cina. Non ho la minima idea se la diffusione del Covid-19 sia partita da un laboratorio o sia frutto di spillover, il salto di specie di un germe patogeno. Molti scienziati che hanno lavorato in quel campo sostengono che la creazione in laboratorio sia inverosimile. Invece, l’espansione di un’epidemia dall’Asia ha basi più solide. Dato che ogni otto dieci anni si verifica un’epidemia virale, nel 2018 alcuni studiosi l’avevano prevista, sottolineando la necessità di approvvigionarsi di respiratori. Ma, come sempre dai tempi della guerra di Troia, quando qualcuno predice disavventure preferiamo dargli della Cassandra. Il successo della prevenzione è scongiurare la sciagura. Qual è il politico che investe in qualcosa il cui scopo è un non avvenimento? La prevenzione non porta voti. L’animo umano è fatto così e dopo l’epidemia non cambierà».

Perché in Germania, che è la sua seconda patria…

«Non esageriamo. Prima sono stato negli Stati uniti dove, con un’équipe, abbiamo lavorato alla circolazione extracorporea e all’ossigenazione in terapia intensiva. Poi sono tornato a Milano. Da pensionato ho accettato questa offerta, memore dell’insegnamento del professore di greco Mario Zambarbieri, il quale sosteneva che un uomo di cultura deve poter leggere Goethe in lingua originale».

Quindi Germania patria di affinità elettive: perché lì ci sono stati meno decessi che da noi?

«Qui funziona una collaborazione fra medici di base e ospedali che in Lombardia non esiste. Una legge del 1977 ha stabilito che il medico generalista va da una parte e l’ospedale dall’altra. Questa cultura ha avuto conseguenze pesantissime».

È vero che in Germania c’è stato un lockdown meno rigido?

«È vero. I tedeschi hanno un rispetto per le istituzioni e le regole superiore al nostro. Sono educati così fin da bambini. Provi a contare quante volte ha parlato Angela Merkel. Le sono bastate poche parole. È laureata in fisica, è stata campionessa delle Olimpiadi di matematica, ha un curriculum vero. La credibilità non s’inventa: i nostri governanti, magari bravissimi, dovrebbero tenerne conto».

Il sistema delle terapie intensive lombardo compete con quello tedesco e quello francese, ma la metà dei decessi in Italia è avvenuta in Lombardia: quali errori sono stati commessi?

«Il sistema delle terapie intensive lombardo è tra i migliori al mondo e ovunque, nel settore, questo è noto. Semplicemente, molti decessi sono avvenuti altrove. Se si aumentano i posti letto senza aumentare il personale, l’attenzione al malato ne risulta penalizzata».

Concorda con gli analisti per i quali un ruolo eccessivo dei virologi ha favorito una visione riduttiva dell’epidemia?

«La medicina non è democratica. Se in un paese tutti votano per chiudere una drogheria, magari ha ragione l’unico che vuole tenerla aperta. Io non conosco la composizione del Comitato tecnico scientifico. Dico che, di solito, un’epidemia richiede competenze diverse. Occorre qualcuno che sappia di terapia respiratoria oltre che di moltiplicazione del virus».

A proposito degli scienziati in tv ha parlato di tentazione di narcisismo.

«Riguarda anche me. “Narcis fue molto bellissimo” e si specchiava nell’acqua del pozzo».

Oltre alla visibilità immediata c’è l’indotto.

«Se si riferisce alle ospitate pagate, io non ho visto un euro, né l’avrei voluto. Quando comincia a girare denaro, la quota di libertà diminuisce, vale a tutti i livelli. Vedo che una collega laureata in veterinaria si spinge a dire come sarà il dopo, pronunciandosi sulla convivenza con il virus. Personalmente, sto attento a limitare i miei interventi a ciò che conosco. Le mie valutazioni sul salto di specie del germe dal pollo cinese o dal ratto siberiano valgono quanto quelle del mio panettiere. Ofelè fa el to mesté, si dice a Milano. Qualche volta sono stato ospite a La7, poi ho declinato alcuni inviti perché non vorrei apparire nel vidiwall di Maurizio Crozza».

Qual è la lezione che i nostri governanti dovrebbero trarre riguardo al sistema sanitario?

«Che qualsiasi azione andrebbe meditata e mai presa in base all’emotività. Per esempio, adesso ho sentito parlare di uno stanziamento per realizzare 3500 letti di terapia intensiva. Quando mi sono permesso di osservare che sono troppi, Maurizio Gasparri me ne ha chiesto ragione su whatsapp. Ho risposto che sono stato presidente della Società italiana, poi europea e mondiale di Terapia intensiva e che se avesse voluto delle spiegazioni avrebbe potuto telefonarmi».

In Cina il lockdown rigido è imposto da un regime, in Italia c’è stata un’esasperazione di tipo sanitario?

«Non mi addentro negli altri lockdown. Certo, noi abbiamo chiuso prima e riapriamo più tardi. Se compariamo Stoccolma a Helsinki è un disastro per Stoccolma, ma se la paragoniamo a Milano è un successo. Un giorno si dovrà fare un confronto serio, senza passioni politiche, tra realtà omogenee per dimensioni ed età media. Fornendo numeri certi, non come quelli dei contagi che ci vengono dati ogni sera e di fronte ai quali non si sa ridere o piangere per quanto sono inattendibili».

Una comunicazione di bollettini e decreti ha trasmesso l’idea di uno stato di emergenza?

«A me più che di uno stato di emergenza ha trasmesso uno stato di pochezza».

Di mancanza di preparazione?

«Di mancanza di visione. Si poteva limitarsi a una comunicazione ogni tre giorni, ma con numeri verificati».

C’era il permesso di portare fuori i cani non i bambini, riaprono le palestre non le scuole.

«Questa tragedia offre spunti umoristici per un’enciclopedia. E i congiunti affini? I 21 misteriosi parametri regionali per la riapertura? Che cosa vuol dire “aprire ma con prudenza”? Forniscano dei numeri se vogliamo parlare di fatti. Se vogliamo il rischio zero dobbiamo blindarci in eterno. Qual è il livello di rischio che accettiamo?».

Arriverà una seconda ondata?

«Speriamo che la natura sia madre e non matrigna e faccia spillunder invece di spillover».

 

La Verità, 30 maggio 2020

 

«Vorrei Montalbano come leader della sinistra»

Signora Parietti, che cos’ha imparato dall’autoisolamento per coronavirus?

Che la gente peggiora e non migliora. Quando provavo a raccontare quello che mi era capitato dicevano che volevo farmi pubblicità. Tipo: cosa vuole la Parietti, parli del Grande fratello.

Che conclusioni ha tratto?

Che se continuassi a farmi le foto del culo, che peraltro regge, al massimo mi prenderei della vecchia. Mentre parlando del coronavirus mi son presa insulti di tutti i tipi.

Tra l’incavolato e il risentito, Alba Parietti sbotta dalla sua casa di Basiglio, a sud di Milano. Il coronavirus l’ha colpita in forma lieve, si è fatta un’autodiagnosi dopo la febbre, la spossatezza, la perdita dell’olfatto consultandosi con i medici del San Matteo di Pavia. E si è autoisolata per due settimane. Ma gli inviti a non parlare dell’epidemia da Covid-19 ricevuti in qualche talk show non li ha mandati giù. «A qualcuno ha dato fastidio che fossi informata e che, sulla base di quello che sapevo, contestassi anche i virologi».

E che cosa sapeva, signora?

Che le mascherine erano fondamentali, mentre alcuni di loro sostenevano di no. Siccome avevo parlato con persone che vivevano in Cina, sono stata tra le prime a fare la battaglia…

E poi?

Replicavo a chi minimizzava. A metà febbraio un’infermiera di un reparto di infettivologia mi aveva detto che negli ospedali lombardi la situazione stava degenerando.

Le sue opinioni non erano gradite.

No. Anche quando dicevo che bisognava diversificare i provvedimenti. In Lombardia i posti di terapia intensiva stavano finendo, mentre in Veneto il problema non si è posto grazie all’opera efficace del governatore Luca Zaia. Non ci volevano chissà quali studi per vedere queste cose. Il virus colpisce tutti e chiunque ha diritto di esprimersi sulla base di una corretta informazione.

Si temevano le fake news e si voleva privilegiare la competenza scientifica?

Siamo d’accordo, però nemmeno i virologi avevano certezze e si contraddicevano fra loro. Ancora adesso nessuno sa niente di questa malattia. Ma siccome sono una soubrette… Hanno provato a zittirmi, qualcuno ha cercato vendette personali. Lasciamo stare i nomi, preferisco non rinfocolare polemiche.

Secondo lei che cosa è mancato nella gestione dell’emergenza da parte del governo?

Si è trovato in una situazione inedita, non si può dargli addosso.

Sebbene il premier si fosse detto prontissimo.

È mancata una comunicazione reale di quello che stava accadendo in Lombardia. Uno tsunami. Tanti hanno provato e dovuto salvarsi da soli. So di persone rimaste a casa settimane con la febbre a 38, costrette a diagnosi fai da te per l’impossibilità di fare i tamponi. Io stessa l’ho provato… È stato un terremoto, abbiamo scavato con le mani, mentre medici e infermieri tentavano di salvare vite come durante una guerra.

Dopo una prima sottovalutazione si è finito per drammatizzare troppo?

Forse le linee guida adottate in Lombardia non andavano estese al resto d’Italia. La situazione era diversa. Gli italiani vanno messi un po’ alle strette, poi rispondono bene. Adesso per ripartire forse si è fatto un po’ di terrorismo, non sono tutti raffinati psicologi. Se dovessi dare una medaglia la darei a Zaia, un politico che non rispecchia il mio orientamento, ma ha affrontato la situazione con fermezza. Nel suo modo barocco, anche il governatore della Campania Vincenzo De Luca si è fatto capire.

Si sono tenute nella giusta considerazione le esigenze della gente comune?

Spero che chi ha le possibilità rinunci a un po’ di guadagno per mantenere i dipendenti e favorire la ripresa di tutti. Parlo delle grandi aziende e dei grandi marchi, ovviamente. Non degli artigiani e dei piccoli commercianti che non si sa se riusciranno a sopravvivere.

Ha già programmato le vacanze estive?

Non ancora. Ho due case, una in Valle d’Aosta e una a Ibiza. Spero di poterci andare…

Diciamo che è fortunata.

Molto, riconosco i miei privilegi. Nella vita ho potuto guadagnare. Mio figlio, per esempio, non farà vacanze perché non se le può permettere. Come la sua fidanzata, ha consumato parte delle ferie in attesa della cassa integrazione. Questo è tutt’altro che un virus democratico. Come fanno famiglie di 5 persone a mantenere il distanziamento in 60 metri quadri? Il coronavirus ridurrà alla fame persone che già prima erano in difficoltà.

Gli osservatori più attenti prevedono un autunno di rivolte sociali causato dalla povertà.

Non siamo proprio un Paese di rivoluzionari.

Parlavo di rivolte, di proteste.

Dove c’è povertà e disuguaglianza sociale è facile che, per sopravvivere, la popolazione prenda le strade peggiori. In assenza di risposte adeguate possono affermarsi forme di sopruso e sfruttamento, dal lavoro nero al controllo delle mafie che sicuramente non starà a guardare.

Come giudica il contributo del Pd al governo?

Non saprei dare un giudizio tecnico. Né vorrei alimentare polemiche che trovo odiose in questo momento.

Che differenze vede tra Nicola Zingaretti ed Enrico Berlinguer?

Lei vuol farmi parlar male di qualcuno. Zingaretti appartiene alla classe politica attuale che non rispecchia il mio ideale. Il confronto con la generazione di Bettino Craxi e Giorgio Almirante è impari. Per me Berlinguer era un semidio.

Non si metta sulla difensiva.

Sarebbe come fare paragoni tra Madonna e Alba Parietti.

Quindi?

Berlinguer ha attraversato un periodo di grande difficoltà. Ha tentato di fare il compromesso storico… Anche la sua ultima immagine pubblica è quella di una persona che ha portato fino in fondo la sua visione perché mossa dalla passione. Gran parte dei politici di oggi è mossa dall’ambizione. Ma non voglio accusare Zingaretti. Se si candidasse nei panni del commissario Montalbano voterei volentieri suo fratello. Andrea Camilleri era un uomo di sinistra molto credibile. I leader del passato li abbiamo criticati, ma c’era ammirazione. Anche per figure controverse come Giulio Andreotti, magari diabolico ma mai banale.

Da donna che cosa pensa di Giorgia Meloni?

Non approvo nulla del suo pensiero, ma la trovo una tosta. Una dei politici più veri che ci siano in Italia. Non è lì per caso.

Ha condiviso la polemica sulla scarsa rappresentanza femminile nelle task force?

Nulla di nuovo, in questo Paese le donne sono calcolate molto poco. Ma la misoginia è quasi più femminile che maschile. Se una donna riesce a imporsi bisognerebbe gioirne tutte…

Invece?

Tra donne c’è molta solidarietà a parole, ma di fatto… Siamo nate con il pomo della discordia.

Le sembra che le ministre Lucia Azzolina, Elena Bonetti, Teresa Bellanova, Paola Pisano e Nunzia Catalfo si stiano muovendo bene?

Non vedo figure particolarmente significative. Dicendo così mi dimostro anch’io poco solidale con le donne. Ma penso che la Merkel italiana non ce l’abbiamo e forse non siamo nemmeno pronti ad averla.

Il premier Conte invece è molto apprezzato dalle donne.

Sì, ma un pensierino non ce l’ho mai fatto. Sono clemente a causa del momento difficile. Non sono mai stata attratta dagli uomini di potere, perché avrebbero poco tempo da dedicarmi.

Come giudica la sua espressione a proposito degli artisti che «fanno divertire la gente»?

Anche i politici fanno divertire in certi periodi. Basta vedere il programma di Maurizio Crozza. Ancora oggi fatichiamo a pensare che l’arte sia cultura, non parlo della televisione che è intrattenimento grazie al quale tanta gente non si è sentita sola. Parlo del nostro cinema e del nostro teatro che è un errore sottostimare.

Di Matteo Salvini che opinione ha?

È un abilissimo comunicatore. Bravissimo a far leva sui sentimenti di disperazione della gente comune. Molto più della sinistra, che certo non avrebbe potuto usare gli stessi slogan.

La destra è più vicina alla gente comune della sinistra?

No. Siamo tutti povera gente in un momento in cui il mondo sta cambiando. Individuare un nemico è la strategia più facile, ma non è un buon modo per andare avanti insieme. In questo momento il migliore è il Papa.

Lo immaginavo.

Immaginavo che lo immaginava. Papa Bergoglio è una guida, ciò che dovrebbe essere anche un leader politico.

Bergoglio parla delle periferie, la sinistra vince nei centri storici.

Non andare nelle periferie vuol dire lasciare il territorio ad altri. Va nelle periferie chi capisce dove nascono i problemi.

Mi fa un ritratto dei grandi professionisti della tv con cui ha lavorato? Enzo Tortora.

L’ho conosciuto alla fine. Aveva un tormento, ma era imperscrutabilmente signorile.

Angelo Gugliemi.

Il maestro geniale che vede il talento degli altri e non ne ha paura.

Carlo Freccero.

Il mestiere e la follia.

Gianni Boncompagni.

L’enfant gaté, il bambino viziato. Anche lui geniale.

Pippo Baudo.

È Pippo Baudo, non ha aggettivi.

Maurizio Costanzo.

L’eminenza grigia dalle mille sfaccettature, il narcisista intelligente.

Che cosa manca ai dirigenti tv di oggi?

La fantasia e il coraggio di rischiare di non piacere.

Che cosa le manca di Ezio Bosso?

Il tempo di stare insieme che è finito. Il tempo nel quale potevo ascoltarlo e ammirarlo. E dirgli: «Ciao, come stai?».

 

Panorama, 27 maggio 2020