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«Non ha alcun senso parlare di tecnodestra»

Giacomo Lev Mannheimer è stato capo della policy per l’Europa meridionale di TikTok e poi di Apple ed è co-fondatore di FutureProofSociety, una startup che aiuta le imprese a fronteggiare le grandi trasformazioni. L’ultimo saggio, intitolato I mercanti nel palazzo, appena pubblicato dal Mulino, illumina i rapporti tra aziende, big tech e potere politico.
Dottor Mannheimer, la fotografia del palco di Capitol Hill all’insediamento di Donald Trump con Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg in prima fila è la perfetta rappresentazione del titolo del suo libro?
«Una rappresentazione plastica, direi. È la manifestazione estetica di un fenomeno che, come tutte le manifestazioni estetiche, ha radici profonde e complesse nel tempo».
È un titolo che richiama l’episodio evangelico di Gesù che caccia i mercanti dal tempio?
«Che avvenne non perché i mercanti vi facevano il loro lavoro, ma perché, con la venuta di Cristo, non era più necessario commerciare animali da sacrificare. Al contrario, quello che oggi i mercanti portano nel palazzo sono informazioni utili perché, senza quelle, il palazzo sceglie male».
Quali sono le radici del fenomeno?
«C’è un’aura di mistero sul lavoro dei lobbisti e sulle interazioni tra aziende e politica. Ma in realtà è un’attività normale, utile a tutti, perfino alla stessa democrazia perché allarga la possibilità per la società civile di portare alla politica dati, punti di vista e istanze».
L’Inauguration day è stata l’espressione della tecnodestra?
«No. Sicuramente Elon Musk non fa mistero della sua opinione politica ma, innanzitutto, sono mutevoli le categorie di destra e sinistra e, in secondo luogo, tutti gli altri pensano, com’è giusto che sia, principalmente ai loro interessi».
La convince di più il termine oligarchi?
«Nemmeno, non ci vedo niente di oligarchico. Semplicemente sta accadendo alla luce del sole ciò che accade da sempre: potere politico e potere economico si parlano di continuo e in modo approfondito».
Tuttavia, quel parterre non poteva non colpire: qual è il modo corretto d’interpretarlo?
«Trump si è accorto che è più intelligente portare dalla sua parte il potere dell’industria tecnologica rispetto a quello dell’industria tradizionale com’è sempre accaduto in passato».
Ha capito che i big tech sono strategici.
«È una vittoria di Trump più che di Musk, il quale avrebbe potuto influenzare anche l’amministrazione precedente».
Dobbiamo considerarlo come un plateale endorsement pro Trump?
«Sì, bravo Trump ad averlo ottenuto in modo così plastico. Ma non era diversa la situazione quando le piattaforme collaboravano quotidianamente con l’amministrazione Biden. La differenza è che Biden non ha saputo sfruttare a suo vantaggio quella collaborazione».
Federico Rampini ha sottolineato la velocità del nuovo riposizionamento.
«Specialmente durante la pandemia ci sono prove di contatti giornalieri fra le piattaforme e il governo americano per decidere cosa si potesse dire e cosa no. Il livello d’interazione era così intenso che come allora le big tech erano sintonizzate su quale dovesse essere il loro ruolo, così lo sono adesso, con la nuova presidenza».
Perché il bersaglio principale delle critiche è Elon Musk?
«Perché si espone politicamente in prima persona da uomo più ricco del mondo. In questo è diverso da Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e gli altri».
Perché si stigmatizzano il presunto saluto romano, le interferenze sui governi europei e i conflitti d’interessi, mentre non si dice nulla su altre distorsioni come il transumanesimo, il ricorso all’utero in affitto e, in generale, il potere salvifico della tecnica?
«È un tentativo di framing, cioè di inquadrare una persona estremamente complessa dentro categorie note alla maggioranza su cui è più facile fare propaganda».
Lo si riduce in un ambito stretto omettendo inclinazioni più prossime al mainstream?
«Che lo renderebbero difficile da comprendere alle persone comuni».
È giusto allarmarsi se l’uomo più potente e l’uomo più ricco del mondo si alleano?
«Mi porrei piuttosto il problema della dipendenza dell’Italia e dell’Europa dal potere politico e tecnologico americano. Ma la responsabilità di questa dipendenza è nostra, non loro».
È giusto alzare il muro contro Starlink per proteggere la tecnologia europea?
«Con i soldi del superbonus avremmo potuto fare cinque Starlink per l’Italia».
La tecnologia europea è competitiva?
«Non lo è a causa di scelte compiute in passato. Bisognerebbe investire sulle tecnologie che determineranno i prossimi dieci o vent’anni».
Perché fino a ieri il cosiddetto allarme democratico non c’era?
«Per un fattore estetico: e qui torniamo alla brutale evidenza con cui quella foto ha reso esplicito il rapporto stretto fra poteri».
I motivi di allarme c’erano anche prima?
«A mio parere erano enormemente superiori. Perché i rapporti tra questi poteri erano non visibili e non trasparenti e avevano obiettivi prevalentemente di censura. Oggi hanno obiettivi di supremazia dell’economia americana».
Su questo fronte, come si è visto con l’intervento al Forum di Davos, i rapporti fra Trump e l’Europa sono destinati a inasprirsi?
«Trump fa gli interessi degli Stati Uniti, l’Europa dovrebbe imparare a fare i propri. A mio avviso non è nei suoi interessi alzare muri di leggi e regolamenti».
Che ruolo può avere Giorgia Meloni in questo scenario?
«Speriamo che faccia da àncora di salvataggio, colmando il vuoto lasciato dall’assenza di dialogo con le istituzioni europee».
Tornando al controllo dell’informazione, durante l’amministrazione Biden non si faceva che parlare di fake news.
«E questa veniva considerata un’azione meritoria. Ma come ha recentemente ammesso Zuckerberg si è trattato di un errore di valutazione».
I grandi media hanno ignorato la notizia delle pressioni dell’amministrazione Biden su Meta relative ai vaccini anti Covid e i loro effetti avversi.
«I media tradizionali sono abituati al controllo politico e l’idea che i social media possano liberarsene li spaventa perché potrebbe indirettamente indebolirli».
È una gara a censurare meglio?
«Nelle dirigenze dei media tradizionali si pensa che i social media dovrebbero essere sottoposti allo stesso trattamento cui sono sottoposti loro. Ma allo stesso tempo si pensa che è una cosa da non far conoscere ai cittadini».
Come va interpretato l’atteggiamento morbido di Trump verso TikTok?
«È una geniale operazione di marketing politico che non ha nessuna base sostanziale, ma aiuta Trump a posizionarsi come vicino agli utenti della piattaforma e ai giovani. Mi ha colpito che nelle 24 ore di blocco della piattaforma la schermata riportava esplicitamente la fiducia che Trump risolvesse la situazione».
Il riposizionamento delle big tech serve a ottenere un trattamento fiscale più vantaggioso da Trump?
«Non credo, perché paradossalmente il fisco non è uno dei principali problemi delle piattaforme. Lo è di più la possibilità di sperimentare modelli di business e uniformità di regole nei Paesi in cui operano. Un esempio è il limite allo sviluppo dell’intelligenza artificiale dovuto alle regole europee che è un ostacolo enorme al business delle piattaforme in Europa».
Come dobbiamo catalogare il silenzio che ha avvolto la notizia dei fondi Ue usati dall’ex vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans per pagare associazioni ambientaliste per le campagne a sostegno dell’agenda green?
«È un fatto gravissimo perché sono soldi pubblici, mentre il lobbing è fatto con soldi privati spesi legittimamente, fino a prova contraria».
Anche qui ritorna l’atteggiamento omertoso dei media.
«È molto grave perché, ripeto, si tratta di soldi pubblici usati per un’azione esterna al mandato istituzionale di Timmermans. Il silenzio dei media, con pochissime eccezioni, purtroppo ha una natura ideologica che dipende da un profondo imbarazzo».
Perché per lei la priorità non è difendere il palazzo dai mercanti, ma difendere i mercanti dal palazzo?
«Perché la politica sfrutta le lobby come capro espiatorio di mancate scelte, mentre più trasparenza sugli interessi privati costringerebbe la politica ad assumersi le proprie responsabilità».
Per esempio?
«Le vicende dei taxi e dei balneari su cui la politica rimanda, imputando la decisione alle categorie».
Fino a qualche mese fa i social media erano palestra e veicolo della cultura woke, del gender e del green deal, perché ora non lo sono più?
«Giocano un ruolo importante le regole interne alle piattaforme, mentre dal punto di vista politico e sociale un cambio di vento è visibile da qualche anno. Musk si è fatto interprete di questo cambio di vento. Sarà interessante vedere cosa arriverà in Europa, specialmente nelle aziende. È lì che sono cambiate le strutture, le politiche e le decisioni. In tante aziende non si sono potuti assumere uomini per anni».
Diverse aziende hanno sospeso l’adesione ai protocolli Die (diversity inclusion e equality).
«Non fanno notizia per ora e non sono sicuro che siano così tante. Infine, bisogna vedere come si concretizzerà questa sospensione».
«Niente è più forte di un’idea di cui sia giunto il tempo» è un’espressione attribuita dal politologo John Wells Kingdon a Victor Hugo. Sembra che in molte parti del mondo cresca il consenso verso posizioni conservatrici, com’è maturato il tempo di questa idea?
«È maturato dagli shock digitale, energetico e geopolitico che hanno aumentato l’incertezza diffusa e spinto le persone a tirare il freno e conservare il più possibile ciò che hanno sempre conosciuto e capito meglio».
Tuttavia, i dati economici e sociali indicano un maggior benessere rispetto a qualche anno fa. O forse si tratta più di benavere che di benessere?
«Quello che conta è la percezione e la percezione è di un mondo che va velocissimo e in cui le certezze sono sempre meno».
Ciò a cui stiamo assistendo è un cambiamento culturale, una ribellione all’establishment o una mutazione di tipo economico e geopolitico?
«Nessuna delle due. Credo sia il cambiamento in una direzione che è influenzata sempre meno dalla politica e sempre più dalle imprese».
Concorda con chi parla di fine della globalizzazione?
«No. Esiste una forte tensione tra reti digitali e fisiche sempre più globali ed esperienze e consumi sempre più individuali. Ma il mondo di per sé è molto più connesso di quanto la politica voglia far sembrare».
C’è da rallegrarsene?
«La connessione di per sé è un bene, ma ovviamente richiede grande consapevolezza e capacità critica».

 

La Verità, 25 gennaio 2025

Sinner, ragazzo speciale, è il Master del 2024

Ormai è chiaro, Jannik Sinner ha qualcosa di diverso. Più precisamente, è qualcosa di diverso. Una persona speciale. Non solo un atleta speciale, che fa cose straordinarie sul campo da tennis. Ieri sera il numero 1 del mondo si è aggiudicato il primo Master della sua carriera dominando Taylor Fritz per 6-4 6-4 con una gragnola di ace e bissando il risultato della partita di round robin. Un torneo vinto senza perdere un set, non accadeva da 40 anni. Anche ieri sera come sabato, al termine del match vittorioso contro Casper Rudd, numero 6 del ranking, il pubblico non la smetteva di applaudire, di tributargli cori: olè olè olè Sinner, Sinner… Stento a ricordare un’immedesimazione così piena degli sportivi nel proprio idolo. Il fatto è che, oltre ai miglioramenti apportati nel gioco, con un talento più vicino a quello di Novak Djokovic che a quello di Roger Federer, di cui ancora non conosciamo i limiti, il campione altoatesino sta cambiando il concetto di fuoriclasse in tutto ciò che fa quotidianamente.

Per descrivere la sua diversità, il vocabolario cosmico è quello cui più ricorrono i commentatori: «Ci ha portato sulla luna», ha detto Paolo Bertolucci. Un campione di un altro pianeta. Un alieno. Un marziano. Un superuomo. Forse solo un ragazzo toccato dalla grazia. O, se preferite, una persona nella quale la natura si esprime in modo particolarmente felice. Detto dei miglioramenti tecnici nel gioco, dal servizio alla volée, dalla tenuta fisica al giocare meglio i punti decisivi come dimostra il 75% dei tie break vinti quest’anno, 14 degli ultimi 15, Sinner è super anche sul piano mediatico. Ieri, a conclusione delle Atp Finals disputate a Torino, dove rimarranno altri cinque anni, il sindaco Stefano Lo Russo ha annunciato di volergli dare la cittadinanza onoraria perché «è veicolo di buon tennis ma anche dell’immagine della città».

Guardiamo il pubblico. Non ho ricordi di un campione che abbia influenzato i tifosi fino a farli agghindare con parrucche e outfit intonati al color carota dei suoi capelli. Sono felici di identificarsi in lui non solo perché ha un rovescio al fulmicotone. Ma per la spontaneità che trasmette in tanti gesti. La stessa che gli fa dare il cinque a un raccattapalle. Che gli fa tenere l’ombrello al posto della hostess in una pausa di gioco. Che lo fa portare acqua, ghiaccio e asciugamani a una spettatrice in difficoltà per un colpo di calore. Che lo fa giocare a tennis con un atleta in sedia a rotelle. Gesti semplici e inusuali nel circuito milionario del tennis. «Non sto salvando l’umanità», li ha ridimensionati lui. Al di là dell’empatia e dell’umiltà tipiche di un ragazzo nato a un passo dal confine con l’Austria, il numero 1 del mondo è a suo modo innovatore anche nel rapporto con i media. Giovedì scorso il suo match contro Daniil Medvedev, disputato a passaggio del turno già praticamente acquisito, ha conteso un po’ di audience alla partita della Nazionale di calcio contro il Belgio per la Nations League programmata allo stesso orario. È finita 6,8 milioni di spettatori per l’Italia a 2,8 per Sinner (sommando gli ascolti di Rai 2 e Sky Sport). Ma quello che conta è che si sia fatto il raffronto, che ci sia stata partita tra uno sport ultrapopolare e un altro ancora un filo elitario. Merito di questo extraterrestre entrato nelle preferenze degli italiani e non solo. Persino gli spot pubblicitari quando c’è lui strappano un sorriso grazie alla sua autoironia. Come quello di un importante marchio di caffè ambientato sul set dello spot stesso che, a causa del suo perfezionismo, gli fa chiedere ulteriori prove che esasperano gli operatori. O quello di un marchio bancario in cui fa ingresso roteando la racchetta sul campo da tennis al fianco di un bimbo titubante e che, rinfrancato, si accinge a battere per dare inizio alla partita di doppio.

Certo, non bisogna esagerare con gli elogi, rischiando di nuocergli. Ma si possono riconoscere i pregi di un campione nel quale ci riconosciamo e del quale possiamo andiamo fieri nella sua interezza.

 

La Verità, 18 novembre 2024

Breve apologo sui buoni che ci guardano dall’alto

I buoni digrignano i denti. I buoni schiumano rabbia. I buoni inarcano il sopracciglio. I buoni sanno che gli altri sbagliano. Perché, loro, la sanno lunga. Più lunga. Perciò hanno una risposta per tutto.

I buoni non restano spiazzati. I buoni sono pronti a resistere. A lottare ancora. Alla fine, vedrete, avranno ragione loro.

E, comunque, un po’ se lo aspettavano.

I buoni osservano con aria di sufficienza. I buoni non si scompongono. I buoni sono dalla parte giusta della storia. Che all’ultimo li premierà.

I buoni non sono volgari. Parlano bene. Hanno un vocabolario esteso. Moderno. Un vocabolario che ha fatto l’ultimo aggiornamento. Espungendo certe espressioni sfacciate, certe parole sconvenienti.

I buoni sono pensosi. Appoggiano la mascella tra il pollice e l’indice aperti a squadra. Hanno la montatura degli occhiali all’ultima moda e le lenti sempre pulite.

I buoni hanno letto i libri giusti. Delle case editrici giuste. Vanno ai festival che fanno tendenza. Sono abbonati alle piattaforme chic.

I buoni frequentano i locali giusti. Viaggiano verso nuove mete. Fanno diete salutari.

I buoni sono vaccinati a tutto. E contro tutto.

I buoni non si sporcano le mani. Non si confondono con certe storie. Restano a una certa distanza. Scuotono il capo per commiserazione.
I buoni tirano le fila. Hanno le carte in regola. Uniscono i puntini. Hanno sempre l’ultima parola.
I buoni scrivono sulle testate importanti. I buoni fanno opinione. Fanno tendenza. Dettano le mode. E gli argomenti di conversazione degli aperitivi.
I buoni sono letti e ascoltati dalle persone che contano. Ma disdegnano il potere, loro.

I buoni hanno in mano i nuovi media. I buoni sono smart. Sono sexy. Sono trendy. Sono green. Sono cool.

I buoni influenzano. Persuadono. Scolpiscono i pensieri. Forgiano il pensiero.
I buoni sono democratici. Democraticissimi. Sono pronti a immolarsi perché anche gli altri possano esprimersi. Ma qualche volta no, se non la pensi come loro non ti fanno parlare. Per un bene superiore, s’intende. Il bene della democrazia.

I buoni sanno come devono andare le cose. Per loro, ma anche per gli altri. Perché sono dei bravi pedagoghi. E se le cose non vanno come dovrebbero, non è colpa loro ma di chi non ha capito.

I buoni sanno che cosa è giusto desiderare. Cosa è meglio auspicare. Cosa augurarsi. Per il bene di tutti.

I buoni volano alto. Molto alto. A volte troppo. La realtà è qui e ora, un po’ più in basso? Fa niente.
Quando questa roba che sta in basso si presenta, improvvisa, «qualcosa dev’essere andato storto». Sì.

Però i buoni non arretrano. Non demordono. Sono indomiti.

Il fatto è che i buoni sono superiori. Veramente superiori. E ti guardano da lassù.
Perché sono i migliori. E hanno una parola buona per tutti. Cioè, soprattutto per quelli come loro. Un po’ come i Farisei…

Come dite? I buoni sono sempre stati così. Certo. Ma adesso lo sono un po’ di più. Sono ancora più buoni. Ancora migliori di prima. Però, forse, nemmeno loro sono contenti di questa vita schifosa. Già.

Ma, come diceva un vecchio burlone, «potrebbe essere peggio. Potrebbe piovere».

«L’attualità ce la racconta l’establishment»

Buongiorno Peter Gomez, da vicedirettore a condirettore del Fatto quotidiano che cosa cambia?

«Resto direttore del sito e del mensile Millennium. Qui a Roma lavorerò all’integrazione tra giornale cartaceo e online. Le edicole chiudono e sempre più copie sono vendute in forma digitale».

Le edicole chiudono e i lettori calano?

«Quelli del Fatto quotidiano di Marco Travaglio stanno aumentando. Crescono le copie digitali e degli abbonamenti cartacei, oltre 50.000 in totale».

Da Milano a Roma, una bella sterzata…

«Mia figlia i miei affetti sono a Milano e quando le cose si sistemeranno spero di poterci rimanere di più. Ho sempre rifuggito Roma, che mi piace molto, ma è la città del potere. E ai giornalisti non fa bene star troppo vicino al potere, anche se per raccontarlo è necessario».

Altre novità professionali?

«Da lunedì sarò ospite due volte la settimana di Giù la maschera, il nuovo programma di Marcello Foa su Radio Uno».

Si era parlato di lei su Rai 3 al posto di Bianca Berlinguer.

«L’ho letto anch’io sui giornali, ma non c’è mai stato niente di concreto. A un certo punto Repubblica ha scritto che Giuseppe Conte voleva impormi per una sorta di ricatto. Qualche volta Conte l’ho intervistato, ma ci avrò parlato sei o sette volte in tutto. Poi il Corriere della Sera ha scritto che la mia partecipazione al programma di Foa è in quota 5 stelle».

Invece?

«Anche se la pensiamo diversamente su diverse cose, io e Foa siamo stati colleghi al Giornale di Indro Montanelli e trovo che in passato Marcello sia stato attaccato in modo ignobile. Quando mi ha proposto di collaborare a un programma pluralista e di qualità ho accettato di buon grado. L’unica cosa vera in questi anni è che, ai tempi del governo gialloverde, ho rifiutato la direzione del Tg1 per coerenza con il fatto che ho sempre scritto “fuori i partiti dalla Rai”».

È vero che potrebbe comunque approdare in Rai con La confessione?

«Purtroppo no. Sul Nove, dove il programma continuerà, ho sempre avuto libertà assoluta. Se arrivasse un’offerta la prenderei in considerazione perché la Rai è la Rai».

Perché al Tg1 no e un programma sì?

«Se il programma non funziona ti chiudono. Con la riforma voluta da Renzi la Rai è nelle mani del governo e la politica tormenta i direttori dei tg più di prima».

Come valuta gli abbandoni di alcuni professionisti all’arrivo della nuova dirigenza?

«Non ci sono epurati, ma persone che sono andate a guadagnare di più e con l’idea di sentirsi più libere. Fabio Fazio non è andato al Nove quando è arrivata la nuova dirigenza, è stato il cda di Carlo Fuortes a non aver avviato la trattativa per confermarlo».

Se ne sono andati anche Massimo Gramellini e Lucia Annunziata: se si è in dissenso con la nuova linea non è più da schiena dritta restare?

«Secondo me, sì. Però non riesco a biasimare chi pensa che il lavoro sarebbe stato impossibile. Mi ero fatto una cattiva opinione di Lucia Annunziata quando sembrava che si candidasse come europarlamentare del Pd. Ora che l’ha smentito l’ho rivalutata».

Quest’estate si è tornati a parlare della strage di Bologna e dell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia su Ustica.

«Sulla strage di Bologna ha fatto tutto Marcello De Angelis, giurando che Mambro, Fioravanti e Ciavardini non c’entravano. È troppo comodo smorzare i toni quando scoppia il polverone. Su Ustica ho un atteggiamento diverso rispetto a quando fioccavano le tesi complottiste. Ora mi sembra una grande storia giornalistica, anche se vedo poche novità. Mi pare che i lettori guardino a Ustica come ai cold case italiani, tipo la scomparsa di Emanuela Orlandi o la fine di Simonetta Cesaroni».

I misteri del passato hanno riempito l’assenza di grandi gialli estivi?

«In parte, sì. Noto che i giornali di destra stentano un po’ ora che governa Giorgia Meloni. Varrebbe anche a parti rovesciate, se ci fosse Conte al suo posto. A me sarebbe piaciuto fare questo mestiere quand’era vincente il giornalismo british, ma oggi funzionano le testate di opinione. Non si possono più portare a esempio nemmeno i giornali americani che sono stati embedded durante la guerra in Iraq e non si sono accorti dell’ascesa di Donald Trump».

Di che cosa è sintomo il caso Vannacci?

«Di quanto stiamo dicendo. Premetto: il generale è libero di dire quello che vuole ma, al di là di quello che c’è scritto nei codici, chi è dipendente pubblico ha obblighi maggiori rispetto a chi non lo è. Se esprimi opinioni critiche sui gay, ai cittadini può venire il dubbio che con quella divisa non eserciti il tuo ruolo in modo imparziale. Per lo stesso motivo disapprovo che un magistrato entri in politica o che lo facciano i giornalisti. Prendiamo un fatto di attualità: il problema di Andrea Giambruno è che è il compagno di Giorgia Meloni e chi lo guarda in video può percepirlo come un ventriloquo».

Giorgia Meloni ha risposto a questa obiezione difendendo la libertà di stampa: vale pure per Giambruno, o no?

«Secondo me tutto dipende dal rapporto che si vuole avere con il pubblico. Credo che chi ha un ruolo di arbitro nella convivenza civile abbia un dovere in più. Quando Enrico Letta diventò premier, Gianna Fregonara smise di scrivere sul Corriere, mentre Cinzia Sasso si ritirò quando Giuliano Pisapia divenne sindaco di Milano».

Il pubblico è così ingenuo?

«Se Giambruno non fosse il compagno di Meloni le sue parole non sarebbero state così rilevanti. Per dire, Nunzia De Girolamo è brava ma, più in piccolo, lo stesso conflitto si presenterà anche per lei, ex ministra del governo Berlusconi e moglie del numero due del Pd. Se eviterà di parlarne qualcuno potrà pensare che non vuole litigare col marito».

Tornando a Vannacci, anche noi facciamo come i media americani e sottovalutiamo fenomeni importanti?

«C’è un mondo, non so quanto grande, che la pensa come Vannacci e sta a destra di Fdi e della Lega. Ma alle urne le forze che dovrebbero rappresentarlo di solito non sfondano. Il caso Vannacci è esploso perché Repubblica ne ha scritto osteggiandolo, perché l’autore è un militare e perché il ministro Guido Crosetto lo ha destituito. Non è vero che questa Italia non viene rappresentata, La Verità e Rete 4 lo fanno. La sinistra si limita a condannarla, mentre noi giornalisti dobbiamo anche raccontarla».

Cosa pensa delle forme di protesta di Ultima generazione?

«Sono non violente, imbrattano monumenti o fermano il traffico. Certo, si viola il codice penale e sono azioni fastidiose, ma in democrazia ci sta».

Ha letto i documenti svelati da Fuori dal coro che annunciano un’escalation nei prossimi mesi?

«Se commetteranno reati è giusto che vengano perseguiti. Al momento si tratta di proteste e annunci di un movimento presente, ma non così esteso. Perché non c’è lo stesso allarme per le commemorazioni dell’omicidio Ramelli col saluto romano?».

Non c’è differenza?

«Il blocco stradale è una forma di lotta dall’Ottocento, adesso è un reato come lo è il danneggiamento di monumenti. A me sembra che si guardi più al dito che alla luna. Dovremmo preoccuparci che i ghiacciai e le calotte artiche si stanno sciogliendo. Che l’uso massiccio delle plastiche aumenta l’inquinamento, e il numero e la gravità delle malattie. Dovremmo essere contenti che i nostri figli non si battono più per il comunismo o il fascismo, ma per preservare il pianeta».

Studi di geologi e climatologi smentiscono l’eco-ideologia per la quale la causa di tutti i mali è l’uomo.

«So che ci sono posizioni diverse, ma per me questa è una battaglia ideale che, finché non si commettono reati, non mi sento di condannare. All’epoca del G8 di Genova tutta la destra era contraria ai no global non solo per il modo in cui manifestavano, ma anche per quello che sostenevano. Adesso anche Matteo Salvini riconosce che avevano ragione».

Le piace la famiglia queer di Michela Murgia?

«La mia regola di vita è non fare agli altri quello che non vorrei fosse fatto a me. Se loro stanno bene e sono felici, mi piace».

La famiglia si crea e si decide autonomamente come si vorrebbe fare con il sesso?

«La famiglia è espressione del tempo in cui si vive. Se fossi un musulmano di 400 anni fa avrei quattro mogli. Sarebbe sbagliato impedirlo se quello stato non ledesse i diritti di qualcuno e non comportasse reati».

Non si tratta di reati, ma di radice dell’essere: gli uomini non vengono al mondo per volontà propria, né come vogliono loro.

«Se cambiare sesso non danneggia qualcuno sono fatti di chi lo fa. Ciascuno ha diritto alla felicità e se la dà la famiglia queer o sentirsi oggi donna e domani uomo a me non cambia nulla».

C’è qualcosa da smascherare nella grande informazione?

«L’informazione serve agli scopi degli editori che, per esempio, guadagnano con le cliniche o con le autostrade. Oppure vogliono avere rapporti mirati con la politica. Così la realtà è raccontata con la lente dell’establishment. Quanti giornali stanno in ginocchio a pregare per rianimare il centro politico quando gli italiani non ne vogliono sapere?».

Quanto è credibile Giuseppe Conte come leader delle classi deboli?

«Secondo me, molto. La credibilità di un leader non dipende dal suo stato sociale, ma dalle sue battaglie e da quello che fa».

Elly Schlein è meno risolutiva di quanto gli elettori dem speravano?

«Temo di sì. I sondaggi danno il Pd sempre al 20% nonostante la campagna favorevole di cui ha goduto».

Cosa pensa delle sue ultime prese di posizione: «l’Italia ha diritto di sapere la verità su Ustica», «porteremo subito in aula una legge contro la propaganda fascista».

«Quando parla di propaganda fascista si rivolge a una parte del suo elettorato. Obiettivamente non vedo questo rischio in Italia. La verità su Ustica vorremmo conoscerla tutti, ma non dipende da lei».

Cosa pensa del decreto Caivano?

«Finora, in Italia la repressione penale non ha mai funzionato. Togliere il telefonino ai minori colpevoli è un provvedimento tecnicamente inattuabile».

E della tassa sugli extraprofitti?

«È giusta. Sbagliato sarebbe tassare chi guadagna grazie alla propria abilità. Chi trae profitto dalla fortuna perché la Bce alza i tassi può dare di più alla comunità. Stando ai grandi giornali, avrebbe dovuto crollare la borsa e salire lo spread, invece…».

Le manca Silvio Berlusconi?

«Da giornalista sì, perché c’era parecchio da scrivere. Da cittadino no, perché ritenevo sbagliato che facesse politica il proprietario di un grande gruppo editoriale».

 

La Verità, 9 settembre 2023

«Sul Covid obblighi, danni e silenzi: ora capiamo»

Una scrittrice polimorfa, in grado di esprimersi in varie forme letterarie». Così monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, e suo amico di lunga data, ha definito qualche giorno fa Susanna Tamaro. Si era a Caorle, alla festa organizzata da Tempi per riflettere sul tema «Chiamare le cose con il loro nome», e l’autrice di Va’ dove di porta il cuore e di un’altra quarantina di libri, tra romanzi, saggi e favole per bambini, era stata invitata per ritirare il premio intitolato a Luigi Amicone, fondatore e storico direttore della rivista. Un premio assegnato dalla giuria presieduta da Giuliano Ferrara all’ultimo libro, Tornare umani, edito da Solferino, riflessione critica ad ampio raggio sugli anni vissuti nello scacco della pandemia da Covid-19. Ma anche un premio a tutta l’opera della scrittrice triestina che vive in Umbria, cuore geografico d’Italia, «dove anch’io ho una casa», ha raccontato monsignor Camisasca, «e così ci siamo frequentati nella terra di Francesco e di Benedetto, dove si è snodata tre quarti della storia del cristianesimo mondiale». E dove Tamaro ha scelto di stare «per dedicarmi a pensare anche per chi non vuole o non può farlo, assorbito dalle incombenze quotidiane o sommerso dal rumore che avvolge a tutti i livelli la società contemporanea». È lì, nella collina vicino Orvieto, che è maturata nella scrittrice quella che potremmo chiamare dimensione sapienziale, uno sguardo lucido e profondo sulle vicende del nostro tempo. Uno sguardo anche sanamente distaccato, in forza del quale le capita di assumere posizioni di denuncia, come in questa intervista.

Susanna Tamaro, come ha accolto il premio a Tornare umani, un libro forse un po’ divisivo?

«Con grande gioia perché mi è costato molta fatica per la delicatezza dell’argomento».

Che accoglienza ha avuto al momento della pubblicazione?

«Un’accoglienza ottima da parte dei lettori dai quali continua a essere apprezzato perché è un libro esente da qualsiasi forma di fanatismo. E che si pone domande importanti su quello che abbiamo vissuto in questi anni».

Invece i grandi giornali e i media in generale come l’hanno trattato?

«Non ha avuto un’accoglienza particolarmente benevola, forse perché non è un grande romanzo o per l’argomento trattato che allora era abbastanza esplosivo: la gestione della pandemia».

Eppure è stato pubblicato da Solferino, marchio di proprietà di Urbano Cairo, editore anche del Corriere della Sera.

«E questo è un bel segno perché vuol dire che c’è un editore che crede in un autore e investe su di lui».

Perché secondo lei è un libro importante?

«Perché abbiamo passato due anni di follia totale, soggiogati da due fanatismi contrapposti. Ma le persone normali, che non parteggiavano per nessuna delle due parti, a un certo punto hanno cominciato a farsi delle domande e a cercare delle risposte. Che, però, dalla narrazione ufficiale non arrivavano e non sono arrivate».

In particolare?

«Tutte le questioni relative all’obbligo vaccinale e ai danni del vaccino. Una cosa impensabile in un Paese democratico. E poi la sproporzione dell’allarme mediatico. Si è creato terrore in modo irresponsabile per due o tre anni».

Però la gente moriva.

«Innanzitutto, va detto che per malattia si muore. E si muore anche se non si è curati o si è curati male. È chiaro che una malattia virale importante come il Covid non si può lasciarla agire nel corpo, stando a vedere che cosa succede. La vigile attesa è una tecnica che viene usata soprattutto per monitorare forme tumorali in persone anziane, per capire il rischio o il beneficio di un’eventuale operazione. Come si può applicare questo principio a una malattia che è virulenta? È chiaro che se si lascia un virus agire, poi quando si interviene è molto più difficile debellarlo».

Questo libro ha anticipato alcuni dei dibattiti seguiti nei mesi successivi?

«In qualche modo quando leggevo le cronache delle indagini di Bergamo ci ritrovavo le stesse cose che avevo scritto semplicemente osservando la realtà».

Secondo lei si stenta a parlare in modo trasparente di ciò che è accaduto nella fase acuta della pandemia?

«In Italia abbiamo vissuto una guerra civile che, invece di aprire un dialogo, avviando un tentativo di guarire la memoria dalle ferite ancora aperte, ci invita a fingere che tutto sia andato nel migliore dei modi».

Una forma di censura dolce?

«C’è una volontà di non affrontare l’argomento. Negli altri Paesi europei non è così. La situazione è diversa».

Lei ha evidenze concrete che richiederebbero una maggiore disponibilità ad affrontare questi temi? Situazioni, casi e vicende problematiche?

«Certo. Dato che vivo in un paese vedo la realtà concreta e non quella raccontata dai numeri dei telegiornali. Allora posso dire che vivo con otto persone che conosco da decine di anni. Bene, tre di loro sono state vittime di eventi avversi molto importanti. Non solo, questi eventi non sono stati segnalati anche per la scarsa sensibilità mostrata di fronte alle persone colpite. Persone la cui vita è drammaticamente cambiata».

Secondo lei, con la motivazione della pandemia e da allora in poi, si tende a espandere il controllo sulla vita quotidiana dei cittadini?

«Assolutamente sì. Un fatto che mi irrita profondamente è la legge sulla privacy. I bambini non possono più fare le foto di fine anno scolastico per la privacy, ma questo sistema di controllo conosce anche il colore delle calze che indossiamo la mattina».

Le vittime di questi eventi avversi sono invisibili per la comunicazione mainstream?

«Non solo. Siccome questi danni da vaccino sono situazioni nuove, il sistema sanitario non è in possesso degli strumenti per capire di che cosa si tratta. In Germania, per esempio, già da diversi mesi sono state create équipe mediche che lavorano per capire come curare questi effetti avversi. Pericarditi, miocarditi, infarti fulminanti, paralisi e anche danni cerebrali, compresi certi casi di demenza improvvisa esplosi dopo quattro dosi vaccinali. Situazioni con cui sono personalmente venuta a contatto e che hanno colpito anche persone con cui vivo».

Delle conseguenze negative della vaccinazione massiccia si parlava poco anche prima della morte di Silvio Berlusconi che ha monopolizzato i media negli ultimi giorni.

«Adesso lo si fa ancora meno».

Ha pensato di scrivere sull’argomento? C’è qualcosa che l’ha disturbata e qualcos’altro che invece le è piaciuto nei giorni scorsi?

«No. Dall’esplosione dell’epidemia ho smesso di leggere i giornali e anche di guardare la televisione».

Una scelta molto radicale.

«Quando è troppo è troppo. Dalla guerra in Ucraina ho chiuso tutto. Il male è male, la morte è morte. È tutto una follia».

Il suo rapporto con i giornali e i giornalisti è divenuto più diffidente dopo l’intervista che ha concesso in occasione del Salone del Libro di Torino a proposito della letteratura nelle scuole?

«Già da trent’anni anni diffido dei mass media. Tutta la vita sono stata vittima di giornalisti che si approfittano della mia ingenuità e del mio parlare libero. Mi hanno fatto dire tutto e il contrario di tutto secondo ciò che faceva comodo a loro. Anche in quell’occasione c’è stata una manipolazione del titolo del giornale. La parola odio non l’ho mai usata. Posso aver detto che la scuola fa odiare la letteratura ai ragazzi. Ma è la verità e dobbiamo capire perché».

Basta poco per cadere in qualche trappola?

«Purtroppo il punto d’arrivo finale di questa situazione è che le persone più sensibili sceglieranno il silenzio».

Se fosse una professoressa di lettere delle scuole superiori come, in poche parole, proverebbe ad attrarre gli studenti alla lettura?

«Facendo capire che la letteratura è qualcosa che riguarda profondamente il cuore dell’uomo e la sua capacità di comprendersi e comprendere».

A proposito di persone sensibili che scelgono il silenzio, conosceva i romanzi di Cormac McCarthy?

«Ho letto La strada e visto i film tratti dalle sue opere».

Sta lavorando a qualcosa, un nuovo saggio o romanzo?

« Dopo la fatica di Tornare umani, sto finendo di lavorare a un romanzo che uscirà in autunno».

Nessuna anticipazione?

«Non voglio spoilerare niente. Sarà una grande sorpresa».

 

La Verità, 20 giugno 2023

«America divisa, Biden dovrà trattare su tutto»

Buongiorno Federico Rampini, innanzitutto come sta, visto che ha contratto il coronavirus?

«Sono ufficialmente guarito nell’Election Day, martedì 3 novembre ho avuto il primo tampone negativo dopo tre settimane. Avevo avuto sintomi lievi, e mi sentivo già guarito».

Una volta scoperto il contagio, avrebbe preferito farsi curare in Italia o la sanità americana si è comportata bene?

«Non posso fare paragoni perché non uso la sanità italiana da vent’anni. Su quella americana ho collezionato impressioni negative, è costosa e talvolta anche inefficiente. Da qui a descriverla come un inferno – uno stereotipo tra gli italiani – ce ne corre. Non si spiegherebbe perché tanti nostri connazionali vengono a curarsi qui in ospedali di eccellenza dove lavorano anche bravissimi dottori italiani, cervelli in fuga. In particolare la lezione del coronavirus è stata appresa, la reazione sia federale sia dello Stato di New York ha dato miglioramenti evidenti. I tamponi sono facili da fare, con poche attese, risultati veloci, gratuiti per tutti».

Federico Rampini vive negli Stati Uniti da vent’anni. Ha da poco pubblicato Oriente e Occidente. Massa e individuo (Einaudi). I suoi interventi a Stasera Italia su Rete 4 e soprattutto le sue corrispondenze per Repubblica sono state un osservatorio privilegiato per seguire le elezioni americane.

La probabile vittoria di Joe Biden possiamo definirla vittoria zoppa o vittoria di Pirro?

«Vittoria zoppa. Non c’è stata l’Onda blu che molti democratici si aspettavano. La presidente della Camera, la leader democratica Nancy Pelosi, era convinta di guadagnare seggi, invece pur conservando la maggioranza ha perso dei parlamentari. Molti parlavano addirittura di una conquista democratica del Texas: una favola. Ma soprattutto i democratici hanno fallito il sorpasso al Senato. Biden dovrà negoziare tutto con i senatori repubblicani, dalle manovre economiche alle nomine. Forse gli fa piacere perché gli consente di “sterilizzare” l’ala sinistra di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Però l’equilibrio politico che esce da questo voto, se tradotto nei criteri europei, assomiglia quasi a un governo di coalizione rossoblu».

La battaglia di Trump arriverà fino alla Corte Suprema a maggioranza repubblicana?

«È la sua speranza, soprattutto in Pennsylvania. Qui però c’è un paradosso. Grazie alle nomine da lui effettuate la Corte ha una soverchiante maggioranza repubblicana: sei contro tre. Però la cultura giuridica della destra in America è molto legata al federalismo, rispetta fino all’estremo l’autonomia e le prerogative dei singoli Stati. Le leggi elettorali sono di competenza locale, non esiste una regola federale su come si contano le schede o sul voto per posta. I giudici di destra dovrebbero fare violenza ai propri principi, andando a immischiarsi nel conteggio dei voti».

Come le proteste delle «due Americhe» di questi giorni potranno trovare una conciliazione?

«Non sono ottimista. Da un lato abbiamo avuto un meraviglioso spettacolo di partecipazione di massa: hanno votato 160 milioni, il 67% degli aventi diritto, un massimo storico da oltre cent’anni. D’altro lato questa grande mobilitazione non è all’insegna della rappacificazione. L’affluenza è salita sia tra i democratici sia tra i repubblicani perché ciascuna delle due Americhe è convinta di doversi difendere dalle prevaricazioni dell’altra. Questo rifiuto di dialogare, lo vedo crescere dal giorno in cui mi trasferii a vivere in questo Paese, ormai più di vent’anni fa. Abitavo in California quando ci fu l’elezione contestata in Florida nel 2000, Bush-Gore. L’ostilità tra le due Americhe era aspra già allora, non è legata al personaggio Trump. Lui ne è un risultato».

Come giudica la decisione delle reti televisive di tagliare in diretta la denuncia di Trump di brogli e la censura cui l’ha sottoposto Twitter?

«Sono decisioni senza precedenti, nel paese del Primo emendamento dove perfino l’apologia del nazismo è consentita. Però è senza precedenti anche un presidente che dichiara corrotto e illegittimo il sistema elettorale del suo Paese. Se Trump si ostina a descrivere gli Stati Uniti come il Venezuela, scatena reazioni di autodifesa che sono estreme ma comprensibili».

Che lezione si può trarre dal fatto che anche stavolta sondaggisti e media hanno clamorosamente sbagliato le previsioni?

«Non hanno imparato nulla dalla débâcle del 2016. Fino alla vigilia del voto assegnavano la Florida a Biden, per esempio. Tutti i numeri erano sbilanciati in favore di Biden, mai nell’altra direzione. Una vergogna. Il disastro del 2016 poteva essere spiegato dall’anomalia del fenomeno Trump. Perseverare quattro anni dopo nella sottovalutazione del suo consenso è imperdonabile».

Scambiano i loro desideri per fatti?

«Questa tornata elettorale ha smentito una rappresentazione dell’America che da quattro anni prevale sui media progressisti: Cnn, New York Times, Washington Post. Hanno raccontato una vasta reazione di rigetto verso Trump, che non c’è stata. Hanno annunciato svolte epocali a ripetizione, ciascuna delle quali doveva affondare questo presidente: lo scandalo del Russiagate, l’impeachment, il coronavirus, la recessione, le proteste contro il razzismo dopo l’uccisione di George Floyd. La geografia elettorale invece è stabile. Grosso modo i rapporti di forze dei due schieramenti sono rimasti al 2016, come se nulla fosse accaduto. Trump è sempre rimasto un presidente di minoranza, i suoi consensi oscillano attorno al 45% a livello nazionale, ma quel consenso è intatto. Gli spostamenti, dove ci sono stati, sono modesti. Il più significativo per assegnare la Casa Bianca a Biden, è la parziale riconquista di voti operai nell’Upper Midwest: Wisconsin e Michigan. È la “missione compiuta” del vecchio Joe, il salvatore dopo la sconfitta di Hillary Clinton. Però la maggioranza degli operai ha continuato a votare Trump».

Perdono di vista l’America profonda?

«La maggior parte degli intellettuali progressisti e dei giornalisti di sinistra non prova neppure a capire l’America profonda. Preferisce giudicarla, usando categorie morali: razzista, ignorante, fascista, bigotta. Ha perso ogni curiosità. Sia chiaro, anche dall’altra parte dominano stereotipi e pregiudizi. Fox News ha dei commentatori che descrivono New York e la California come Sodoma e Gomorra. Purtroppo questo fa bene al conto economico di tv e giornali, per cui nessuno ha interesse a cambiare atteggiamento».

Perché l’onda del Black Lives Matter non ha fatto crescere l’Onda blu di Biden?

«Trump è andato un po’ meglio del previsto anche tra gli afroamericani, a dispetto di tutta la retorica sulla “rivoluzione antirazzista” di Black Lives Matter. Certi afroamericani considerano positivo il bilancio economico dei primi tre anni di Trump, e non gli addebitano il disastro della recessione post-pandemia, anzi pensano che le sue ricette siano più adatte a tirare fuori l’economia da questa crisi. Le proteste antirazzismo in certe zone hanno danneggiato la sinistra. Se sei afroamericano e commerciante, o piccolo imprenditore, o proprietario di ristorante, e hai visto gli spacciatori e i capi gang del tuo quartiere mettersi le magliette di Black Lives Matter, impugnare le mazze da baseball, spaccare le vetrine per svuotare i negozi, giustamente voti per chi sta dalla parte della polizia. Lo slogan “togliamo fondi alla polizia”, pur sconfessato da Biden, è stato gridato nelle piazze per mesi, ha l’appoggio della sinistra radicale, ed è realtà nelle due maggiori metropoli americane grazie ai loro sindaci democratici: Bill de Blasio a New York, Eric Garcetti a Los Angeles».

Quanto Trump ha pagato la gestione superficiale e altalenante della pandemia?

«Di sicuro chi ha votato per Biden mette in testa alle priorità una risposta più efficace alla pandemia».

C’è la possibilità che dopo pochi mesi Biden si dimetta per far subentrare la sua vice Kamala Harris?

«Non ci credo. Questo rientra nei sogni di quella sinistra ultra politically correct che non accetta un presidente bianco, maschio, anglosassone e pure anziano. Fin dalla sua scelta di Kamala l’hanno voluta descrivere come la vera presidente. Biden non si farà da parte, finché la salute lo assiste. Quel che è molto probabile, è che non intenda ricandidarsi per un secondo mandato. Kamala aspetti il 2024».

L’identità progressista non sfonda perché è una «coalizione delle minoranze»?

«Trump ha avuto successo tra gli ispanici in Florida. L’idea che gli ex immigrati siano naturalmente di sinistra è un’illusione del partito democratico. Gli ex immigrati venuti da Cuba ma anche dal Messico o da Portorico, se hanno avuto qualche successo economico diffidano di una sinistra che istintivamente cura ogni problema a colpi di tasse e spesa pubblica. Se hanno ottenuto la cittadinanza americana nel rispetto delle leggi, diffidano di una sinistra radicale che vuole aprire le frontiere anche a chi entra violando le leggi».

Paul Auster che ha detto che per i suoi elettori «Trump è un culto religioso, lo seguono come i tedeschi seguivano Hitler».

«Ci sono dei filonazisti tra i seguaci di Trump. L’atteggiamento da culto religioso esiste, ma c’è il fenomeno speculare a sinistra. Certi ultrà di Black Lives Matter, o i pasdaran del politically correct che fanno le purghe dei moderati nelle redazioni dei giornali, sono eredi dei grandi risvegli protestanti puritani dell’Ottocento”.

Secondo lei, Biden, sensibile ai diritti civili, che politica adotterà nei confronti della Cina?

«Nessuno sconto alla Cina, ormai anche i democratici la giudicano un rivale minaccioso, da fermare. Però Biden investirà in una politica delle alleanze con Europa, Giappone, Corea del Sud».

Come spiega il fatto che in Cina oggi l’epidemia sembra sconfitta?

«Una scrittrice dissidente cinese ha appena pubblicato in inglese il suo Diario da Wuhan, la città dove abita. Descrive i metodi autoritari usati nel lockdown, però dà atto anche di una forte adesione volontaria della popolazione».

Quanta responsabilità ha il governo cinese nella mancanza di trasparenza con cui è stata gestita la pandemia?

«Enormi, gravissime, imperdonabili. Però siamo ormai nella seconda fase, dove il bilancio che conta è un altro: l’economia cinese è già ripartita, l’Occidente no».

 

La Verità, 7 novembre 2020

 

Black Mirror interattivo sul tempo e il libero arbitrio

Un bivio dopo l’altro. Un’alternativa secca dietro l’altra, fra due opzioni. Prendi la pasticca o la rifiuti? Vai dalla psicologa o segui l’amico carismatico? Rovesci il tè sulla tastiera o distruggi il computer con la memoria esaurita? È Black Mirror: Bandersnatch, primo film interattivo prodotto e distribuito da Netflix, evento unico diretto da David Slade, della durata di un’ora e mezza che può raddoppiare a seconda delle scelte fatte dal telespettatore. Mentre scorrono le immagini, alla base dello schermo compaiono le due opzioni da cliccare sul telecomando delle tv di ultima generazione o sul mouse per decidere l’azione del protagonista. Niente di epocale, nessuna lotta tra bene e male, tra giusto o sbagliato. In prevalenza, sono scelte di gusto o alternative tra qualcosa di più prudente e qualcos’altro di più avventuroso o trasgressivo. Però non bisogna tirarsela da burattinai della storia perché può succedere di scartare una strada e di ritrovarsi a imboccarla ugualmente dopo una curva della trama.

Nel luglio dell’orwelliano 1984, Stefan (Fionn Whitehead), giovane e impacciato programmatore informatico londinese con trauma infantile alle spalle, propone alla Tuckersoft, azienda di videogiochi, di crearne uno da Bandersnatch, il romanzo multitrama di un pazzo visionario, più noto per aver tagliato la testa alla moglie. Quisquilie; quello che deve decidere è se lavorare a fianco del miglior programmatore di videogame in circolazione, lasciandosene inevitabilmente condizionare, o se rintanarsi in camera, geloso della propria indipendenza. Click e si avanza fino al prossimo bivio: entrare nella «follia creativa» o finire dentro il buco della «guerra contro la tua testa»? Se scegli la via più sterile può capitare di dover riannodare i fili della trama. Come deve fare Stefan con il suo passato, segnato dalla morte della madre. Tra flashback e incubi complottardi, tra esperienze psichedeliche e mondo virtuale, tra realtà e finzione, i piani della storia si sovrappongono e rincorrono di continuo. Ma proprio l’interattività non fa perdere il filo allo spettatore. Perché, se «il passato è immutabile e non lo si può cambiare», il futuro è tutto da costruire attraverso le nostre scelte, proprio come in un videogame. O forse no? E le cose sono un tantino più complicate… Anche perché, magari, «qualcuno ci controlla dal futuro», e chissà chi è… Perché, alla fine, questo Bandersnatch è soprattutto un gioco. Anzi, un video gioco. Attraverso il quale riflettere sul tempo, il libero arbitrio, lo strapotere dei media e i complotti che, forse, governano il mondo.

La Verità, 29 dicembre 2018

Risé: «Politici e giornalisti omertosi sulla cannabis»

Claudio Risé ha una vita doppia. È psicanalista e giornalista. È tra i fondatori del quotidiano La Repubblica e ha partecipato alla nascita della Comunità di San Patrignano. Vive tra Milano e Bolzano, precisamente a Renon, da dove si gode la vista mozzafiato delle vette del Sella, del Sassolungo, dello Scillar e del Catinaccio. «Sono milanese, ma ho sposato una donna di qui (Moidi Paregger, medico specializzato in omeopatia e medicina antroposofica ndr): come potevo convincerla alla metropoli?». Così lui si divide, un paio di giorni a Milano tre volte al mese, il resto quassù «vicino alla natura, non saprei trovare di meglio. E poi Sigmund Freud, che ci veniva in vacanza, scrisse a Collalbo alcuni dei suoi testi più importanti. C’è anche una lettera a Jung in cui decanta questi posti. Invece Bronislaw Malinowski, lo studioso polacco che si può considerare il fondatore dell’antropologia, stabilì qui proprio la sua dimora di famiglia. Insegnava a Londra, andava in Australia per le ricerche sulla popolazione della Melanesia, e poi tornava tra queste montagne». La casa di Risé, sviluppata in altezza, è fatta di scale e stanze strette e vetrate larghe, per godere il panorama. Le pareti, invece, non si vedono, ricoperte di libri: «Circa ventimila, di antropologia, filosofia, scienze umane, storia delle religioni, organizzazioni politiche, economia. Quelli di psicologia, invece, sono nella casa di Milano». Più che mai personaggio controcorrente, in anni di femminismo e femminilità imperanti, ha pubblicato diversi saggi dedicati al «maschio selvatico» e al padre, «assente inaccettabile». Sul settimanale Io donna del Corriere della Sera, una delle numerose testate cui collabora, cura il blog intitolato «Psiche lui».

Sigmund Freud a Renon con la moglie

Sigmund Freud a Renon con la moglie

Come fa a tenere insieme tutte queste attività?

«Grazie alla passione per la vita e alla curiosità per la psiche umana».

Lei però ha iniziato come giornalista.

«Mi ero laureato all’Institut Universitaire des Hautes Etudes Internationale di Ginevra perché volevo entrare all’Onu. Divenni allievo di Jean Meynaud, l’inventore dei gruppi di pressione, ma intanto mandavo corrispondenze economiche da Parigi e Ginevra all’Espresso. Quando vollero aprire una redazione a Milano di economia, mi fecero un’offerta importante e tornai a Milano».

Dove trovò Eugenio Scalfari.

«Era il padre nobile dell’avventura, ma presto litigammo su Michele Sindona (il banchiere e faccendiere siciliano membro della P2 ndr). Passai al Corriere, poi feci il vicedirettore di Espansione, ma quando fondò Repubblica Scalfari mi richiamò. Ho fatto il giornalista in senso stretto per dieci anni, senza esserne appagato. L’anno scorso ho festeggiato cinquant’anni d’iscrizione all’Ordine».

Come arrivò alla psicanalisi?

«In quegli anni di riflessione su me stesso tornò prepotente la curiosità per la psiche. Gli amici dicevano che era la mia vera vocazione perché da sempre rompevo le scatole con l’antropologia… Così, ripresi a studiare. Quando nacque l’Ordine degli psicologi presentai i miei lavori e iniziai a insegnare nelle università».

Tra i suoi lavori più osteggiati c’è un libro del 2007: Cannabis – Come perdere la testa, e a volte la vita.

«L’ho scritto nel 2007 quando mio figlio aveva 14 anni e l’ho dedicato a sette miei amici, alcuni dei quali morti a causa della droga».

La copertina del libro sulla cannabis di Claudio Risé

La copertina del libro sulla cannabis di Claudio Risé

Diversa dalla cannabis, immagino. Che cosa pensa del dibattito sulla liberalizzazione tornato d’attualità dopo il caso del ragazzino di Lavagna che si è ucciso durante la perquisizione della sua camera?

«Alcuni di quei miei amici sono morti proprio a causa della cannabis, erroneamente considerata una droga leggera. A fugare ogni dubbio sulla sua dannosità basta il fatto che l’hashish è molto apprezzato da chi ha interessi alla sua diffusione perché nel 95% cento dei casi è la base di partenza alla tossicodipendenza. È lo strumento d’iniziazione alla droga».

Quali effetti ha?

«Molto precisi. All’inizio trasmette una sensazione di rilassamento e di sospensione dalle contingenze immediate. Innesca uno stato di limitata incoscienza. Ci si sente un po’ fuori, ma non troppo come avviene con l’eroina e l’lsd. Si dice che è una droga sociale perché c’è qualcuno che te la propone come integrazione con i tuoi pari. E poi la prendono tutti, anche gli adulti, magari tuo padre, qualche insegnante e i politici, come dimostrò un famoso servizio delle Iene. Ben presto, soprattutto nei giovani e giovanissimi, il fumo produce isolamento. Uno degli effetti più ricorrenti sono le paranoie, le cosiddette pare, espressione non a caso nata in questi ambienti. Si crede che gli altri siano ostili. I genitori, gli amici, anche la fidanzata: non solo non ti vogliono bene, ma ti vogliono fregare».

Chi sostiene che sia innocua sottolinea che se ne fa anche un uso terapeutico.

«In maniera molto ridotta, sotto controllo medico, per patologie specifiche e con dosaggi infinitesimali».

Qundi nessun dubbio che sia nociva?

«Tutti gli istituti scientifici e medici nazionali e internazionali sono unanimi nel riconoscere la dannosità della cannabis e dei suoi derivati. E insistono affinché venga espunta dagli elenchi delle droghe leggere. Chi la assume con continuità ha un crollo nel rendimento scolastico. Oppure stenta a garantire continuità nel lavoro. In particolare nel cervello di un adolescente, che è in formazione, può produrre danni devastanti. La cannabis agisce sulle funzioni cerebrali, nervose e motorie, riduce le capacità cognitive e di memoria. Venendo assorbito attraverso i grassi, il suo principio attivo agisce anche in tempi medi lenti. Per questo la disintossicazione è molto impegnativa».

Tornando al dibattito sulla liberalizzazione, non potrebbe essere il modo per sconfiggere i cartelli dei trafficanti?

«Personalmente, non credo, ma lo Stato faccia le sue scelte. Importantissimo è che non le faccia in base all’idea falsa che l’haschish e la marijuana sono innocui. Sono indignato dalla disinformazione che sta alla base di questi discorsi. Sono sconcertato dall’acriticità, che forse è connivenza, di giornalisti e opinionisti. Due giorni dopo la vicenda di Lavagna, il Times ha pubblicato due pagine nelle quali un Lord della Camera britannica raccontava la storia di due suoi figli deceduti per overdose di skunk, un tipo di cannabis molto potente che si coltiva anche indoor. In Italia nessuno ha ripreso la notizia. Tolte rarissime eccezioni, come il professor Giuseppe Remuzzi oltre al sottoscritto, i nostri media sono omertosi».

E i nostri politici?

«Basta dire che, a differenza di Francia, Svizzera e Germania, l’Italia è l’unico Paese europeo che non ha fatto campagne di sensibilizzazione televisive o cartellonistiche contro l’assunzione di stupefacenti prima di mettersi alla guida. Insieme con la Cecoslovacchia l’Italia è il Paese con gli indicatori più elevati di consumo di droga. E, non a caso, siamo anche in testa alle classifiche di abbandono scolastico e di mancato accesso al lavoro».

A proposito di scuola, non l’ha colpita il fatto che attorno al ragazzo e alla madre di Lavagna ci fosse il vuoto, al punto che lei è ricorsa alla Guardia di finanza?

«Queste sostanze creano dipendenza. Da solo un ragazzo non riesce a uscirne. Quando con Vincenzo Muccioli andavamo a recuperare nelle sale d’aspetto delle stazioni quelli che scappavano, erano loro che ci dicevano di legarli. Quando una madre vede il crollo verticale del rendimento scolastico e il declino della passione sportiva di suo figlio non può non allarmarsi. Scuola, Chiesa, organizzazioni politiche? Restano le macerie».

Antonella Riccardi al funerale del figlio Giovanni

Antonella Riccardi al funerale del figlio Giovanni

Richiedo: che responsabilità ha la politica?

«La responsabilità principale. Prendiamo la scuola: cos’è stato fatto? La crisi della nostra società nasce dalla distruzione della scuola. L’educazione avviene lì. Un ragazzo ha bisogno di formarsi, cioè di assumere una forma. E la forma, che è fatta anche di limiti, dev’esserci qualcuno che te la dà, accompagnandoti».

Invece?

«Abbiamo criminalizzato ogni tipo di formazione. Nella scuola perché dev’essere solo istruzione. E nella famiglia perché i ruoli, il padre e la madre, sono scomparsi e tutto è interscambiabile. Poi abbiamo bandito anche la formazione religiosa perché siamo un mondo laico e il progresso è laicità. L’Occidente ha stabilito la necessità dell’assenza di regole. Così eccoci in quella che Zygmunt Bauman chiamava la società liquida, dove tutto straripa senza argini».

È la società dell’arbitrio. Un mondo in cui l’uomo è libero sia di abortire che di far figli a ogni costo.

«È la società dell’abolizione del limite. Lo dicevano già Nietzsche e Dostoevskij: “Se Dio è morto, tutto è possibile”. Invece, l’uomo si forma attraverso i limiti. La soluzione non è certo una società repressiva, ma la misura cantata dai trovatori. Oggi tutto è abbondante ed eccessivo. Il 75% delle morti deriva dal mangiare troppo, dal bere, dal drogarsi. La cannabis, che spegne e addormenta, è funzionale a questa evoluzione perché contribuisce a eliminare il senso del dramma dalla vita».

L’età più drammatica è proprio l’adolescenza. Ma se mancano gli educatori come si fa?

«L’adolescenza è l’età più delicata. Soltanto aiutando i ragazzi a riconoscere e accettare l’idea che per diventare uomo devi combattere li portiamo dentro la vita. Dobbiamo aiutarli a capire che l’esistenza è una cosa tosta. In fondo, quando la madre di Lavagna invitava a cercare lo straordinario diceva qualcosa di simile. La faccenda è anche socialmente vergognosa perché i più colpiti e indifesi di fronte alla diffusione degli stupefacenti sono gli strati più poveri, del sud, poco istruiti. Solo l’accettazione della drammaticità della vita permette di coglierne la bellezza. E farla intravedere è compito di noi adulti».

 

                                                                                                      La foto di testata è by Ludiko Film – BS

 

La Verità, 26 febbraio 2017