Tag Archivio per: Avati

La Mostra e l’inscalfibile egemonia della sinistra

E poi dicono che «la destra vuole prendersi il cinema» (Stefano Cappellini, Repubblica, 29 agosto). O, al contrario, parlando della solita egemonia culturale, che «non c’è nessun cambio di passo, nessuna svolta, nessun cambiamento reale». In una parola, «nessuna discontinuità» (Marcello Veneziani, La Verità, 6 settembre). A suo modo, la faccenda è semplice: in materia di cinema e di cultura, può succedere che, anche nelle riflessioni di commentatori abitualmente illuminati, la realtà sfochi a vantaggio delle opposte visioni e opinioni. Quella realtà che riappare, invece, in tutta la sua solidità e la sua testardaggine al momento dei verdetti delle giurie, nei palinsesti dei festival, nei comizi gratuiti e frequenti dei veneratissimi maestri.
Sabato sera l’81ª Mostra d’arte internazionale del cinema di Venezia ha licenziato un palmarès inequivocabile. Il Leone d’oro per il miglior film è andato a The Room Next Door (La stanza accanto) di Pedro Almodóvar, opera apprezzata da gran parte della critica, che afferma la necessità di una legge sull’eutanasia: «Porre fine alla propria vita è un diritto dell’essere umano. Chi deve fare le leggi deve tenerne conto», ha dettato il regista spagnolo ricevendo il premio. «Bisognerebbe però rispettare e non intervenire in queste decisioni», ha intimato a chi non condivide il suo dogma. Il Leone d’argento – Gran premio speciale della giuria è stato assegnato all’italiano Vermiglio di Maura Delpero, una pregevole storia ambientata alla fine della Seconda guerra mondiale in una famiglia montanara con un padre maschilista. Il Premio speciale della giuria, presieduta da Isabelle Huppert, l’ha conquistato l’estenuante e desolante April della regista georgiana Dea Kulumbegashvili che l’ha presentato come «un film femminista, sugli aborti clandestini». Premiato per Ecce Bombo, miglior restauro della sezione Classici, Nanni Moretti ha invece colto l’occasione, davanti al neoministro della Cultura Alessandro Giuli, per chiamare alla militanza registi e produttori che dovrebbero essere più «reattivi nei confronti della nuova pessima legge sul cinema». Cioè: la riforma sul tax credit che ha rivisto i criteri di assegnazione dei fondi pubblici, la migliore fatta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, andrebbe cancellata per consentire al cinema schierato dalla solita parte di continuare a produrre, come con Dario Franceschini, opere che non arrivano in sala o spariscono dopo un weekend. Tutto questo, solo per stare alla serata finale conclusa dalla proiezione di L’orto americano di Pupi Avati, film di chiusura della manifestazione e, dunque, allarmante sintomo dell’incipiente controllo della destra sul cinema italiano.
Scorrendo invece a ritroso il cartellone della Mostra si scopre che era farcito di denunce di militanze di destra: sempre estrema, prevaricatrice, totalitaria. A cominciare dalle trame più intime ed esistenziali, come in Jouer avec le feu, il bel film francese di Delphine e Muriel Coulin (Coppa Volpi a Vincent Lindon) che racconta l’impotenza di un padre nel fermare la deriva nazista di uno dei due figli; o come in Familia di Francesco Costabile, ispirato alla vicenda reale di Luigi Celeste, anch’egli militante di estrema destra, che uccise il padre per proteggere la madre vittima di continue violenze. Per proseguire con storie politiche in senso stretto, come in film e documentari che stigmatizzano autocrati, leader sovranisti e dittatori: su tutti, 2073 dell’inglese Asif Kapadia, che compone una galleria di responsabili dell’apocalisse globale con Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán, Narendra Modi, Javier Milei e Giorgia Meloni. E per finire con il vero evento di questa edizione, ciliegina sulla Mostra: l’anteprima mondiale di M – Il figlio del secolo che si apre con un Mussolini che si rivolge ai posteri: «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi, cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». Dello stesso tenore il comizio in sala stampa di Antonio Scurati alla presentazione della sua creatura: «Lo spettro del fascismo si aggira per l’Europa, ma non siamo noi a evocarlo, non è il mio romanzo, non è questa serie. Sono altre forze che hanno questa responsabilità».
Ecco. Questo è lo stato delle cose. Questo è l’assetto del «potere culturale preesistente e persistente» (Veneziani) per cui non si trova in giro, non solo in Italia, un regista o un autore cinematografico che si definisca «di destra». Nei giorni scorsi mi è parso sintomatico non esser riuscito a individuarne uno che potesse sostenere un’intervista distaccata e autorevole su «destra e cinema». Sarà perché non esistono due mondi più distanti tra loro di questi? Consiglio a tutti, da una parte e dall’altra, di mettersi il cuore in pace. La traversata da compiere si profila bella lunga. Ci vuol altro che la nomina di qualche direttore e di qualche manager per scalfire e ancor più per ribaltare la pluridecennale egemonia della sinistra.

 

La Verità, 9 settembre 2024

«In Zamora racconto come si vince la timidezza»

Una storia sana, sorridente e di superamento del limite. Una storia ambientata nella Milano prima di quel Sessantotto che ingrigì lo slancio del boom e del beat, la leggerezza della lambretta e della minigonna, la positività di Il mondo di Jimmy Fontana. C’è tutto questo in Zamora (dal nome di un leggendario portiere spagnolo ndr), film tratto dal romanzo di Roberto Perrone, giornalista e scrittore morto prematuramente poco più di un anno fa al quale è affettuosamente dedicato. Prodotto da Pepito, diretto dall’eclettico Neri Marcorè qui all’esordio da regista, con un cast indovinato, è uno di quei film che ha nel passaparola la migliore promozione.
Marcorè, finora nei suoi profili si leggeva «attore e imitatore», bisogna aggiornarli con una terza voce?
«Direi di sì, il debutto alla regia è un dato di fatto».
È stata la storia che ha trovato lei o il contrario?

«È stata la storia che, attraverso vari passaggi, mi ha indotto al debutto. Pensavo fosse adatta al mio modo di raccontare, peraltro tutto da sperimentare».
Aveva già deciso di dedicarsi alla regia?
«Da alcuni anni, ma l’idea si è concretizzata quando ho proposto il romanzo di Roberto Perrone al produttore Agostino Saccà».
Paola Cortellesi, Claudio Bisio, Claudia Gerini e ora lei, tanti attori e attrici che passano dietro la camera da presa sono una coincidenza?
«Credo sia un legittimo prolungamento dell’esperienza acquisita da interpreti. A un certo punto viene la curiosità di misurarsi con la direzione di altri colleghi e colleghe, di gestire una macchina complessa e affascinante come quella del set».
È la voglia di provare un’esperienza diversa, la ricerca di una nuova carriera, un senso di maggior sicurezza nell’auto-dirigersi?
«Innanzitutto, è un desiderio fine a sé stesso. Poi il futuro dipende dal presente. E considerato che per me è stata un’esperienza anche umanamente molto positiva vorrò ripeterla. Mi invogliano a farlo il gradimento che riscontro alle proiezioni e la gente che mi chiama per dirmi che apprezza tantissimo il film. Dopo questo risultato l’idea di farne un altro è naturale. Anche se non mi pongo tempi e scadenze».
Conosceva i libri di Perrone o lui personalmente?
«Ho conosciuto prima Zamora, che ho letto vent’anni fa. Poi ho conosciuto lui e siamo diventati amici. Infine, ho letto tutto di lui, mi piaceva molto come scriveva».
Che rapporto avevate?
«Parlavamo di libri, di cucina, di sport… Quando ci siamo ci siamo incontrati, anche se non ci vedevamo spessissimo, abbiamo cominciato a chiacchierare e a condividere le cose della vita».
Gli sarebbe piaciuto il suo adattamento? E alla moglie è piaciuto?
«Perrone aveva letto la sceneggiatura e si era commosso, perciò avrebbe apprezzato il film che ne è diretta conseguenza. La moglie e i figli l’hanno visto a un’anteprima a Milano ed erano molto contenti».
A lei che cosa è piaciuto di Zamora?
«Parla dell’inadeguatezza che attanaglia la vita del protagonista. E siccome, in qualche momento capita di sentirsi inadeguati, è una storia che in qualche modo ci riguarda tutti».
Chi è Walter Vismara?
«Un giovane uomo che proprio a causa di questa inadeguatezza preferisce non gettarsi nella mischia. Ma è la vita stessa che lo chiama a buttarsi. Capita a tutti di imbatterci in situazioni che non avevamo previsto e alle quali dobbiamo adeguarci attraverso scelte e comportamenti che non immaginavamo».
È l’antesignano dei nerd di oggi, uno sfigato che si riscatta, uno che capisce che non vuole avere rimpianti?
«Non è affatto uno sfigato, perché ha la sua zona di conforto dalla quale non vorrebbe uscire per evitare sorprese. È un calcolatore, come il suo mestiere induce a pensare».
Il calcolatore da contabile che si porta sottobraccio gli dà sicurezza?
«È un simbolo di questo suo atteggiamento».
Con la timidezza come la mettiamo?
«Fa parte del suo carattere. È sia causa che effetto dell’inadeguatezza che non lo aiuta nelle relazioni sociali».
Lei è timido, Marcorè?
«
Lo sono stato molto, da ragazzo. C’è molto di me adolescente in quel personaggio».
Avrebbe potuto interpretarlo lei?
«Se fosse stato un progetto di vent’anni fa, sì. A distanza di tempo ho preferito ritagliarmi un altro ruolo e dedicarmi alla regia».
Neri è un nome originale o un diminutivo?
«È così all’anagrafe. Era il nome di un amico di mio padre quand’era piccolo».
Le imitazioni aiutano a superare la timidezza?

«Sì, soprattutto nei primi anni di gioventù sono state un aiuto. L’importante è non restarci troppo dentro».
Come si arriva da Porto Sant’Elpidio, un paese di 25.000 abitanti delle Marche, a dirigere un film di successo?
«Un passo alla volta, dandosi il tempo di crescere e cercando sempre nuovi obiettivi, facendosi guidare dalla curiosità e senza troppi timori di sbagliare».
Che è anche un tratto del carattere delle persone timide?
«Potrebbe esserlo. Ma anche le persone timide sanno essere molto determinate. Anzi, a volte quelle che sembrano molto sicure fanno sempre la stessa cosa, proprio per paura di sbagliare».
Ha avuto dei maestri?
«Nelle diverse forme espressive se ne trovano tanti. A volte anche di cattivi, utili a capire dove non andare. Parlando di cinema un maestro è stato sicuramente Pupi Avati».
Ha recitato in tre suoi film e in uno di Walter Veltroni con il quale ha collaborato all’inizio del Pd: in questa regia c’è più Avati o più Veltroni?
«C’è Neri Marcorè. Non mi sono ispirato a nessuno, ho cercato di trovare il mio linguaggio, la mia sensibilità, il mio gusto per le cose. Imparo da tutti, senza voler emulare nessuno».
È un film che rischia la nostalgia, i promettenti anni Sessanta?
«Non direi. Si racconta una storia ambientata in quegli anni che possono generare nostalgia in chi li ha vissuti, ma non punta sulla nostalgia».
Nel cast c’è la ricerca dei caratteri: com’è arrivato ad Alberto Paradossi?
«Con un provino nel quale mi ha conquistato».
Cavazzoni, il suo personaggio, è ispirato a Ricky Albertosi anche se una delle sue imitazioni più riuscite era quella di Dino Zoff?
«È ispirato a quei campioni del passato che avevano un certo spessore umano. Se dovessi citare un riferimento farei il nome di Enzo Bearzot, espressione di un modo di essere sportivi al Nord, quando ancora non c’era il divismo».
Anche Cavazzoni ha bisogno di una seconda chance?
«L’amicizia con Vismara è una possibilità per ritrovare dignità e risalire la china».
Tutto raccontato anche con la musica di Umberto Bindi e Jimmy Fontana.
«La musica degli anni Sessanta ha fatto sognare, commuovere, innamorare, gioire. Credo che la colonna sonora integrata da Pacifico sia molto evocativa».
Avendo imitato a lungo Zoff, di portieri se ne intende?
«È una coincidenza. Più che altro trovo interessante il ruolo di una figura isolata in uno sport di squadra».
A differenza degli altri giocatori non ha possibilità di recupero?
«È il ruolo di maggior responsabilità della squadra. Non a caso ci si chiede se portieri si nasce o si diventa».
Vismara decide di diventarlo quando trova uno che gli dà fiducia e lo stima più di sé stesso?
«C’è bisogno di trovare o dentro di sé o nell’affetto degli altri qualcuno che ti induca a prendere in mano la tua vita senza restarne fuori».
Come mai ha scelto una storia senza risvolti ideologici per debuttare?
«Mi attraeva raccontare questo personaggio nel quale rivedevo me stesso adolescente. E anche il passaggio dalla provincia alla città come quello che ho vissuto con il mio lavoro».
Qui al centro c’è il calcio, ma lei ama il tennis e lo pratica?
«Sì».
Jannik Sinner le piace più come tennista o come persona?
«Tutti e due. Perché devo scegliere? Le due cose si integrano. È un bravo tennista perché ha una forte mentalità. È forte di testa e anche sul campo».
Che cosa dice all’Italia di oggi un campione così?
«Che si possono raggiungere risultati eccellenti attraverso l’umiltà e l’ambizione, due doti non in contraddizione».
E che cosa dice l’Italia vintage di Zamora a quella di questi anni Venti?
«Due cose. La prima, che essere brave persone porta a essere gratificati nella vita. E la seconda, che non bisogna avere fretta, ma lasciare che siano i tempi commisurati alla nostra natura a guidare le svolte».
È un film che sfiora la carineria?
«Credo ci siano tutti gli ingredienti, personaggi meno gradevoli e altri impacciati che possono risultare teneri. È un racconto che propone uno spaccato di persone nel quale ci si può ritrovare. Non mi pare prevalga la descrizione di un quadro rosa. È una commedia che fa anche molto ridere. La gente esce dal cinema col sorriso».
Il cavalier Tosetto, imprenditore brianzolo e patron della squadra di calcio aziendale è un antesignano di Silvio Berlusconi?
«Bisognerebbe chiederlo a Perrone. Personalmente non mi sono ispirato a lui né nella scrittura né nella direzione sul set. Possono esserci somiglianze anche con altri imprenditori entrati nel mondo del calcio».
Come mai il film non è in programmazione proprio a Porto Sant’Elpidio?
«Questo andrebbe chiesto all’esercente del cinema. Comunque, è proiettato nelle sale del comune confinante».
L’industria cinematografica italiana si sta davvero fermando?
«Non lo so, purtroppo. In un momento in cui ci si aspetta il successo da un certo tipo di film poi si ha la sorpresa di trovare altre opere vincenti al botteghino. In questi ultimi mesi vedo che c’è meno lavoro. Non so da cosa dipenda, ma è un dato di fatto».
Fa bene il ministro Gennaro Sangiuliano a rivedere i criteri dei finanziamenti al cinema che spesso negli ultimi anni hanno sostenuto opere che in sala non trovavano il pubblico?
«Da una parte penso che l’ideologia politica non dovrebbe influenzare la creatività artistica. Dall’altra che sicuramente serve un criterio più attento nel selezionare le opere che meritano di essere sostenute. Ma azzerare le agevolazioni non credo sia una mossa vincente perché il cinema è un’industria. E, se ci si crede, genera guadagni economici oltre che culturali».

 

La Verità, 13 aprile 2024

«Auspico che i nuovi vertici Rai siano ambiziosi»

Il regista Pupi Avati è di nuovo nei cinema con il suo ultimo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario.

Pupi Avati, che cos’è il pupiavatismo?

«È un sostantivo che mi lusinga perché sintetizza un approccio personale, teso a guardare oltre il modo di fare cinema più in voga. Cioè, essere completamente anacronistici, fuori sync rispetto alle mode, partendo dai cast e proseguendo con la scelta di storie che raccontano un’Italia provinciale, anche minima, sempre più marginalizzata».

Il modo di fare i casting è il marchio del suo cinema alternativo?

«È un cinema che rinuncia volutamente alle star del momento per cercare gli interpreti dove nessuno li cerca più o li ha mai cercati, offrendo delle opportunità rimosse a causa delle atroci regole dello star system. E decontestualizzando attori che magari, in passato, hanno raggiunto il successo in un contesto lontano da quello in cui li propongo io».

Parlando di star system, in Italia il cinema è fatto da dieci attori e dieci attrici?

«C’è una panchina molto corta alla quale si ricorre doverosamente. Quindi ho sempre il compito di convincere la committenza, i distributori, a credere in scelte molto stravaganti che vanno da Katia Ricciarelli a Renato Pozzetto a Edwige Fenech».

I suoi casting sono l’invenzione di debuttanti, la reinvenzione dei dimenticati, lo sdoganamento degli etichettati. Anche così si esprime la sua visionarietà?

«Non è solo una provocazione, ma appartiene alla dilatazione dello sguardo che va oltre alla panchina corta e al ventaglio stretto dei generi cinematografici, che invece sono i più variabili. Tranne il western, li ho frequentati tutti. Mentre molti miei colleghi sono diventati il genere di loro stessi, io non disdegno di fare un film horror, anzi, mi è necessario. O un film storico come Dante…».

Il pupiavatismo finirà nei vocabolari?

«Chissà. È un augurio, un auspicio, ma io non ci sarò più se e quando accadrà. La cosa che più mi spiace è non essere diventato modello, non aver ispirato nessuno a seguirmi. Se pensa che, per esempio, due cantanti come Cesare Cremonini e Lodo Guenzi, che si sono rivelati attori straordinari, non sono corteggiati da altri colleghi, può comprendere il mio rammarico. Resterò il solo ad aver avuto questo tipo di approccio».

Non tutti hanno la capacità di trasfigurare gli interpreti.

«Mi auguro che a Edwige Fenech, di cui tutti parlano bene, vengano offerte nuove opportunità».

Si aspettava le tante recensioni favorevoli a La quattordicesima domenica del tempo ordinario o c’è stata una svolta nell’orientamento dei critici?

«Mi aspettavo che i recensori cattolici non fossero gli unici a sollevare obiezioni riguardo a un film così pieno di valori. Le racconto un episodio. A un certo punto nel film viene diagnosticato alla moglie del giovane interpretato da Guenzi un carcinoma ovarico. Allora lui, di fronte al pessimismo dell’oncologo, per prima cosa si reca in chiesa a pregare. A un incontro pubblico alla Sapienza davanti a 500 persone ho chiesto chi ricordasse un protagonista che di fronte a una difficoltà va in una chiesa. Uno ha alzato la mano e ha detto: <Me lo ricordo nei film di don Camillo>».

Roba di oltre mezzo secolo fa.

«Per trovare qualcuno che di fronte a una brutta notizia si rivolge al trascendente dobbiamo andare indietro cinquant’anni. Eppure queste persone esistono, ma il cinema laicizzato non le considera».

Per Dante non ha avuto neanche una nomination ai David di Donatello, per La quattordicesima domenica ne avrà?

«Non credo. Finché non cambiano quelli che gestiscono il potere del cinema italiano fortemente ideologizzato io non esisto, non ci sono proprio. Ma questo fatto mi dà una forza enorme. Essere emarginato da persone che non stimi dà grande forza. Tant’è vero che sono già qui a scrivere il prossimo film».

Ce lo anticipa?

«È un film del genere gotico che ho già frequentato in passato e che mi diverte molto. A 84 anni ho ancora dei committenti perché continuo ad avere un pubblico».

È il seguito di Signor Diavolo?

«Non sarà il seguito. È un film per metà ambientato in America e per metà a Comacchio. S’intitola L’orto americano».

Dice che non viene premiato, ma Renato Pozzetto vinse per l’interpretazione in Lei mi parla ancora.

«E mi fece molto piacere. Ma anche i premi ai miei film non sono mai a me…».

Al ricevimento al Quirinale in occasione degli ultimi David, tra gli addetti ai lavori si è diffuso l’allarme che ora la destra voglia prendersi il cinema. Risulta anche a lei?

«Non saprei in che modo e con chi. Se dovessi fare una lista di colleghi con un minimo di notorietà riconducibili all’area della destra non saprei che nomi fare. Perciò direi a questi signori di tranquillizzarsi. Mi ero illuso che la vittoria della destra avrebbe suggerito a chi può farlo di cambiare le cose soprattutto nel servizio pubblico della televisione italiana, invece…».

Un argomento che le sta a cuore come aveva evidenziato già due anni fa, nel momento acuto della pandemia.

«Scrissi una lettera ai maggiori quotidiani nazionali, invitando a superare la regola del mercato per la quale i numeri dell’audience danno la qualità dei programmi, il che non è assolutamente vero. Proponevo che la terza rete fosse svuotata dalla pubblicità e convertita alla cultura. Ricevetti numerosi messaggi di apprezzamento. Perciò, ora pensavo che la destra al comando in Rai avrebbe intrapreso questa missione, ideando un progetto ambizioso che sapesse inventare programmi innovativi. Anche lasciare il dibattito politico in mano alla tv di Urbano Cairo è un errore».

Lei parla al passato, ma la nuova governance Rai si è insediata da due giorni.

«È vero. Ma gli unici rumors riguardano la sostituzione di Fabio Fazio con Massimo Giletti o di Flavio Insinna con Pino Insegno…».

Ci si fermerà a questo?

«Le faccio una rivelazione. Ho raggruppato un nucleo di intellettuali autorevolissimi e non allineati, con attività consolidate e non bisognosi di alcunché, disposti ad aiutare i governanti competenti a individuare persone e temi per gestire in modo illuminato la tv pubblica. Bene: questa proposta non ha avuto riscontri».

Ultimamente l’abbiamo vista spesso in televisione: la miglior accoglienza al suo film può esser dovuta anche all’ospitata a Che tempo che fa?

«Fazio garantisce vendita di libri e presenze al cinema, altri programmi di maggior ascolto no. Su Rai 3 assicurava un’attenzione che altrimenti non si aveva. Non so se influisca sulla critica. E non so come andrà a Discovery. Ma sono convinto che lasciarlo andar via sia stato un errore. Sarebbe stata una dimostrazione di forza tenerlo».

Ma l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes non l’ha avuta.

«Lo so bene».

 

La Verità, 17 maggio 2023

Una serie sull’ombelico del cinema italiano

Fazismo e Vanity Fair, che sono la stessa cosa; veltronismo e festival del cinema, idem: Call my agent – Italia, remake della francese Dix pour cent, diramata da Netflix e ambientata in un’agenzia cinematografica di promozione dei migliori attori e artisti del bigoncio, è la nuova serie che piace alla gente che piace. Sono tutti in visibilio, gli addetti ai lavori, perché funzionano la sceneggiatura, la regia, il cast farcito di guest star, da Paola Cortellesi a Pierfrancesco Favino, da Stefano Accorsi a Paolo Sorrentino, ognuno nella parte di sé stesso, ognuno che – senza prevaricare i veri protagonisti del racconto che sono, appunto, i loro agenti – dà il titolo all’episodio. Prodotta da Sky studios e Palomar, con la regia di Luca Ribuoli e la sceneggiatura di Lisa Nur Sultan, Call my agent – Italia ha entusiasmato i critici al completo. E se qualcuno (Marco Giusti) ha pignoleggiato sulla costruzione della storia, radicata nella Roma cinematografica e nel quartiere Prati delle sedi Rai, è perché alla fine Sky non poteva troppo indugiare sul contesto logistico, geografico, infine culturale di quel demi-monde che ha nella tv pubblica il suo epicentro. Insomma, l’agenzia Cma, dove Maurizio Lastrico (lo sfigato Gabriele), Sara Drago (l’isterica lesbica), Michele Di Mauro (lo squalo) e Marzia Ubaldi (la saggia) si affannano tra casting, set, premi e paranoie delle star sarebbe poco credibile perché poco incentrata nel suo proprio brodo di coltura. L’obiezione è sensata e coglie, forse, il tentativo di sottrarsi agli effetti nefasti dell’autoreferenzialità. Missione impossibile.

Qualche giorno fa, rispondendo a un lettore che non trovava attraente nessun film italiano in programmazione, Daniele Luttazzi scriveva: «Il cinema italiano deve spiegare, a questo punto, perché il pubblico dovrebbe uscire di casa per andare a vedere i film della solita compagnia di giro. Favino, Servillo, Abatantuono, De Sica, per dire, li ha già visti: la loro gamma emotiva quella è, da anni non hanno altro da aggiungere». Dieci attori e dieci attrici, più o meno, sempre gli stessi, fanno tutto o quasi (tra le poche eccezioni, Pupi Avati che gli attori li sceglie a modo suo e guarda caso entra di rado nell’italica premiopoli). Se già è asfissiante al cinema questa compagnia di giro, figurarsi quanto possono esserlo le paturnie dei suoi componenti nel backstage degli agenti. Non basta certo l’autoironia a rompere la gabbia del narcisismo. Ciò detto, la serie è godibile e furba. Ma il momento migliore è la tirata di Sorrentino sull’«entusiasmo immotivato, il sentimento più orrendo dell’essere umano»: sarà perché sembra presa dalla vita vera?

 

La Verità, 24 gennaio 2023

Dante al cinema ci aiuta a pensare e amare in grande

Dante campione d’incassi al cinema. E chi se l’aspettava? Chi se l’aspettava che il Sommo Poeta sbaragliasse la concorrenza dei filmoni americani e scalasse il botteghino? In pochi, diciamo la verità. Forse nemmeno lui, Pupi Avati, il regista che ha atteso 18 anni per mandare la sua opera nelle sale cinematografiche, azzardava previsioni tanto ottimistiche. Invece, da giovedì scorso, quando ha esordito al sesto posto con 65.000 euro circa, Dante è salito pian piano fino in vetta. Quarto, poi terzo e l’altro ieri, primo, con poco più di 56.000 euro e oltre 10.000 spettatori, in un giorno di partite di Champions League ed eventi vari. L’incasso totale sfiorava il mezzo milione di euro e, va detto, non si tratta certo di una cifra iperbolica. Ma, in tempi di vacche magrissime per i nostri cinema, è un risultato notevole. Prova ne sia il fatto che martedì il film di Avati (prodotto dalla Duea Film con Rai Cinema e MG production e distribuito da 01), interpretato, fra gli altri, da un magnifico Sergio Castellitto nei panni di Giovanni Boccaccio «pellegrino» nei luoghi e nell’animo del Sommo Poeta, si è messo alle spalle cartoon come Dragon Ball Super: Super Hero, blockbuster come Avatar di James Cameron e le altre pellicole italiane, a cominciare dallo sponsorizzatissimo Siccità di Paolo Virzì con Valerio Mastandrea e Silvio Orlando, per proseguire con Il signore delle formiche di Gianni Amelio e Ti mangio il cuore con Elodie.

Ma al di là dei modesti incassi delle nostre produzioni, quello che conta mettere in rilievo perché in controtendenza è il caso Dante. È presto per parlare di fenomeno, perché meno di una settimana di programmazione non basta a far primavera. Bisognerà vedere se funzionerà il passaparola e se i risultati dei primi giorni troveranno conferma anche il prossimo weekend. Ma il segnale va colto. Ricordiamoci che stiamo parlando di Dante Alighieri, gigante della letteratura mondiale, ma anche figura che oltre a suscitare universalmente soggezione, per molti è sinonimo di faticosi pomeriggi sui libri. Finora le poche eccezioni considerate in grado di allungare la vita alle agonizzanti sale cinematografiche erano i film di Supereroi, i blockbuster americani, i sequel di titoli di successo (Top gun) con platee di pubblico molto definite. È lunga la lista di opere prodotte per la fruizione diretta nelle piattaforme. O, se distribuite ottimisticamente nei cinema, resistite in sala pochi giorni prima di cedere il grande schermo a qualche commedia godereccia o a qualche cinepanettone. Invece, con Dante, il sismografo segnala che sul pianeta del pubblico italiano c’è vita.

Come detto, non era nelle previsioni. L’exploit ha spiazzato anche un critico attento come Marco Giusti, firma prestigiosa di Dagospia che quotidianamente ci aggiorna su ogni cosa si muova nel cielo della settima arte. Fin dal primo giorno di uscita ha confessato la sua «sorpresa», poi sconfinata in stupore, per il risultato di Dante. Al contrario, Camillo Langone ha raccontato di essere tornato a vedere un film al cinema dopo tre anni di diserzione dalle sale: «Corra a vederlo chi ama la poesia, le donne, il Medioevo», ha scritto sul Foglio. Ma ogni critico e ogni testata ha le proprie idiosincrasie: «A vedere Pupi Avati non ci voglio andare…», ha ribadito Giusti, chiamando in correità altri autorevoli addetti ai lavori che hanno preferito snobbarlo: «E tutti i festival, a cominciare da Venezia, che hanno fatto finta di niente?». Su questo il critico di Dagospia ha ragione da vendere: il film di Avati non è stato considerato dalla Mostra di Venezia, dove invece sono puntualmente passati Siccità, Il signore delle formiche, Ti mangio il cuore… Così ora è facile ascrivere il successo di Dante al cambio di scenario scaturito dalle urne del 25 settembre e all’avvento dell’Italia «melonsalviniana». Personalmente, non credo c’entri granché. Non credo che per andare a vedere un bel film, quando c’è, serva «la vittoria delle destre». Credo, piuttosto, c’entri il fatto che Dante è, appunto, un bel film, che narra, attraverso gli occhi del suo primo biografo, l’amore di un giovane per una ragazza, il cui sguardo gli ha rapito il cuore, lo ha cambiato e, di conseguenza, ha cambiato la storia della letteratura mondiale. Una storia vera. Fatta di esilio, di debiti e di talento artistico. Un film d’amore, di poesia e di grazia, sebbene con l’odore della peste addosso. Perché amore e poesia non sono qualcosa di etereo e sfuggente. Ma pulsioni carnali, sentimenti passionali e ispiratori, come la storia ha dimostrato.

Intervistato sabato scorso dalla Verità, Pupi Avati aveva detto che Dante è «una cartina al tornasole per vedere se c’è un pubblico per un film culturalmente ambizioso eppure accessibilissimo, distante dalle accademie e dalle sbrodolature della fiction». Il primo responso del botteghino sembra dire che questo pubblico, seppur piccolo, esiste. Che esiste un pezzetto d’Italia ancora ambizioso, disposto a pensare in grande e ad appassionarsi al «per sempre» dell’amore. E che rifiuta di accontentarsi della finzione del gossip, del chiacchiericcio e dei turbamenti delle coppie annoiate e ultramilionarie.

 

La Verità, 6 ottobre 2022

«Io, come Boccaccio, esploro l’animo di Dante»

C’è una scena in Dante di Pupi Avati in cui tutto si ferma. Il poeta è ancora ragazzo e sta seguendo Beatrice per le vie di Firenze, nove anni dopo averla vista la prima volta. Svoltato l’angolo di una chiesa, lei si arresta lasciando sfilare le due monache che l’accompagnano, e rimane sola. Dante la spia sbucando dal muro. Allora lei si volge, lentamente. E gli dice: «Vi saluto». È la scena che irradia tutto il film. È lo sguardo che rapisce per sempre il cuore del Sommo Poeta. Che lo cambia. E, di conseguenza, cambia la storia della letteratura mondiale. Uno sguardo. «In questo periodo, nei miei incontri pubblici», racconta Avati, «chiedo spesso alle donne se non abbiano un po’ di nostalgia per un mondo in cui occorrevano nove anni perché una ragazza si girasse per dare un cenno di assenso al suo corteggiatore». La gratitudine che il regista esprime nei confronti dell’autore della Divina Commedia con questo film può coinvolgere chi andrà a vederlo al cinema.

Chi è Dante Alighieri per Pupi Avati?

«È il livello più alto della poesia e della sacralità. Della poesia per la dismisura che ha dispiegato già quando realizzò il prosimetro nella Vita nova. Un componimento al quale si accinse all’indomani della morte di Beatrice, ripromettendosi di scrivere un’opera imperniata su una donna, dicendone “ciò che non fu mai detto di alcuna”. La Vita nova, alla quale nelle scuole nemmeno si accennava, è la password per accedere al mondo dantesco».

E rispetto alla sacralità?

«Ho sempre considerato la Commedia un libro sacro che racconta il cammino di un essere umano che cerca Dio malgrado tutto vi si opponga. Anche la Chiesa stessa, quella dei papi Bonifacio VIII e Giovanni XXII. Dante trova Dio alla fine di vent’anni di accattonaggio, di ospitalità, di un’infinità di debiti lasciati a Firenze, con una condanna a morte che pende su di sé e sui suoi figli».

Lo trova al termine della Commedia o del suo cammino personale?

«I due percorsi coincidono. Alla fine della Commedia nel canto XXXIII del Paradiso pronuncia quella frase “Ed io ch’alfine di tutt’i disii…”. Cioè, liberatomi da tutti i ricatti e le tentazioni del mondo, raggiungo “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Il fatto che questa chiusura della sua opera coincida con la sua morte fa sì che non si possa immaginare un oltre».

L’opera coincide con la vita anche in altre parti?

«Totalmente. Nell’Inferno si dedica a chiudere i conti con quel mondo che gli è stato ostile. Poi, via via, si libera di questo astio, riferito anche a rapporti personali».

Oggi si direbbe che si toglie dei sassolini dalle scarpe.

«Mette all’Inferno persone ancora vive. Per questo dico che l’opera letteraria e il cammino personale s’intrecciano in modo autobiografico, fino a elevarsi attraverso la mediazione di Beatrice per arrivare a Dio».

Perché ci sono voluti 18 anni per realizzare questo film?

«Perché ancora oggi, come dice Giovanni Boccaccio della Firenze dell’epoca, c’è chi vorrebbe veder bruciate le sue ossa. Credo che Dante non sia così amato; nei suoi riguardi si vive un senso d’inadeguatezza, trasmesso anche dalla scuola. Il mio romanzo (L’alta fantasia, Solferino, ndr) e ora il film servono a superare questa distanza, facendolo scendere dal piedistallo. Non sono convinto che tutte le manifestazioni del 2021 per i 700 anni dalla morte ce lo abbiano avvicinato».

Perché lo ha voluto così tanto?

«Per riconoscenza. Quando sento recitare “Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io fossimo presi per incantamento” rivedo il mio Bar Margherita, avverto il sentimento nei riguardi dell’amore e dell’amicizia che hanno reso magica la mia giovinezza. Ecco perché alla fine Boccaccio dice alla figlia, suor Beatrice: “Lo vedo sempre ragazzo”».

È più l’opera di un temerario, di un sognatore o di una persona caparbia?

«È una cartina di tornasole per vedere se c’è un pubblico per un film culturalmente ambizioso eppure accessibilissimo, distante dalle accademie e dalle sbrodolature della fiction. È un film il più sintetico e il più emozionante possibile sulla prima e più grande storia d’amore della letteratura. Non a caso Boccaccio dice che nello sguardo fra Dante e Beatrice c’è tutta l’emozione del mondo».

Il momento in cui si guardano per la prima volta sembra un tempo sospeso.

«Sul set non riuscivo a dire stop e la troupe si chiedeva perché non lo dicessi. Dante ha aspettato nove anni quello sguardo. La potenza della storia è proprio nello sguardo di lei, una Beatrice consapevole di essere Beatrice».

È lei che prende l’iniziativa.

«Lui riceve quello sguardo, lei si volta e gli dice: “Vi saluto”. Anche dopo il suo matrimonio è lei a suggerirgli il sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare”, i dantisti non si sono scandalizzati di questa ipotesi».

Perché la sua chiave d’accesso a Dante è Giovanni Boccaccio?

«Perché, per quanto l’abbia studiato per più di vent’anni, non avrei mai potuto affrontare di petto una figura della sua levatura. Anche nei confronti del mondo accademico avevo bisogno di una mediazione. Boccaccio è quello che lo ha più amato: ha copiato tre volte sia la Divina commedia che la Vita nova. Il suo Trattatello in laude di Dante è la prima biografia. Quando ho scoperto che, dopo la sua morte in esilio, incaricato dalla Compagnia di Orsanmichele, Boccaccio va a Ravenna per portare alla figlia dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico, ho capito di avere in mano uno straordinario pretesto narrativo per raccontare la sua vita. Così, in fin dei conti, Boccaccio sono io».

Ha trasferito a Sergio Castellitto tutta la sua passione.

«Quello che dice, “È il padre di tutte le mie gioie”, è la mia gratitudine».

Suor Beatrice ha lo stesso nome dell’amata.

«Si chiamava Antonia, ma quando sono scappati da Firenze e l’ha oblata in quel monastero, il padre le ha suggerito di prendere quel nome».

Boccaccio che compie un pellegrinaggio nei luoghi e nell’animo di Dante aveva già capito la grandezza letteraria del suo maestro?

«Boccaccio è, a sua volta, un grande letterato. È il primo esegeta dell’opera dantesca. Il padre l’aveva mandato a Napoli presso la Corte Angioina dove, attraverso Cino da Pistoia, aveva appreso i fondamenti del Dolce Stil Novo. Poi Boccaccio manda una copia della Commedia a Francesco Petrarca che l’apprezza con qualche riserva, essendo un po’ invidioso di Dante».

Cosa sta a indicare la frase riferita a Dante e ripetuta due volte: «Sapeva i nomi di tutte le stelle»?

«Che era onnisciente e aveva una conoscenza superiore. Visto da qui appare come un essere eccezionale. Se guardiamo all’albero genealogico degli Alighieri arrivando a Cacciaguida e ai Fontana di Valdipado, nessuno dei suoi avi aveva manifestato qualche talento nei riguardi dell’arte o della letteratura. Erano usurai, commercianti, soldati, persone legate alle concretezze. Quindi è anche un mistero come questo ragazzino abbia improvvisamente manifestato una sensibilità così straordinaria. In un certo senso, questo lo avvicina a Wolfgang Amadeus Mozart».

C’è grande ammirazione in lei per i poeti?

«Certo, anche per quelli del presente che si esprimono per un’urgenza personale. Il poeta non scrive confidando di trasformare la sua proposta in un bestseller o per andare ai talk show o sui red carpet».

Traspare anche un amore per i vicoli, le chiese, le torri medievali.

«Esiste un’Italia straordinaria e impervia, quasi irraggiungibile da una troupe corposa come la nostra. Ma è valsa la pena superare alcune difficoltà logistiche per valorizzare un Medioevo segreto e nascosto soprattutto in certe regioni come l’Umbria. In questo momento il cinema italiano è incentrato nella contemporaneità e riflette poco sulla nostra storia. Sia al cinema che nella serialità si esaltano personaggi irrisolti quando non compiaciutamente negativi e contesti nei quali domina il male».

Prevale un immaginario nichilista?

«Fortemente diseducativo perché si corre il rischio dell’emulazione. Qui ho proposto uno dei modelli più alti della nostra storia, l’italiano più celebre e tradotto nel mondo».

Anche in questo film coinvolge attori eterogenei e dimenticati dal cinema prevalente come Enrico Lo Verso, Leopoldo Mastelloni, Enrico Beruschi…

«È da sempre una prerogativa del nostro cinema. Qui si nota di più perché è un cast di 64 personaggi».

Che cosa può dire un film così al nostro presente?

«Per quanto ci inducano a comportamenti che aumentano le distanze tra le persone anche con i social, in questo film ripropongo la qualità dell’essere umano nella sua sensibilità più elevata. Mentre oggi tutto è bruciato in un attimo, questo film parla del “per sempre”, la locuzione verbale che più mi piace, invece totalmente uscita dal nostro linguaggio. Nessun autore ha più il coraggio di scrivere “per sempre”, nemmeno nelle canzoni d’amore».

Che risposta si aspetta dalle sale a un film ambientato nel Medioevo, intriso di letteratura, sacralità e amore?

«Purtroppo oggi le sale sono una realtà molto sullo sfondo e questo è un dolore enorme. È ovvio dire che un film così, come quasi tutti, in sala ha un impatto totalmente diverso. Credo, inoltre, che ci permetterà di verificare se quando parliamo di cultura lo facciamo perché la riteniamo davvero necessaria, o se lo facciamo solo per accusare i partiti di non averla a cuore. Confido nel fatto che dopo due anni di pandemia esista un pubblico più desideroso di contenuti. E che perciò possiamo tornare a essere più ambiziosi».

Sperava che fosse scelto per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar?

«Al di là della sua qualità e del fatto che non racconta l’Italia di oggi, pensavo potesse avvantaggiarsi del fatto che è imperniato sull’italiano più noto nel mondo. Invece, nel rispetto delle scelte della commissione, prendo atto che il mio pensiero non è condiviso».

È soddisfatto dell’esito delle elezioni?

«Non me lo chieda, ho già dato».

Da grande cineasta che cosa si sente di chiedere al governo che s’insedierà nelle prossime settimane?

«Un grande ministro dei Beni culturali. Ci manca da molto tempo una persona appassionata, competente e colta. Ultimamente abbiamo concesso priorità alle strategie della politica, a causa delle quali le esigenze di chi opera nei diversi campi della cultura sono rimaste disattese».

 

La Verità, 1 ottobre 2022

«Abbiamo creato l’opera, ora cambiamo i finali»

Katia Ricciarelli non le manda a dire. Per temperamento e per l’autorevolezza conquistata con una carriera artistica che l’ha portata sui palcoscenici di tutto il mondo. Lei si autodefinisce «una donna artista curiosa». All’ultimo Grande Fratello Vip, un posto dove ne succedono di tutti i colori, la sua schiettezza ha fatto inalberare le sentinelle del bon ton. Qualche giorno fa, dopo le esibizioni di Placido Domingo all’Arena di Verona, titubante nel canto e nella direzione di Turandot, parlando con l’edizione veneta del Corriere della Sera, ha consigliato l’amico e partner di tanti duetti di «smettere di cantare». Quanto a lei, presto tornerà in teatro con Riunione di famiglia, una commedia diretta e interpretata da Pino Quartullo, con Claudio Insegno e Nadia Rinaldi.

Signora Ricciarelli, è difficile capire quando è il momento di appendere il microfono al chiodo?

«È difficile, certo. Ma bisogna avere l’onestà di dire: questo lo posso fare, quest’altro no. Qualcuno insiste fino a 80 anni, io mi sono fermata prima. Noi cantanti abbiamo uno strumento incorporato che si deteriora. Le corde vocali sono dei muscoli, non si ha per tutta la vita la voce da ragazzino».

Domingo l’ha chiamata dopo i suoi suggerimenti?

«No, ma non vorrei parlare ancora di lui, esprimo solo il mio pensiero. Ritengo strano che voglia cambiare registro passando da tenore a baritono. Domingo è stato grandissimo come tenore, ma come baritono non lo voglio sentire. Un cantante non è un pittore che, come Picasso, può avere fasi artistiche diverse».

Però si può staccarsi dalle opere più impegnative come ha fatto anche lei.

«È una questione di buon senso. Io canto ancora per far avvicinare i giovani all’opera, il repertorio del melodramma è vasto. Ma non posso certo interpretare Giulietta di I Capuleti e i Montecchi. Per farlo ci vogliono la voce e la presenza di una ragazzina. Se vogliamo essere credibili…».

Si può anche cambiare repertorio?

«Negli ultimi anni interpretavo opere che non potevo cantare da giovane perché richiedevano maturità. Ma mi sono fermata prima dei 70 anni. Certo, tengo ancora concerti, ma sono un’altra cosa. Non c’è niente di più avvilente che fare qualcosa che hai fatto bene quando eri giovane e sentir dire: “Eh, ma una volta…”. Alcuni anni fa Marilyn Horne, una collega mezzosoprano americana, mi disse che se una sola nota in un’opera le provocava incertezza smetteva d’interpretarla perché il pubblico avrebbe ricordato solo quella».

Pur restando nel mondo della musica, a un certo punto per lei è iniziata una seconda vita artistica.

«E meno male. Non l’ho cercata io. Ricordo che quando mi telefonò Pupi Avati per propormi di recitare per lui pensai che fosse uno scherzo. Quando capii che non lo era, mi armai di umiltà e mi affidai a lui e ai nuovi colleghi».

Che ricordo ha del set di La seconda notte di nozze?

«È stato l’incontro con un regista straordinario, un poeta della cinepresa che non mi ha abbandonato neanche un secondo».

Dopo che quel ruolo le valse subito un Nastro d’argento pensò che quella dell’attrice potesse essere una nuova professione?

«Neanche per un secondo. Non si può inventarsi una carriera a quasi 60 anni. Ho accettato qualche altra proposta, consona con la mia data di nascita, diciamo così. Ho interpretato la madre di Felice Maniero nella serie Faccia d’angelo…».

Ha recitato per Cristina Comencini, di nuovo per Avati, per Carlo Mazzacurati: ha rifiutato qualche copione?

«Quelli non adatti alla mia età. Uno dei segreti è mantenere una dose d’ironia e di autocritica».

Poi è tornata alla fiction, il matrimonio con Pippo Baudo l’ha più ostacolata o aiutata nella sua carriera?

«A parte che sono separata da un bel po’, Pippo mi ha dato coraggio con Avati, mi ha tolto i timori: se lui ti ha scelto… Siamo stai sposati 18 anni, ma avevo già la mia carriera. Non abbiamo fatto niente insieme, non ho mai avuto bisogno di appoggi. Anche in questo mondo serve umiltà, che non significa diminuire la propria figura, ma capire quando e quanto c’è da imparare dagli altri».

La sua schiettezza le ha mai causato qualche danno in un mondo come quello del cinema e della televisione abituato a una certa diplomazia?

«No mai. La mia non è mancanza di diplomazia, ma sincerità. Semplicemente, dico quello che farei. Non avendo mai chiesto niente a nessuno mi viene anche più facile dire quello che penso. Altrimenti sarei ipocrita».

Su Canale 5 sta per ripartire il Grande Fratello Vip al quale ha partecipato l’anno scorso, che esperienza è stata?

«All’inizio non volevo accettare. Insistendo sul tasto del rapporto con i giovani alcune persone mi hanno convinto. È stata un’esperienza difficile, però non mi sento di rinnegarla. Mi ha insegnato a essere tollerante verso il prossimo che non conosco. Una tolleranza fisica e intellettuale. La convivenza gomito a gomito e il rispetto dell’altro sono un bel banco di prova. Non a caso la convivenza è una delle ragioni principali di tanti divorzi».

La sua partecipazione è stata ritenuta divisiva?

«È normale, non possiamo piacere a tutti. Se dici qualcosa che non va bene agli altri automaticamente diventi una che divide. Io volevo soprattutto il rispetto che veniva dalla mia età. Pensavo si potesse apprendere qualcosa da una persona che ha girato il mondo per motivi artistici. Alle due serate sul melodramma gli altri concorrenti hanno partecipato volentieri, anche se non hanno cantato».

Perché secondo lei l’hanno accusata di omofobia e razzismo?

«Guardi, nella mia vita ho frequentato persone di tutti i colori e di tutte le razze. Ci ho cantato e recitato. Gli omosessuali? Ho amici gay, non ho nessuna fobia. Mi è anche capitato di sposarli».

Ha dato della scimmia a una concorrente.

«In dialetto veneto si dice a pare ’na scimieta… Tradotto in italiano può suonare male, ma non è un’espressione offensiva. Nel reality ci sono anche persone che hanno il compito di accendere il racconto, altrimenti sai che noia».

Nel cast, intende?

«Esatto. A me hanno detto che sono brutta e vecchia e può darsi. Ma omofoba e razzista non esiste. Lo gne gne è di persone poco intelligenti: mia madre diceva che il raglio dell’asino non arriva al cielo».

Il politicamente corretto s’insinua nell’arte. Se le avessero proposto di cantare nella Carmen con il finale capovolto dal regista come si sarebbe comportata?

«Avrei rifiutato. Nel melodramma ci sono sempre due che si amano, di solito il tenore e il soprano, e un terzo che rompe le scatole, il baritono. Quelle che muoiono sono chiamate eroine. Carmen è un peperino, una donna libera e libertina, che dopo aver fatto perdere il lavoro a Don José, ora che è ridotto sul lastrico, se ne va con un altro. Le storie sono così».

Cambiando il finale si volevano denunciare i femminicidi.

«Allora ammazziamo l’uomo? L’opera l’abbiamo inventata noi nel 1600 e cambiamo i finali? Mi viene da ridere. Invece, mi commuovo davanti alle notizie di cronaca, alle continue violenze sulle donne, poco ascoltate e poco tutelate. Chi non soffre davanti a certi fatti? Ma la vita reale è una cosa, il melodramma un’altra».

Come ha vissuto il periodo della pandemia?

«Sono stata a casa con il mio cagnolino, un maltesino. Ho una casa piccola con il giardino, vedo il lago di Garda e la montagna. Ho pensato e ripensato a tante cose. Ho ripreso ad apprezzare lo sbocciare dei fiori, i tramonti… Quando sei in giro non hai il tempo per farlo».

È sempre stata ligia alle prescrizioni?

«Ho fatto le tre dosi e rispettato le regole. Finito il lockdown è iniziata la quarantena del Grande Fratello che è durata sei mesi. Facevamo il tampone un giorno sì e uno no. Ma una volta uscita sono risultata positiva asintomatica: cominciavo a pensare che non mi volesse nemmeno il Covid…».

Sta seguendo la campagna elettorale?

«Poco. Mi è dispiaciuto per Mario Draghi, che apprezzo. Una volta, prima che diventasse premier,  l’ho incontrato alla stazione di Bologna. Stavamo salendo sul treno, mi ha sorriso e ha detto agli uomini che lo accompagnavano di aiutarmi a salire. L’avrei abbracciato».

La campagna elettorale?

«Devo riflettere, non voglio mescolare la politica con l’arte, perché noi dobbiamo cantare e lavorare per tutti. Vedo molta confusione. Soprattutto vedo la fatica dei giovani a trovare il loro posto nel mondo. Noi abbiamo avuto più facilità. Insegno ai bambini e agli adolescenti la musica, ma abbiamo tanti ostacoli da superare».

Cosa si aspetta dall’esito del voto?

«Che venga premiato qualcuno di preparato, capace e attento alle esigenze del mondo della cultura».

Ma un’idea ce l’avrà…

«Sono sicuramente di destra, ma non faccio nomi. Devo studiare e capire meglio perché tutto cambia da un giorno all’altro».

Ha visto che alcune cantanti come Loredana Bertè, Giorgia e Levante si sono schierate contro Giorgia Meloni, rea di non essere femminista?

«Credo che un premier debba essere aperto a tutti, uomini e donne a prescindere dai loro orientamenti sessuali».

Alba Parietti ha detto che non condivide nulla del pensiero della Meloni, ma ritiene che se diventasse premier sarebbe ugualmente un segno di cambiamento.

«Per fare il premier serve anche una buona squadra. Personalmente, ho spesso agito da sola e, soprattutto da giovane, con la mia attività ho mantenuto la famiglia. Non è che siccome siamo donne possiamo fare quello che vogliamo. È giusto battersi per eliminare le ingiustizie, ma ci sono tanti modi per farlo. Io sono femminile, non femminista».

Pensando all’Italia futura che cosa chiederebbe ad Aladino?

«Che ci fosse più attenzione ai giovani. Insegnando, in due mesi ho incontrato 20.000 bambini inferiori ai dieci anni. Un giorno uno di loro è venuto sotto il palcoscenico e mi ha detto: “Signora Ricciarelli, ma è vero che il melodramma è una malattia incurabile?”. Questo dice tutto: un bambino può non sapere, ma qualche adulto l’ha fuorviato. E poi, vorrei un’altra cosa…».

Prego, signora.

«Che avessimo meno tasse».

 

La Verità, 3 settembre 2022

 

 

«Litigo con quelli che amo. Anche con Dio, ma…»

Travolgente, istintivo, spudorato. Privo d’inibizioni e remore. Uno che non distingue tra vita e arte e dice sempre quello che gli passa per la testa. Pronto a rivelare vizi e debolezze. È Alessandro Haber: 120 film e oltre 50 opere teatrali. Nato a Bologna nel 1947, da padre ebreo rumeno e madre cattolica. Per Pupi Avati è «il migliore attore italiano in circolazione». Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini), scritto con Mirko Capozzoli, è la sua autobiografia pubblicata da Baldini+Castoldi. Un flusso di coscienza di 430 pagine intrise di sfuriate, sesso, notti di poker, tradimenti. Tutto improntato alla sincerità più totale. A volte, pure troppa.

Stefano Bonaga la definisce «un uomo evento» che mette in scena sé stesso, Alessio Boni «il cinghiale». Lei come si definisce?

«Tutt’e due insieme: un cinghiale evento. Sì, ho un po’ l’indole del gorilla e mi piace mangiare con le mani. Tra l’uomo e l’artista privilegio l’artista, perché davanti alla macchina da presa sono me stesso».

Ama più le donne o il mestiere di attore?

«Per me recitare, anche se non amo questo verbo, è come fare l’amore. Le donne venivano dopo il lavoro e si sentivano trascurate. Anche per questo mi hanno mollato. Giustamente».

Quante sono state le potenziali donne della sua vita se non avesse avuto in testa il cinema?

«Ne ho avute tante, ma quasi sempre capivo se erano storie che potevano durare o no. Lo capivo dalla dolcezza, dalle forme, dallo sguardo… Se provo un sentimento lo manifesto, può essere un gioco, una fantasia… Dopo un po’ di anni con la stessa, la passione declina. Avrei voluto imitare mio padre e mia madre che sono stati insieme tutta la vita e hanno visto crescere le rughe dell’altro. Invece ho tradito».

E lo è stato. Per lei è peggio esser traditi da una donna o il telefono che non squilla?

«Se il telefono non squilla vuol dire che non lavoro e non raggiungo quelle piccole felicità che mi fanno stare bene. Allora vado in crisi anche con le persone che mi stanno vicino. Se devo scegliere, preferisco il tradimento di una donna».

Da giovane amava il mestiere anche più della politica e delle manifestazioni?

«Nel Sessantotto avevo 21 anni e i miei sogni cominciavano a concretizzarsi. Partecipando alle manifestazioni temevo di essere coinvolto in qualche disordine e di rovinarmi la faccia. Tifavo per il Sessantotto e la sinistra, certo; come si tifa per una squadra di calcio. Ero concentrato a cercare i registi, i ruoli, a telefonare…».

Scrive che il lavoro lo ha salvato: da cosa?

«Potevo fare la fine di Gigi Baggini, l’attore fallito interpretato da Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene. Se non avessi avuto talento non so la mia mente e il mio corpo come avrebbero reagito».

L’ambizione di essere Marlon Brando si capisce, ma Gigi Baggini?

«Era un fallito che elemosinava una parte, una figura che mi ha devastato. Sperando di essere ingaggiato si esibisce in un tip tap che soddisfa solo il cinismo dei presenti. È stato un monito, perciò l’ho citato in tre film. Anche nella serie di Carlo Verdone il mio cameo è lui».

Con il suo talento avrebbe potuto avere ancora più successo: cosa l’ha frenata?

«Forse il mio carattere, se fossi stato uno che conta fino a dieci… Se fossi nato dieci anni prima, magari i mostri del cinema sarebbero stati cinque (I 4 riconosciuti erano Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi ndr). Però ho avuto le mie soddisfazioni. A teatro reinvento i personaggi, anche i critici riconoscono che il mio Zio Vanja ha qualcosa di unico».

In La cena delle beffe diretta da Carmelo Bene si fece dare 70 ceffoni veri.

«Sfido qualsiasi attore a prenderli. Tornaquinci era un personaggio che non volevo fare. Il copione prevedeva che dovevo prendere una sberla, io proposi di farmene dare 70. Bene approvò: “Grande Haber, geniale”. Divenne una delle scene di culto. Quello che me le dava diceva che gli faceva male la mano. Capisce? Lui a me. Io non le sentivo perché quando sei sul palco non senti niente. Alla fine delle repliche avevo un callo sul viso».

Chi era Carmelo Bene?

«Un artista, un poeta unico. O l’amavi o ti stava sul cazzo. Era di un altro pianeta. Un trascinatore, anche un uomo fragile, con tutti i suoi difetti, in questo ci assomigliamo. A me la perfezione mi fa cagare».

Qual è l’episodio che ricorda con più piacere?

«Quello che avvenne sul set de Il conformista di Bernardo Bertolucci, con Stefania Sandrelli e Jean-Louis Trintignant. Il primo giorno di prove fu rinviato perché morì la bambina di 10 mesi di Trintignant. Due giorni dopo iniziammo a girare. Io ero un cieco ubriacone di idee socialiste e dovevo raccontare una barzelletta sul Duce, prima di essere malmenato da un fascista. Trintignant assisteva, assorto nei suoi pensieri. Allo stop di Bertolucci scoppiò l’applauso e mentre le comparse si complimentavano sentii battermi sulla spalla: “Merci, vous êtes vraiment un grand acteur” (Grazie, lei è davvero un grande attore ndr). Con quello che stava passando in quel momento, Trintignant si era congratulato con un attore sconosciuto».

Poi però quella scena…

«Fu tagliata al montaggio per esigenze di produzione. M’incazzai a morte. Bertolucci era molto imbarazzato: “Ti sono debitore”, mi disse».

La ripagò?

«Mai. Anni dopo, quando lo rividi, gli ricordai la promessa. “Mi fai dei ricatti?”, si arrabbiò. Non ci siamo salutati per un po’, poi abbiamo fatto pace. Forse non c’erano i ruoli… Abitavamo vicino, negli ultimi anni lo vedevo in carrozzella e con me era sempre gentile. E poi va bene così anche questo scontro-incontro. Quando ti capita di mandare affanculo Bertolucci?».

Perché secondo lei alcuni registi che la elogiavano non l’hanno chiamata?

«Con Mario Monicelli ho fatto cinque film, ma avrei potuto farne otto se non fossi stato impegnato a teatro. Con Pupi Avati ne ho fatti otto, ma avrebbero potuto essere undici».

Nanni Moretti?

«È vero, nonostante le promesse con lui ho fatto solo Sogni d’oro. Io lo adoro Nanni, mi fa tenerezza. Adesso il carattere si è addolcito. All’epoca gli piaceva che la corte lo ossequiasse. Quando giocavamo a pallone voleva fare il regista anche lì, ma se era il caso, io lo mandavo affanculo. È venuto a vedermi a teatro e qualcosa mi aspettavo… A volte è come per il ristorante sotto casa: non ci vai proprio perché è lì e ti scapicolli dall’altra parte della città, ma magari si mangia meglio lì sotto».

Pupi Avati invece la prese subito per Regalo di Natale.

«Andai nel suo ufficio: “Sono anni che mi fai complimenti, dimostrami che ti piaccio sul serio”. Telefonò al fratello e mi disse: “Sei nel prossimo film”. Non finirò mai di ringraziarlo».

Adesso è quasi un suo attore feticcio.

«Coglie la musicalità e le sfumature, valorizza gli attori. È uno dei più grandi in Italia e forse in Europa. Anche lui ha fatto qualche film meno riuscito, come tutti. Non ha ottenuto tutto quello che meritava perché non fa parte della sinistra cinematografica e gliel’hanno fatta pagare. Io non guardo gli schieramenti, rispetto il talento. Le emozioni non sono di destra o di sinistra».

Chi è il più grande con cui ha lavorato?

«Ci pensavo oggi. Voglio regalare il libro ad Avati e riflettevo sulla dedica. Vorrei metterlo con Monicelli e Nanny Loi. Devo trovare una poetica che racconti…».

Questa trinità?

«Esatto. Ognuno ha la propria personalità, ma io li vedo insieme. Straordinariamente intelligenti anche se narrativamente diversi però accomunati dalla stessa sensibilità».

Qual è stato il suo più grande errore?

«Quando dissi di no a Vittorio De Sica. Che idiota. Quando mi chiamò per Il giardino dei Finzi-Contini dissi che conoscevo a memoria il libro ed ero perfetto per interpretare il protagonista. Ma siccome Giorgio Bassani l’aveva chiamato Celestino per gli occhi azzurri, io non ero adatto. De Sica mi propose di fare Bruno Lattes, ma io m’impuntai e rifiutai. Salvo pentirmene presto, ben prima che il film vincesse l’Oscar».

Perché quando le offrono una parte le capita di chiederne un’altra?

«È successo con Moretti per Sogni d’oro. Rifiutai la sua proposta, gli chiesi d’interpretare lo sceneggiatore sfigato e lui accettò. Ho sempre guardato ai ruoli non ai soldi. Stamattina il direttore artistico del Quirino di Roma mi ha offerto di fare l’avvocato di Testimone d’accusa, il giallo di Agatha Christie. Nel film di Billy Wilder lo fa Charles Laughton. Ma è un personaggio che non evolve. Io prediligo figure più complesse. Così gli ho detto di no, lui mi ha dato ragione. A volte produttori e registi se ne approfittano perché sono un drogato di teatro e dopo un po’ vado in astinenza. Hanno ragione».

Il suo più grande amico nel cinema?

«Giovanni Veronesi. Poi Alessandro Capitani e Nicola Guaglianone. Quelli storici sono Pietro Valsecchi, Massimo Ghini, Rocco Papaleo e Giuliana De Sio. Ennio Fantastichini, Flavio Bucci e Monica Scattini li ho persi».

Cosa vuol dire che «Dio è il mio protagonista»?

«Non sappiamo se c’è o no. Questo mistero ti turba perché non sei sicuro che ci sia. Probabilmente sì, basta guardarsi attorno, la natura… Quando qualche volta lo bestemmio è per stimolare l’idea che ci dev’essere. Non è così stupido da offendersi. Io litigo con le persone alle quali voglio bene non con gli sconosciuti. È un’entità che non vedi, ma speri che ci sia».

Tornando al mestiere, non ama la dizione, la recitazione con il diaframma… C’è il metodo Haber?

«Non lo so. Il perbenismo della dizione non mi convince, un piccolo difetto dimostra che sei vero, credibile. Se non riscrivo i personaggi faccio una lettura. Anthony Hopkins ha vinto l’Oscar come migliore attore per l’interpretazione di The Father – Nulla è come sembra. È un’opera proposta ovunque. Io l’ho fatto per tre anni a teatro e Florian Zeller, l’autore del libro, mi ha detto che la mia interpretazione contiene sfumature che lui stesso non immaginava».

Perché, invece, nella vita vera è difficile fare il padre?

«A teatro lo so fare, nella realtà i critici mi stroncherebbero. Di solito i figli hanno soggezione del padre, mia figlia Celeste no. Se alzo la voce mi ribatte e io m’incazzo come una furia, ma dopo un minuto mi sciolgo come un marron glacé. Forse va bene così».

 

La Verità, 13 novembre 2021

Elisabetta Sgarbi: «Vi svelo chi era mio padre»

Le prime persone che mi hanno parlato della casa di Ro Ferrarese sono state Roberta Mazzoni e Susanna Tamaro: «Un posto pieno di fame di vita». Avevano ragione. Su un’ala c’è la farmacia, con il via vai dei clienti. Il resto è l’abitazione degli Sgarbi. Ovvero il museo traboccante delle opere acquistate da Vittorio e dalla madre Caterina, Rina Cavallini. Quando ci andai, qualche anno fa, oltre a tutto il resto, mi colpirono alcuni articoli di giornale appiccicati sulle porte tra la grande cucina, il salone e la camera dove riposava Giuseppe «Nino» Sgarbi. Ora rileggiamo e rivediamo la saga di questa famiglia in Lei mi parla ancora (libro della Nave di Teseo e film di Pupi Avati, su Sky cinema). La parola chiave è commozione, moto comune.

La pubblicazione della tetralogia di suo padre è un atto d’amore?

Anche. Mio padre è uno scrittore, ha avuto riconoscimenti e recensioni straordinarie, ha venduto. Ora c’è un film di Pupi Avati tratto dai suoi libri.

Perché lo fa solo ora con la sua casa editrice, mentre prima i diversi mémoire sono usciti da un’altra etichetta?

Quando mio padre ha iniziato a scrivere volevo che facesse la sua strada. L’ho affidato a Marco Vigevani, un agente letterario importante. Alcuni editori hanno rifiutato i suoi libri, Massimo Vitta Zelman e Eileen Romano ci hanno creduto. Lui mi chiedeva, pensieroso, ma perché non mi pubblichi tu? Io gli spiegavo che lo facevo per lui. Quando è nata La nave di Teseo, ha seguito ogni passo con trepidazione ed entusiasmo. Mi ha detto che avrebbe voluto che i suoi libri fossero pubblicati da una casa editrice che aveva visto nascere. Era orgoglioso di sua figlia. Così, dopo che anche i lettori e la critica hanno decretato il suo valore, ho deciso di chiedere una licenza a Skira per la pubblicazione.

Quando scoprì che Nino era uno scrigno capiente di tesori?

È sempre stato un grande lettore. Ha collezionato tutti i volumi della mitica Bur, determinando la formazione letteraria mia e di mio fratello. Nei suoi silenzi si intuiva profondità. E quando raccontava aveva un vero piglio narrativo.

Il motore di famiglia era di più sua madre, in combutta con Vittorio. Come si è accorta di questa ricchezza appartata?

Ho scoperto col tempo quanto avrebbe dovuto essere chiaro dall’inizio. C’era un tacito accordo, forse inconsapevole, tra i miei genitori: la Rina poteva essere un vulcano in continua effervescenza, ma sapeva di poggiare su Nino. Nino poteva attraversare i suoi silenzi, ma amava sentire le voci alte di mio fratello e mia madre. Certo che mia madre e mio fratello hanno imperversato: ci vuole del genio e della follia per trasformare una casa di campagna in un museo pieno di opere meravigliose. E ci vuole un carattere per tenere insieme tanta follia. Mio padre ha dimostrato di averlo. Non ha mai dato segni di cedimento. Ci guardava un po’ dall’alto di una sua saggezza imperscrutabile. Era come se tenesse le briglie di qualcosa che tendeva a sfuggire continuamente e in tutte le direzioni. L’ago della bilancia, insomma.

Nella postfazione a Lungo l’argine del tempo a un certo punto conclude: «Mio padre è uno scrittore». È stato difficile non far prevalere l’istinto di figlia su quello dell’editrice?

Non è facile dividere questi due aspetti, ma ho cercato di seguire le opere di mio padre da editore oltre che da figlia. In fondo, anche la costruzione del film – di cui lei è stato artefice primo con il suo suggerimento a Pupi di leggere Lei mi parla ancora – ha richiesto pazienza, lavoro, tenacia e professionalità. Anche nel racconto cinematografico della figlia editrice. Bravissima Chiara Caselli, durissima e fragilissima allo stesso tempo.

Dopo la morte della Rina, si sa della vostra abitudine di recarvi al cimitero a leggere e pregare insieme. Devozione o autocompiacimento familistico?

È un fatto intimo, che mio fratello ha raccontato, per dire dell’amore che provo verso i nostri genitori. Odio gli autocompiacimenti ed è materia troppo dolorosa per parlarne in questi termini. Sono consapevole che i miei genitori possono essere ovunque e certamente non là, dove sono le loro lapidi. Ma il dolore, come la memoria, ha bisogno di spazi fisici, di volti definiti, perché possa essere vissuto. Altrimenti è angoscia. Pensando a loro, semmai provo nostalgia. La domenica leggo «loro» i pezzi di mio fratello, come loro hanno sempre fatto. È un modo per immaginare che mi siano vicini. Inoltre, nella scrittura mio fratello dà la parte migliore di sé e, leggendolo, mi sembra di avere anche lui più vicino.

È vero che lei e Vittorio vi siete commossi vedendo il film di Pupi Avati?

Lo abbiamo visto in luoghi e tempi diversi. Non so se Vittorio si è commosso, ma giurerei di sì. A me è capitato vedendo girare alcune scene che non avrei voluto rivivere. Avrei voluto rivedere invece più volte quella, bellissima, in cui i miei genitori, interpretati da Isabella Ragonese e Lino Musella, ballano in una splendida balera della bassa, in mezzo a tante coppie come loro fino a rimanere soli al centro della pista, perché il loro amore è più forte di ogni altro. Una scena meravigliosa che mi torna sempre in mente.

Avati si rammarica di non essere riuscito a mantenere quella in cui, dal cimitero, suo padre le telefona per recitare insieme il Padre nostro.

Lui andava quasi tutte le mattine al cimitero con Gino (il custode di Ro ndr). Io lo chiamavo più volte per avere notizie. E pensavo che quando si trovava lì, di fronte alla Rina con cui continuava a parlare, gli facesse piacere sentire la voce di sua figlia. Così lui diceva un Padre nostro e io, a Milano, in casa editrice, interrompevo quello che stavo facendo, per ascoltarlo e magari mi univo alla sua preghiera. Era bello strappare un minuto alla frenesia quotidiana per stare con lui.

La vostra è la saga di una famiglia di farmacisti famelica di vita, di arte, di passioni?

Mio padre e mia madre sono venuti a vivere a Ro per mettere in piedi una farmacia in una casa di campagna, in un remoto paese sotto l’argine. Pensare a quello che ha fatto Vittorio, partendo di qua, e al mio percorso, mi fa dire che i nostri genitori sono stati bravi.

Anche suo padre era famelico o una certa lentezza gli ha fatto assaporare di più le sfumature della vita?

Mio padre non perdeva un intervento di mio fratello in televisione o un suo articolo. E ogni volta diceva, compiaciuto: «Che testa». Nino era silenzioso, amava la calma del fiume, ma era appassionato non meno di mia madre.

C’è anche un eccesso di familismo nelle vostre attività?

Sono termini che non trovo corretti. Non lo considero familismo: del valore di mio padre ho detto; quello che faccio con mio fratello, dai libri, alle mostre, lo faccio perché ha un’intelligenza e una sensibilità uniche. Diversamente, non lo farei. Eccesso è, credo, una forma di generosità.

Che vita fa per tenere insieme la casa di Ro, la Fondazione, l’editrice, il cinema, la Milanesiana, gli Extraliscio?

Ora sono anche presidente dei Sacri Monti, un complesso meraviglioso che meriterebbe un’intervista a parte. C’è quella canzone di George Moustaki: «Abbiamo tutta la vita per divertirci, abbiamo la morte per riposarci». Amo l’impegno. Attraverso l’impegno trovo sempre nuova energia. Erano così anche i miei genitori.

Come si gestiscono tante cose durante la pandemia?

Mettendola tra parentesi. Lavoro come se la pandemia non ci fosse. Non è mio compito trovare una soluzione. È mio compito portare avanti le cose nonostante lei anche in un percorso ad ostacoli o controvento. In questo caso il vento è una lentezza aggiunta alle cose.

Ha paura?

Sì. Su questo io e Vittorio non andiamo d’accordo e a volte litighiamo. Ho perso amici a causa del Covid e ho paura di prenderlo. La paura va rispettata. Le critiche per la gestione dell’epidemia sono un’altra faccenda, su quello possiamo anche incontrarci. E poi ho paura in generale. Per fare le cose che faccio devo sfoderare molto coraggio. «La paura» è stato il tema del primo numero di Panta, la rivista che fondai con Pier Vittorio Tondelli. Mi piacerebbe fare un numero di Pantagruel, rivista monografica della Nave di Teseo, intitolato La Paura parte seconda.

C’è qualcosa di cui si pente come editrice?

No. Soprattutto non mi pento di quelli che altri considerano errori. Certe scelte sono più felici, ma credo anche in quelle che sembrano meno riuscite. A volte proprio da queste ho avuto più soddisfazioni.

Di aver perso qualche scrittore o scrittrice importante?

Sono più orgogliosa degli scrittori che pubblico.

Perché il suo account su Twitter e la sua etichetta musicale si chiamano Betty Wrong?

Perché è Elisabetta sbagliata, una libera traduzione di Elisabetta Sgarbi. Non uno pseudonimo: mi piaceva l’idea di una Elisabetta sbagliata, che prendeva una strada diversa, come la musica o il cinema. Che poi però è la strada giusta, forse. Sto pensando di modificarla in Betty Extra Wrong, in onore degli Extraliscio che, con questa etichetta, saranno a Sanremo. Mi capisce?

 

Panorama, 10 febbraio 2021

«Dopo 100 film Avati mi ha donato una donna inedita»

Sono a sua disposizione, ma se possibile evitiamo di parlare delle solite cose. Di vite ne ho una decina, ho cominciato a 15 anni…».

Oltre cento film, diretta da tutti i maggiori registi italiani, molto teatro e negli ultimi anni parecchia fiction di successo, Stefania Sandrelli è all’altro capo del cellulare con la sua voce festosa. Dall’8 febbraio potremo vederla sui canali Sky nei panni di Rina Cavallini, protagonista, con Giuseppe «Nino» Sgarbi (Renato Pozzetto in un inedito ruolo non comico), di Lei mi parla ancora, il film che Pupi Avati ha tratto dai mémoire del padre di Elisabetta e Vittorio. Il cast è completato da Isabella Ragonese, Fabrizio Gifuni, Chiara Caselli, Lino Musella, Alessandro Haber, Serena Grandi, Nicola Nocella e Gioele Dix.

Signora Sandrelli, com’è andato il primo film con Pupi Avati?

«È uno dei registi che ho sempre ammirato, perciò avrei voluto lavorare con lui molto prima. Credo che insieme abbiamo fatto un bellissimo film».

È un regista che mancava alla sua ricca collezione.

«Lo aspettavo da tanto, molti suoi film mi sarebbe piaciuto interpretarli».

E con Renato Pozzetto aveva mai lavorato?

«Mai. Però quando ci siamo incontrati a serate o a teatro abbiamo sempre simpatizzato perché ammiro le persone ironiche. In più, è un grande attore, ça va sans dire».

Le è piaciuta Rina Cavallini?

«È una figura frastagliata, resa bene anche da Isabella Ragonese, negli anni giovanili. Il film comincia con la mia morte e, più che seguire il corso della vita, racconta il temperamento di Rina. Una donna che si butta, scappa, poi torna e perciò potrebbe sembrare insicura delle proprie emozioni. Invece è una donna forte e lo è fino alla fine».

Credeva che l’amore e la fedeltà all’amato fossero un anticipo d’immortalità.

«Pupi Avati ha voluto rappresentare questa idea con leggerezza, quasi per gioco, attraverso la lettera che lei consegna a Nino il giorno del matrimonio. E che nel film scompare e riappare, quasi come una carta da gioco».

Ma non è un bluff.

«No, perché contiene una promessa. Se esiste davvero un amore così totalizzante allora, forse, si può dire che è immortale. È un’idea che si può rappresentare in tanti modi. Quella di Avati è una scelta coraggiosa, è un film che può sembrare crepuscolare».

Invece?

«Invece, anche a causa dei momenti drammatici che stiamo vivendo, ci aiuta a comprendere l’importanza dei sentimenti e il fatto che possono essere salvifici, nella loro grandiosità».

La forza del film Pozzetto, è nella sua ingenuità?

«Sì, è così».

Nino e Rina sono figure d’altri tempi?

«Possono essere attuali. In un sentimento così grande tutto è concesso. Fanno lo stesso lavoro e condividono anche l’amore per l’arte. Non credo che lui sia succube di lei, Rina è una donna volitiva e passionale. Se si ama davvero, è inevitabile esserlo».

Il «per sempre» che Nino ripete oggi è un’ambizione anacronistica?

«Il per sempre può valere per molte cose. Si può prendere spunto dall’amore, ma per esempio può valere per la musica, che è la più alta delle arti. Se amo un brano musicale, lo posso sentire un miliardo di volte con lo stesso trasporto».

Le sue storie avevano questa ambizione?

«Avrei voluto che fossero per sempre, i miei compagni lo sanno… Le storie d’amore importanti, Gino Paoli, mio marito (Nicky Pende ndr), Giovanni Soldati, sono nate con questa presunzione. Ho fatto di tutto per dedicarmi totalmente e ho sofferto molto delle loro fini non volute. Non sono mai stata pronta alla fine. Mi sono sempre trovata come sperduta dentro un bosco, sola e nuda, preoccupata di coprirmi. Ma senza sapere dove andare e cosa fare».

Che cos’è l’amore per Stefania Sandrelli?

«Un mistero, lo dico col cuore in mano. È un mistero anche quando a un certo punto finisce».

È qualcosa che viene donato e può essere tolto?

«È anche un atto di coraggio, perché può esserci l’altra faccia della medaglia. Tutti noi sappiamo di rischiare, anche se magari non ci aspettiamo che possa finire».

I giovani hanno l’aspirazione al «per sempre»? O come si può trasmetterla loro?

«Io credo molto nell’esempio, perché l’ho avuto dalla mia famiglia. Da mio padre che porto dentro di me, anche se l’ho conosciuto per poco tempo. Quando i miei figli mi hanno detto che sono stata un esempio per loro, mi sono commossa… E mi commuovo anche adesso, anche se non dovrei perché mi aspetta un set fotografico…».

Diceva dei suoi figli.

«È il regalo più grande che potessero farmi… Non ho mai vissuto per essere un esempio e ho dato anche pochi consigli. Però, forse, il mio modo di amarli e condividere la vita è servito. Anche nel casino… e con il lavoro che facevo».

Oggi accade troppo spesso che si rinunci alla prima difficoltà?

«Sì, è possibile. Perché l’amore è comunque una cosa che va costruita».

Come diceva Ivano Fossati.

«Parlo guardandomi indietro. Se questa intervista me l’avesse fatta vent’anni fa probabilmente non sarei stata pronta. Quando senti che qualcosa che ami puoi perderla devi lavorarci, per quanto sia possibile».

Tra quelle che ha interpretato c’è un’altra donna che si avvicina a Rina Cavallini?

«Forse proprio questo, un personaggio inedito, è il regalo più prezioso che mi ha fatto Avati. E anche se, per com’era la storia, muoio all’inizio, mi sono sentita dentro la sua vita fino alla fine».

È strana una donna così protagonista in cui non ci sono rivendicazioni femministe?

«È magnifico, ed è un piccolo segno che dice tutto».

In che senso?

«Perché significa avere un carattere pari a quello di un uomo. Senza questo, secondo me non si riesce a condividere un tubo. Perciò ai miei dico sempre: cerchiamo di camminare uno a fianco dell’altro, non io davanti e tu dietro o viceversa. È più semplice camminare insieme».

In tanto parlare di generi vede troppo antagonismo tra uomini e donne?

«Sì, ed è squallido per ciò che conosco di uomini e donne. Trovo riduttivo ragionare in termini di genere e di quote. È vero che noi donne dobbiamo fare squadra sennò veniamo calpestate, però c’è modo e modo di farlo».

Cosa intende per riduttivo?

«Le quote rosa, per esempio. È un’espressione che un po’ mi spaventa, mi sembra senz’anima».

Qual è la figura femminile che le è rimasta più nel cuore?

«Le dico la verità, ho sempre cercato una corrispondenza alla donna italiana. Perciò preferisco i film corali, meno quote e meno genere. Ho accettato parti che non spiccavano, ma che erano ugualmente importanti. In un film ci sono cose che non si vedono e non si dicono. Il cinema corale è quello che mi piace».

La parte che ha più segnato la sua carriera è Teresa, la moglie disinibita della Chiave di Tinto Brass?

«Non direi. In Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola ho interpretato un personaggio talmente struggente che non posso non preferirlo a tutti gli altri. Una ragazza dolce e dolente che… anch’io conoscevo bene».

Anche il cinema come l’amore può aiutare a superare i nostri limiti e regalare un pizzico d’immortalità?

«Immortalità non credo. Lei ha citato La chiave e non me l’aspettavo: di sicuro quel personaggio mi ha liberato e quindi, in qualche misura, mi ha sostenuto».

Lì, i limiti si superano?

«Un attore lavora con il proprio cervello e il proprio corpo. Non ho avuto timore a mostrarmi nuda perché il corpo è uno strumento di lavoro».

È stata diretta dai più grandi registi italiani. Da chi ha imparato di più?

«È difficile… Le assicuro, ognuno di loro non mi ha mai fatto rimpiangere il precedente».

A chi è rimasta più legata?

«A Ettore Scola perché ha creduto molto in me. In ogni mio bel ricordo, un premio, un riconoscimento, lui c’è sempre».

C’è qualche ruolo di cui si è pentita?

«No, per fortuna. Però ho ben presente i film che avrei voluto interpretare».

Quali?

«Sono due. Il primo è Il giardino dei Finzi Contini, uno dei più bei film del cinema italiano. Giorgio Bassani e Vittorio De Sica volevano me, c’erano già i costumi pronti. Poi, per esigenze di produzione, furono fatte altre scelte».

E l’altro?

«È La ragazza di Bube con George Chakiris, un bravissimo attore».

Lo interpretò Claudia Cardinale.

«Anche se aveva qualche anno più di Mara, un personaggio bellissimo. Anche lì fu decisiva la produzione di Franco Cristaldi».

Come vive questi strani giorni? C’è qualcosa che la conforta?

«Sì. Intanto, mangio qualche dolce in più, anche se non dovrei. Poi mi abbandono alla musica. Credevo di leggere di più, invece quando apro un libro presto lo chiudo. La musica mi avvolge e mi piace muovermi seguendola e ascoltandola anche a un volume un po’ eccessivo. È qualcosa che mi sostiene».

Che musica predilige?

«Ne ascolto tanta. Il jazz, l’opera, la classica. A Viareggio ho assistito a tanti concerti… Ella Fitzegerald, Chet Baker, Stevie Wonder, Ray Charles, Aretha Franklin. Mio fratello era un concertista, mio nonno un melomane e mi cantava le arie di Puccini».

Ha paura del virus?

«Credo di essere una persona coraggiosa. Ma seguo in modo viscerale le prescrizioni e il corso dei vaccini che in passato hanno già salvato il mondo e dovrebbero continuare a farlo».

È giusto che le sale cinematografiche continuino a restare chiuse?

«Finché non c’è una sicurezza importante e vera sì. È una pandemia».

Della crisi di governo che idea si è fatta?

«Mamma mia… Ho sempre pensato che le persone che fanno politica, di qualsiasi orientamento, dovrebbero essere migliori di noi cittadini. Invece accade molto di rado. E questo mi fa incavolare e mi addolora».

Che sogno coltiva per il futuro?

«Mi piacerebbe dedicarmi a qualcosa nel cinema, un personaggio o un copione che mi dia speranza. Lo dico anche scaramanticamente».

 

La Verità, 6 febbraio 2021