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«Se si dimentica la famiglia la selezione sarà spietata»

Una militante della moderazione, ma pur sempre una militante. Non più giovanissima, Paola Binetti conserva l’innocenza degli ideali e, sebbene nel settembre 2022, dopo quattro legislature, non sia stata rieletta (nella sua circoscrizione la lista di Noi moderati non superò il 3%), la si trova al lavoro nell’ufficio della Camera dell’Udc: «Continuo a occuparmi dei temi che ho sempre seguito. Per me, la politica è servizio alla ricerca di soluzioni ai bisogni della gente». Neuropsichiatra, saggista, esperta in materia di bioetica, qualche giorno fa nella sala capitolare del Senato, «strapiena», è stato presentato il suo Elogio della moderazione. Nella moderna dialettica politica (Cantagalli), appena uscito.

Professoressa Binetti, come definirebbe la moderazione?
«È un atteggiamento che deriva dalla convinzione nei propri valori, dal desiderio di condividerli con gli altri e dalla ricerca dei toni che favoriscano questa condivisione al fine della realizzazione di un progetto. La politica non è solo idee, ma anche concretezza e collaborazione per raggiungere dei risultati».
L’invito alla moderazione è un auspicio, una mozione d’ordine, un programma di governo o un’utopia?
«È una conditio sine qua non se si vogliono davvero realizzare riforme solide».
Che seguito può avere questo invito in una società ad altissimo tasso ideologico come la nostra?
«Può anche cadere nel vuoto. Ma se ciò avvenisse si allargherebbe la distanza già enorme tra il Paese e la classe politica».
È una battaglia donchisciottesca?
«Diciamo che conserva il valore dell’utopia e, in una certa misura, della speranza. Credo ancora che si possano cambiare le cose».
Gran parte della comunicazione, tipo i talk show, inclina dalla parte opposta.
«Questo dimostra le responsabilità del mondo dell’informazione. Alla presentazione del libro al Senato alcuni dei relatori hanno raccontato che quando vengono invitati ai talk show sono esortati a non essere troppo buoni perché l’audience si regge sulla conflittualità».
Un altro avversario della moderazione sono i social media, il posto in cui il conflitto diventa odio.
«L’esercizio dell’odio è un sasso che rotola e diventa valanga. Si basa su un’informazione lacunosa e una cultura fatta di slogan. Bisognerebbe rileggere una volta in più ciò che si è scritto prima di postarlo».
Walter Veltroni ha scritto un pamphlet intitolato Odiare l’odio, come per stabilire una gerarchia dell’odio sano e tollerabile.
«Senza la virtù del perdono è difficile praticare la moderazione e andare per primi incontro all’altro. Guardiamo ciò che accade tra Palestina e Israele: vige un’idea di giustizia rivolta a sé stessi e che sa solo pretendere».
Chi sono i moderati in Italia?
«Non necessariamente il gruppo di Noi moderati di Maurizio Lupi. Più ci si avvicina al centro e più, teoricamente, ci si avvicina alla moderazione. Questo luogo lo individuo, storicamente, nell’Udc. È un modo di fare politica che permette di dialogare con gli altri in base alle proposte e ai valori che si presentano. Coloro che si oppongono per principio, come talvolta fanno le opposizioni, sono per definizione non moderati».
Qualche indicazione in positivo?
«In Forza Italia ci sono tanti moderati. All’interno di Fratelli d’Italia, un tempo identificati come destra-destra, anche. Nel Pd c’è una componente a disagio di fronte a certe scelte attuali. Sostanzialmente, l’Italia è un Paese moderato perché attento a temi fondamentali come il lavoro, la scuola e la salute, che tutti vogliamo migliorare».
Ma con l’introduzione del sistema maggioritario per favorire l’alternanza si penalizza la rappresentanza.
«Alla presentazione del libro, Giancarlo Giorgetti ha detto che è nel governo come ministro perché i voti li prende Salvini. A volte è l’elettore a privilegiare chi buca lo schermo, ma poi, per governare, servono persone moderate».
Il tentativo di ricreare il centro di Matteo Renzi e Carlo Calenda è una delusione dalla quale è difficile riprendersi?
«È stata una grande delusione perché è apparso chiaro che le differenze principali sono legate alla personalità di entrambi: uno stile di vita con poca moderazione e una gran voglia di affermazione personale oltre la proclamazione di alcuni principi condivisi».
Nella lotta alle diseguaglianze si è proclamata l’abolizione della povertà mentre in realtà si è penalizzato il lavoro?
«Innanzitutto, penso che in questo contesto di consumismo esasperato dobbiamo recuperare tutti una certa sobrietà. Per esempio, apprezzo la legge europea che invita a riparare i cellulari, evitando l’obsolescenza programmata e la frenesia di avere quello di ultima generazione. Poi è corretto sanare le situazioni di povertà vera, sapendo che “i poveri li avrete sempre con voi”. La povertà si può lenire, non abolire del tutto».
Un approccio ideologico ci ha illuso che fosse possibile?
«Era il tallone d’Achille del reddito di cittadinanza. Equiparando le politiche del lavoro alle misure di contrasto alla povertà ai giovani conveniva accedere al sussidio invece di andare a lavorare».
Com’è possibile che la politica per la famiglia «nucleo fondativo della nostra società» sia il terreno della collaborazione tra conservatori e progressisti se una certa cultura lavora per smembrarla?
«Ha ragione. Crescono le famiglie cosiddette mononucleari e le coppie che scelgono di non sposarsi. Ma la verità è che la vita si allunga e si allungano le stagioni in cui dipendiamo dagli altri. La composizione della popolazione è illustrata dalla piramide rovesciata, più vecchi e meno giovani. In assenza del welfare famigliare chi si prenderà cura degli anziani? Serviranno eserciti di badanti. Per fortuna è stata approvata la legge 33/2023 che prende atto di questa emergenza. La riscoperta della famiglia sarà obbligatoria, altrimenti i costi sociali ricadranno tutti sullo Stato».
Serve una politica più efficace per incrementare la natalità?
«Assolutamente. E non solo perché non nascono più bambini e si devono tramandare cultura, storia e identità. La scienza ha aggiunto anni alla vita e condizioni migliori per i malati. Disabilità e cronicità saranno le nuove povertà. Ma l’assenza della famiglia produrrà costi insostenibili per lo Stato e creerà una selezione spietata».
Può esserci dialogo se per la sinistra la teoria gender, definita «il pericolo più brutto» da Francesco, è il cardine dei diritti civili?
«Il primo dato intangibile è il rispetto della persona qualsiasi sia il suo orientamento sessuale. Le discriminazioni non vanno tollerate. Ma ciò non significa che si possano negare i valori fondativi della convivenza civile costruita negli anni. La famiglia e la vita sono alla base di tutte le società».
Ma il presidente francese Emmanuel Macron e l’Unione europea operano in direzione opposta.
«L’errore più grave è stato non inserire nella Costituzione europea il richiamo alle nostre radici elleniche e cristiane. Fu la Francia a opporsi maggiormente. Esiste una frontiera che chiamiamo valori non negoziabili. Sono pochi, ma ci sono e ci impegniamo a difenderli, senza colpevolizzare le donne che abortiscono. A loro che, per vari motivi, fanno scelte diverse, vanno tutta la nostra empatia e solidarietà. Ma non possiamo negare che quell’embrione, se lo si lascia in pace, in nove mesi diventa un bambino. Non a caso l’intestazione della legge 194 è “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”».
Quanto può favorire il dialogo per la costruzione del bene comune la continua richiesta di abiura del fascismo a esponenti del governo?
«Si abiura a un giuramento, ma la generazione che governa è tutta post-fascista e non ha mai prestato alcun giuramento».
Perché quando un post-comunista va al governo nessuno gli chiede l’abiura del comunismo?
«Perché avremmo una nuova guerra civile. Non chiedo a nessuno di abiurare un credo di un secolo fa, mi basta la sua vita, quello che è ora».
Il tratto distintivo di questa cultura è essere anti?
«Noi tentiamo di essere proattivi, cercando di capire di cosa hanno bisogno le persone accanto a noi».
Perché i diritti su cui si insiste oggi, eutanasia, suicidio assistito, aborto, sono imperniati sulla morte?
«Ci vuole coraggio a vivere perché la vita è bellissima, ma non è sempre facile. Sono felice che nel 2010 sia stata approvata la legge 38 per l’accesso alle cure palliative delle persone che soffrono fino all’ultimo momento della vita. L’accompagnamento alla vita gli uni degli altri è lo scopo di una società realmente solidale».
Crede anche lei che esista un’élite culturale che si ritiene superiore e pregiudichi il dialogo alla pari?
«Sì, c’è qualcuno che si ritiene più uguale degli altri come ne La fattoria degli animali di George Orwell. La forza che ci spinge a migliorare è il riconoscimento delle nostre fragilità».
Ha ragione Matteo Salvini quando dice che nelle opposizioni prevale la politica dei No: No-Tav, No-Tap, No-Ponte eccetera?
«Assolutamente. È un’opposizione sterile, non animata da proposte positive. Il bambino di tre anni si afferma attraverso il no. I manuali di psicologia evolutiva lo chiamano “l’alba del principio d’identità”».
Come spiega che oggi su questi temi molti vescovi anziché partire dalla dottrina sociale della Chiesa parlano del salario minimo e contrastano gli accordi con Paesi terzi per l’accoglienza ai migranti?
«È difficile anche per i vescovi distinguere tra missione spirituale e scelte personali e politiche. Oltre la dottrina sociale, la carità ci guida a perseguire e difendere ciò che conta davvero. Nell’ultimo capitolo della Dignitas infinita si suggeriscono i comportamenti relativi alle contraddizioni contemporanee, dall’immigrazione al gender, dall’utero in affitto alla violenza digitale. I cattolici, e i loro pastori in primis, dovrebbero tener conto di tutte queste situazioni, non limitarsi ad alcune».
Il centro come aggregazione politica è una chimera?
«Se lo si intende come partito, sì. Se lo si intende come luogo del confronto, può essere il punto di sintesi della democrazia. Non è l’inciucio, non è il governo di larghe intese. Vediamoci in centro a prendere un caffè. È il posto della mediazione, della ricerca e della condivisione del bene comune».

 

La Verità, 4 maggio 2024

«Famiglia naturale? Bella come una tribù che balla»

Tra virgolette. Lo ripete spesso, Antonella Elia, e vuol dire: le cose sono così, quasi. È innamoratissima di Pietro Delle Piane, ma per sposarsi è presto. Il rapporto con Mike Bongiorno era alla pari, più o meno. Le piacerebbe condurre un programma, ma dovrebbe essere speciale. Solo quando parla di sé e delle sue sofferenze, non poche, le virgolette spariscono. Sarebbe sbagliato vederla come una donna di contorno, una presenza decorativa. Trasmette fragilità, ma non le manca lo spirito della lotta. A BellaMa’ di Pierluigi Diaco ha fatto l’opinionista. A Citofonare Rai 2, condotto da Simona Ventura e Paola Perego, è inviata sul fronte dell’amore. Di recente, ospite di Oggi è un altro giorno su Rai 1, ha detto che «la famiglia tradizionale è bellissima».

È vero che quest’anno si sposa?

«Ehm… non credo, perché purtroppo ho paura. Per me il matrimonio è un vincolo sacro. Lo so che va di moda che se non funziona si divorzia. Ma, onestamente, io mi sposerei in chiesa e non posso considerare questa ipotesi. Se lo faccio dev’essere per tutta la vita».

Non è una bella prospettiva?

«Bellissima. Ma se considera la mia età e il fatto che ho vissuto tanto da sola nella savana…».

Bella metafora.

«Pietro potrebbe essere il compagno della vita, ma dovrei esserne certa. Quattro anni di fidanzamento forse non sono sufficienti per fare una scelta definitiva come il matrimonio».

I rodaggi lunghi servono ai ragazzi, quattro anni non bastano?

«Le statistiche dicono che più si diventa grandi più è difficile far durare le relazioni perché si è legati alle proprie abitudini. La convivenza è una scappatoia, consente una via d’uscita se qualcosa non funziona».

Scelta di comodo?

«Ha ragione, sono egoista e cagasotto».

E quindi niente vestito da sposa e confetti?

(Pausa) «È nell’aria, ma entro il 2023 rispondo maybe. Diciamo che non ho ancora organizzato nulla».

Non se la sente di rischiare?

«I rischi affettivi non mi sono congeniali, avendo avuto una serie di vicende… Però questo legame così saldo me lo tengo stretto. Anche mio papà e mia mamma ci hanno messo otto anni prima di sposarsi. Pensi il caso: si sposano, nasco io e dopo un anno e mezzo lei muore».

Poi è rimasta senza papà a 15 anni.

«Morì in un incidente stradale. L’idea di famiglia è sempre stata qualcosa di precario per me. Mio padre si è risposato con Paola quando avevo 9 anni. E poi anche la loro relazione è finita tragicamente».

Chi si è preso cura di lei?

«Paola, fino a quando ho avuto 18 anni e sono andata a vivere con un ragazzo».

Precoce.

«Dopo tre anni ho lasciato anche lui».

Com’è arrivata in televisione?

«Dopo aver studiato recitazione tre anni in una scuola privata di Torino, sono entrata al Teatro della Tosse di Genova. Ho fatto le prime tournée con Aldo Trionfo, recitando in Peccato che sia una sgualdrina di John Ford, e Tonino Conte. Poi ho partecipato ai provini della Corrida di Corrado».

E lui la chiamò.

«Lo facevo ridere perché ero goffa, mentre le altre erano belle e perfette».

La scelse perché con lei poteva giocare?

«Pensi che ero seduta a fianco di Michela Rocco di Torrepadula. Me ne stavo lì, ingobbita, perché mi sentivo fuori posto, come sempre del resto. E Corrado mi chiese proprio perché me ne stavo incurvata. “Perché mi vergogno”, dissi. Si mise a ridere e mi prese».

Qual era il suo tratto distintivo?

«La straordinaria umanità e la tenerezza verso le persone che lo circondavano, a partire da me fino all’ultimo tecnico dello studio».

Poi arrivò Raimondo Vianello.

«Mi aveva visto con Corrado e mi portò a Pressing».

Duetti favolosi.

«Sfruttava la mia goffaggine e la mia comicità involontaria».

Un flash su Raimondo?

«Era il re dell’autoironia. Trasformava ogni situazione in una presa in giro. Quando, la domenica, ci si trovava a vedere le partite e io mi annoiavo a morte, mi diceva: “Si faccia le unghie, Antonella”. Poi in trasmissione si appoggiava sulla mia ignoranza per inventare le gag».

Mike Bongiorno?

«Dopo 3 anni di Pressing, feci La ruota della fortuna, poi Viva Mozart… Fu il mio ultimo anno di tv prima di tornare a teatro, altro errore…».

Ne aveva soggezione?

«Mica tanto. Era un rapporto più alla pari, tra virgolette. A Corrado e Raimondo davo del lei. Mike era affettuoso, protettivo e accudente. Anche se a volte s’incavolava, ma questo è risaputo».

Quasi amici?

«Sì, anche amici. Quando andammo a Vienna per Viva Mozart, mi portò a visitare i mercatini, ad assaggiare la Sacher torte in una pasticceria bellissima…».

Si trovava bene vicino a figure autorevoli perché cercava il padre perso presto?

«Mi era di conforto che mi mostrassero affetto e apprezzamento. Non ho abbastanza autostima, da sola non mi sento mai ok».

Quando ha partecipato all’Isola dei famosi è parsa tutt’altro che insicura.

«Perché ho un caratterino mica da ridere. Quando combatto, combatto all’estremo. E i reality sono terreno di combattimento».

Letteralmente, cone nella rissa nel fango con Aida Yespica rimasta nella storia della tv.

«Era nella sabbia, altrimenti sarebbe stato wrestling. Ho carattere e volontà, sennò mica sarei arrivata dove sono. L’Isola è come la vita di strada, tutti contro tutti. Sono stata abituata a lottare fin da piccola per le perdite e gli abbandoni… Quindi, tra virgolette, vengo dalla strada, l’ho vista subito brutta. Il reality è vita non arte, non c’entra il talento, non ci sono copioni, porti te stessa con le tue bassezze e grandezze. Oddio, grandezze se ne vedono poche».

Parlando di strada, cosa pensa degli studenti che protestano in tenda contro il caro affitti?

«Che da Seregno a Milano si può ben fare la pendolare. E che la realizzazione di sé stessi non è un fatto di privilegi, ma di fatica, sudore e sacrificio. Poi, riguardo al caro affitti, per carità, è giusto intervenire, non si può pesare solo sui genitori, non si può sfruttare così la gente. Ma prendere il treno non è la fine del mondo».

Lei ne ha presi molti?

«Quando ero modella facevo la spola Torino Milano. A 24 o 25 anni, quando speravo di diventare attrice, prendevo la cuccetta da Torino a Roma. Viaggiavo tutta la notte, mi truccavo nel bagno del treno, scendevo a Termini e pigliavo i mezzi per andare al provino davanti a registi importanti. Finito, me ne tornavo a Torino. Durante le prime tournée ho dormito su brandine sfondate. Il treno e la vita da pendolare è una materia su cui sono preparata».

I provini come andavano?

(Sospiro) «Insomma… Mario Monicelli mi fece andare quattro volte per la parte di Il male oscuro, una produzione italo francese, che poi andò a Emmanuel Seigner, moglie di Roman Polanski. Feci un provino anche per Massimo Troisi, ma non mi scelse. Invece, Salvatore Nocita mi prese per I promessi sposi della Rai».

Quest’anno ha fatto l’inviata per Simona Ventura e Paola Perego e l’opinionista di BellaMa’. È soddisfatta o vorrebbe un programma suo?

«Mi diverto sia come inviata che racconta storie d’amore sia con Diaco con il quale c’è empatia… Forse sarebbe il momento di una conduzione, ma dovrebbe trattarsi di un programma un po’ fuori dai canoni. Io funziono di più in coppia, da sola probabilmente non mi divertirei».

Parteciperebbe ancora a qualche reality, magari meno estremo dell’Isola?

«No no, a me piace L’Isola perché è proprio l’avventura. Una tentazione irresistibile».

Qualcosa che invece non rifarebbe?

«Il Grande Fratello. Troppo claustrofobico, la convivenza forzata con altri non fa per me. All’Isola vai a nuotare o a camminare e torni dopo due ore. Lì mi chiudevo nella sauna e sudavo sette camicie».

Amici e amiche nel mondo dello spettacolo?

«Non ho molte frequentazioni… Sento spesso Adriana Volpe e Laura Freddi, ma non ci vediamo molto per i troppi impegni. Diaco lo considero un amico. Simona e Paola cercano di aumentare la mia autostima. Per le prime 15 puntate di Citofonare Rai 2, Paola mi mandava dei vocali d’incoraggiamento. Anche Simona è molto affettuosa».

Qual è la dote che apprezza di più nel suo compagno?

«L’energia. E poi è profondamente buono, innocente. Pietro è innocente».

Qualche giorno fa Laura Chiatti è stata sommersa di critiche perché ha detto che l’uomo che lava i piatti le fa calare la libido. Capita anche a lei?

(Ride) «Pietro lo trovo sexy quando carica la lavastoviglie. Quando cucina per me è come se distribuisse amore. Lo fa perché non vuole che lo faccia io e questo è bellissimo».

Le ho sentito dire che «la famiglia tradizionale è bellissima»: che cosa le piace?

«Mi piace il nucleo. È come una tribù che balla. La famiglia di Pietro è enorme, fatta di legami profondi di amore tra fratelli, zii, cugini. Le mie zie, quando è morto mio padre, sono sparite nel nulla, non mi hanno più filato. Non ho mai veramente vissuto in una famiglia. Sono rimasta sola come un cane randagio, perché nessuno dei parenti, che sicuramente ho, mi ha più cercato».

C’è qualcosa nella vita che non rifarebbe?

«L’ho detto anche da Serena Bortone: mi sono pentita di aver abortito».

Perché?

«Avevo un essere vivente, in embrione, dentro di me. Era una vita a cui non ho dato modo di esistere. Una vita che era parte di me, un essere a cui avrei fatto da madre».

In quell’occasione ha parlato di peccato: è credente?

«Sì, ma la mia amarezza non deriva dal fatto che credo in Dio. O forse sì… Ho capito di aver commesso un peccato contro un altro essere vivente. So che Dio mi perdona, sono io che non mi perdono».

Non l’aiuta insistere sull’irreparabilità dell’azione, il Padreterno perdona.

«Certo. Ma se ti tagli una mano non ricresce. Forse potrei espiare, compiendo azioni meritevoli per recuperare il rispetto di me stessa che, per quello specifico atto, non ho. Se quando morirò Dio mi dirà che mi ha perdonato sarò felice. Ne ho parlato con un prete e mi sono vergognata. Se non l’avessi fatto oggi ci sarebbe un ragazzo di 26 anni, chissà perché penso che sarebbe stato un maschio…».

Che cosa pensa della maternità surrogata?

«Dell’utero in affitto? Non lo so, è una questione delicatissima. Ho amici omosessuali che sono padri meravigliosi e crescono bambini sereni. I figli sono nati da una donna in California, non una donna povera. Lo so, in questi casi si parla di compravendita, ma io non mi sento né di accusare né di giudicare».

Con tutto quello che ha vissuto, come fa a essere sempre sorridente?

«Provo a trasmettere gioia, a mettere in evidenza la felicità che ho dentro di me, assieme al dolore. Che però non mi piace raccontare perché mi fa sentire patetica. A volte capita che riveli anche le mie tristezze, ma solo in qualche intervista».

 

La Verità, 20 maggio 2023

«Io di nuovo in Rai? Nulla di vero, solite chiacchiere»

La più guardata dagli italiani e la più invidiata dalle italiane. Per la dolcezza, l’energia e la carica di sensualità che sprigiona. Il grande pubblico se n’è accorto all’ultimo Festival di Sanremo, quando è scesa dalla scalinata dell’Ariston cantando e ballando La notte vola. Poi l’abbiamo intravista ai funerali di Maurizio Costanzo e ora la seguiamo come una dei prof di Amici di Maria De Filippi. Lorella Cuccarini ha 57 anni, quattro figli e una serenità non comune.

Questo è il suo terzo anno come insegnate, ora di canto oltre che di ballo, del talent show di Canale 5: che aspettative ha?

«Non ho aspettative personali, la nostra missione è accompagnare i ragazzi a fare le scelte giuste e difenderli quando serve. Anche se lanciamo i guanti di sfida agli altri prof, noi insegnanti restiamo dietro le quinte».

Che cosa la guida nel rapporto con i ragazzi?

«Metto a loro disposizione il bagaglio di esperienza maturato in 37 anni di professione. E anche il buon senso acquisito come madre di giovani che hanno più o meno l’età dei concorrenti».

Che cosa serve per coltivare il talento?

«Impegno, lavoro, sudore. Essere spavaldi sul palco e umili fuori».

Si dice che i talent show siano una scorciatoia che evita la gavetta: cosa ne pensa confrontandoli con la sua formazione?

«Il momento storico in cui sono uscita io era molto diverso, i talent show non esistevano. C’erano i talent scout che andavano a caccia di giovani. Io ho avuto un percorso ancora diverso perché, grazie a Pippo Baudo, ho potuto approdare a Fantastico, facendo un salto nel buio. Da un giorno all’altro sono stata catapultata nel varietà più importante con l’esperienza di una ballerina di fila. Se guardiamo ai talent, i ragazzi possiedono già un loro bagaglio e poi hanno parecchi mesi per crescere ed emergere».

Quindi, non concorda con quella critica?

«No. I talent sono una strada che offre delle opportunità ai giovani che altrimenti farebbero molta fatica. La Rete è un’altra possibilità».

Nel mondo dello spettacolo il merito è rispettato?

«Domanda da un miliardo di dollari».

Rispondiamo con 100 euro.

«Nel nostro caso sì. Il percorso a imbuto di Amici impone i concorrenti che valgono. A volte alcuni ragazzi capiscono che non è ancora arrivato il momento giusto. Perciò, devono aspettare per emergere dopo».

In generale nel mondo dello spettacolo la meritocrazia vale o no?

«Bisogna capire i contesti. A volte vediamo delle meteore che conquistano velocemente la popolarità in tanti modi. Io sono una boomer e mi sfuggono alcuni meccanismi della contemporaneità. Tra popolarità e successo vero c’è una bella differenza».

Ripartiamo dalla sua apparizione sanremese: è la disciplina che la fa essere ancora sensuale?

«La disciplina e anche la serenità. Cioè, essere arrivata a un punto della vita in cui prendo con leggerezza quello che succede».

Ha superato anche momenti in cui questa leggerezza è stata messa in discussione?

«Soprattutto quando ero più giovane e avevo una certa ansia da prestazione. Pensi di non fare mai abbastanza… Poi, finalmente, arriva il momento in cui non devi dimostrare niente e puoi vivere la tua stagione con leggerezza».

Qualche anno fa ha subito anche un intervento alla tiroide.

«Quello è stato un periodo impegnativo. A quel problema fisico si era aggiunta la perdita di mia madre, la persona più importante nella mia vita. È stata anche una fase d’impasse professionale. Quando si mette tutto in discussione, di leggerezza ce n’è poca».

L’altro grande segreto è l’unità della sua famiglia?

«Credo sia l’elemento fondamentale».

È raro nel vostro ambiente un rapporto duraturo come quello che ha con suo marito, il produttore Silvio Testi.

«Il giorno del matrimonio eravamo in tre. Siamo entrambi cattolici e praticanti e quando abbiamo scelto di sposarci non eravamo soli. Credo che questo faccia un po’ la differenza nel momento in cui abbiamo scelto di camminare insieme. Le promesse che reciti davanti al sacerdote hanno un loro peso specifico».

Ora non siete più in tre.

«In sette, con i nostri figli».

Come riesce a gestire il ruolo di madre di quattro figli e una professione tanto impegnativa?

«Come tutte le donne del mondo, non mi pare di essere dotata di superpoteri. Oppure li hanno tutte le madri che lavorano».

Nel vostro ambiente, la durata del rapporto coniugale non è così scontato.

«Non solo nel nostro, purtroppo. Gestire la famiglia e lavorare, anche questo costa disciplina. È faticoso, ma è bellissimo».

Il fatto che non vi siate vaccinati è stata una scelta?

«Ci siamo ammalati tutti con la prima ondata e perciò siamo sufficientemente immunizzati. Mio marito non si è ammalato e si è vaccinato».

L’abbiamo vista molto partecipe ai funerali di Maurizio Costanzo: l’ha colpita qualcosa di quel momento?

«Ho pensato al dolore di Maria. Ero abituata ad apprezzare la sua vitalità nel lavoro e la sua capacità di esserci per tutti. Vederla così è stato un dolore. Mi ha fatto piacere constatare la vicinanza a lei di tantissime persone, non solo dello spettacolo, anche meno note, ma sempre partecipi».

Che cosa pensa dei selfie alla camera ardente ai quali si è sottoposta? Lei come avrebbe reagito?

«Solitamente faccio le foto con chiunque, in qualsiasi situazione personale. Ma in chiesa non mi è mai capitato e mi è sembrato di cattivo gusto. Non so come avrei reagito, spero di non trovarmici mai».

Quell’episodio indica la superficialità cui ci sta portando la società dello spettacolo?

«Secondo me la causa non è il mondo dello spettacolo, ma l’avvento dei social. Con un telefonino si può immortalare qualsiasi momento e questo ci porta a fare cose insensate».

I social sono parte dello società dello spettacolo.

«Si entra in un circuito, si cercano like facili e si fanno anche azioni inaccettabili sul piano umano. Non tutti abbiamo la stessa sensibilità ed educazione».

Ha notato qualche cambiamento in Maria De Filippi in queste settimane?

«L’ho ritrovata con la sua capacità di esserci. Ha detto subito: “Cominciamo a lavorare, perché è così che mi hanno insegnato”. Una frase che esprime il suo modo di elaborare il momento. Ho condiviso la volontà di ricominciare dalla nostra passione, dando il meglio di noi».

Qualche settimana fa si era parlato di un suo possibile ritorno in Rai: c’era o c’è qualcosa di vero?

«Non c’è nulla, tutti gli anni vengo citata con questo tira e molla».

Che differenza c’è tra lavorare a Mediaset e alla Rai?

«Bisogna tener conto dei momenti storici. La Rai di Fantastico è stata la mia prima casa, furono anni esaltanti e bellissimi. L’ultimissima esperienza è stata più pesante».

Perché la partecipazione a La vita in diretta su Rai 1 si è conclusa in modo un po’ brusco?

«Quello che dovevo dire l’ho detto. È stato un anno difficile, anche per la situazione che ci siamo trovati a raccontare (il periodo dei lockdown ndr). Non ho nulla da aggiungere».

Invece a Mediaset tutto liscio?

«Per me è stata una rinascita perché sono tornata a fare ciò che mi piace di più e che avevo scelto all’inizio della carriera».

Anche con Heather Parisi il rapporto è stato burrascoso?

«Ma no… Vorrei evitare di fare quello che fa lei con me, non ho bisogno di parlare di Heather per esserci. La apprezzo artisticamente, ma dopo Nemicamatissima non ci siamo più sentite. Abbiamo visioni diverse della professione».

L’ha detto anche lei intervistata a Belve: «Lorella è un po’ la prima della classe, mentre io preferisco improvvisare».

«Prima della classe non lo sono mai stata, ma m’impegno e lavoro molto. Così mi è stato insegnato e così sono riuscita a crescere».

Perché due anni fa ha lasciato l’agenzia di Lucio Presta?

«Lucio è una persona che stimo da prima che iniziassi a lavorare con lui. È stato mio agente per 12 o 13 anni, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di camminare da sola».

Gli agenti hanno troppo potere in tv?

«Ne hanno molto, non so se sia giusto dire troppo. In certi programmi si nota un accentramento di personaggi della stessa scuderia. E quindi vien da chiedersi se vengano scelti per merito o per appartenenza. È difficile che tutte le idee confluiscano sempre nella stessa direzione. Se c’è una concentrazione dei soliti vuol dire che anche gli autori e i produttori sono d’accordo. Non credo che, pur con il loro strapotere, un agente possa decidere al posto di un’azienda».

Abbiamo citato La vita in diretta e Heather Parisi: non è che lei sia un po’ fumantina?

(Ride) «Penso di essere una persona serena e accomodante, lo dico sinceramente. Però sono anche un leoncino… Se vedo cose che non mi piacciono, parlo; difficilmente taccio e subisco. Di solito succede con le persone più potenti».

Ha perso qualche opportunità perché non si è morsa la lingua davanti a una persona potente?

«Non ricordo di aver perso delle opportunità. Però non mi piace che mi mettano i piedi in testa. Se capita, reagisco e in questo mondo finisce tutto in pasto alla stampa. Per questo passo per essere una fumantina, ma non lo sono».

È contenta dello spazio che hanno conquistato le donne ai vertici della politica?

«Non sono per le quote rosa, ma sono felice che ci siano sempre più figure femminili emergenti, come la premier. Mi piace che le donne guadagnino credibilità e conquistino ruoli apicali per capacità e merito, non per concessione. In politica, nelle aziende e nello spettacolo».

Tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein con chi andrebbe a cena?

«Con Giorgia Meloni, anche perché tifiamo per la stessa squadra».

Per quest’unico motivo?

«A pelle, mi sta molto simpatica. Mi piacerebbe conoscerla di più».

Ci può anticipare qualcosa del suo prossimo musical nei teatri?

«Se tutto va bene, in autunno proseguirò la tournée con lo show di quest’anno. Mentre per i miei 60 anni ho in mente un musical, non solo autobiografico. Ma sarà fra tre anni, il tempo per farlo bene non manca».

 

 

La Verità, 25 marzo 2023

Se Dio, patria e famiglia di Lilli sono orfani di Mazzini

Appuntisce lo sguardo e tende il labbro Lilli Gruber quando rivolge la domanda con la quale chiude la conversazione con alcuni dei suoi ospiti di questi giorni: «Lei si riconosce nello slogan Dio, patria e famiglia?». Chissà, forse ha in mente il manifesto esibito a una manifestazione da Monica Cirinnà in cui commentava la triade con un elegante «che vita di merda». Oppure pensa alla sentenza di Enrico Letta, secondo il quale la formula cela un inevitabile «ritorno al patriarcato». Il più delle volte, però, la conduttrice di Otto e mezzo su La7, non ottiene piena soddisfazione. Purtroppo, verrebbe da aggiungere. Qualche giorno fa, per esempio, Letizia Moratti è stata colta di sorpresa perché fino a quel momento si era discusso di Europa ed economia, ma tant’è. L’ex sindaco di Milano e attuale vicepresidente della Lombardia non è una habitué dei talk show per cui ha improvvisato una risposta insapore. Del tipo: credo nella famiglia e nel nostro Paese (Dio non pervenuto), ma la società evolve e si trasforma (che è un’espressione che si porta sempre, qualsiasi cosa voglia dire). Mercoledì sera, invece, è toccato a Romano Prodi rispondere al quesito. Collegato da Bologna, dopo aver confermato il suo voto a Pierferdinando Casini perché si fa più festa in cielo per una pecorella smarrita che torna all’ovile che per tante fedeli, l’ex premier e commissario europeo ha borbottato che lo slogan non lo infastidisce. Come cattolico crede in Dio, ha una famiglia tradizionale ed è solito difendere l’Italia. Il problema è un altro. Quale, presidente? «Il problema è se lo slogan ci riporta indietro a certe culture del passato». Ah, ecco! Prodi si era appena detto lusingato perché Lina Palmerini l’aveva chiamato professore, che non è una diminuzione… Tanto più ci si aspetterebbe che non si appiattisse sulla vulgata gauchiste. Quali sono le pericolose culture del passato alle quali rimanda la triade più gettonata del momento? Mica si parlerà per caso del Ventennio di cui «gli italiani dovrebbero vergognarsi»? Nel corso del programma il fantasma non è stato scoperto, ma è più di una vaga sensazione che sia sempre ben accovacciato e camuffato sotto il tavolo dove fa gli onori di casa la soave Dietlinde. Perciò corre l’obbligo di dare una notizia a lei e agli adoranti telespettatori. La triade Dio, patria e famiglia è stata coniata da Giuseppe Mazzini in un testo fondante del Risorgimento intitolato Doveri dell’uomo (1860), scritto in polemica con i rivoluzionari francesi che insistevano solo sui diritti. Da allora è passato un secolo e mezzo, ma certe situazioni sembrano immutabili.

 

La Verità, 23 settembre 2022

Noi, tra buoni sentimenti e cliché prevedibili

Scommessa ardita portare su Rai 1 la storia di This is Us, una delle serie di maggior successo degli ultimi anni, giunta sulla Nbc americana alla sesta e ultima stagione. Al centro della vicenda di Noi ci sono Pietro e Rebecca Peirò (Lino Guanciale e Aurora Ruffino), una coppia che vive a Torino la cui vita si fa impegnativa quando lei rimane incinta di tre gemelli. Il giorno del parto, uno di loro non ce la fa. Ma su consiglio del ginecologo (Massimo Wertmüller) che li assiste, decidono di adottare un neonato di colore soccorso da un vigile del fuoco che l’ha trovato abbandonato vicino all’ospedale. Così Pietro e Rebecca tornano a casa con i bambini destinati alle culle già pronte ad attenderli sotto il festone dei «Fantastici 3». La realtà, però, è diversa dalla favola. Sia perché Rebecca fatica comprensibilmente a superare il trauma della perdita di uno dei tre cresciuti nel pancione. Sia perché avverte come estraneo il bimbo che ne ha preso il posto e che, invece, ha diritto a essere rispettato in tutta la sua specificità. Ma le complicazioni sono solo all’inizio.

L’originalità della serie è nell’intreccio delle storie dei ragazzi che troviamo ultra trentenni, alla ricerca della propria identità. Un intreccio che si snoda attraverso ben calibrati flashback, avanti e indietro nei decenni, utili a cogliere le sfumature psicologiche del terzetto e dei loro genitori. I due gemelli, un attore in cerca di consacrazione e una cantante mancata con problemi di obesità, sono molto legati tra loro. Quello più razionale sembra però il figlio adottato, sposato, padre di due bambini e professionalmente realizzato. Tuttavia, anche per lui le cose si complicano quando scopre che al padre biologico, finalmente ritrovato, è stata diagnosticata una grave malattia.

Prodotta da Cattleya per Rai Fiction, la versione italiana segue in modo molto fedele la trama ideata dal creatore americano (Rai 1, domenica, ore 21,30, share del 18,7%, 3,9 milioni di telespettatori). Scritta da Sandro Petraglia, Flaminia Gressi e Michela Straniero e diretta da Luca Ribuoli, il suo pregio migliore è nella qualità dei dialoghi e nell’incalzare della storia, favorito dai frequenti cambi d’epoca e dal sovrapporsi delle vicende. Ma mentre nell’originale la trama si distende su numerose stagioni, qui la concentrazione drammatica risulta particolarmente elevata. Non a caso la commozione è sempre in agguato. Come pure lo è il rischio di perdere l’equilibrio tra buoni sentimenti e sconfinamento nei cliché prevedibili del momento.

 

La Verità, 8 marzo 2022

«La Rai fa propaganda, chi è pro famiglia è oscurato»

Occhiali robusti e barba hipster, Jacopo Coghe, ha 36 anni e quattro figli. «Il quinto è in arrivo. Stiamo provando a mettere in crisi la crisi demografica».

Nobile impegno, siete sposati da molto?

«Dodici anni, quasi un figlio ogni due».

Avrete un bel da fare.

«Giornate strapiene».

Professione?

«Io ho un’azienda di comunicazione grafica e stampa pubblicitaria. Mia moglie è impiegata part-time e segue i bambini».

Da vicepresidente dell’associazione Pro Vita e famiglia, Coghe è finito nel mirino di Fedez, paladino gender del Primo maggio, festa dei lavoratori, e martire della censura.

Una settimana dopo si sono calmate le acque?

«Non tanto. Sui social c’è un flusso di haters impressionante».

Hanno scritto che starebbe bene appeso a testa in giù.

«Hanno scritto anche che dovrebbero levarmi i figli e altre cose irripetibili. Mi fa sorridere che chi si proclama a favore dei diritti non si fa scrupolo a insultare. È la solita doppia morale».

Fedez l’aveva attaccato altre volte?

«In una diretta sul suo profilo Instagram alla vigilia di Pasqua. Mi ha disegnato le sopracciglia arcobaleno attribuendomi espressioni mai pronunciate. Il fatto curioso è che mentre su Rai 3 il concertone fa 1,5 milioni di spettatori, su Instagram Fedez ha 12 milioni di followers con i quali condivide questi insulti e la doppia morale sulla famiglia».

Sulla famiglia?

«Certo, ci campa. Monetizza la narrazione del privato: vita di coppia, moglie, gravidanze, ecografie, bambini, giocattoli, abiti… Poi continua ad attaccare la famiglia naturale, sputando nel piatto sul quale mangia. Per contro, chi difende la famiglia e la vita viene pubblicamente insultato».

Ha chiesto un confronto con Fedez, ma il concertone è uno spettacolo che non prevede la par condicio.

«Però non è nemmeno un account privato. Perciò, usando le sue stesse parole: caro Fedez non puoi dire il cazzo che ti pare. La Rai è una tv pubblica che dovrebbe ospitare il pluralismo e il contraddittorio».

Invece?

«Assistiamo a questi attacchi senza replica e alla promozione di una cultura di parte».

Per esempio?

«Le esibizioni dei braccialetti arcobaleno al Festival di Sanremo in pieno dibattito sulle unioni civili. Anche quest’anno, a Sanremo…».

I quadri di Achille Lauro?
«Contenevano espressioni blasfeme. Una tv privata può avere una sua linea editoriale. Un servizio pubblico pagato dai cittadini dovrebbe rispettare le sensibilità degli utenti. Perché chi la pensa in modo diverso da Fedez non è rappresentato? Io sono solo il responsabile di un’associazione, ma mi aspettavo che qualcuno mi chiamasse dandomi diritto di replica».

Una forma di risarcimento?

«Risarcimento no, vera pluralità sì. Invece la Rai fa propaganda. Rai 3 è stata usata da uno che ha detto ciò che gli pareva attaccando persone assenti e, per di più, grida alla censura. Siamo alla follia. Per sanare l’accaduto la Rai avrebbe il dovere di organizzare un dibattito serio».

Che cosa non approva del disegno di legge Zan?

«Nell’articolo 1 viene definita l’identità di genere. Il maschile e il femminile sono considerati un’imposizione culturale e si asserisce che ognuno può scegliere come percepirsi tra infiniti generi. Già questo è un delirio».

Perché?

«Se oggi mi percepisco donna, pretendo di entrare nei bagni femminili. Se sono uno stupratore, ma mi sento donna voglio stare nel carcere femminile. Parlo di fatti reali, accaduti negli Stati uniti, non di casi di scuola».

Altri articoli che disapprovate?

«L’articolo 4 dice che sono fatte salve la libera espressione di convincimenti nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee, purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori».

Che cosa non va?

«Se dico che l’utero in affitto è un orrore potrei essere denunciato in quanto discrimino chi vi è ricorso all’estero. Inoltre, sarà ancora possibile dire mamma e papà o sarà discriminatorio verso persone dello stesso sesso che hanno adottato un bambino?».

Basta così?

«L’articolo 7 è gravissimo. Viene istituita la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Nelle scuole, fin dall’infanzia, verranno spiegate ai nostri figli l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità. Si insegnerà che non esistono maschi e femmine e che si può scegliere tra un’infinità di generi. Non ci sono più padre e madre, ma genitore 1 e genitore 2. Questa è un’enorme violazione della priorità educativa dei genitori».

Non ci sono forme di bullismo contro il mondo Lgbt da frenare?

«C’è la necessità reale di frenare il bullismo nei confronti di tutti, senza creare persone di serie A e di serie B. La legge Reale-Mancino tutela già tutti. L’aggressore che di recente ha picchiato due gay che si stavano baciando nella metro di Roma non è in giro libero. Verrà condannato, la pena può arrivare a 16 anni di reclusione».

Perché temete una legge che vuol proteggere gli omosessuali o chi vive un processo di transizione?

«La temono anche i comunisti, le femministe, i verdi. Togliamo la maschera: lo scopo di questo progetto di legge è fare cultura, rieducare i nostri figli, promuovere l’ideologia gender. Altrimenti non si spiega a cosa serva la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Se si vuole fare una legge che affermi il rispetto verso ogni essere umano bastano due articoli che il Parlamento approverebbe in una settimana».

Come quella presentata da Forza Italia e Lega che prevede l’inasprimento delle pene per gli atti discriminatori?

«Secondo me non ce ne sarebbe bisogno. Ma è una mossa politicamente astuta per stanare le vere e malcelate intenzioni del ddl Zan. Se l’obiettivo è colpire gli atti discriminatori violenti, tutti i partiti dovrebbero approvare la proposta del centrodestra di governo».

Che cosa fa concretamente l’associazione Pro Vita e famiglia?

«Promuoviamo una visione antropologica e culturale basata su questi valori attraverso campagne mediatiche, convegni, progetti per la libertà di educazione. Regaliamo prodotti per la prima infanzia alle famiglie e alle mamme indigenti che decidono di portare avanti la gravidanza. Garantiamo il patrocinio gratuito per i disabili che non hanno gli insegnanti di sostegno, diamo borse di studio. Durante la pandemia abbiamo iniziato a distribuire i pacchi-spesa alle famiglie bisognose».

Dalla giornata del Family day al Circo Massimo del 2016 con 2 milioni di persone il movimento è un po’ sparito?

«Tutt’altro. Le famiglie continuano a seguire le attività dell’associazione. L’anno scorso abbiamo manifestato in 120 piazze in tutta Italia contro il ddl Zan e ora, superate le restrizioni della pandemia, speriamo di arrivare a 150 manifestazioni con una partecipazione maggiore».

Nel marzo di due anni fa alle giornate della famiglia di Verona è emersa una certa contiguità con l’estrema destra.

«Le famiglie non hanno colori politici, quindi parliamo con tutti. A Verona invitammo anche i 5 stelle, ma Luigi Di Maio e altri esponenti della sinistra preferirono denigrarci. Se forze di destra si riconoscono nella famiglia composta da padre e madre perché dobbiamo escluderle? Condividiamo queste battaglie anche con Marco Rizzo del Partito comunista, contrario all’utero in affitto, e con le femministe che contestano l’identità di genere».

Come mai un impegno di questo tipo ha poca visibilità sui media?

«La comunicazione è monopolizzata dal pensiero unico. Siamo una maggioranza silenziata dal politically correct».

Vi danneggia anche una certa incoerenza personale dei politici che aderiscono alle vostre manifestazioni?

«Non giudico la vita personale dei politici. Provo ad avere uno sguardo più ampio. Mi interessa che ci siano partiti che difendono le nostre tematiche. Anche perché i leader passano, i partiti si spera che durino».

La Chiesa vi appoggia come volete?

«Oggi non è più il tempo dei vescovi pilota, come ha detto papa Francesco, ma soprattutto dell’impegno dei laici. La Cei ha affermato che non c’è bisogno di una legge sull’omofobia. È in atto una grande opera di distrazione di massa».

In che senso?

«Con buona pace di Enrico Letta che parla di benaltrismo, questo governo è nato per fronteggiare la pandemia e avviare la ripresa economica. Le famiglie non arrivano a fine mese, si è perso un milione di posti di lavoro: il ddl Zan è una priorità?».

Che speranza avete che i vostri valori facciano breccia nella società attuale?

«Ci hanno accusati di essere medievali, ma la vera sfida riguarda il futuro. C’è la nostra visione fondata su valori antropologici non negoziabili e un’altra basata sul relativismo della società liquida ed edonistica. Nel breve periodo, questo secondo modello può sembrare appagante, ma a lungo termine rivelerà tutta la sua inconsistenza».

Auspicate una rappresentanza politica unitaria?

«Credo che su questi temi una pluralità di rappresentanze sia più efficace. Anche in questi giorni Matteo Salvini, Antonio Tajani e Giorgia Meloni si sono espressi chiaramente».

Come replica a chi la definisce ultracattolico?

«Io non giudico chi ha Fedez, ma perché Fedez critica chi ha fede? Al di là della battuta, essere ultracattolico significa ascoltare le parole di papa Francesco quando afferma che il gender è uno sbaglio della mente umana? O quando dice che ricorrere all’aborto equivale ad affittare un sicario? Se così fosse, sarebbe ultracattolico anche papa Francesco».

Esistono paesi che dopo l’approvazione di leggi favorevoli all’interruzione della gravidanza hanno avviato un processo di revisione?

«Alcuni Stati americani lo stanno facendo. In Louisiana si è deciso di ridurre il tempo per l’interruzione a prima della comparsa del battito cardiaco. Con l’ecografia in 4d si vede che il feto è subito un essere umano già formato. Disconoscere questa evidenza vuol dire essere antiscientifici. Quando una sonda su Marte individua un batterio si grida “c’è vita su Marte”, ma guai a dire che un embrione è già vita».

La vostra è una battaglia di retroguardia, già persa?

«Al contrario. Sono stato più volte alla Marcia per la vita in America che porta in piazza centinaia di migliaia di persone, moltissimi giovani. Le scuole ne programmano la partecipazione con un anno di anticipo. Lì ho acquistato la t-shirt creata da ragazzi sedicenni sulla quale è scritto: “Noi siamo la generazione che abolirà l’aborto”».

Salvo quello a scopo terapeutico?

«L’ho vissuto in prima persona, l’aborto non è mai una terapia».

 

La Verità, 8 maggio 2021

In «Tutto può succedere» una famiglia italiana

C’è una serie trasmessa un po’ in sordina da Rai 1 sulla quale val la pena soffermarsi per tre buone ragioni. La prima è che, salvo qualche show estivo-balneare, si tratta dell’unico prodotto non in replica messo in campo in queste settimane da Rai 1. La seconda è che, come documentano gli ascolti, è una valida alternativa al palinsesto unico dei Mondiali di calcio. L’ultima, e forse più importante ragione, è che rappresenta un’eccezione alla narrazione proposta dagli autori più gettonati (Una grande famiglia, Romanzo famigliare), secondo i quali la famiglia italiana è sempre più politicamente corretta. La serie s’intitola Tutto può succedere, è giunta alla terza stagione sebbene già dopo la prima se ne ventilava la chiusura, è prodotta da Cattleya ed è diretta da Lucio Pellegrini e Alessandro Casale (lunedì, ore 21.30, share sopra il 15%).

Protagonisti della storia sono i Ferraro, esuberante clan che vive alle porte di Roma. L’incursione dei ladri nella casa patriarcale dove vivono i nonni Ettore (Giorgio Colangeli) ed Emma (Licia Maglietta), dove sono cresciuti i quattro figli e tuttora ci si ritrova per grandi tavolate, ha minato la serenità di Emma che persegue di nascosto il progetto di cambiare casa. A scoprirlo è il figlio minore Carlo (Alessandro Tiberi) che, coalizzandosi con la sorella Sara (Maya Sansa), organizza l’opposizione. Il primogenito Alessandro (Pietro Sermonti), invece, lui così abituato ad «aggiustare le persone», è distratto dalla responsabilità dell’azienda che ha preso in mano su richiesta del fidanzato della figlia rimasto orfano, e finisce per trascurare la moglie Cristina (Camilla Filippi). Anche il matrimonio tra la secondogenita Giulia (Ana Caterina Morariu) e Luca (Fabio Ghidoni) è in pericolo… Infine ci sono i nipoti Ambra (Matilda De Angelis), Federica (Benedetta Porcaroli), Denis (Tobia De Angelis) e Max (Roberto Nocchi) che cercano di trovare ognuno la propria strada tra i primi amori e le prime intuizioni su cosa fare da grandi. Se le onde dei sentimenti e della quotidianità mettono sull’altalena i cuori e le giornate di tutti, alla fine c’è sempre quella tavolata capace di metabolizzare gli avvenimenti.

Ispirata all’americana Parenthood, Tutto può succedere non avrà l’ambizione di rivoluzionare il linguaggio della serialità moderna né, per una volta, l’obiettivo di anticipare la famiglia al tempo del gender, ma di sicuro ha il merito di fotografare con grazia lo spirito della famiglia italiana contemporanea, con le sue caotiche e fantasiose risorse di schiettezza e umanità.

La Verità, 27 giugno 2018

«I social network creano tanti egomostri»

È il più controverso opinionista del momento. Irriducibile agli schemi consolidati. Ha innescato la verve di Giampiero Mughini, il disappunto di Flavio Briatore, le critiche del Foglio e quelle di Antonio Di Pietro dicendo che «Mani pulite fu un colpo di Stato», gli attacchi di Wired, Linkiesta, Minimaetmoralia e siti vari. Pur essendo filosofo di professione, Diego Fusaro, 34 anni, nativo di Torino, autore Einaudi e Bompiani, molto presente sui social oltre che in tv, non trascende mai. Marxista e anticapitalista convinto ma al contempo sostenitore della famiglia tradizionale, è accusato di essere un intellettuale della supercazzola, depositario di tesi abborracciate. Alcuni suoi post sono fulminanti: «Hallowen, festa mondialista»; «E tutto divenne merce, anche l’utero in affitto»; «La sinistra è passata dal Quarto stato al terzo sesso».

Un altro felice aforisma è «I selfie della gleba e i nuovi egomostri». Anche lei quanto a ego non scherza.

«Spero di non essere anch’io un egomostro come coloro che critico. Credo in quello che dico e ci metto sempre la faccia, in un’epoca di pavidi che si nascondono dietro pseudonimi o frasi fatte».

 

Fusaro: «Selfie della gleba e i nuovi egomostri»

Fusaro e la cultura del narcisismo: «Selfie della gleba e i nuovi egomostri»

Si definirebbe marxista conservatore o reazionario marxiano?

«Se proprio devo farlo, mi definisco allievo indipendente di Hegel e di Marx. Secondo Hegel, il rivoluzionario è colui che supera conservando o conserva superando».

Come nasce Diego Fusaro?

«Nasco a Torino da una famiglia di umili origini. I nonni paterni erano emigrati dal Veneto per lavorare alla Fiat, i nonni materni contadini. I miei genitori fanno tutt’altro rispetto a me. Decisiva è stata la scoperta della filosofia al liceo. L’incontro con Costanzo Preve mi ha permesso di avviare una rilettura che tenesse insieme Hegel, Marx e i Greci. Vivo a Milano, dove insegno allo Iassp (Istituto alti studi strategici e politici). Ho fondato Interesse nazionale, un’associazione il cui motto è “Né mondialisti né nazionalisti”, che pubblica una rivista e gestisce una scuola filosofica».

Da Marx e Hegel ha preso l’anticapitalismo.

«La mia coscienza infelice di anticapitalista ha idee di sinistra e valori di destra».

Può dettagliare?

«Idee di sinistra: lavoro, diritti sociali, comunità solidale, attenzione per gli oppressi, uguaglianza. Valori di destra: identità, nazione, patria, famiglia, lealtà, religione. Tutte quelle cose che fanno sì che a destra dicano che sei comunista e a sinistra che sei fascista».

Il superamento delle categorie novecentesche la rende difficilmente incasellabile. Potrebbe essere una strategia: si diverte?

«Non ho mai voluto farmi incasellare in uno schema o in un partito. Non è per divertimento, ma perché amo pensare con la mia testa».

 Certe sue argomentazioni sembrano pagare un tributo al complottismo.

«Complottismo è il modo di classificare qualsiasi lettura divergente da quella dominante. In quest’ottica Socrate, Marx e tutta la filosofia che cerca l’essenza dietro l’apparenza sono complottisti».

L’origine del disastro dove va cercata?

«Nel capitalismo che dal 1989 non ha più alcun limite morale né geopolitico. L’89 è l’anno orribile della storia recente».

È l’anno in cui la democrazia si è estesa e il benessere è diventato una possibilità per tutti.

«Questa è la narrazione dell’1% di ricchi che anche il 99% ha accettato come vera. Non mi pare che il benessere sia stato messo a disposizione di tutti. Negli ex Paesi comunisti la povertà è aumentata a dismisura».

Auspica un ritorno al mondo diviso tra Est e Ovest e alla cortina di ferro?

«Ragiono dialetticamente. Non penso di ripristinare quello che è andato perduto, la polis e il comunismo. La storia procede e conviene adoperarsi per migliorare il presente, affinché l’uomo non sia vittima del mercato e ritrovi il suo posto nel mondo».

Nell’89 è finito l’inganno comunista ed è nata l’Europa, che per lei è una sciagura.

«Finito il comunismo, al capitalismo sfrenato mancava disintegrare gli stati, ultimi baluardi della difesa del bene comune. L’Europa è servita a questo».

Vorrebbe l’espansione dei sovranisti?

«Io non parteggio. Penso che la sovranità sia ineludibile per una politica democratica a sostegno anche delle classi più deboli. Senza sovranità vince il libero mercato, la competitività e quindi il più forte».

Come si sconfigge l’idolatria del mercato?

«Intanto riconoscendo che è una vera religione che minaccia tutte le altre, pretendendo d’imporre universalmente i suoi simboli. Siamo nell’epoca in cui non si possono esporre crocifissi o veli islamici, ma solo merci di qualsiasi tipo e in modo selvaggio».

Nel suo libro Pensare altrimenti scrive che «il dissenso come rifiuto dell’autorità e del potere costituisce il fondamento della civiltà occidentale». Poi è arrivata la globalizzazione. Cos’è andato storto?

«Siamo entrati nel totalitarismo perfetto che fa apparire come imperfetti tutti quelli passati».

Perché più pervasivo, più scientifico o più seducente?

«Perché riesce a colonizzare le coscienze e devitalizza la possibilità del costituirsi del dissenso, dilatando il pensiero unico».

Che si affermerebbe grazie alla dittatura del mercato alla quale servono gli «atomi seriali». Ce ne fa l’identikit?

«È il profilo antropologico dell’uomo in balia del capitalismo contemporaneo. Un tempo il dominato era il proletario di fabbrica, che aveva una sua coscienza di classe, una stabilità territoriale, dei valori e una capacità rivendicativa come raffigurato nel Quarto stato. Oggi in luogo del proletariato c’è il precariato. Una massa amorfa di atomi erranti, flessibili, senza identità, coscienza di classe e progettualità».

Ai quali vengono contestate le certezze esistenziali e psicologiche, la famiglia e le altre appartenenze.

«Sono individui sradicati, permanentemente mobili e sciolti da ogni solido legame comunitario, dalla famiglia allo stato nazionale. La famiglia è il primo bersaglio. È la comunità delle comunità, come diceva Aristotele: colpire quella per arrivare alle altre. Se hai radici sei meno gestibile dal potere».

Il Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Il Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Cito: «La sinistra è passata dal Quarto stato al terzo sesso».

«Nella mia concezione la sinistra doveva essere agente della trasformazione verso una società emancipata. Invece il progresso cui assistiamo è quello del capitale che trasforma tutto per rinsaldare sé stesso. Ci sarà un motivo se negli ultimi trent’anni tutte le conquiste della sinistra sono state contro le classi più deboli».

Esemplifichi.

«Il pacchetto Treu con la precarizzazione del lavoro, le liberalizzazioni del governo D’Alema, il jobs act del governo Renzi. Se la sinistra smette di interessarsi a Gramsci e Marx, allora conviene smettere d’interessarsi alla sinistra».

Imputa al M5s di non avere un collegamento con il mondo intellettuale.

«Il Pd ha gli intellettuali e non ha il popolo, i 5 stelle hanno il popolo ma non gli intellettuali. Questa è la tragedia della politica italiana».

E il terzo sesso? Perché attacca anche l’ideologia gender?

«Perché non è altro che la distruzione dell’identità e l’imposizione dello sradicamento sul piano della sessualità. Il tutto a beneficio del capitalismo flessibile contemporaneo che non vuole uomini, donne, famiglie e prole, ma solo atomi unisex che nell’ambito erotico danno luogo al godimento deregolamentato. Esattamente come deregolamentato è il mercato, con competitor individualizzati e senza vincoli solidali».

Facesse il consigliere politico chi sceglierebbe tra i leader in circolazione?

«Credo che se tornasse in vita anche Machiavelli faticherebbe a trovare un principe».

Se lo trovasse, per rilanciare l’Italia da dove lo farebbe cominciare?

«Dalla cultura. Che è il fondamento del nostro Paese ed è ciò che abbiamo dimenticato. Rilancerei il liceo e gli studi classici».

Come si diventa personaggio televisivo?

«Non credo di esserlo, sono uno studioso che viene talvolta interpellato in tv».

Il suo apparire antipatico sembra una scelta.

«Non credo di esserlo, lo sono?».

Arriva una certa alterigia…

«Credo nelle cose che dico perché studio. Procedo con la docile forza della ragione, non sarò trovato ad alzare il tono della voce. Mi spiace se risulto antipatico. Tra tanti personaggi buffi, mi piace non corrispondere a questo canone».

In un’epoca in cui si esulta per la fine delle ideologie, otto anni dopo riscriverebbe Bentornato Marx?

«Lo scriverei tale e quale perché le analisi di Marx continuano a essere imprescindibili per capire le contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Solo con Marx si è miopi, senza Marx si è ciechi».

Ha letto l’intervento su Studi cattolici di suor Monica Della Volpe, nipote del grande filosofo marxista Galvano, a proposito degli ultimi giorni di suo zio? Le chiese di dettarle le riflessioni finali di un libro perché molto malato: «Alla fine non c’è più né Marx né Engels, c’è solo Gesù Cristo».

«È una questione interessante che aveva già colto Pasolini. Il contrario del comunismo non e la religione perché il comunismo stesso lo è. Il contrario della religione è il capitalismo ateo, materialista, cinico e individualista. Non c’è da stupirsi se dei comunisti guardano con rispetto a Cristo. Il dramma è quando certi comunisti aderiscono al capitalismo rinnegando Marx e Cristo. Si potrebbe fare un lungo elenco, che risparmiamo per carità di patria».

Ritenendo il dissenso la genesi della civiltà occidentale, Gesù Cristo sarebbe fuori perché fece dell’unità con l’autorità la sua forza.

«C’è un unico momento nel vangelo in cui Cristo si adira, dissente e diventa quasi violento: la cacciata dei mercanti dal tempio. Di questo oggi c’è più che mai bisogno».

C’è qualcosa che le trasmette ottimismo?

«Nulla. Nelle tendenze obiettive non vedo nulla di positivo. Sono ottimista con la volontà, come lo era Gramsci».

La Verità, 5 novembre 2017