Tag Archivio per: Fazio

Il Gattopardo della tv muta solo tasto sul telecomando

Il Gattopardo della televisione italiana ha provato a far passare l’idea che «tutto cambia perché nulla cambi». E forse ci è riuscito. I pesci ci sono, la squadra è la stessa, anche lo studio è uguale e, dunque, un pezzo di Rai adesso va in onda sul Nove (e in simulcast su altri otto canali del gruppo Discovery). «È tutto uguale, ma è tutto diverso», ha chiosato Filippa Lagerbäck dopo il benvenuto del cerimoniere Fabio Fazio. È stato solo un cambio di tasto sul telecomando e a perderne è la Rai, non tanto e non solo in termini di ascolti – i calcoli si faranno più avanti – quanto in termini di asset. La Rai, questa Rai, finora non ha saputo trovare le risorse per replicare all’esodo registrato in questa stagione. Molti anni fa, era il 1987, Pippo Baudo e Raffaella Carrà migrarono a Canale 5 e l’allora direttore generale Biagio Agnes contrattaccò consegnando ad Adriano Celentano le chiavi del sabato sera. I meno giovani ricordano come andò.

Che tempo che fa rimane in gran parte uguale a sé stesso, al suo falso buonismo, alla sua missione di dare la linea perbenista al pubblico di riferimento. La pagina più lunga della puntata d’esordio è dedicata alla guerra in Israele. In studio Massimo Giannini, Giovanni Floris e Fiorenza Sarzanini, gli ultimi due del gruppo Cairo al quale collaborano sia Fazio sia Liliana Segre, ospite principale, entrambi prestigiosi rubrichisti di Oggi. Le affettuosità giornalistiche convergono nell’incolpare Benjamin Netanyahu di ciò che è successo dal 7 ottobre in poi e si allargano anche allo scrittore israeliano David Grossman che accusa lo Stato ebraico di aver «occupato da 56 anni una terra non nostra, con azioni terribili». La senatrice a vita parla di «odio da ambo le parti» e confessa rassegnazione, mentre Fazio sfodera un murale in cui un bambino con la kefiah e uno con la kippah si abbracciano come nel mondo delle favole.

Il Gattopardo della tv italiana conferma il copione compresa la solidarietà a Roberto Saviano «che non difende nessuno». E, in assenza di partite della Serie A, fa boom di ascolti (10,5% e 2,1 milioni di spettatori sul Nove, 13% sommando le reti). In realtà, un paio di novità ci sono. Ora il programma si giova di un’anteprima con Nino Frassica che funge da autotraino (lo share sale dal 2,8 al 5,7%) e del «Diario della sfiga» di Ornella Vanoni che interrompe la liturgia conformista, anticipando la comicità marziana del Tavolo. Con il Mago Forest che, estraendo dei pennarelli per Mara Maionchi, mette in guardia: «Me li ha regalati l’architetto che disegna le piste ciclabili a Milano».

 

La Verità, 17 ottobre 2023

Berlinguer nel mirino? Sì, rompe il solito schema

Ma guarda. Sul marciapiede di fronte alza la saracinesca il fruttivendolo che era ancora in ferie e qualcuno dei clienti che andavano dall’unico verduraio aperto adesso va a comprare da lui. Sembrerebbe un’elementare legge della concorrenza: raddoppia l’offerta, la domanda si divide. In sintesi, è quello che è accaduto martedì scorso con l’esordio stagionale di DiMartedì, il talk show condotto da Giovanni Floris (1,1 milioni di telespettatori, 7,2% di share il primo, contro 0,84 milioni di persone e il 6,5%, il secondo) vincente di poco su È sempre Cartabianca in onda su Rete 4. Niente di più abituale. Anche l’anno scorso e in quelli precedenti il programma di La7 superava quello di Bianca Berlinguer, allora affacciata su Rai 3. Solo all’esordio, nel lontano settembre 2017, era accaduto il contrario per una manciata di telespettatori e pochi decimali di punto. Dunque, quale dovrebbe essere la meraviglia?

Nelle prime tre puntate di quest’anno su Rete 4 È sempre Cartabianca ha totalizzato il 9,6 poi il 7 e, con il ritorno del competitor, il 6,5% di share (rispettivamente 1,2, 0,93 e 0,84 milioni di teste). Quella della concorrenza è una regola semplice, che si impara in tutte le scuole ben prima dell’università. Invece no, c’è chi si porta la mano sulla bocca aperta per fingere stupore, sorpresa, trasalimento. Avete visto cos’è successo? Le massaie adesso hanno un’alternativa e si dividono tra due erbivendoli. Nessuno tra gli analisti più competenti aveva enfatizzato i buoni ascolti di Berlinguer al debutto sulla rete Mediaset. C’era il deserto sugli altri canali. E si parlava pur sempre della scommessa di un talk virato a sinistra in una rete di destra, per usare uno schema interpretativo un tantino superato. Assestamenti e contraccolpi erano prevedibili. Chi ha enfatizzato l’audience della prima puntata lo ha fatto per eccesso di ingenuità, dimenticando la famosa legge della fetta di mercato divisa per due. O, più verosimilmente, per eccesso di malizia: sottolineare il primo risultato positivo per poter usare la mano pesante al primo, inevitabile, arretramento. Poi ci sono le posizioni aprioristiche di chi scrive le recensioni al buio, prima ancora che il programma vada in onda. Ma questa è un’altra storia ancora. O forse non tanto. Berlinguer è un bersaglio perfetto e va attaccata a prescindere, magari paragonandola, lei e non Fabio Fazio, all’ex Ct Roberto Mancini, assurto a emblema del tradimento. La sua colpa? Forse proprio mettere in discussione lo schema manicheo dei migliori seduti sempre dalla solita parte.

 

La Verità, 22 settembre 2023

«L’attualità ce la racconta l’establishment»

Buongiorno Peter Gomez, da vicedirettore a condirettore del Fatto quotidiano che cosa cambia?

«Resto direttore del sito e del mensile Millennium. Qui a Roma lavorerò all’integrazione tra giornale cartaceo e online. Le edicole chiudono e sempre più copie sono vendute in forma digitale».

Le edicole chiudono e i lettori calano?

«Quelli del Fatto quotidiano di Marco Travaglio stanno aumentando. Crescono le copie digitali e degli abbonamenti cartacei, oltre 50.000 in totale».

Da Milano a Roma, una bella sterzata…

«Mia figlia i miei affetti sono a Milano e quando le cose si sistemeranno spero di poterci rimanere di più. Ho sempre rifuggito Roma, che mi piace molto, ma è la città del potere. E ai giornalisti non fa bene star troppo vicino al potere, anche se per raccontarlo è necessario».

Altre novità professionali?

«Da lunedì sarò ospite due volte la settimana di Giù la maschera, il nuovo programma di Marcello Foa su Radio Uno».

Si era parlato di lei su Rai 3 al posto di Bianca Berlinguer.

«L’ho letto anch’io sui giornali, ma non c’è mai stato niente di concreto. A un certo punto Repubblica ha scritto che Giuseppe Conte voleva impormi per una sorta di ricatto. Qualche volta Conte l’ho intervistato, ma ci avrò parlato sei o sette volte in tutto. Poi il Corriere della Sera ha scritto che la mia partecipazione al programma di Foa è in quota 5 stelle».

Invece?

«Anche se la pensiamo diversamente su diverse cose, io e Foa siamo stati colleghi al Giornale di Indro Montanelli e trovo che in passato Marcello sia stato attaccato in modo ignobile. Quando mi ha proposto di collaborare a un programma pluralista e di qualità ho accettato di buon grado. L’unica cosa vera in questi anni è che, ai tempi del governo gialloverde, ho rifiutato la direzione del Tg1 per coerenza con il fatto che ho sempre scritto “fuori i partiti dalla Rai”».

È vero che potrebbe comunque approdare in Rai con La confessione?

«Purtroppo no. Sul Nove, dove il programma continuerà, ho sempre avuto libertà assoluta. Se arrivasse un’offerta la prenderei in considerazione perché la Rai è la Rai».

Perché al Tg1 no e un programma sì?

«Se il programma non funziona ti chiudono. Con la riforma voluta da Renzi la Rai è nelle mani del governo e la politica tormenta i direttori dei tg più di prima».

Come valuta gli abbandoni di alcuni professionisti all’arrivo della nuova dirigenza?

«Non ci sono epurati, ma persone che sono andate a guadagnare di più e con l’idea di sentirsi più libere. Fabio Fazio non è andato al Nove quando è arrivata la nuova dirigenza, è stato il cda di Carlo Fuortes a non aver avviato la trattativa per confermarlo».

Se ne sono andati anche Massimo Gramellini e Lucia Annunziata: se si è in dissenso con la nuova linea non è più da schiena dritta restare?

«Secondo me, sì. Però non riesco a biasimare chi pensa che il lavoro sarebbe stato impossibile. Mi ero fatto una cattiva opinione di Lucia Annunziata quando sembrava che si candidasse come europarlamentare del Pd. Ora che l’ha smentito l’ho rivalutata».

Quest’estate si è tornati a parlare della strage di Bologna e dell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia su Ustica.

«Sulla strage di Bologna ha fatto tutto Marcello De Angelis, giurando che Mambro, Fioravanti e Ciavardini non c’entravano. È troppo comodo smorzare i toni quando scoppia il polverone. Su Ustica ho un atteggiamento diverso rispetto a quando fioccavano le tesi complottiste. Ora mi sembra una grande storia giornalistica, anche se vedo poche novità. Mi pare che i lettori guardino a Ustica come ai cold case italiani, tipo la scomparsa di Emanuela Orlandi o la fine di Simonetta Cesaroni».

I misteri del passato hanno riempito l’assenza di grandi gialli estivi?

«In parte, sì. Noto che i giornali di destra stentano un po’ ora che governa Giorgia Meloni. Varrebbe anche a parti rovesciate, se ci fosse Conte al suo posto. A me sarebbe piaciuto fare questo mestiere quand’era vincente il giornalismo british, ma oggi funzionano le testate di opinione. Non si possono più portare a esempio nemmeno i giornali americani che sono stati embedded durante la guerra in Iraq e non si sono accorti dell’ascesa di Donald Trump».

Di che cosa è sintomo il caso Vannacci?

«Di quanto stiamo dicendo. Premetto: il generale è libero di dire quello che vuole ma, al di là di quello che c’è scritto nei codici, chi è dipendente pubblico ha obblighi maggiori rispetto a chi non lo è. Se esprimi opinioni critiche sui gay, ai cittadini può venire il dubbio che con quella divisa non eserciti il tuo ruolo in modo imparziale. Per lo stesso motivo disapprovo che un magistrato entri in politica o che lo facciano i giornalisti. Prendiamo un fatto di attualità: il problema di Andrea Giambruno è che è il compagno di Giorgia Meloni e chi lo guarda in video può percepirlo come un ventriloquo».

Giorgia Meloni ha risposto a questa obiezione difendendo la libertà di stampa: vale pure per Giambruno, o no?

«Secondo me tutto dipende dal rapporto che si vuole avere con il pubblico. Credo che chi ha un ruolo di arbitro nella convivenza civile abbia un dovere in più. Quando Enrico Letta diventò premier, Gianna Fregonara smise di scrivere sul Corriere, mentre Cinzia Sasso si ritirò quando Giuliano Pisapia divenne sindaco di Milano».

Il pubblico è così ingenuo?

«Se Giambruno non fosse il compagno di Meloni le sue parole non sarebbero state così rilevanti. Per dire, Nunzia De Girolamo è brava ma, più in piccolo, lo stesso conflitto si presenterà anche per lei, ex ministra del governo Berlusconi e moglie del numero due del Pd. Se eviterà di parlarne qualcuno potrà pensare che non vuole litigare col marito».

Tornando a Vannacci, anche noi facciamo come i media americani e sottovalutiamo fenomeni importanti?

«C’è un mondo, non so quanto grande, che la pensa come Vannacci e sta a destra di Fdi e della Lega. Ma alle urne le forze che dovrebbero rappresentarlo di solito non sfondano. Il caso Vannacci è esploso perché Repubblica ne ha scritto osteggiandolo, perché l’autore è un militare e perché il ministro Guido Crosetto lo ha destituito. Non è vero che questa Italia non viene rappresentata, La Verità e Rete 4 lo fanno. La sinistra si limita a condannarla, mentre noi giornalisti dobbiamo anche raccontarla».

Cosa pensa delle forme di protesta di Ultima generazione?

«Sono non violente, imbrattano monumenti o fermano il traffico. Certo, si viola il codice penale e sono azioni fastidiose, ma in democrazia ci sta».

Ha letto i documenti svelati da Fuori dal coro che annunciano un’escalation nei prossimi mesi?

«Se commetteranno reati è giusto che vengano perseguiti. Al momento si tratta di proteste e annunci di un movimento presente, ma non così esteso. Perché non c’è lo stesso allarme per le commemorazioni dell’omicidio Ramelli col saluto romano?».

Non c’è differenza?

«Il blocco stradale è una forma di lotta dall’Ottocento, adesso è un reato come lo è il danneggiamento di monumenti. A me sembra che si guardi più al dito che alla luna. Dovremmo preoccuparci che i ghiacciai e le calotte artiche si stanno sciogliendo. Che l’uso massiccio delle plastiche aumenta l’inquinamento, e il numero e la gravità delle malattie. Dovremmo essere contenti che i nostri figli non si battono più per il comunismo o il fascismo, ma per preservare il pianeta».

Studi di geologi e climatologi smentiscono l’eco-ideologia per la quale la causa di tutti i mali è l’uomo.

«So che ci sono posizioni diverse, ma per me questa è una battaglia ideale che, finché non si commettono reati, non mi sento di condannare. All’epoca del G8 di Genova tutta la destra era contraria ai no global non solo per il modo in cui manifestavano, ma anche per quello che sostenevano. Adesso anche Matteo Salvini riconosce che avevano ragione».

Le piace la famiglia queer di Michela Murgia?

«La mia regola di vita è non fare agli altri quello che non vorrei fosse fatto a me. Se loro stanno bene e sono felici, mi piace».

La famiglia si crea e si decide autonomamente come si vorrebbe fare con il sesso?

«La famiglia è espressione del tempo in cui si vive. Se fossi un musulmano di 400 anni fa avrei quattro mogli. Sarebbe sbagliato impedirlo se quello stato non ledesse i diritti di qualcuno e non comportasse reati».

Non si tratta di reati, ma di radice dell’essere: gli uomini non vengono al mondo per volontà propria, né come vogliono loro.

«Se cambiare sesso non danneggia qualcuno sono fatti di chi lo fa. Ciascuno ha diritto alla felicità e se la dà la famiglia queer o sentirsi oggi donna e domani uomo a me non cambia nulla».

C’è qualcosa da smascherare nella grande informazione?

«L’informazione serve agli scopi degli editori che, per esempio, guadagnano con le cliniche o con le autostrade. Oppure vogliono avere rapporti mirati con la politica. Così la realtà è raccontata con la lente dell’establishment. Quanti giornali stanno in ginocchio a pregare per rianimare il centro politico quando gli italiani non ne vogliono sapere?».

Quanto è credibile Giuseppe Conte come leader delle classi deboli?

«Secondo me, molto. La credibilità di un leader non dipende dal suo stato sociale, ma dalle sue battaglie e da quello che fa».

Elly Schlein è meno risolutiva di quanto gli elettori dem speravano?

«Temo di sì. I sondaggi danno il Pd sempre al 20% nonostante la campagna favorevole di cui ha goduto».

Cosa pensa delle sue ultime prese di posizione: «l’Italia ha diritto di sapere la verità su Ustica», «porteremo subito in aula una legge contro la propaganda fascista».

«Quando parla di propaganda fascista si rivolge a una parte del suo elettorato. Obiettivamente non vedo questo rischio in Italia. La verità su Ustica vorremmo conoscerla tutti, ma non dipende da lei».

Cosa pensa del decreto Caivano?

«Finora, in Italia la repressione penale non ha mai funzionato. Togliere il telefonino ai minori colpevoli è un provvedimento tecnicamente inattuabile».

E della tassa sugli extraprofitti?

«È giusta. Sbagliato sarebbe tassare chi guadagna grazie alla propria abilità. Chi trae profitto dalla fortuna perché la Bce alza i tassi può dare di più alla comunità. Stando ai grandi giornali, avrebbe dovuto crollare la borsa e salire lo spread, invece…».

Le manca Silvio Berlusconi?

«Da giornalista sì, perché c’era parecchio da scrivere. Da cittadino no, perché ritenevo sbagliato che facesse politica il proprietario di un grande gruppo editoriale».

 

La Verità, 9 settembre 2023

Fazio, Annunziata e la favola fasulla di TeleMeloni

Ci sarà stato anche un certo «livore», dovuto a vecchie ruggini geopolitiche (Salerno, il Manifesto e Servire il popolo) nell’esternazione di Michele Santoro a DiMartedì rivolta a Lucia Annunziata, presidente Rai in èra berlusconiana, e a Fabio Fazio… e va bene, ci sarà stato. Spiace, però, che abbia prodotto «tristezza» in Aldo Grasso e, in seconda battuta, la reprimenda sulla prima del Corrierone di Massimo Gramellini, già spalla di EffeEffe a Che tempo che fa e ora in procinto di migrare a La7 (sempre gruppo Cairo). Livore e tristezza… Oltre gli stati d’animo, sono fatti concreti quelli espressi da fior di professionisti su ciò che si muove nella Rai orfana di Fazio e Annunziata: «Due signori professionisti che, per ragioni personali se ne sono andati», ha osservato ieri Giovanni Minoli, intervistato dal Corriere della Sera. «Il primo aveva una trattativa in corso da mesi. La seconda va via perché non è d’accordo con questo governo: ma se è stata direttore di rete con qualsiasi governo e presidente Rai con Berlusconi premier!». Uno a zero e palla al centro.

Per la verità, ormai siamo alla goleada anti-martiri della presunta TeleMeloni. In questi giorni, sulle grandi testate è in voga un nuovo gioco: le migliori firme offrono l’assist dell’indignazione per l’incombente dittatura e la cacciata dei migliori, ma finiscono per infilare l’autogol. Prima di Antonella Baccaro con Minoli, due giorni fa ecco Andrea Malaguti intervistare Piero Chiambretti: «La Rai si sta impoverendo?», gli ha chiesto il vicedirettore vicario della Stampa. Risposta: «Tutto può essere. Ma, da quello che leggo, chi se n’è andato lo ha fatto per scelta. Non è stato cacciato nessuno. E nessuno è rimasto disoccupato. Mi sembra difficile parlare di censure». Chi sa come gira il fumo nella Telerepubblica vede oltre le narrazioni di comodo. Ospite di Giovanni Floris, anche Marco Travaglio ha strappato il sipario: «Bisognerebbe almeno seguire la consecutio temporum. Uno per farsi cacciare dagli attuali vertici della Rai messi lì dalla Meloni avrebbe dovuto almeno aspettare che si insediassero e vedere se lo cacciavano o no. Ma se te ne vai prima, come fai a dire che ti hanno cacciato… Infatti, Fazio è stato onesto… (salvo continuare a lagnarsi in tutte le sedi…). E l’Annunziata? Il suo programma era stato confermato…», nonostante lei non condivida «niente di questo governo». «Allora dovevi rimanere per lottare dall’interno. Se te ne vai, te ne sei andata», ha scandito Fiorello nel suo imperdibile Viva Radio 2 prima di chiudere, sibillino: «Che poi tutto questo andare via, bisogna capire da dove arriva». Oltre gli stati d’animo c’è di più.

 

La Verità, 2 giugno 2023

L’afflizione democratica per la Rai di Lilli e Corrado

C’è molta preoccupazione a La7 per la libertà della Rai. Le nuove nomine e gli abbandoni di Fabio Fazio e Lucia Annunziata hanno gettato i volti noti della tv di Urbano Cairo nell’afflizione più profonda. È un’afflizione democratica, ovviamente, per le privazioni di cui saranno vittime i telespettatori che pagano il canone. Non una preoccupazione editoriale perché, di solito, quando un concorrente s’indebolisce, ci si frega le mani. No: dalle parti di Otto e mezzo e Piazzapulita è tutto un interrogarsi e macerarsi per il degrado della democrazia perpetrato dalle nomine appena licenziate dal Cda Rai. Venendo al sodo, giovedì è andata in onda la maratona dell’indignazione per l’avvento di Tele-Meloni. Fresca di trasferta in quel posticino simbolo di trasparenza e pluralismo che è il meeting di Bilderberg, Lilli Gruber ha dispensato il suo verbo democratico intervistando Giovanna Vitale di Repubblica e l’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria, angosciati per l’incombere della dittatura. Sì, è vero, la lottizzazione c’è sempre stata, ma quando la faceva lui, Zaccaria, il lupo abitava con l’agnello e il leopardo giaceva col capretto. Ci è voluto il solito Marco Travaglio per evidenziare l’ipocrisia delle lamentazioni. Soprattutto quelle di fonte dem perché, a conti fatti, con le nuove nomine Fratelli d’Italia ottiene cinque caselle, la Lega sette, il M5s tre, mentre il Pd ne mantiene nove (Mario Orfeo al Tg3, Stefano Coletta ai palinsesti, Simona Sala a Radio 2, Silvia Calandrelli a Rai Cultura, Elena Capparelli a RaiPlay, Paolo Del Brocco a Rai Cinema, Andrea Vianello a San Marino tv, Maria Pia Ammirati a Rai Fiction e Luca Milano a Rai Kids). Eppure la consigliera Francesca Bria, issata in Cda dall’ex ministro Andrea Orlando, ha votato contro alzando alti lai di protesta. Insomma, quello che si dice avere la botte piena e la moglie ubriaca. Un gioco di prestigio che, quando si tratta della tv di Stato, al Pd riesce sempre facile. Come ha confermato di lì a poco la segretaria del partito Elly Schlein parlando di «occupazione a spallate della Rai» una volta che il testimone della maratona è passato nelle mani di Corrado Formigli. Il quale, in lutto per Lucia Annunziata costretta alle dimissioni perché processata a causa di una parolaccia, ha sorvolato sul fatto che il suo Mezz’ora in più era già stato rinnovato per la prossima stagione. È così: un certo giornalismo stenta a metabolizzare il nuovo scenario fornendo versioni scomposte, tinte di preoccupazione democratica. Magari perdendo la memoria sui fatti di casa propria. Quando un aggiornamento su Massimo Giletti?

 

La Verità, 27 maggio 2023

Seguendo i soldi con Fazio si indovina sempre

A seguire il flusso dei soldi non si sbaglia. Soprattutto se il beneficiario è Fabio Fazio, nativo di Savona. Nessun martirio, nessuna censura. Ci mancherebbe. L’addio alla Rai «dopo quarant’anni di onorata carriera», tra folle di vedove inconsolabili e sodali de sinistra in servizio permanente, è una faccenda di mercato editoriale. Una questione di danè. Altro che vittime della democrazia. Follow the money, recita il vecchio adagio. E nel caso del conduttore di Che tempo che fa è più che mai la pista giusta. Nella nuova casa della Warner Bros Discovery Italia, Fazio guadagnerà 2,5 milioni all’anno che, moltiplicati per quattro, fanno dieci milioni tondi tondi. Niente male. Rispetto al milione e 900mila percepito in Rai con l’ultimo contratto, si tratta di un incremento superiore al 30%. Il miglioramento è ancora più ragguardevole considerando la durata del nuovo accordo che la Rai di sicuro non avrebbe potuto garantirgli. Insomma, un contratto dorato solo stando a quello che lo riguarda personalmente. Cioè, senza contare quanto incasserà OFFicina, la società fondata nel 2017 e di cui ora è socio al 50% con Banijay. Nell’ultimo biennio, per la produzione delle trenta puntate del talk show di Rai 3 l’incasso è stato di 10,6 milioni. Se la percentuale d’incremento fosse la stessa, si sfiorerebbe la cifra di 14 milioni, sempre all’anno. Ma questa è solo un’ipotesi perché dipenderà dalle scelte di palinsesto di Nove, la rete sulla quale potranno continuare a vederlo i suoi affezionati telespettatori.

«Sono in Rai da quarant’anni, però non si può essere adatti a tutte le stagioni», ha detto lui domenica sera rispondendo al fervorino di Ferruccio De Bortoli («Oggi la notizia sei tu…»). «Io e Luciana (Littizzetto ndr) non abbiamo nessuna vocazione a sentirci vittime né martiri», ha assicurato, bontà sua, tentando poco convintamente di sedare i piagnistei della tifoseria desiderosa di buttarla in politica. «Siamo persone fortunatissime e avremo occasione di continuare altrove il nostro lavoro», ha ribadito. Invano. Lo stesso De Bortoli aveva chiosato: «Il fatto che te ne vai è una gravissima perdita per il servizio pubblico e un grande errore editoriale». Ieri, con il solito gioco di prestigio tra narrazione e fatti reali, i giornaloni fiancheggiatori hanno dato il meglio per pilotare sul conto del governo di Giorgia Meloni il clamoroso divorzio. «Rai a destra, Fazio lascia», ha titolato Repubblica. «Vergogna Rai. Fazio costretto all’addio», ha echeggiato La Stampa. In realtà, se di «grande errore editoriale» si tratta, è evidente che a commetterlo è stato l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes che si è ben guardato dal presentargli una proposta di rinnovo del contratto. Come hanno sottolineato sia la presidente Marinella Soldi che i consiglieri Rai, nei mesi scorsi c’era tutto il tempo per farlo. Ma in quel modo non ci sarebbe stato nessun caso politico. E addio anche alle accuse di censura che stanno galvanizzando le milizie dem. Fazio non ha voluto aspettare che, giusto ieri, la nuova governance s’insediasse in Viale Mazzini e Roberto Sergio, amministratore delegato, e Giampaolo Rossi, direttore generale, prendessero possesso degli uffici, firmando il giorno prima con Discovery. Anche in questo caso la tempistica è rivelatrice. Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai? Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros. L’unica rimasta sul tavolo dopo che anche Urbano Cairo, patron di La7 con la quale il conduttore aveva già flirtato, si è defilato quando Fazio ha chiesto di contrattualizzare anche la squadra di autori e il gruppo di OFFicina. In fondo, con lui e «Lucianina», è un intero blocco di potere che si sposta. Che tempo che fa è una centrale di formazione del consenso, un crocevia di case editrici, produzioni cinematografiche, contenuti giornalistici, artisti, comici, ballerine e compagnia cantante. Ma per i bilanci controllatissimi del parsimonioso Cairo arruolare tutti avrebbe potuto essere un colpo mortale. Come quello che, nel 2001, portò alla fine precoce del tentativo di creare dall’ex Telemontecarlo di Vittorio Cecchi Gori ceduta a Roberto Colaninno l’agognato terzo polo tv. Anche allora c’erano Fabio Fazio e Luciana Littizzetto tra i volti della nuova emittente. Ma i debiti accumulati e il nuovo cambio di proprietà fecero abortire il progetto in poche settimane. Che, tuttavia, valsero a Fazio una liquidazione di 28 miliardi di vecchie lire, utili per prestigiosi investimenti immobiliari. Ci vollero due anni prima che il conduttore di Savona tornasse nella tv pubblica, nel 2003, ricominciando da Che tempo che fa.

Insomma, a seguire il flusso del denaro s’indovina. E si scopre che, ai quarant’anni di onorata carriera in Rai di EffeEffe, bisogna sottrarne due di esilio e sommare 28 miliardi di vecchie lire. Quanto fa?

 

La Verità, 16 maggio 2023

Lasciate Fabio Fazio dov’è, nella Ztl di Rai 3

Aiuto, ricomincia. Anzi, è già ricominciato. Come nell’imminenza del rinnovo di ogni contratto. Puntuale e immancabile come la dichiarazione dei redditi, riparte il tormentone di Fabio Fazio fuori dalla Rai. Lo cacciano. Anzi no. È lui che se ne va, che non può restare a queste condizioni. Non può continuare a lavorare nella tv «in mano alle destre» (vedi Lucia Annunziata). Simpatico come un 730 da compilare, il tam-tam è iniziato con largo anticipo sulla scadenza, fra due mesi, del contratto. Si profila un’altra maledetta primavera di forse sì e forse no. Ogni volta un caso di Stato e, francamente, non se ne può più. Eppure c’è chi preferirebbe lasciarlo dov’è, Fazio. E potrebbero pensarci anche i padroni del vapore, Giorgia Meloni e i suoi uomini. Sarebbe un’astuzia che potrebbe spiazzare i fautori dell’«ora tocca a noi». Ma, in realtà, non se ne può più di vedere il «fratacchione» frignare per la mancanza di libertà. Magari gli si potrebbe sforbiciare la cresta del cachet da 1,9 milioni a biennio strappato nel maggio 2021. Continuare a lavorare con la squadra collaudata è pur sempre buona cosa, piuttosto che ricominciare da zero in una tv marginale come Nove, gruppo Discovery…

Da Viale Mazzini filtrano i rumors di scatoloni che si riempiono. A lungo atteso, il risiko delle nomine è partito. I dirigenti destinati a cambiare aria sono più d’uno, dall’amministratore delegato Carlo Fuortes al direttore dell’Intrattenimento prime time, Stefano Coletta, inventore seriale di flop (da Da grande di Alessandro Cattelan fino a Benedetta primavera). E prima o poi qualcuno farà i conti dei costi della sterminata sequenza d’insuccessi. Il vicedirettore dell’Intrattenimento daytime Angelo Mellone, in quota Fratelli d’Italia, sarebbe in odore di promozione, ma forse non a capo della fiction come lui spera. Protetta dal  solito Coletta che la portò da Rai 3 a Rai 1 sembra in declino la stella di Serena Bortone. Per Silvia Calandrelli, responsabile di Rai Cultura sotto la cui giurisdizione Fazio si è spostato per sfuggire alla direzione Intrattenimento, si dice invece sia arrivata l’ora di una nuova destinazione. Questione di settimane e la governance della tv pubblica sarà diversa.

Secondo i beninformati, a mettere in giro le voci del drammatico addio a Mamma Rai sarebbe lui stesso, EffeEffe. Gioca al rialzo, con la sapiente regia di Beppe Caschetto, che ha un nutrito stuolo di artisti e autori da piazzare come ospiti fissi, ospiti saltuari, ospiti frequenti, collaboratori e consulenti, prima, durante e dopo, al Tavolo, nel salotto, sopra e sotto la panca. Che tempo che fa è il giocattolo perfetto per il pubblico benpensante. Costruito e lubrificato negli anni. Nei decenni, già due (potrebbero pure bastare). Un terzo di buonismo, un terzo di perbenismo, un terzo di progressismo e il piatto è servito. Il nuovo film di Veltroni («ma anche» il nuovo documentario, il nuovo saggio, il nuovo romanzo, il nuovo giallo…). Una predica di Saviano. Una prescrizione vaccinale di Burioni. Una promozione dello scrittore da festival. Qualche regista e qualche attore/attrice del quartiere Prati. Il comico mainstream. Un tot di giornalisti allineati, meglio se del gruppo Cairo, vista la danarosa rubrica che EffeEffe tiene su Oggi (si parla di 6.000 euro al mese, beato lui): ed è sempre meglio essere riconoscenti. I compitini di Luciana Littizzetto. I monologhi moraleggianti di Michele Serra. Varie ed eventuali, sempre nel mood del dagli alle destre ora che il fascismo è di nuovo qui.

I siti specializzati tambureggiano da giorni. Dissodano il terreno. Preparano la strada per il sempre ventilato ritorno da La7 di Massimo Giletti. Uno se ne va e l’altro arriva. Ci sarebbero già stati dei contatti. Giletti rientrerebbe di corsa in Viale Mazzini. Quanto a Fazio, anche due anni fa si era parlato di un approdo su Nove, dove c’è ad attenderlo Maurizio Crozza, anche lui targato Caschetto. Sembrerebbe un gioco facile. La quadratura della tv ai tempi del governo più a destra della storia repubblicana.

Però, forse no. Il colpo a sorpresa potrebbe essere lasciare Fazio dov’è. Nella Ztl della Rai. Dove lo seguono quelli del salotto chic. Gli elettori dem. I convinti del gender. I fautori dell’accoglienza senza se e senza ma. I followers di Fedez. I transfughi di Propaganda live. I delusi da Soumahoro. I lettori di Vanity Fair. I nostalgici delle Invasioni barbariche… Il recinto dei buoni. Spingerlo fuori da Rai 3 vorrebbe dire vederlo atteggiarsi a martire, sentirlo piangere per le libertà costituzionali violate. E magari rischiare l’accusa di scarsa lungimiranza editoriale. Giletti potrà tornare lo stesso in Rai, il posto non manca. Ma lasciare il giocattolino a EffeEffe, concedendogli di restare nella Ztl della tv, vorrebbe dire mostrarsi veri liberali. Riuscendo, contemporaneamente, a depotenziarlo.

Schlein entra nel cast della serie Che tempo che fa

No, il basso profilo e il senso della misura non sono tra le doti principali di Elly Schlein, nuovo personaggio di Che tempo che fa giunto alla ventesima stagione (Rai 3, domenica, ore 20, share del 13,4%, 2,7 milioni di telespettatori). Ormai del programma di Fabio Fazio si parla come di una serie tv tanto ricorrono, immancabili, i soliti personaggi. La neosegretaria dem si era seduta sulla poltroncina bianca accostata all’acquario non più tardi dell’11 dicembre scorso e ci è tornata a stretto giro di elezione dopo aver furbamente rintuzzato le avance di Bruno Vespa. Si sa, ognuno sceglie la poltroncina che predilige, quella dove il conforto è maggiore e Schlein ha preferito accomodarsi davanti al «fratacchione», dopo Luca Mercalli e prima di Roberto Burioni, due habitué della corte faziosa a differenza di Carlo Rovelli, intervistato nell’anteprima sul suo interessantissimo Buchi bianchi (Adelphi). «Si è risvegliata una speranza, si è riunito un popolo», ha scandito la nuova leader a commento del suo controverso successo. Con queste premesse la conversazione è scivolata via tranquilla, figurarsi se il conduttore poteva interrompere l’emozione. Schlein era raggiante, spesso con mani giunte e dita incrociate, in adorazione del gran cerimoniere del veltronismo catodico. Ha slalomeggiato tra le poche domande non compiacenti, come sull’Ucraina e sull’ipotesi di nominare Stefano Bonaccini presidente per unire tutte le anime del Pd. Per il resto ha suonato le solite note del salario minimo, della sanità pubblica e del contrasto a «queste destre», sottolineando l’«aggressione squadrista» davanti al liceo di Firenze e rispolverando Lettera a una professoressa di don Milani per criticare il recupero governativo del criterio del merito, per altro previsto dall’articolo 34 della Costituzione nonché battaglia storica della sinistra che però ora, stranamente, il nuovo Pd sta rigettando. Non ci si poteva certo aspettare che lo schieratissimo Fazio, buono con i suoi stizzoso con gli altri, glielo facesse notare. Incombevano Roberto Burioni e una sua collega rianimatrice di pronto soccorso, chiamati a spiegare cosa accade nei polmoni di chi sta annegando e ogni riferimento alla tragedia di Cutro era voluto, certamente per metterla nel conto del governo in carica. Subito dopo ecco entrare Claudio Baglioni, sodale del conduttore ai tempi di Anima mia, lo show che riprendeva il brano dei Cugini di campagna, convocati come ospiti «a sorpresa». Capirai. Con loro Fazio è sembrato più a suo agio: la parte militante della serie era stata espletata…

 

La Verità, 7 marzo 2023

Francesco è «scomodo» e la sinistra lo silenzia

Francesco, papa «scomodo». «Francescomodo», si potrebbe dire fondendo il concetto in una crasi. Il succo è che papa Bergoglio non va più bene, non è più amato, non è più mainstream. Figuriamoci: ora che manifesta rispettosa attenzione verso il nuovo governo… C’è stato un tempo in cui era la stella polare, il leader mondiale, l’autorità universalmente riconosciuta. Soprattutto nei grandi media e presso gli esponenti politici della gauche. Senza dimenticare i vescovi e la stampa cattolica di osservanza Sant’Egidio. C’è stato un tempo in cui era studiato, imparato e mandato a memoria dall’intellighenzia. Un tempo in cui lui stesso citava Fabio Fazio su Repubblica: 18 marzo 2020, dopo un suo fervorino sulla quarantena da coronavirus. Invece qualche sera fa, mentre fior di giornalisti discutevano di accoglienza, e dopo che nello stesso giorno lui aveva parlato a lungo dell’argomento, zero: nessun riferimento, nessuna citazione. Storia finita, amore tramontato, Francesco lo si ascolta solo per dovere. Ma poi, anche nelle gerarchie, si tira dritto per schierarsi e colpire l’avversario, il solito.

Domenica nello studio di Che tempo che fa si erano dati convegno Roberto Saviano, Marco Damilano, Massimo Giannini, Claudio Cerasa e Fiorenza Sarzanini. Una grande rimpatriata, uno sfogatoio contro il governo delle destre. Durante il quale si è a lungo parlato delle quattro navi delle Ong ormeggiate nei porti italiani che, assicurava il conduttore, «sarà l’apertura dei giornali di domani». Purtroppo, essendoci stati anche l’annuncio della candidatura di Letizia Moratti alla regione Lombardia con il terzo polo e l’intervista rilasciata da Francesco sull’aereo di ritorno dal Bahrein, l’indomani solo La Stampa confermava la previsione di Fazio. Del resto, nel corso della serata Giannini era riuscito a dire che gli sbarchi selettivi – ovvero di donne, bambini e malati – gli ricordavano la selezione nazista dei deportati ebrei. Ora, come accennato, si dà il caso che proprio nel pomeriggio Bergoglio aveva buttato lì un paio di cosette sul tema dei migranti. Per esempio, dopo aver detto che vanno «accolti, accompagnati, promossi e integrati» e che «la vita va salvata in mare, perché il Mediterraneo è diventato un cimitero, forse il più grande del mondo», il Pontefice aveva caldeggiato l’attiva partecipazione dell’Unione europea. «Ogni governo della Ue deve mettersi d’accordo su quanti migranti può ricevere. Al momento sono quattro i Paesi che li accolgono: Cipro, Grecia, Italia e Spagna. Ma la politica va concordata tra i Paesi e l’Unione. Non si può lasciare a Cipro, Grecia, Italia e Spagna l’accoglienza di tutti i migranti che arrivano sulle spiagge». E ancora: «Ho sentito che hanno fatto sbarcare bambini e donne. Ma l’Italia e questo governo, o anche un governo di sinistra, non possono fare nulla senza l’accordo a livello europeo e la responsabilità europea». In conclusione aveva citato Angela Merkel: «Se vogliamo risolvere i problemi dei migranti, risolviamo i problemi dell’Africa con un piano di aiuti». Di tutto questo, nessun accenno. Zero citazioni per lo stesso identico Papa che il 6 febbraio scorso Fazio aveva ospitato, collegato dalla casa Santa Marta. Quella sera, insieme al conduttore, il parterre di giornalisti quasi identico a quello di domenica, aveva introdotto l’intervista con una raffica di enfatiche definizioni del capo di santa romana Chiesa: «Un intellettuale di cuore» (Fazio), «il Papa vicino alla gente, inviso alle gerarchie» (Giannini), «uno straordinario rivoluzionario» (Sarzanini), «l’ultimo socialista» (Saviano), «un grande uomo solo» (Carlo Verdelli).

Insomma, la figurina da aggiungere all’album della «Chiesa che va da Madre Teresa di Calcutta a Che Guevara». E che sembra ancora piacere alla Cei presieduta da Matteo Zuppi, come dimostra la linea dettata da Avvenire che ieri, dopo aver dedicato mezza riga del catenaccio al pensiero papale, ha sparato un lapidario: «È crisi disumanitaria». Perfettamente allineato è l’appello della Fondazione Cei Migrantes di monsignor Giampaolo Perego firmato da 24 organizzazioni di volontariato, nel quale si afferma che gli sbarchi selettivi «sono incostituzionali». Sordità verso le parole di Bergoglio a proposito della responsabilità dell’Europa trapelavano invece nell’intervista a Repubblica dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice («Il governo discute inutilmente sul fatto che le imbarcazioni battano questa o quell’altra bandiera…»). Il quale, ospite ieri di Agorà, ha fatto dire a Gesù «ero profugo e mi avete accolto» invece dell’originale «ero forestiero…».

Forzature bibliche a parte, il magistero bergogliano amplificato fino a qualche mese fa dai giornaloni che se ne contendevano le interviste e i testi, oggi è accolto con sufficienza quando non ignorato. Lo si è visto anche sulla guerra in Ucraina. L’invito alle autorità coinvolte nel conflitto a far tacere le armi per avviare una trattativa che risparmi le vite umane è regolarmente sottaciuto. Gli interessi atlantici pulsano altrimenti. Così, è stata rimossa la denuncia che in alcuni momenti «la Nato ha abbaiato alle porte della Russia». E lo sono stati il riconoscimento che «difendersi è non solo lecito, ma anche un’espressione di amore alla patria», e la riflessione che «io non escludo il dialogo anche con l’aggressore… Alle volte il dialogo si deve fare così. Puzza, ma si deve fare». Parole cadute nel vuoto (pronunciate il 22 settembre, tornando dal Kazakistan). Come quelle sul bisogno di sostenere la natalità e contrastare la crisi demografica: «È urgente sostenere nei fatti le famiglie e la natalità», disse Bergoglio agli imprenditori di Confindustria, in udienza nell’Aula Paolo VI (13 settembre). «Su questo dobbiamo lavorare, per uscire il più presto possibile dall’inverno demografico nel quale vive l’Italia e anche altri Paesi. È un brutto inverno demografico, che va contro di noi e ci impedisce questa capacità di crescere. Oggi fare figli è una questione, io direi, patriottica, anche per portare il Paese avanti».

Disse proprio così, «patriottica». No, decisamente: Francesco non è più di moda.

 

La Verità, 9 novembre 2022

Il Papa spericolato vuole parlare ai lontani

Il mezzo è il messaggio e abbiamo un Papa spericolato. Detta in sintesi, la questione è tutta qui. All’indomani dell’ospitata di Francesco nello studio di Che tempo che fa retto da Fabio Fazio si rincorrono analisi e interpretazioni attorno all’evento. Il Vicario di Cristo in terra che si fa intervistare in un talk show abitualmente frequentato da politici, imprenditori e star dello spettacolo diventa un personaggio mediatico al pari di Bill Gates, Barack Obama e Lady Gaga. Diventa uno scoop giornalistico. Bergoglio ha fatto questa scelta fin dall’inizio del pontificato, concedendosi a giornalisti diversamente autorevoli e specializzati. Se il fatto s’inflaziona, però, il titolare della Cattedra di San Pietro entra nel flusso della comunicazione e perde sacralità.

Il caso più emblematico sono state le conversazioni di Francesco con Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Altre volte è comparso all’interno di programmi televisivi. In questi casi il rischio di subire manipolazioni è inevitabile. L’intervista concessa al conduttore di Rai 3 è stata registrata nel pomeriggio e, come ha notato il sito Dagospia soffermandosi sui salti dell’orario segnato dall’orologio del Pontefice, è stata tagliata e lavorata. La cosa in sé non desta particolare scandalo. Ciò che conta è che anche questi aggiustamenti siano stati concordati con la Sala stampa della Santa Sede. In passato non è sempre stato così. Scalfari andava a trovare Bergoglio a Santa Marta privo di registratore, senza prendere appunti e vergava l’articolo basandosi sulla sua veneranda e forse selettiva memoria. Come sappiamo, la versione riportata sul quotidiano non era particolarmente aderente alle parole del capo della Chiesa. Eppure, Francesco ha continuato a incontrarlo, correndo ancora il rischio. In tv il potere dell’intermediatore è inferiore a quello di un giornalista della carta stampata che non attenda il visto finale per la pubblicazione. E ancora minore sarebbe stato se la conversazione fosse avvenuta in diretta. Quindi, da questo punto di vista, Bergoglio è stato un po’ meno spericolato.

C’è poi un altro effetto collaterale: l’approccio dell’intervistatore si allunga sulla figura dell’intervistato. Nel caso di Fazio, il proverbiale buonismo condito di malizia left oriented si è addensato nelle insistenti domande sui migranti e le emergenze ambientali, nella speranza di strappargli qualche anatema contro i sovranismi, causa di tutti i mali del pianeta. Francesco deve averlo deluso osservando che è «un’ingiustizia» il fatto che l’accoglienza sia delegata all’Italia e alla Spagna. Sull’ambiente e il riscaldamento climatico, è apparso invece più mainstream. Ma la mielosità del conduttore ha rischiato di contaminare l’intero confronto. Non sono state poste domande sugli scandali dentro la Chiesa e il celibato dei preti e non si è parlato dei cristiani perseguitati in tanti Paesi del mondo. In un’ora d’intervista il tempo per farlo c’era.

Nel marzo di due anni fa, a pandemia appena esplosa, il quotidiano La Repubblica chiese degli interventi a personalità della cultura su cosa stavano imparando dal lockdown. Fazio fu tra i primi a distillare il proprio decalogo. Un paio di giorni dopo, interpellato dal vaticanista del giornale, Bergoglio confessò sorprendentemente che era stato molto colpito dalle sue parole. Molti giustamente si scandalizzarono: mentre il mondo precipitava in un tempo cupo e fior d’intellettuali anche non credenti cercavano conforto in Fëdor Dostoevskij e Sant’Agostino, il capo della cristianità citava un conduttore televisivo di moda.

L’altra sera Bergoglio è stato più prudente e ha dosato gli abituali temi mondialisti con la dimensione pastorale. Per esempio quando ha parlato della necessità e del «diritto al perdono». O quando ha detto  che la Chiesa deve «ripartire dall’incarnazione di Cristo… il Verbo si è fatto carne». Una sottolineatura che i resoconti euforici sui temi sociali hanno ignorato. È un altro dei rischi che lo spericolato Francesco corre usando i media mainstream. Perché lo fa? Perché spera d’intercettare un pubblico diverso da quello che frequenta le chiese. Facendolo paga dei prezzi. Ma scandalizzarsi troppo rischia di farci somigliare ai farisei che inorridivano perché Gesù andava a cena con i pubblicani e le prostitute.

Speriamo solo di non trovarcelo da Lilli Gruber…

 

La Verità, 8 febbraio 2022