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Gli «imbavagliati» si lamentano a reti unificate

Sabato sera, rientrando da una gita, ho acceso la tv trovandola sintonizzata su La7, il canale dove l’avevo spenta al mattino. A In altre parole Massimo Gramellini diceva rivolto a Roberto Vecchioni: la prossima settimana quest’uomo incontrerà il capo dello Stato Sergio Mattarella e, dopo esser stato ricevuto da papa Francesco, chiuderà un concerto sul sagrato di piazza San Pietro. «Quest’uomo». A quel punto sono saltato su Rai 3, cadendo dentro Chesarà della «co-censurata» Serena Bortone, imbattendomi in Gene Gnocchi con inguardabili calzini grigi copri-malleolo che sbertucciava in serie Roberto Vannacci, Matteo Salvini e i pro-life. Tornato su La7, dopo una stoccatina al solito generale, Gramellini stava dando il benvenuto a «un altro Roberto», ovvero Saviano. In cerca di riparo, ho virato su Rete 4. Ma lì, tra gli ospiti di Stasera Italia spiccava Giovanna Vitale di Repubblica, inflessibile nello stigmatizzare il premier Giorgia Meloni, «che non si è mai dichiarata antifascista», e «l’ossessione per il controllo dell’informazione che passa per il controllo della Rai». Insomma, gli imbavagliati imperversavano a reti unificate.
Quella stessa mattina, sotto il titolo d’apertura «Libertà, l’Italia arretra», dalle colonne del quotidiano di proprietà del gruppo Gedi, la medesima Vitale aveva nuovamente rilanciato l’allarme democratico, paventando «l’occupazione militare dell’informazione targata Fratelli d’Italia (…) che risponde a un preciso disegno di potere e di sdoganamento della cultura post-fascista concepito a Palazzo Chigi». Proprio così, il regime è dietro l’angolo. Forse, già davanti. Insieme agli opinionisti dei gruppi editoriali legati all’opposizione lo denunciano il segretario della Fnsi Vittorio Di Trapani, già leader dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico che ieri ha imposto un giorno di sciopero dei tg. Uno dei più politici degli ultimi decenni, le cui motivazioni contro l’accorpamento delle testate e la mancata stabilizzazione dei precari sono il contorno della vera ciccia, ovvero la Rai ridotta a «megafono governativo» e (l’inesistente) caso Scurati.
Sommessamente, a me pare che qualcosa non torni. E che coloro che lamentano la «deriva orbaniana» lo facciano strillando contro TeleMeloni e l’avvento dell’egemonia della destra comodamente seduti negli studi di Lilli Gruber, di Marco Damilano, di Serena Bortone o di Giovanni Floris. Sarebbe interessante quantificare la frequenza con cui i talk show riveriscono direttori, editorialisti e grandi firme, da Maurizio Molinari a Massimo Giannini, da Stefano Cappellini a Michele Serra, da Concita De Gregorio a Corrado Augias, solo per stare al quotidiano che denuncia l’italica riduzione delle libertà.
Per circostanziare un attimo lo stato delle cose può tornare utile un’occhiata a una settimana tipo di programmazione serale. Scorrendola in orizzontale si trovano le varie strisce quotidiane: su La7 c’è il sempre uguale a sé stesso Otto e mezzo, mentre su Rete 4 il nuovo Prima di domani può vantare le new entry di Stefano Cappellini, Concita De Gregorio, Ginevra Bompiani e Gad Lerner. Su Rai 3 l’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano conduce Il cavallo e la torre e, dopo il Tg1, Bruno Vespa condensa il suo «approfondimento» in Cinque minuti. Passando al palinsesto verticale, il lunedì sera ci sono Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4, le inchieste di cronaca di Far West di Giuseppe Sottile (Rai 3) e i reportage di Cento minuti di Corrado Formigli e Alberto Nerazzini su La7 che, dopo La torre di babele di Corrado Augias, riempiono il vuoto lasciato dallo spostamento di Report alla domenica. Il martedì il salotto di Giovanni Floris è il think tank dei guru d’opposizione (Pier Luigi Bersani, Michele Santoro, Augias e Romano Prodi) e su Rete 4 Bianca Berlinguer cerca una problematica quadratura bipartisan in È sempre cartabianca, mentre su Rai 3, al fallimento di Avanti popolo si è fatta seguire l’irrilevanza di Petrolio di Duilio Gianmaria. Il mercoledì, grazie alle inchieste e agli ascolti, resta Fuori dal coro di nome e di fatto Mario Giordano. Il giovedì su La7 Piazzapulita di Corrado Formigli punta a vincere il concorso di programma più antimeloniano dell’etere, perdendo però regolarmente con Diritto e rovescio di Paolo Del Debbio (Rete 4). Il venerdì sera si può scegliere tra l’antagonismo di Propaganda live (La7), che insidia le ambizioni di Formigli mixando i «monocordologhi» di Andrea Pennacchi con il retroscenismo left oriented di Filippo Ceccarelli, e la satira d’opposizione di Fratelli di Crozza sul Nove. Il sabato, come detto, ci aspetta la coppia fotocopia Massimo Gramellini e Serena Bortone (rischiando il gulag Vecchioni e Gramellini sono stati i primi a declamare il testo di Scurati sul 25 aprile). La domenica sera, invece, si chiude in bellezza con Zona bianca di Giuseppe Brindisi, che l’altro ieri ha intervistato Giuseppe Conte, Report di Sigfrido Ranucci su Rai 3 e, sul Nove, il velluto blu innervato di vendette anti-Rai di Che tempo che fa.
Questo è il quadro del regime che ci sta avvolgendo e nel quale le poche voci dissidenti rischiano quotidianamente la strozza. In realtà, «non c’è mai stata libertà d’informazione come oggi», ha detto Antonio Padellaro, incenerendo la povera Bortone. Anzi, pur considerando le tre serate di Porta a porta (di certo più bipartisan di Linea notte), l’equilibrio di Quarta Repubblica e il controcanto di Diritto e rovescio e Fuori dal coro, la teleinformazione serale resta orientata dalla solita parte. Per certi versi, con Bianca Berlinguer a Mediaset, la bilancia è più sbilenca di prima. Nelle intenzioni, la chiamata dell’ex direttrice del Tg3 doveva essere la contromisura all’annunciato spostamento a destra dell’informazione Rai. Invece, considerati i flop e il lungo rodaggio che stanno rendendo una chimera il «riequilibrio» della tv pubblica, il risultato finale è che l’asse dell’infosfera rimane, nel suo complesso, tuttora ben spostato a sinistra. Con buona pace dei presunti perseguitati dal regime.

P.s. Come hanno documentato i biglietti ferroviari e la prenotazione dell’hotel per la trasferta romana in occasione della partecipazione al programma Chesarà, Antonio Scurati non ha subito alcuna censura da parte della Rai.

 

La Verità, 7 maggio 2024

«Cara Egonu, Vannacci non dice nulla d’offensivo»

Buongiorno Sylvie Lubamba, l’ha chiamata il generale Roberto Vannacci?

«Non ancora».

Ma vi siete scambiati i contatti.

«È appena una settimana che ci siamo conosciuti».

Spera davvero di fargli da portavoce?

«Perché no? Sebbene i media stiano cercando di trasformare un incontro tra due persone affini in un flirt».

Invece lei vorrebbe entrare nel suo staff?

«Mi piacerebbe. Le persone vanno conosciute prima di giudicarle e Vannacci l’ho ascoltato tre ore senza perdere la concentrazione, il che depone a favore della sua ascesa politica. Di solito, quando vado a un incontro pubblico, dopo un quarto d’ora la mia mente viaggia altrove e mi metto a rispondere ai messaggi arretrati. Con Vannacci non è successo».

Miracoloso, il generale.

«Mi succede anche con Vittorio Sgarbi e Morgan. Li ascolterei per ore. La comunicazione è importante, saper catturare l’attenzione dei presenti è una dote che hanno pochi politici. Li manderei tutti a scuola di comunicazione da Sgarbi, Vannacci e Morgan».

È andata alla presentazione del Mondo al contrario che immagino non abbia letto, ma l’autore l’ha conquistata?

«Ho letto solo alcuni stralci e anticipazioni. Mi aveva colpito il passaggio su Paola Egonu che è italiana pur non avendone i tratti somatici. Come me».

Ci è andata per metterla in fuori gioco dopo che lo ha denunciato per istigazione all’odio?

«Proprio per metterla “fuori gioco”, non so se ci sono riuscita. Paola potrebbe essere mia figlia, perciò la invito amorevolmente a leggere meglio e a comprendere il significato della frase».

Cioè che nei suoi tratti non si riconoscono origini italiane.

«Noi apparteniamo alla razza negroide, non siamo caucasici. È talmente palese che non c’è da offendersi».

Razza negroide si può dire?

«Sì, o razza africana».

Negroidi deriva da negro che è vietato.

«Ma è italiano corretto».

Clint Eastwood lo usa nei suoi film.

«È un attore che non seguo».

Troppo vecchio?

(ride) «In Italia, il conformismo ci impedisce di parlare di negri. Ma il mio invito alla Egonu è a non farsi strumentalizzare perché è tutt’altro che stupida. So che le sensibilità sono diverse. Noi negri ci siamo sempre sentiti dire che non siamo uguali, perciò certe parole feriscono. Lei si è sentita offesa da quella frase e ha denunciato il generale, ma il giudice ha archiviato la denuncia».

Vannacci è stato contestato anche perché ha raccontato che da bambino toccava la mano di un coetaneo nero per capire se la sua pelle era diversa.

«È successo anche a me alle elementari, dov’ero l’unica negra. Mi toccavano la manina o il braccio. Invece, alle medie e alle superiori il sedere o il seno».

E non reagiva?

«Certo che sì. Come fanno le femminucce: “Ma che fai, cosa stai facendo?”».

Non andava dai professori?

«Non ero una spiona, me la vedevo da sola. Anche perché era una cosa talmente fugace…».

Da Vannacci è andata per farsi un po’ di pubblicità?

«Forse sì. Il mio intento era conoscerlo e confrontarmi con lui. Immaginavo che la mia presenza non sarebbe passato inosservata, anche perché, come a scuola, ero l’unica negra».

Anche al concorso di Miss Italia lo era.

«Ho fatto da apripista. Quattro anni dopo vinse Denny Méndez che ho ritrovato in seguito nel reality La Talpa condotto da Paola Perego su Italia 1».

Ha ragione David Parenzo a dire che è una «simpaticissima svalvolata»?

«Sì, però scriviamolo molto virgolettato. Non ho mai creato problemi al mio prossimo né alle carriere delle persone che frequento nell’ambiente della politica, della finanza. E anche dell’esercito, adesso».

Che cosa le piace del generale?

«Il suo eloquio, ha un lessico e una grammatica impeccabili. E come affronta i dibattiti, botta e risposta. Non tutto è condivisibile, ma bisogna riconoscergli un eloquio sofisticato e aulico».

Però. Credevo subisse il fascino della divisa e dei concetti virili.

«Ci stavo arrivando. È affascinante. Questo insieme di cose lo rende un uomo estremamente attraente».

Auspica che si candidi alle Europee?

«Auspico che faccia la scelta che lo porti a crescere come uomo di potere. Per me ha tutte le caratteristiche per entrare in politica meglio di tanti che già ci sono».

Se si candiderà andrà a votare altrimenti no?

«Non avevo intenzione di farlo, ma se si candidasse lo voterei e, dopo tanti anni, farei il mio dovere di cittadina italiana».

Di solito va alle presentazioni di libri?

«A volte, ma la mia presenza alla presentazione di quello di Ilary Blasi non ha destato questo scalpore. E nemmeno a quello di Gerry Scotti o di Rita dalla Chiesa». (ride sonoramente)

Per presenziare da Vannacci ha pagato 30 euro per l’ingresso?

«No, ero ospite».

Di chi?

«Di Mirko Gargiulo, il fotografo titolare dello showroom molto raffinato dove si è svolto l’evento».

Che cosa le piace e che cosa non le piace dei politici italiani?

«Della maggior parte non mi piace proprio l’incapacità di catturare l’attenzione. Meno male che abbiamo un premier che non è così».

Invece, una cosa che le piace?

«Il fatto che ricoprono ruoli di potere, uno status che mi ha sempre affascinata. Poi bisogna conoscere le singole persone, come in passato mi è accaduto».

Mi svela qualche frequentazione importante?

«Mi sarebbe piaciuto averne. Il rapporto di amicizia non è mai sfociato in rapporto professionale, forse per una forma di pregiudizio».

Di tipo razziale?

«No. Se una persona ha qualche piccolo muro, appena mi conosce cade subito. Un freno può sussistere perché sono una donna intraprendente e allegra e magari si preferisce una collaboratrice più sobria e meno appariscente. È un peccato… Ha visto cos’è accaduto a Luca Morisi, il portavoce e social media manager di Matteo Salvini. Era bravo e capace, io l’avrei tenuto. Ognuno nella vita privata può fare quello che vuole».

I politici temono che la sua presenza li metta in ombra?

«A Markette su La7 Piero Chiambretti mi chiedeva sempre: “Signora Lubamba lei è scura e oscura?”. Forse aveva ragione».

Attualmente cosa sta facendo?

«Lavoro in radio da quattro anni. Sono innamorata della radio, ma il primo amore rimane la tv».

Che radio è e che programma conduce?

«Il programma s’intitola Spaghetti e gossip e va in onda tutti i venerdì dalle 20 alle 22, su TOradio».

Un partner con cui vorrebbe lavorare?

«Non nego che mi piacerebbe tornare a creare la sinergia indimenticabile che c’era con Chiambretti. Quando vado al supermercato o in tram mi chiedono spesso quando si riformerà la coppia».

Poi ha lavorato con Mario Giordano a Lucignolo.

«Stavo benissimo anche con lui. Facevo l’inviata d’assalto, la provocatrice senza pietà, ruolo perfetto per me». (ride di gusto)

La tv oggi si fa con gli agenti, lei ce l’ha?

«Ho l’ufficio stampa, non sempre basta».

Con la giustizia italiana è tutto a posto?

«Sono passati dieci anni dall’arresto e sette dalla scarcerazione. Tutto abbondantemente superato».

Tutto iniziò per delle carte di credito false?

«Dobbiamo parlarne ancora?».

Come ricorda il momento di quando, detenuta a Rebibbia, durante la Messa in Cena domini, papa Francesco le lavò i piedi?

«Era giovedì santo, 2 aprile 2015, una data indimenticabile per me. Sebbene siano passati nove anni sono ancora incredula di aver avuto un contatto così intimo con uno degli uomini più potenti del mondo come papa Francesco. Gli ho dedicato un capitolo nel mio libro (Lubamba. La mia libertà oltre lo sbaglio e le sbarre ndr)».

Cosa scrive in questo capitolo?

«Racconto le emozioni e lo scambio di sguardi tra me e lui, anche perché non c’è stato un dialogo. Era una funzione religiosa, terminata la quale il Papa è andato via. Però nel suo sguardo ho percepito l’incoraggiamento di un papà che dice alla figlia di non rinunciare ai suoi progetti e che si può ricominciare. In fondo, la Pasqua è il giorno in cui tutto si azzera e ricomincia».

Che esperienza è stata il carcere?

«Faticosa e molto brutta. Ma sopportabile. Ho scelto la via del perdono e non del rancore. Ho seguito lo studio biblico, dedicandomi anche alla preghiera e seguendo gli insegnamenti suggeriti dalla Bibbia. Quando sono finita a Rebibbia mi ero rassegnata a dimenticare il mondo dello spettacolo. Invece, la visita del Papa mi ha spinto a rimettermi in gioco. Ho scritto il libro e l’ho presentato in tutta Italia».

Hanno tolto anche a lei il reddito di cittadinanza?

«Dal primo gennaio 2024».

Va avanti bene lo stesso?

«Diciamo di sì. Era una boccata d’aria».

Adesso ha l’orgoglio di essere indipendente?

«Avevo i requisiti per chiederlo».

Ma ora è contenta di farcela da sola?

«Il reddito mi permetteva anche di dare una mano alla mia numerosa famiglia. Ho fatto dieci puntate ospite di Barbara D’Urso a spiegare tutto, perché mi attaccavano…».

Cosa pensa del fatto che a Barbara d’Urso non è stato rinnovato il contratto a Mediaset?

«In passato è successo anche ad Antonella Clerici, ad Alessia Marcuzzi, a Nicola Savino… Il mondo dello spettacolo è tanto bello quanto precario. Un giorno ci sei, il giorno dopo no».

Cos’ha fatto per la Giornata della donna?

«Ho partecipato al convegno alla Camera dei deputati sulla sindrome Pandas (Pediatric autoimmune neuropsychiatric disorders associated with streptococcus infections ndr), una malattia rara autoimmune. Si è parlato dell’esperienza di Nicole Minardi, con parecchie personalità ed esperti».

Il patriarcato è ancora difficile da sconfiggere?

«La strada è lunga».

Come si manifesta?

«È intrinseco nell’educazione famigliare. Nel mio Paese di origine è ancora peggio. Si parla di genitore 1 e genitore 2, una cosa assurda. Il genitore 1 è sempre il padre e moglie e figli devono obbedire».

Se si continuasse a scrivere padre e madre sarebbe tutto più semplice?

«Forse. Le quote rosa in politica e magistratura qualcosa stanno facendo. Ma un giorno sì e uno no viene uccisa una donna».

In molti casi i femminicidi avvengono quando la donna decide di lasciare il compagno che non lo accetta e ricorre alla violenza. Questo è un uomo forte o debole?

«È un padrone fragile».

E della mascolinità tossica cosa pensa?

«Cos’è? In Italia, a Firenze e a Milano, tutta questa mascolinità opprimente non l’ho subita. Forse sono stata fortunata».

A cena con Matteo Salvini o Giuseppe Conte?

«Con Conte che non conosco, ma so che quando insegnava all’università di Firenze era molto amato dalle sue alunne».

Con Massimo Giletti o Marco Travaglio?

«Con Travaglio perché è un altro che cattura l’attenzione e quando lo vedo nei talk show mi soffermo».

Un compagno vero se lo troverà o resterà una simpaticissima svalvolata?

«Auspico di trovare un compagno fisso con il quale formare un giorno una famiglia».

 

La Verità, 9 marzo 2024

Il talk di Bianca si porta bene anche su Mediaset

In un mondo in cui tutto cambia qualcosa resta immutato. È Bianca Berlinguer in onda con il suo programma di approfondimento giornalistico al martedì sera. Uguali a loro stessi, lei e il talk show. Cambia il media che lo diffonde, Rete 4 della tv commerciale al posto di Rai 3 del servizio pubblico. Insomma, secondo il vecchio schema la scommessa è un talk di sinistra in una rete di destra. Evidentemente, BB ha pensato che per il suo pubblico si tratta solo di cliccare un altro tasto del telecomando e quindi struttura, ospiti e contenuti potevano restare invariati. Non a caso è traslocata anche l’intera squadra, a cominciare da Sancho Panza Mauro Corona. Anche lo studio è identico…

In realtà, qualche novità c’è. Il programma ora s’intitola È sempre Cartabianca, ma in quella sottolineatura temporale si coglie la volontà di mantenimento del format. Il secondo cambiamento è nella durata che si allunga di tre quarti d’ora, il che permette di affrontare gli argomenti con meno frenesia. Una parte di questo tempo supplementare va appannaggio del lungo duetto con l’uomo del monte. Il quale si toglie i macigni dalle pedule per replicare al «ragionier» Vincenzo De Luca e ad «Alessandro Cecchi Pa(v)one» prima di opinare sulla qualunque. Dopo l’intervista a Giuseppe Conte, la parte migliore della serata si è concentrata nei talk veri e propri. Azzeccata l’idea di mettere a confronto Flavio Briatore con Debora Serracchiani e Stefano Cappellini sulla forbice sociale sempre più divaricata tra super ricchi e super poveri e documentata in un paio di servizi sulle vacanze extra-lusso o extra-povere e sulla necessità del salario minimo. Alla fine, il più assennato e competente è risultato Mario Giordano, presente anche in veste di ambasciatore aziendale: schierarsi con i lavoratori o gli imprenditori è uno schema vecchio, ci sono piccoli imprenditori e artigiani che patiscono tanto quanto i lavoratori dipendenti… Altrettanto ricco il dibattito sugli stupri del branco, innescato da un focus sulla movida palermitana. Il parterre di ospiti era molto composito, ma proprio la gestione della complessità è il banco di prova dei conduttori dei talk. A dimostrarlo c’è l’accentuato interventismo di Berlinguer, portata a indirizzare il confronto in una direzione precisa.

I riscontri di audience della puntata d’esordio (1,2 milioni di telespettatori e il 9,6% di share) sembrano dar ragione al trasloco del format su Rete 4, ma per parlare di scommessa vinta bisogna attendere quando sulle reti concorrenti saranno in onda Giovanni Floris e Nunzia De Girolamo.

 

La Verità, 7 settembre 2023

Pier Silvio non entra in politica, la ritocca nelle tv

No, non scenderà in campo Pier Silvio Berlusconi, sebbene sia figlio di suo padre e qualche retroscenista abbia provato a ipotizzarlo in varie forme. Ma non succederà, per tre razionalissimi motivi. «Il primo è che la politica è un mestiere serio. Parlo di mestiere perché è qualcosa che si apprende nel tempo, non dall’oggi al domani», ha scandito l’amministratore delegato di Mediaset. «A livello emotivo qualcosa si è mosso», ha ammesso. «Ho pensato che il suo rapporto con gli italiani e con l’Italia, fatto di amore e di libertà, è un lascito che deve vivere. Per altro io ho 54 anni, mio padre ne aveva 58 quando è sceso in politica… Ma nessuno potrà mai sostituirlo. Il secondo motivo», ha proseguito, «è che non si lasciano i lavori a metà. E in questo momento Mediaset è impegnata in un progetto di lungo respiro, il consolidamento di Media for Europe (Mfe) per contrastare la forza delle piattaforme Ott (Over the top). Il terzo motivo è che un cambio di rotta si giustifica a servizio degli italiani e ora non c’è nessuna emergenza. Abbiamo un governo solido, votato dagli elettori, che sta facendo del suo meglio e che può durare. E al quale Forza Italia può garantire stabilità. Detto tutto questo, non ho intenzione di scendere in politica». Fine dei retroscena. Anche se nulla impedisce al primogenito del fondatore di Mediaset e Forza Italia di coltivare una certa curiosità e di sottolineare il «buon rapporto» con Giorgia Meloni «che conosco da molti anni ed è una persona giovane e decisa. Nutro stima personale per il nostro premier».

A poche settimane dalla morte di Silvio Berlusconi, il gala di presentazione della stagione 2023-24 era atteso per quanto avrebbe potuto dire Pier Silvio sugli scenari futuri e le ipotesi di vendita: «In famiglia non ne abbiamo parlato. Mi ha dato fastidio che con la morte di mio padre ci siano state simili ipotesi, ma è normale». Dopo una lunga pagina omaggio al genitore («Più passano i giorni più la mancanza è enorme»), anche nella serata pilotata da Gerry Scotti a un certo punto si è fatto «click» e ci si è messi a lavorare. Partendo dagli ostacoli affrontati negli ultimi anni come la pandemia, la guerra e l’inflazione, per poi planare su quelli specifici dell’editoria, l’impatto dei «giganti globali della comunicazione» e la «concorrenza senza regole delle multinazionali del Web sul mercato pubblicitario». La risposta dell’azienda di Cologno monzese è lo sviluppo del gruppo «crossmediale» fatto di reti generaliste, tematiche, pay-per-view, radio e Web (+19% di serate autoprodotte rispetto alla stagione 2019-20). E, soprattutto, la creazione di Media for Europe, la media company con Mediaset España, controllata al 100%, e la tedesca ProSieben, partecipata al 30%. «Sono orgoglioso che aziende italiane studino un’espansione internazionale e non che pezzi di Italia siano conquistati da un gruppo straniero. Perché», ha rimarcato Pier Silvio, «la tv generalista non è vecchia. Piuttosto è piccola, e sarebbe sbagliato contrastare la potenza delle Big tech restando nei confini nazionali».

All’interno dei quali, però, nell’ultimo anno lo scenario è mutato in modo sostanziale. A Mediaset erano preparati se, mentre nasceva la Rai meloniana, hanno avvicinato Bianca Berlinguer ora annunciata come la principale novità della stagione: «Sono molto felice. L’ho conosciuta e si è instaurato tra noi un rapporto vero, di fiducia». Come anticipato, l’ex direttore del Tg3 condurrà il talk show del martedì di Rete 4, dove dividerà anche lo studio di Stasera Italia con Nicola Porro e Augusto Minzolini, quest’ultimo nel weekend. «È un’operazione importante, destinata a far crescere il peso della nostra rete dedicata all’informazione e che vuole rivolgersi al pubblico in maniera più trasversale», ha ribadito l’ad Mediaset.

Editorialmente impeccabile con una Rai più spostata a destra, né Pier Silvio né «Bianchina», scortata da Mauro Corona («Sono un suo fan anche se lui ama la montagna, io il mare»), sottovalutano il rischio dell’operazione. È vero che già Michele Santoro passò da Saxa Rubra a Cologno, ma erano gli anni Novanta e «Michele chi?», come lo chiamò il presidente Rai Enzo Siciliano incentivandone l’esodo, si affacciò su Italia 1. Diversa è la Rete 4 che fu casa di Emilio Fede. Nella quale ora, pur molto cambiata, i programmi di Mario Giordano e Paolo Del Debbio godono di un vivace zoccolo duro di pubblico. E dove, senza far paragoni, l’innesto di Gerardo Greco non funzionò. Sarà lavoro per gli autori. «Ma con lei parliamo lo stesso linguaggio televisivo», ha assicurato Mauro Crippa, direttore generale dell’informazione.

Anche se con minori implicazioni ma sempre nella logica di «dare più peso ai nostri contenitori» va registrato l’insediamento a Pomeriggio 5 di Myrta Merlino al posto di Barbara D’Urso. La quale, dopo 15 anni di emotainment, non ha comprensibilmente gradito l’accantonamento.

Con l’eccezione di Amore + Iva, lo show di Checco Zalone in esclusiva su Canale 5 tra ottobre e novembre, le altre novità lo sono relativamente. Grande Fratello, per esempio, ritorna alla versione originale, né vip né nip, ma centrata sulle storie. Sempre a rimpolpare la quota reality, ecco un’edizione invernale di Temptation island. Poi Io canto generation e La ruota della fortuna per omaggiare il centenario della nascita di Mike Bongiorno, affidati a Gerry Scotti. Infine, Il più grande karaoke d’Italia. Tutti format che affondano le radici negli anni Novanta o «nella forza ancora attuale di quei prodotti», ha precisato Berlusconi jr. Per il resto, confermati i pilastri del palinsesto: Amici, C’è posta per te, Tu sì que vales con l’innesto di Luciana Littizzetto, Ciao Darwin, Michelle Impossible, Felicissima sera e, su Italia 1, Le Iene con Veronica Gentili al posto di Belen Rodriguez, al momento senza programmi.

In chiusura, un buffetto a Urbano Cairo che aveva ipotizzato una fusione fra i due gruppi: «Sono un fan di Urbano, è bravo, simpatico e vivace», ha premesso Pier Silvio. «Ma Mediaset con Rcs mi sembra un incastro spericolato perché in una fusione ci mangeremmo Rcs. È fantaeditoria».

 

La Verità, 6 luglio 2023

Bianchina, una Berlinguer alla corte di Berlusconi

La notte bianca di Bianca. Le… notti bianche. Per l’ex conduttrice di #Cartabianca, più che i sogni e le passioni di Dostoevskij a San Pietroburgo, c’entra un calcolo professionale, seppur venato dal dubbio. Restare fedeli all’azienda di una vita o assicurarsi un allungamento di carriera alla corte della concorrenza? Eccola, è Bianca Berlinguer al bivio (acronimo: BBab). Praticamente un format: la conduttrice chiede un supplemento di riflessione per sciogliere la riserva. Accendiamo la telecamera e spiamo le notti insonni e i petali consumati dal dilemma: resto o vado, vado o resto? Di qua lo status quo, di là la freccia che indica Mediaset. Alla fine, l’ex direttore della Telekabul ereditata da Sandro Curzi ha scelto la nuova avventura nelle reti del Biscione. «Bianca Berlinguer ha comunicato le dimissioni da ogni incarico in Rai e dalla conduzione del programma #Cartabianca. La giornalista», si legge nella nota di Viale Mazzini, «ha ringraziato l’azienda per 34 anni di lavoro, svolti sempre in piena autonomia sia in qualità di direttore che di conduttrice di programmi di approfondimento».

Stasera alla presentazione dei palinsesti se ne avrà conferma ufficiale. Berlinguer avrà l’abituale prima serata del martedì su Rete 4 al posto di Veronica Gentili destinata alle Iene, con lo spostamento di Fuori dal coro di Mario Giordano al mercoledì. Mentre si alternerà una settimana a testa con Nicola Porro alla conduzione della striscia quotidiana finora condotta da Barbara Palombelli. Ne sapremo di più al gala di Cologno monzese, dove si capirà anche quale ruolo potrà avere Mauro Corona, l’alpinista scrittore da anni sparring partner di «Bianchina». Restando in casa Mediaset, sempre stasera si avrà conferma se il posto di Barbara D’Urso a Pomeriggio cinque verrà preso da Myrta Merlino. Se così sarà assisteremo a uno spostamento a sinistra del Biscione a compensazione del riposizionamento a destra della Rai, con conseguente rimescolamento di parte dei pubblici rispetto agli editori di riferimento.

Intanto, ieri il Cda di Viale Mazzini ha rinnovato il contratto di servizio fino al 2028, mantenendo gli spazi di giornalismo d’inchiesta – quanti allarmismi del giornalone unico – e approvato i palinsesti del prossimo autunno (presentazione venerdì a Napoli). Al termine della riunione, l’amministratore delegato Roberto Sergio ha comunicato che «al momento la trasmissione #Cartabianca non è presente in palinsesto». Sabato Berlinguer aveva chiesto ancora una notte per pensarci. Poi il pensamento si era prolungato, mettendo alla prova la pazienza dei massimi dirigenti (Giampaolo Rossi, direttore generale) che avevano già fatto di tutto per trattenere la giornalista, assicurando grande promozione all’unico talk politico di prima serata, budget e libertà nella scelta degli ospiti che la precedente gestione aveva provato a mettere in discussione. Non è bastato. Al suo posto, alla conduzione di #Cartabianca, su Luisella Costamagna sembra averla spuntata Monica Giandotti, in uscita da Agorà e moglie di Stefano Cappellini, capo del politico di Repubblica. Loro testimone di nozze è quel Mario Orfeo, già direttore generale, attuale guida del Tg3 e tuttora, curiosamente, molto influente in Viale Mazzini.

Ora, però, la telenovela della «zarina» è finita. Era stata lei a inaugurarla, impuntandosi contro la programmazione di Rai 2, ritenuta concorrenziale al suo programma. «Bianchina» non gradiva Belve di Francesca Fagnani e nemmeno Boomerissima con Alessia Marcuzzi, previste al martedì. E pazienza se quei programmi erano già andati in onda nello stesso giorno di #Cartabianca in passato e l’ufficio marketing di Viale Mazzini aveva documentato che i loro target erano diversi.

Non con Discovery come si era ipotizzato all’inizio, BB giocava di sponda col Biscione (acronimo: BBB), felice di puntellare il palinsesto all talk di Rete 4 con un volto storico, anche se non più così ortodosso, della Rai di sinistra. L’obiettivo di Berlinguer era allungare la carriera in prima linea. Così, anche lei ha rischiato di accodarsi alla lista dei conduttori presunti censurati dalla Rai meloniana. I quali, in realtà, seguono principalmente l’odore dei soldi. A Fabio Fazio, Luciana Littizzetto (contrattualizzata sia da Discovery che per Tu sì que vales di Canale 5), Lucia Annunziata e Massimo Gramellini, negli ultimi giorni si è aggiunta Serena Bortone che, salutando i telespettatori di Oggi è un altro giorno, li ha retoricamente esortati a essere «liberi e autentici, a qualsiasi prezzo», neanche fosse una paladina dei diritti a Weimar. Dove, per altro, difficilmente le affiderebbero una prima serata e un access primetime su Rai 3. Più o meno sulla stessa frequenza d’onda si è sintonizzato Alberto Matano che, pur confermato per il 2023/24, si è portato avanti con il lamento: «Non so cosa farò dopo la prossima Vita in diretta», ha detto in telecamera all’ultima puntata della stagione. Lesa maestà anche di Luca Bottura e Marianna Aprile per la sospensione di Forrest su Radio uno, non confermato dal nuovo direttore Francesco Pionati. I censurati immaginari rivendicano il diritto inalienabile al video e al microfono. Non si tratterà anche, e forse più prosaicamente, delle cospicue indennità relative? O magari dell’impagabile appagamento di essere un volto noto? No, sembra che chi va in onda sia esente dalle logiche di mercato. E che un nuovo direttore che arrivi in Rai non possa scegliersi i propri collaboratori come un qualsiasi nuovo direttore di giornale. Andava così anche con le maggioranze di centrosinistra?

 

La Verità, 4 luglio 2023

 

Fiorello fuoriclasse, Zoro e Damilano cartellino rosso

Il peggio e il meglio di un anno vissuto televisivamente. Senza troppe fisime e sicuramente con tante lacune.

 Fiorello 10 (Rai 2)

Fuoriclasse. Animale da show. Direttore che fa orchestra. Vedi l’invenzione di Ruggero «pancia del Paese», la reinvenzione di Fabrizio Biggio, ex solito idiota, il coinvolgimento di Manuela Moreno del Tg2 Post. Gli altri, tutti pronti a passare dal Glass di Via Asiago (con qualche disagio dei residenti). Il capolavoro è la viralità: cura ricostituente per l’intera Rai, partendo da Raiplay e Rai 2 (portata dall’1 al 14%) e sconfinando nei tg, su Rai 1, su Radio Rai. Benefattore.

Alberto Angela 9 (Rai 1)

Master in divulgazione. Si tratti dei tesori di Milano o delle meraviglie di Mont Saint-Michel e di Lisbona, il figlio d’arte incarna lo spirito della tv generalista. La bellezza è attorno a noi, ci circonda e ci precede. Per accorgersene basta lo stupore, la dote dei bambini, e non ci sono target che tengano. Narratore rigenerante, saliscendi sulle scale del racconto alto e basso. Antistress.

Tutto chiede salvezza 8 (Netflix)

Può una serie ambientata nel reparto psichiatrico di un ospedale avvincere come un thriller? Sì, se al centro ci sono le nostre domande fondamentali e le nostre fragilità. E se ci sono buona scrittura e ottima regia, Qualcuno volò sul nido del cuculo insegna. La base è l’autobiografico diario della settimana di Trattamento sanitario obbligatorio di Daniele Mencarelli, la resa cinematografica di Francesco Bruni, uno che ha sempre lavorato con i giovani. Profonda.

Una squadra 8 (Sky)

Docu-serie rivelazione dell’anno, 46 anni dopo la vittoria della Coppa Davis a Santiago del Cile, squaderna aneddoti e retroscena in quantità industriale, alternati a curiosi brani d’archivio. Protagonisti Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli: attori naturali loro e sceneggiatura naturale la loro storia. Gli anni Settanta non erano solo di piombo ma anche di terra: rossa come la famosa maglietta dei doppisti. Epica.

Amadeus a Sanremo 7 (Rai 1)

Premio alla professionalità, nell’ultimo Festival ha saputo emanciparsi da Fiorello senza pagare in ascolti e qualità. Il Sanremo tuttifrutti con Achille Lauro, Roberto Saviano e Checco Zalone era perfetto per il governo di quasi unità nazionale. Quando si ha un ventaglio così largo il successo di ascolti è garantito. Da rivedere l’orchestra affidata a «direttori» come Francesca Michielin e il feeling con qualche donna fiera, come Sabrina Ferilli. Medioman.

Fuori dal coro 7 (Rete 4)

Il mio giudizio è sicuramente viziato, ma credo che negli Stati Uniti un conduttore eccentrico come Mario Giordano sarebbe studiato dagli altri media. Invece il perbenismo ci fa alzare il sopracciglio. Meglio il giochino di Bianca Berlinguer con Mauro Corona? O la passerella gauchiste chez Giovanni Floris? Basterebbe l’inchiesta sulle case occupate dagli abusivi per conferirgli uno dei tanti premi di giornalismo che vanno sempre ai soliti. Spettinato.

L’Ora 7 (Canale 5)

Lenta ma seducente, era una serie diversa e forse per questo meritava più coraggio nella promozione. Ispirata da Nostra signora della Necessità (Einaudi) di Giuseppe Sottile, racconta, tra atmosfere dark e cadenze jazz, la lotta senza retorica dei giornalisti del quotidiano palermitano contro le cosche, prima che venisse scritta la parola mafia. Sarà il direttore di quel foglio a stamparla la prima volta. Notturna.

Playlist 7 (Netflix)

La storia di Spotify diventa un gioco di ruolo. Ogni episodio zooma su un protagonista dell’avventura che ha sconvolto il mondo della musica. Quello centrale è il nerd informatico e ultra intransigente che ha l’idea geniale e l’intuizione di contornarsi delle persone giuste. Compreso il tecnico ancora più bravo di lui e l’imprenditore visionario con lieve disturbo della personalità. Un’ascesa entusiasmante, fino a svelare anche tradimenti e cinismi, rovescio della medaglia del successo. Appassionante.

Quarta Repubblica 7 (Canale 5)

Nicola Porro ha il passo della riflessione a lunga gittata. Le interviste one to one (Paolo Scaroni, monsignor Massimo Camisasca…) sono vero approfondimento. La parte di talk non contempla risse e litigi sebbene coinvolga interlocutori molto bipartisan. Qualche volta si apprezzerebbe un pizzico di velocità in più. Comunque, avercene. Equilibrato.

Marco Cattaneo 6 (Dazn)

Uno dei pochi giornalisti sportivi che non se la tira nonostante la competenza. Il suo Sunday night square dopo il posticipo domenicale è un talk senza la gigioneria e l’autoreferenzialità che inquinano alcuni programmi gemelli. Con Massimo Ambrosini e Marco Parolo equilibrio e autorevolezza sono garantiti. Un po’ dimesso lo studio, si potrebbe osare di più. Asciutto.

Amadeus dovunque 5 (Rai 1)

Più di Pippo Baudo e di Carlo Conti nei loro momenti di massimo splendore. Entra nelle nostre case tutte le sere all’ora di cena con I soliti ignoti. Conduce lo show dell’ultimo dell’anno, le serate di revival all’Arena di Verona oltre, inevitabilmente, Sanremo Giovani. Talmente presente da rischiare di diventare un oggetto di arredamento. Ubiquo.

 Lilli Gruber 5 (La7)

Il voto è la media tra l’autorevolezza di ospiti come Massimo Cacciari e Lucio Caracciolo e la faziosità monocorde della conduttrice. Che spesso sconfina in una sorta di punteggiatura, di balbuzie parossistica: ma Salvini… e Salvini… oggi Salvini… ha sentito Salvini… intercalata da: e la Meloni… oggi la Meloni… Il resto, a eccezione della partnership con i colleghi del Fatto quotidiano, è contorno. Rosicante.

Lotta continua 4 (Raiplay e Rai 3)

Tratta da I ragazzi che volevano fare la rivoluzione (Mondadori) di Aldo Cazzullo, la docu-serie è una ricostruzione molto indulgente del periodo che precedette gli anni di piombo e che Erri De Luca chiama «anni di rame». In realtà, l’assassinio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972) inaugurò la stagione del terrorismo. Tra le tante voci interpellate solo quella di Giampiero Mughini è ragionevolmente critica. La meglio gioventù siamo noi. Autoassolutoria.

Servitore del popolo 4 (La7)

La serie sulla biografia di Volodymyr Zelensky doveva essere l’evento dell’anno… Sembrava interessante il gioco di specchi tra fiction, realtà e politica tanto che il suo partito si chiama come la serie, ignorata a lungo su Netflix prima di essere proposta dalla rete di Urbano Cairo. Forse si poteva prevedere che, essendo la realtà più cruda della finzione, sarebbe presto scivolata nel dimenticatoio. Pleonastica.

Alessandro Cattelan 4 (Rai 2)

Dopo il flop di Da grande su Rai 1 è arrivato il mezzo flop di Stasera c’è Cattelan su Rai 2. Il programma è uguale a Epcc, visto su Sky: interviste a molti amici, giochini, giovanilismo a cascata. Il punto è proprio questo: non aver capito la differenza tra una pay tv digitale e la tv generalista. Doveva essere il David Letterman italiano. Doveva… Un po’ meglio la serie Netflix Una semplice domanda. Eterna promessa.

Il Circolo dei mondiali 4 (Rai 1)

Salottino arcobaleno à côté dei Mondiali di calcio qatarioti. Ci sono la direttrice di Rai Sport specializzata in ciclismo, le vecchie glorie olimpioniche di salto in alto e ginnastica artistica, un giornalista che compulsa i social e una band per gli stacchetti. In collegamento un inviato e un ex calciatore con la barba dovrebbero parlare della partita appena finita tra una gag e l’altra. Braccialetti dei diritti in bella vista. Che noia.

Cristiano Malgioglio 3 (Rai 2)

Difficilmente un titolo è stato più smentito di Mi casa es tu casa. Primo perché Malgioglio parla soprattutto di sé. Poi perché, come certificano gli ascolti, non c’è casa più lontana della sua da quelle degli italiani. Momento cult: Leonardo Pieraccioni che lo bacchetta: «Me l’avevano detto: guarda che lui fa il programma per sé… Ma io ti metto le mani addosso se nun me fai parla’…». Dopo Heather Parisi e Ilona Staller, lo scoop è l’intervista a Mara Venier in una pausa di Domenica in: almeno è costata poco. Carnevalesco.

Marco Damilano e Diego Bianchi senza voto (Rai 3 e La7)

Esempio da manuale di cosa succede quando l’ideologia entra nel giornalismo e l’informazione diventa militante. La nostra tv è piena di conduttori, anchorman e intrattenitori auto-investiti della missione di riparare il mondo e insegnare agli altri a starci. Ma più Propaganda live di così… Inqualificabili dopo l’invenzione di Soumahoro salvatore della sinistra. Anzi, squalificabili (dal video).

 

La Verità, 30 dicembre 2022

 

«Senza conformismo non risulterei provocatorio»

Buonasera. Scusate la voce. È la mia». Esordisce così Saverio Raimondo nello show Il satiro parlante, visibile su Netflix. «Del resto», prosegue, «ho preso la voce da mio padre che è un delfino mentre mia madre è un gabbiano. Voi direte: con quella voce non dovresti parlare in pubblico. Vero. Ma con il fisico che mi ritrovo potevo fare o il comico o il nano nei film porno. Ho sempre sbagliato tutto nella vita. Ed eccoci qui. Sono il secondo di tre figli, mia madre voleva una femmina e mio padre un aborto. Si misero d’accordo per abortire una femmina e io li ho delusi». Saverio Raimondo è il più caustico e sulfureo dei comici in circolazione e Il satiro parlante è un gioiello di anticonformismo. A cominciare da quando suggerisce agli spettatori di ridere e applaudire fragorosamente, indipendentemente dall’efficacia delle sue gag, per non «fare la figura del pubblico di merda». In fondo, dice Raimondo, «vi chiedo solo un’ora d’ipocrisia in più rispetto alle altre 23 della vostra giornata». Dal 18 giugno su Disney+ sarà disponibile in streaming Luca, il nuovo cartoon della Pixar ambientato nelle Cinque terre, scritto e diretto da Enrico Casarosa. Mentre il 19 e il 20 ripartirà in tour da Senigallia e Carpi.

Con questa voce non può che doppiare i cattivi?

«Fin da bambino ho sempre preferito i cattivi, per me hanno sempre avuto più fascino. Oggi i buoni sono antieroici e quindi contendono un po’ di carisma ai cattivi. Già a nove anni ho interpretato Scar del Re Leone in una recita scolastica, una cosa miserabile…».

Cattivo fin da piccolo?

«Umanamente sono un buono. Ma la mia satira si distingue per una nota cinica, perfida e anche feroce, se possibile».

Dura andare contro tutto questo buonismo?

«Mai stato facile essere scorretti. Chi si lamenta del politicamente corretto montante o si è svegliato tardi o ha poca memoria. Per chi fa il mio lavoro misurarsi con il conformismo è stimolante. La comicità è una corsa a ostacoli. Senza, non riuscirei a essere provocatorio».

Il politicamente corretto facilita i comici e affligge le persone comuni? Non si può più dire niente…

«Dipende dal contesto. A volte un’espressione che supera la censura della tv viene contestata sui social. Così la libertà di parola si abbina alla libertà di movimento. Chi può esprimere la propria opinione nel più ampio spettro dei media gode della massima libertà. Tant’è vero che si può dire che non si può più dire niente. Una volta i censori erano figure grigie, adesso chiunque assurge a censore e anche questo, paradossalmente, è sintomo di grande libertà».

Nel cartoon Luca presta la sua voce insolente a Ercole Visconti, un bullo che se la prende con i due ragazzini protagonisti della storia.

«La mia voce è insolente per natura e anch’io sono stato discriminato a causa sua. Sono contento che un’eccellenza come la Pixar ne abbia colto il lato positivo. Perché se è vero che Nemo è profeta in patria, è anche vero che ci vuole orecchio per cogliere le voci fuori dal coro».

Sta per caso parlando di Mario Giordano?

«Potremmo incidere insieme una hit estiva, creando un duo di voci bianche».

Anche l’umorismo nero è nella sua natura: quando se n’è accorto la prima volta?

«L’umorismo nero lo scopri quando ti accorgi che la morte, la malattia e la disgrazia appartengono al nostro sistema immunitario. È un anticorpo che serve ad affrontare le curve della vita. A me non piace come esercizio umoristico, ma quando coinvolge il comico che lo usa».

Perché la sua satira non è livida e livorosa?

«Perché non nasce dalla rabbia. Se nella vita subisco un torto non provo rabbia, ma mi dispiaccio. Credo che la satira sia frutto di un lavoro, mentre la rabbia è un sentimento non elaborato».

Il suo bersaglio principale è l’ipocrisia?

«Sì, ma in senso paradossale. Ciò che non digerisco è l’ipocrisia sull’ipocrisia, cioè la condanna ipocrita all’ipocrisia».

Esempio?

«Considero l’ipocrisia una conquista sociale. Sono regole più o meno implicite per vivere in una società nella maniera meno violenta possibile. Condannare l’ipocrisia come uno dei grandi mali sociali è ipocrita perché, in realtà, tutto sommato ci fa bene. La buona educazione è ipocrita: molti di noi sono educati anche quando non verrebbe spontaneo».

Parlando del linguaggio corrente lei dice diversamente abili al posto di handicappati?

«Bisogna cogliere le sfumature. Dire handicappato nel mio caso non è ironizzare su di lui, ma su chi si esprime con quel termine».

Gabriele Salvatores e Carlo Verdone si ribellano al politicamente corretto perché rende più difficile far ridere.

«Chi l’ha detto che il comico sia un lavoro semplice? Personalmente trovo stimolante quando il gioco si fa duro. Il moralismo d’accatto e accattone che ci circonda m’ispira perché sono un saltatore d’ostacoli. Ok, ci sono persone che si offendono per una battuta. E poi? O si sono violate davvero delle leggi e si va sul penale, oppure parte l’onda di proteste su Twitter. In fondo, non è così grave: sopravvivono sia l’offeso sia l’offensore. La missione del comico è la provocazione, trovo ridicolo che si stupisca che la sua provocazione provochi».

Fra qualche anno il cattivo del cartoon Luca verrà cancellato dai censori di turno?

«Forse già fra qualche mese».

Come il principe azzurro di Biancaneve che ora passa per molestatore.

«Però è sempre lì, scopa lo stesso e se ne frega».

È ipocrisia quella di alcuni suoi colleghi satirici che in spogliatoio anziché contare i centimetri del pisello contano le censure subite?

«Certo. Le denunce per mancanza di libertà d’espressione sono un’espressione della libertà d’espressione».

Come nel caso di Fedez che si è detto censurato dalla Rai nei programmi Rai?

«Esatto. Quella volta hanno fatto tutti una figura buffa, e noi abbiamo visto che la libertà di parola è confrontarsi, non aprire bocca senza criterio. Anzi, lì forse abbiamo visto all’opera troppe libertà. Compresa quella di registrare una telefonata in incognita».

Per trafiggere un politico bastano poche parole anche senza imitazioni e travestimenti?

«Sì, ma trovo che stiamo sopravvalutando le parole. È vero che hanno un peso, ma non credo che siano così taglienti come le riteniamo».

Anche perché ora i politici fanno i simpatici.

«Rendendosi tremendamente antipatici. Non c’è niente di più antipatico della simpatia, come i comici ben sanno. L’esempio di Paolo Villaggio grande antipatico spiega tutto».

Letta vuole il Pd empatico.

«Operazione disperata».

È difficile far ridere sulla pandemia?

«Per me è un soggetto di grande ispirazione. All’inizio, c’era molto moralismo, ma adesso che la retorica è caduta c’è voglia di ridere in faccia al virus. Che, fortunatamente, per la maggioranza è stato un disagio più che una tragedia».

Che cosa l’ha divertita di più?

«Da cittadino ho trovato divertente il modo paternalistico e propagandistico in cui è stata gestita dal precedente governo. Nei tg si vedevano i camion di fiale dei vaccini che attraversavano il Brennero, sembravano notizie del traffico… Come essere umano mi ha divertito la nostra goffaggine alle prese con distanziamenti, mascherine, gel igienizzanti…».

L’unico rimedio trovato dal progresso scientifico è stato chiuderci in casa?

«È piuttosto triste. All’inizio la quarantena era necessaria. Ma averla adottata con disinvoltura a distanza di mesi ha tolto autorevolezza della comunità scientifica. Il fatto più ridicolo però è il tentativo della politica di gestire il virus con la burocrazia».

Tipo?

«Le autocertificazioni. E il coprifuoco alle 18 che è lì in tutta la sua ridicolaggine».

L’unica cosa da chiudere di sicuro erano le bocche dei virologi che si contraddicevano?

«Ho spesso pensato che molti virologi nella loro esposizione mediatica abbiano fatto più male alla scienza dei no vax».

Anche perché i no vax non hanno la patente della scienza infusa.

«E vanno meno in televisione, fortunatamente».

Chi è il virologo che ha trovato più comico?

«Massimo Galli: borbottava sempre e andava in tv a dire che non voleva andare in tv».

Risorgerà il mondo di prima, cinema discoteche e stadi, o è un mondo vintage?

«Penso che ritornerà. Mi colpisce il fatto che non siamo stati in grado d’inventarci un nuovo mondo, ma stiamo lavorando per far tornare quello di prima. Forse non era così male, è il massimo che riusciamo a fare noi umani. Un mondo con dei limiti e dei lati oscuri che vanno accettati. Credo ci voglia un po’ di sana rassegnazione».

Qual è il segreto del Pd che perde le elezioni ma governa sempre?

«Mi verrebbe da dire: fortunatamente. Credo nei pesi e contrappesi delle istituzioni. E quindi anche che il potere degli elettori vada limitato».

Niente voto ai sedicenni come propone Letta?

«Sono per limitare il voto più che per estenderlo perché credo che si eserciti in modo emotivo e scriteriato».

Cosa pensa dell’Erasmus obbligatorio?

«Che nessuna bella esperienza, com’è l’Erasmus, possa restare bella se resa obbligatoria».

Dopo la Lega europeista vedremo Salvini vegano?

«I selfie con il seitan non li ho ancora visti. Salvini cambia opinione velocemente, potrebbe tornare antieuropeista in pochi secondi».

Federazione del centrodestra: 2 più 2 fa 4 o 0 come dice Bossi?

«Ho fatto lo scientifico e quindi dovrei sapere la risposta. In realtà, la politica non risponde alle regole della matematica».

Del caos nel M5s tra Grillo, Casaleggio, Conte, Di Maio e Jean Jacques Rousseau cos’ha capito?

«Non mi ha appassionato, ma mi sono fatto qualche risata amara. Sospetto che il M5s non sia in difficoltà come si racconta. Un po’ come il Pd che si dice in crisi da 50 anni e c’è sempre. Magari la crisi è la nuova forza e loro sanno qualcosa che noi non sappiamo».

Nel suo spettacolo dice che le battute contro i 5 stelle sono vietate come quelle sugli handicappati, stavolta parola sua.

«Vero. Anche le notizie recenti non mi smentiscono. Di fronte a persone inadeguate e inadatte avremmo fatto meglio a parcheggiare sugli spazi riservati».

Collabora con Massimo Gramellini su Rai 3, con Porta a porta di Bruno Vespa e fa Pigiama rave su Rai 4: è uno stand up comedian mainstream?

«No, sono la dimostrazione che anche coltivando la nicchia si può lavorare. Per me non è importante il successo, ma lavorare. Perché alla fine del mese la padrona di casa non mi chiede quanti follower ho, ma l’affitto».

La Verità, 12 giugno 2021

Berlinguer batte Floris, il sovranismo fa ascolti

Il fuoco di sbarramento preventivo è già partito. Matteo Salvini occupa la tv, bisogna mettergli un freno, una museruola, transennare i talk show. Le sardine mediatiche sono già al lavoro, basta vedere Il Fatto quotidiano di oggi, con i titolari dei programmi di approfondimento ad analizzare, spaventati, salvo Paolo Del Debbio e Massimo Giletti, il fenomeno. Il fatto è che il leader leghista porta ascolti, fa lievitare l’audience e, dunque, conduttori e conduttrici sono più che mai interessati a invitarlo. Ieri sera #cartabianca, che aveva ospite il segretario della Lega, ha superato DiMartedì di un punto di share (5.4% contro il 4.5, 200.000 spettatori in più), battuto anche da Fuori dal coro (4.6% e 840.000 spettatori, grazie al geniale ring tra Mario Giordano e Vittorio Sgarbi), da qualche settimana terzo incomodo emergente nella Champions dei talk show del martedì sera. Dicono da La7 che il motivo del sorpasso potrebbe dipendere proprio dalla partita di Champions League, quella vera tra Juventus e Atletico Madrid, trasmessa da Canale 5 e che, siccome il pubblico di La7 è più maschile, eccetera. In realtà, è prevalentemente maschile anche il pubblico di Raitre e la partita di Champions, quella vera, c’è stata tante altre volte senza che si sia verificato alcun sorpasso. Anzi, il successo di Bianca Berlinguer su Giovanni Floris è assai sporadico, 7 volte su 102 da quando si confrontano: due volte nella stagione d’esordio (2016-2017), tre volte due anni fa e una sola lo scorso anno. Più ieri sera.

E allora? Allora è semplice: Berlinguer ha ospitato Matteo Salvini per un’intervista durata più di un’ora. A fare da contraltare, Luca Telese, Mauro Corona collegato da Venezia, e un operaio della Embraco in cassa integrazione a 700 euro, con moglie e due figli a carico, che ha terminato il suo intervento citando il padre della conduttrice, Enrico.

Le partite delle italiane erano ben avviate e quindi era più interessante vedere come se la cavava il «Capitone» (Dagospia) a parlare di femminicidi e a commentare lo studio Istat dal quale, secondo percentuali rilevanti, emerge che le donne molestate o violentate, un po’ se la sono cercata. O come riusciva a giustificare l’uscita spericolata sulla droga che fa male (vero!), a margine della sentenza che ha condannato i carabinieri per la morte di Stefano Cucchi.

Dall’altra parte, sulle casse di legno di Floris c’erano Paolo Mieli e in collegamento Carlo Calenda… Vabbè. Salvini rispondeva alle domande di Berlinguer in tono pacato, nel suo maglioncino a Vu grigio. Parlando della comunicazione del «Capitone», il linguista Massimo Arcangeli ha notato: «Salvini ha portato all’ultimo stadio il linguaggio della politica della Seconda repubblica. Prima erano i cittadini che si immedesimavano nei politici, ora sono i politici che giocano a fare i cittadini comuni. Quando Salvini si mostra in boxer in spiaggia o si fa ritrarre sulla copertina di un settimanale a torso nudo con la cravatta dice agli italiani “sono uno di voi”».

Televisivamente parlando, la morale è che il sovranismo funziona. Ne sanno qualcosa proprio Retequattro e La7. La faccenda è semplice: quando ti sintonizzi su Otto e mezzo e per la decima volta vedi Gianrico Carofiglio, Massimo Giannini e Andrea Scanzi discutere di sardine e di Salvini fascista, il pollice corre al telecomando. E anche se Stasera Italia non ha tra i suoi ospiti Mina e Donald Trump, almeno può vantare un parterre più variegato e colorito. Allargando l’osservazione i dati sono chiari: spalmando Salvini e, a volte, anche Giorgia Meloni nei suoi talk di prima serata, Retequattro sta incrementando gli ascolti (+0.7% in questo autunno rispetto allo stesso periodo del 2018) proprio mentre La7 cala (-0.3%). La rete di proprietà di Urbano Cairo si sta lentamente sclerotizzando su un target troppo stretto, colto, di sinistra, piuttosto avanti negli anni? Qualcuno, però, forse comincia ad accorgersene: stasera Enrico Mentana condurrà, a sorpresa, uno speciale di Bersaglio mobile intitolato «Le tenebre di Bibbiano».

 

Massimo Fini: «Io, antimoderno, tra Montanelli e Grillo»

Dalle finestre della casa di Massimo Fini si ammirano le torri della zona ex Varesine di Milano. «Una bella vista», butto lì accorgendomi subito di aver fatto una gaffe: «Una vista che non mi fa stare tanto tranquillo», è la replica, «con questo grattacielo a banana che ha tutta l’aria di venirmi addosso…». L’antimodernismo di Fini è anche architettonico e urbanistico. E in effetti, vista da qui, l’eccentrica curva della Torre Diamante che si allarga dall’asse delle fondamenta può risultare un tantino incombente. Per recuperare esterno il mio compiacimento di trovarmi lì a intervistare lo scrittore che molti dei direttori per i quali ho lavorato avrebbero voluto tra le firme dei loro giornali. «È vero, Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri e anche Mario Giordano mi hanno chiesto più volte di scrivere, ma ho sempre declinato (per la presunta incombenza dell’editore Silvio Berlusconi ndr). Forse a causa del fatto che sono più individualisti e liberi, i giornali di destra sono più attenti al mio lavoro. Fosse stato per L’Espresso e La Repubblica non sarei esistito. Non tanto per un fatto strettamente ideologico, quanto perché sono delle confraternite, enclavi impenetrabili».

A differenza del Fatto quotidiano per il quale scrivi?

«Al Fatto ho un rapporto più che ottimo con Marco Travaglio, il quale mantiene un atteggiamento di grande riguardo verso di me. Chissà quanti pezzi non condivide tra quelli che gli mando, ma li pubblica ugualmente da vero liberale montanelliano».

Massimo Fini con Marco Travaglio: «Con lui ho un rapporto più che ottimo»

Massimo Fini con Marco Travaglio: «Con lui ho un rapporto più che ottimo»

E tu condividi tutto del Fatto?

«Travaglio ha gettato tutto il giornale a corpo morto sulla linea del No, mentre io non vado a votare. Ho anche perso la scheda elettorale».

Ma sull’argomento hai scritto.

«Ho scritto che le costituzioni risentono del periodo nel quale vengono fatte. La nostra voleva evitare il ritorno dell’uomo forte. Ora però servono decisioni rapide. Per questa ragione ritengo che il Senato andrebbe abolito del tutto. Ma per farlo serve un dibattito approfondito, non un quesìto referendario secco».

Se avessi votato il tuo sarebbe stato un No?

«Certo. Considerando anche il fatto che prima si doveva riformare la legge elettorale».

Anche se si è sempre rifiutato di scrivere per Il Giornale, dove ho lavorato, Fini lo ha a lungo frequentato per motivi apparentemente più banali, in realtà più sostanziali. Amico e compagno di giochi di carte di Massimo Bertarelli, critico cinematografico e firma degli Spettacoli, veniva in redazione per vedere insieme le partite del Manchester United dove giocava il suo idolo, il campione olandese Ruud van Nilstelrooij. Il fatto me lo rese simpatico, almeno quanto il temperamento di non allineato, insofferente verso tutte le parole d’ordine come documenta la sua produzione saggistica, ora raccolta nell’opera omnia pubblicata da Marsilio sotto l’eloquente titolo La modernità di un antimoderno. Intervistarlo è una soddisfazione perché si racconta con generosità, senza remore e tatticismi.

Un anno e mezzo fa annunciasti che, essendo quasi cieco, avresti smesso di scrivere e di collaborare con i giornali. Ma Travaglio ti ha convinto a continuare. Come c’è riuscito?

«Ha fatto intervenire alcune persone, anche Renzo Arbore che è un mio lettore fin dai tempi dell’Europeo. Ed Ermanno Olmi, pure lui un’ottima conoscenza».

Olmi se ne intende di rinascite produttive. Dopo aver detto che Il villaggio di cartone sarebbe stato il suo ultimo film, per fortuna sua e nostra ha diretto Torneranno i prati. È stanchezza o un modo per farsi pregare?

«Io ho cominciato dal primo libro a dire che era l’ultimo. In La ragione aveva torto?, che è del 1985, mi sembrava di aver detto tutto quello che avevo da dire. Dopo ne ho scritti altri 17. Se è capitato anche a giganti come a Lev Tolstoi o Thomas Mann di pubblicare un libro di troppo, lo si può perdonare anche a noi piccini».

Si decide di smettere, ma poi…

«Nel mio caso la malattia agli occhi mi ha precluso il giornalismo di reportage come me l’aveva insegnato Nino Nutrizio. Si usano i piedi per andare nei posti, poi si ascolta, si annusa, si parla. Non potendo viaggiare nello spazio alla scoperta di qualche dettaglio che riveli il tutto di una storia, ho iniziato a viaggiare nel tempo e con la mente. Scrivo commenti, attingo dal mio istinto speculativo».

Com’è la tua giornata?

«Al mattino, se un argomento m’ispira, scrivo, grazie a una segretaria che mi aiuta. Al pomeriggio spesso vengono a trovarmi dei lettori, colleghi giovani. Qualcuno gentile mi legge dei libri. Ma così sono passato da 100 a sei o sette l’anno. La sera esco con un’amica o altri amici».

Vedo solo macchine per scrivere qui.

«Il computer ce l’ho in studio, ma non ho mai imparato a usarlo. Eravamo in tre, con Montanelli: adesso siamo rimasti solo io e Feltri a scrivere a macchina».

Chi è stato per te Indro Montanelli?

«Un uomo di grande stile non solo nel vestire, ma nel modo di essere. Come le persone che hanno piena coscienza del proprio talento, non te lo faceva cadere dall’alto. Nel Novanta raccolsi i miei scritti polemici in un libro che s’intitolava Il conformista e la Mondadori disse che ci voleva la sua prefazione. Così mi presentai da lui, tremante: “È peggio di quel che pensi, non ti chiedo una recensione ma la prefazione”. Non mi fece nemmeno finire: “Te la devo”, mi disse anche se non mi doveva nulla. In tre giorni ebbi quella prefazione che mi ritraeva alla perfezione e che conservo come una medaglia».

«Eravamo in tre a scrivere a macchina - dice Fini - adesso siamo rimasti io e Feltri»

«Eravamo in tre a scrivere a macchina – dice Fini – siamo rimasti io e Feltri» (Tam Tam)

Quali sono le tue consolazioni?

«Che non ho ancora raggiunto la pace dei sensi e quindi ogni tanto mi capita di scopare. Poi seguo il calcio, lo sport della nostra generazione, il tennis era da ricchi, il basket importato dall’America. Da ragazzo giocavo libero, avevo senso della posizione, riflessi, velocità e mi esaltavo nei salvataggi estremi. Dalla volta in cui, mentre giocava il Torino la mia ex moglie entrò in sala e beccamo gol nel derby, oltre a mio figlio qui non entra più nessuno. Dopo van Nilstelrooij, seguo Andrés Iniesta, signore in campo e fuori. In Spagna il calcio si vive in modo più festoso che da noi. Sembra un evento economico, fatto per la tv, mentre è nato per lo stadio».

Che cosa vuol dire essere antimoderni?

«Qualcosa di molto serio. Il centro del sistema occidentale sono l’economia e la tecnologia. L’uomo è un’appendice. La Rivoluzione industriale ha innescato un processo irreversibile che ha trasformato la persona in consumatore. Nel 1988 Bill Clinton disse che “la mondializzazione è un fatto e non una scelta politica”. E Fidel Castro confermò: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. Non abbiamo chance».

Lo dobbiamo all’illuminismo?

«Dall’illuminismo in poi la dea ragione ha preteso di organizzare tutto. Mentre l’uomo ha bisogno del mistero, come fa dire Fëdor Dostoevskij al vecchio cardinale di Siviglia nella Leggenda del Grande Inquisitore. Se stai in una stanza vuota illuminata in tutti i suoi recessi, senza più niente da scoprire, finisce che ti spari. La modernità ha azzerato l’istinto. Ti faccio un esempio: quando c’è stata la tragedia dello Tsunami nelle isole civilizzate sono tutti morti, tranne gli indigeni delle tribù Andemani. Un attimo prima il mare era calmo e piatto, ma loro avevano visto antilopi e bufali agitarsi. Così si sono allontanati dalla costa, salvandosi».

Non vorrai dire che dobbiamo tornare alle tribù?

«Voglio dire che c’è una parte istintuale nell’uomo che non va demonizzata. Illuministi e post illuministi vorrebbero eliminare ogni forma di aggressività e di violenza che invece sono anche un’espressione di vitalità. In alcune società, che noi consideriamo arretrate, sopravvivono sistemi che riescono a canalizzare l’aggressività, come certe rappresentazioni della guerra finta, le feste orgiastiche, il carnevale. Anche lo sport può avere questa facoltà. Da noi è tutto scientifico e programmato, ma poi la cronaca è piena dei “delitti delle villette a schiera”, come li chiama Guido Ceronetti».

Dopo che l’economia ci ha trasformato in consumatori, la tecnologia ci sta trasformando in robot?

«La tecnologia doveva servire per farci lavorare meno, invece ci espelle dal ciclo produttivo costringendoci ad accontentarci di lavori peggiori. Nel frattempo esplode il carrierismo. Ludwig von Mises, economista austricaco, sostiene che il sistema occidentale è fondato sull’invidia. La combinazione economia più tecnologia ha instaurato questo modello paranoico: non produciamo per consumare, ma consumiamo per produrre».

Critichi l’illuminismo, ma il filosofo del Movimento Cinque Stelle per il quale simpatizzi è Jean Jacques Rousseau.

«Rousseau è un illuminista atipico, che aveva anticipato le derive della società dello spettacolo. I grillini hanno il merito di superare categorie come destra e sinistra e liberisti e marxisti, vecchie di due secoli. Poi certo, Grillo è un casinista, ma con la battaglia sul reddito di cittadinanza sta riuscendo a sostituire la centralità del lavoro con quella del tempo. Per bloccare la crescita di un movimento eterogeneo il sistema è pronto a compattarsi. Basta vedere cosa sta accadendo con la giunta di Virginia Raggi accusata di colpe da imputare a chi l’ha preceduta».

 

Jean Jacques Rousseau, filosofo di riferimento dei grillini. Ma per Fini è «un illuminista atipico»

Jean Jacques Rousseau, ispiratore dei grillini. Per Fini è «un illuminista atipico»

Cosa significa che «il successo è oggettivamente conquistabile, ma psicologicamente irraggiungibile»?

«Significa che è importante inseguire dei sogni, pericoloso è raggiungerli. Perché una volta raggiunti ti accorgi che non colmano le tue aspettative. C’è una discrasia tra ciò che ti aspetti e ciò che conquisti. La Costituzione americana si è data come scopo il diritto alla felicità, ma così ha condannato l’uomo all’infelicità».

Eppure tutto il sistema occidentale onora il dio successo.

«Serve per tenere in piedi questo modello paranoico. Il vizio oscuro dell’Occidente è pensare che la propria cultura sia migliore delle altre. In Oriente non hanno il mito del successo. Oltre che dalla cultura giudaico-cristiana, veniamo dalla civiltà greca che postulava il rispetto dell’altro da sé e non voleva imporre la sua tradizione ai persiani. Invece abbiamo perso il senso del limite».

Parlando di occidente e delle altre culture, cosa pensi del fondamentalismo islamico e dell’Isis?

«Più dell’Isis temo la scienza tecnologicamente applicata. L’insensato e progressivo allontanarsi dalla natura che, se elabora e afferma una legge, lo fa attraverso processi secolari e millenari. La scienza e la tecnologia vogliono spingere oltre la frontiera e dominare tutto in poco tempo. Vogliono stabilire i confini dell’anima, con esiti grotteschi come stiamo vedendo, per esempio con la pratica dell’ibernazione. Nella civiltà contadina, grazie alla religione, la morte era metabolizzata in una dimensione metafisica. Oggi si vuole risolverla nella fisica».

È l’uomo che vuole sostituirsi a Dio?

«Nella voce “Galileo” del Ribelle dalla A alla Z, facendo uno sforzo su me stesso, sostengo che Bellarmino aveva ragione quando disse a Galileo: “Fai pure i tuoi studi come ipotesi, ma se la certezza matematica vuole misurare tutto porterà solo guai”. Perciò, alla lunga, pur avendo ragione nel merito, Galileo aveva torto, e Bellarmino, avendo torto, aveva ragione».

Perché in un’altra voce del dizionario del Ribelle assesti una sberla a Dio?

«Dio ha creato una creatura tragica, l’unico essere vivente consapevole della sua fine. Le religioni esistono per lenire l’angoscia della morte. Il rumeno Mircea Eliade, il più grande studioso del sacro, ha scoperto che esiste un solo popolo che non conosce né Dio né culti, fatto che non gli ha impedito di vivere felice: e sono i famosi Andemani di cui ti parlavo prima, dediti a feste e scherzi osceni. Il progressismo obbligatorio ci ha imposto la mitologia del futuro, un tempo che definisco inesistente. Un miraggio che genera una rincorsa affannosa e impotente come quella dei levrieri dei cinodromi che inseguono un’irraggiungibile lepre di stoffa».

Roberto D’Agostino ha messo come distico del suo programma tv una frase del saggio di Star Wars: «Il futuro è». Cioè, il futuro è presente grazie alla tecnologia e al web che stanno generando un nuovo Rinascimento, paragonabile a quello iniziato con la scoperta della stampa dopo il Medioevo.

«Non nego che la tecnologia porti dei vantaggi. Ma porta più danni, il primo dei quali è il distacco dalla propria interiorità. Per dialogare con un tizio che sta in Giappone grazie al web finiamo per non conoscere il vicino di casa. Tutto questo lo dico con umiltà. Pongo dei dubbi, senza avere certezze come gli illuministi che critico».

Il Ribelle ha un porto in cui approdare e trovare riposo?

«Il Ribelle è condannato alla solitudine. Attenzione, non è un rivoluzionario, ma solo uno che vuole tener fede alla promessa fattasi da ragazzo di dipendere solo da se stesso e non dal mondo che lo circonda. C’è un passo della Nascita della tragedia in cui Friedrich Nietzsche parla degli “animali intelligenti che inventarono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia universale”. Ma fu breve perché dopo poco “gli animali intelligenti dovettero morire”. Noi che ci diamo tanta importanza siamo un attimo dell’universo. Detto questo, dobbiamo vivere il nostro attimo nel modo migliore perché, fermandoci a Nietzsche, dovremmo spararci».

La radice esistenziale del Ribelle è l’orgoglio?

«Un orgoglio luciferino. In Paradiso perduto John Milton ha scritto: “Meglio essere primi agli inferi che servi in cielo”. Forse il limite principale del ribelle è la mancanza di duttilità».

Anche questo orgoglio può essere sostituirsi a Dio?

«Con Baudelaire rispondo che l’unica scusante di Dio è di non esistere».

Però se ne parla parecchio. Non è che ti fa obiezione la figura di Gesù Cristo?

«Mi piace molto il Cristo umano, non quello che si crede Figlio di Dio. Per esempio, ho amato molto Jesus Christ Superstar che aveva per protagonista un Cristo dubbioso, culminante nel momento in cui sulla croce si rivolge al Padre chiedendo: “Dio mio perché mi hai abbandonato?”».

Hai avuto don Luigi Giussani come professore, che ricordo ne hai?

«Come di un uomo di grande intelligenza. Eppure lo considero un corruttore: non si può mettere tanta pressione e tanto carisma nel confrontarsi con ragazzi di 15 o 16 anni. La sua figura faceva il paio con il professore di storia, un marxista per il quale la rivolta ungherese era un rigurgito nazifascista».

Almeno avevano qualcosa da proporre ai giovani. Oggi c’è qualcosa o qualcuno che ti dà speranza?

«Me l’ha data per un po’ la nuova destra di Alain de Benoist, Marcello Veneziani, Stenio Solinas. Poi si sono un po’ persi».

Perché in Italia la destra è spesso volgare e impresentabile?

«Una volta Franco Fortini mi disse che quella di destra è una grande cultura. Sono i suoi rappresentanti politici a non averne. Quando li ascolto in tv mi chiedo se qualcuno abbia mai letto una pagina di Nietzsche. Detto ciò, non è che la sinistra sia meglio, come continua a credere. Il suo complesso di superiorità poteva avere qualche motivazione all’epoca di Giorgio Amendola. Non certo con le mezze figure di oggi».

Una consolazione è anche la pubblicazione di La modernità di un antimoderno?

«Se l’antimodernità ha un senso, forse tra qualche anno questo libro potrà diventare un classico. Diciamo che è un messaggio in bottiglia lanciato verso il futuro».

Allora esiste…

 

La Verità, 5 dicembre 2016