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Tutti i motivi per non guardare i reality show

Abiezione. Forse basta una sola parola per descrivere la deriva che hanno preso certi reality show. Una deriva di cui non era difficile immaginare l’inevitabilità. Quando decidi che i canali Mediaset debbano averne sempre uno in palinsesto l’escalation è nell’ordine delle cose. Bisogna sempre alzare l’asticella. All’in giù, però. Un gradino alla volta. Di reale c’è soprattutto l’abiezione. Il campionario della pornografia dei sentimenti viene continuamente aggiornato. Approssimativamente: gli eccessi trash del Grande Fratello 15 condotto da Barbara D’Urso che causano la fuga degli sponsor, il machiavellico canna gate della scorsa Isola dei Famosi capitanata da Alessia Marcuzzi, il molto discutibile ingresso di Lory Del Santo che scelse il Gieffe vip per elaborare il lutto per la morte del figlio e la successiva incursione di Fabrizio Corona (do you know?) per rimestare nel privato della coppia Totti-Blasi prima e dopo il matrimonio. Infine quello che hanno sotto gli occhi i telespettatori dell’attuale edizione dell’Isola, la numero 14, sempre condotta dalla Marcuzzi, con nuovo capolavoro di Corona, rivelazione di corna in diretta, licenziamento degli autori e nuovo ritiro degli sponsor. Non si sa cosa sia peggio: supporre di esser finiti dentro una situazione sfuggita all’apprendista stregone di turno o, al contrario, di assistere a una montatura lucidamente allestita da qualche architetto dell’estremo. Crescono i dibattiti, le dichiarazioni, le articolesse: tutto il circo dell’infotainment si pronuncia e si schiera con questi o con quelli. Riccardo Fogli o Fabrizio Corona? Aldo Grasso o Alba Parietti? Chissenefrega. Da tempo ho deciso che il tempo è prezioso. Credo esista una gerarchia, un ordine, nell’usarlo. È così poco e, soprattutto, non siamo noi a stabilire quanto ne abbiamo a disposizione. La logica del vedere «fin dove arrivano» non mi seduce.

Lo spettacolo dei cosiddetti morti di fama sembra una riedizione moderna non troppo lontana dei circenses di epoca romana: i combattimenti dei gladiatori, le lotte con gli animali… Una forma di anestesia collettiva, di evasione da qualcosa. Allora era dalle politiche dell’imperatore, oggi chissà, probabilmente da sé stessi, dall’io. È per questo che, assistendovi, si intristisce. Siamo drogati di notizie, stimoli, sollecitazioni, tecnologie: per bucare questa mole di nozioni e informazioni bisogna tirare di più la corda. C’è sempre qualcosa di nuovo che si può inventare. Questi spettacoli continueranno a non avermi: non li ho visti e non mi piacciono. Il fatto che gli ascolti scemino mi mette di buon umore.

La Verità, 11 marzo 2019

«La sinistra ha fatto la storia, ora fa la Leopolda»

Enrico Lucci risponde in una pausa di lavoro. Quest’anno ne ha più di prima. Dopo Realiti Sciò, striscia tutta sua su Rai 2 in cui ha raccontato il declino del berlusconismo, nella nuova stagione di Nemo – Nessuno escluso, sempre Rai 2, il più ganzo del bigoncio – uno di sinistra che crede nell’ordine democratico, 54 anni, di Velletri, gavetta nelle tv romane prima di bussare in Viale Mazzini e di approdare alle Iene di Davide Parenti – canta e porta la croce. Incursore, intervistatore, conduttore. Al suo fianco non c’è più Valentina Petrini: «Mi sono attenuto alle scelte editoriali della Rai».

Sta di fatto che è un nuovo Nemo, con l’intervista politica rivisitata.

«Sono venuti Luigi Di Maio e Antonio Tajani, ma non è detto che debba essere sempre politica».

Però si vede che ti diverti, soprattutto se il soggetto si presta.

«Provo sempre a divertirmi, perciò tutti i soggetti si prestano».

Fai i servizi e conduci.

«Nel tempo spero di ridurre i servizi. Con ’sto mal di schiena…».

E il giornalismo di strada?

«È il mio. Se vai dove ci sono le persone sei più libero. In studio devi fare gli onori di casa, non puoi invitare uno e prenderlo a schiaffi. Sono due prospettive diverse».

E tu preferisci?

«Teoricamente, la strada. Solo che ho 54 anni…».

Un ragazzo.

«Anche in studio si può trovare una forma educata pur facendo tutte le domande».

Lilli Gruber o Corrado Formigli a Di Maio e Tajani ne avrebbero fatte altre.

«Ognuno è figlio della propria vita. La Gruber è una cosa, Formigli un’altra, Diego Bianchi un’altra ancora».

Tu sei più popolare?

«Non mi auto-intesterò mai la volontà del popolo. È tutto popolo, anche la Gruber e gli altri. Io provo a sintonizzarmi sul linguaggio corrente».

Appunto.

«Cerco di connettermi, arraffo quello che mi sembra di sentire. Altrimenti, per essere veramente l’uomo della base, dovrei vivere sette anni in Veneto, sette in Calabria…».

Ti sei messo il programma sulle spalle: inviato, intervistatore, conduttore.

«Macché spalle… I pilastri sono altri. Alessandro Sortino, capo progetto. E gli inviati veri, giganti come Daniele Piervincenzi, Laura Bonasera, Selenia Orsella, Marco Maisano e tutti gli altri».

Hai cominciato una nuova carriera da anchorman, da giornalista che porta la realtà in tv e la interpreta?

«È la ragione sociale di Nemo: mostrare quello che si muove nel Paese e raccontarlo in tutti i suoi aspetti».

Puoi cominciare a dire «la mia televisione», come i conduttori importanti.

«Io penso sempre la stessa cosa. Che tutti impariamo da tutti e ognuno sviluppa un proprio modo di vedere le cose. Non c’è nessun Leonardo da Vinci in giro, me compreso».

Siete diversi dalle Iene perché meno giustizialisti?

«Raccontiamo le cose con un linguaggio più disteso. Il nostro montaggio è attento ai particolari, come la fotografia. Ma Le Iene fanno bene il loro mestiere».

Hanno il gusto di stanare il furbetto e la doppia morale.

«Noi proviamo a essere più letteratura. Senza tirarcela».

Ti trovi bene in Rai o qualche volta hai la tentazione di tornare a Mediaset?

«Tutto dipende dalle persone. In Mediaset ho lavorato con grandi professionisti come Davide Parenti o Giorgio Gori. Sono venuto in Rai perché c’era Ilaria Dallatana. Anche con Andrea Fabiano mi sono trovato bene. Io ho iniziato in Rai con Claudio Ferretti, un fratello maggiore».

Siete diversi anche da Propaganda Live, perché meno autoreferenziali de sinistra?

«Un po’ sì. Diego Bianchi si è inventato un programma che non esisteva. All’inizio era molto elitario, adesso è più universale. Pensavo che avrebbe faticato fuori dalla Rai, invece su La7 ha ritrovato il suo pubblico. Se non c’è Nemo, Propaganda me lo vedo».

Anche tu de sinistra

«Ci sono mille modi di esserlo. A me tutti i stereotipi de sinistra me fanno orore».

Per esempio?

«Er cannarolo depresso, l’intellettuale fasullo che chiamate radical chic… Potrebbero stare tutti in Siberia a tagliare le betulle».

Sinistra sovietica?

«Ma no. Detesto pure certe macchiette nostalgiche che identificano il passato col paradiso. Essere di sinistra significa esprimere la critica continua allo stato presente delle cose. Non incasellarsi su figurette da quattro soldi su cui gli altri speculano».

Nella prima puntata hai detto che il socialismo ha lottato per le classi deboli, contro l’imperialismo, per gli operai… e ora è finito «alla Leopolda», pronunciata in falsetto.

«La sinistra ha scolpito la storia del Novecento, i laburisti hanno inventato il welfare… Tutto questo movimento ciclopico si è ridotto alla Leopolda. Mentre il resto del Pd litiga nel miglior modo possibile».

Tu cosa ci hai capito?

«Son passati otto mesi da quella scoppola elettorale e fino all’altro giorno non c’era traccia del congresso. Invece, dopo un mese avrebbe dovuto esserci un nuovo segretario e un nuovo programma. Devono reinventarsi e organizzare una proposta interessante per gli italiani. Cosa che non si sa quando accadrà, perché serve uno che comanda e decide cosa fare».

Uno come Marco Minniti?

«Come si fa a dire, c’è anche Nicola Zingaretti. Vediamo chi si presenterà e con quali contenuti».

Sicurezza e ordine sono valori di sinistra?

«Certo».

Che cos’ha Nemo in più degli altri programmi?

«Dovrebbero dirlo Sortino e gli autori. Comunque, la novità sono quelli che vengono in studio e in tre minuti dicono quello che devono dire. Poi c’è il tentativo di fare servizio pubblico, raccontando il mondo che c’è adesso nel modo più neutro possibile perché la neutralità assoluta non esiste. Cioè, con lo stile nostro, riflessivo e rispettoso di vari punti di vista».

Il mondo che c’è adesso sono le app del sesso delle ragazzine: degrado morale o evoluzione di costume?

«Qualsiasi cosa dipende da come la fai. L’importante è escludere violenza fisica e morale. Ognuno si può scegliere la vita che vuole, basta che non rompa i coglioni agli altri».

Il bene e il male però esistono e ogni azione ha conseguenze in te e negli altri, o no?

«Certo. Se stai sempre sulle app del sesso ti rovini. Anche l’uso compulsivo del cellulare è deleterio. Il vino è buono, ma se cominci a berlo di prima mattina finisci sotto i ponti».

Che Italia è quella di Nemo?

«È l’Italia contemporanea, dove tutto è mobile, suscettibile di cambiamenti secondo la tendenza sostenuta dai social. Tutto può diventare il contrario di ciò che era il giorno prima».

Società liquida?

«Gassosa. Che si sposta a seconda di come tira il vento».

Vista da qui quanto è distante la politica?

«Si è ricalibrata sulle nuove usanze. Matteo Salvini fa un tweet o un video ogni mezz’ora, Di Maio anche. Mentre gli altri non sanno come prendere il toro per le corna».

Anche Renzi governava con i tweet.

«Con risultati inferiori. Salvini è il più bravo di tutti. Peccato che poi alla fine tutto cozza con la realtà. Tipo: in due settimane bloccheremo la Tap, poi vai al governo, ti accorgi che devi farla e quelli che ti avevano votato t’inseguono coi forconi».

La politica quanto è distante dalle situazioni tipo Gela?

«Gela sta laggiù. Se quei livelli d’inquinamento si trovavano a Milano vedi come correvano i politici. Dovrebbero avere in mano la situazione e trascinare tutto il Paese verso una vita migliore. Invece inseguono il consenso e stanno sempre a guarda’ i sondaggi».

L’informazione quanto è lontana dalla gente reale?

«Tutti parlano della gente, presumono di rappresentarla. Ma lo fanno per mettersi al centro della fotografia».

Con l’occhio ai sondaggi.

«Per me un vero politico non si dovrebbe far vedere né sentire. E dopo due anni ci dovrebbe mostrare quello che ha fatto».

L’informazione televisiva è pregiudizialmente contraria al governo attuale?

«Pregiudizialmente lo si poteva dire dopo un mese. Adesso che ne sono passati cinque si possono dare dei giudizi. E poi vedo spesso Mario Giordano e Marco Travaglio che un po’ bacchetta e un po’ no. Le posizioni sono variegate».

Meno tra i conduttori.

«Se conosci la loro opinione ti regoli. Si sapeva che Michele Santoro era di sinistra, però lo vedevano anche quelli di destra. I conduttori non possono essere neutri».

Ma nemmeno tutti d’opposizione. Non sarà perché i legastellati contestano l’establishment?

«Quanto influisce sull’opinione pubblica l’orientamento dei conduttori? Quando parlavano Enzo Biagi o Indro Montanelli si stava a sentire. Oggi è tutto cambiato. I giovani stanno sui social e i nuovi media sono talmente diversificati… Se vedi Giovanni Floris sai che la sua non è la verità… Scusa, ho citato la vostra testata».

Molto controcorrente. Anche Nemo escluderebbe qualcuno, tipo Roberto Spada o gli aguzzini di Desirée Mariottini?

«Agli aguzzini di Desirée che vuoi chiedergli: cosa pensano dell’amore? La militante di Forza nuova con la maglietta di Auschwitzland, per esempio, non la vorrei. Certe persone vanno ignorate per non legittimarle».

Fabrizio Corona?

«Anche quella è televisione. Puoi pure chiamarlo, per capire perché uno così rappresenta un modello per tante persone».

Ultimo libro letto?

«Ho sempre amato la poesia. Da poco ho scoperto Wisława Szymborska: scrive poesie che si capiscono al volo. La gioia di scrivere è un libro bellissimo».

Ultimo film visto?

«Non vado al cinema da due anni. Uscivo quasi sempre deluso. Stare seduto al bar a guardare la gente è il film più bello».

Serie tv?

«A ’sto punto tutti dicono Netflix (con la vocina): io non so manco cos’è. Si va a mode: due anni fa la città più bella era Barcellona, ora è Berlino. La sera accendo la tv e mi fermo dove mi va. Guardo i ciccioni che devono dimagrire, i camionisti…».

Se avessi un figlio adolescente che cosa gli diresti?

«Che la vita non ha alcun senso tranne quello che riesci a dargli tu. E spero sia un senso di felicità. Già sono tante le rogne quando uno viene al mondo… Passalo pure male, sto periodo».

 

La Verità, 4 novembre 2018

Dazn e lo streaming con obbligo di riscatto

Insomma, una delle stagioni di calcio più appassionanti degli ultimi anni è iniziata tra le proteste dei telespettatori per una lunga serie di motivi. Primo: il doppio abbonamento a Sky e a Dazn per poter vedere tutte le partite. Secondo: la latitanza di Rai e Mediaset. Terzo: la qualità dello streaming della piattaforma di Perform è lacunosa. Quarto: la app di Dazn per la tv non è ancora disponibile e, quando lo sarà, riguarderà le smart tv post 2015 o chi possiede Sky Q. Intanto, bisogna accontentarsi della visione sugli altri dispositivi. Quinto: il segnale subisce ritardi e brevi sospensioni. Sui social la frustrazione alimenta la fantasia degli insoddisfatti («Su Dazn Higuain gioca ancora nel Napoli»; «Le partite non si vedono, ma in compenso a Dazn hanno il global brand ambassador»: CR7, per la cronaca). Il risentimento è più che giustificato e sebbene la seconda giornata sia andata meglio, il rodaggio non è ancora finito. La frustrazione ha risvegliato persino la nostalgia delle partite in simultanea, della radiolina e «la cronaca differita di un tempo di una partita di Serie A» che solo al momento di sintonizzarsi si scopriva qual era.

Elencate le lagnanze, proviamo a valutare il mix di continuità e innovazione del servizio «funzionante». In un certo senso, proprio gli elementi di continuità sono la sorpresa più gradevole, in particolare il fatto che le telecronache siano affidate a voci e volti noti. Napoli Milan di sabato sera era curata da Pierluigi Pardo e e Francesco Guidolin. Probabilmente proprio la vicinanza di un commentatore tanto pacato e autorevole ha esercitato un benefico influsso sul telecronista, apparso più controllato e meno tracimante del solito, a tutto vantaggio della centralità dell’evento agonistico. Anche la telecronaca di Parma Spal di Massimo Callegari e Roberto Cravero e la conduzione dal campo di Diletta Leotta, che con Mauro Camoranesi ha gestito collegamenti e interviste con tempismo e spigliatezza, hanno garantito la comfort zone del telespettatore. Tutti insieme, conduttori, cronisti e commentatori, sembrano in prestito dalla casa madre, Mediaset o Sky che sia. Ma se per Callegari e Cravero la prosecuzione del rapporto con Mediaset appare difficile, il prestito di Pardo non inficerà la conduzione di Pressing su Canale 5 e Tiki Taka su Italia 1, mentre quello di Leotta le consentirà Il contadino cerca moglie su Fox Life. Oltre agli aspetti tecnologici dello streaming, l’assenza dello studio in favore di una fruizione agile, senza dibattiti e moviole e più vicina allo stile nordeuropeo, è l’elemento di maggior novità di Dazn.

«Da Capanna alla D’Urso rimango un pezzo da 90»

Michele Cucuzza, perso di vista per dissolvenza. Quando lo abbiamo visto rispuntare su Italia 1, alla postazione social di 90 Special condotto da Nicola Savino, abbiamo detto in coro: «Già, Michele Cucuzza! Ma che fine aveva fatto?». Un conduttore tv, un volto Rai, un giornalista autorevole, protagonista di una dissolvenza, come si dice nel gergo cinematografico, era un inedito. La singolarità è proprio nel divorzio consensuale dalla Rai. Una figura giuridica e mediatica introvabile nel villaggetto globale italiano, dove si danno la rottura rumorosa, le dimissioni di protesta, la cacciata più o meno esplicita, l’uscita polemica. Cucuzza no, si è dissolto in sordina. «Per la verità la mia non è neanche una vera uscita», racconta seduto in un bar di Roma, zona Prati. «Continuo a collaborare con la Rai, in particolare con Radio 1 dove, con Tiziana Di Simone, conduciamo Caffè Europa, il programma settimanale del sabato mattina. Adesso, appena finisco di parlare con te vado a Saxa Rubra a registrare». Lui è così, uno semplice, che non si fa problemi. C’è un masso sulla strada? Corregge agilmente il passo e prosegue senza farci caso.

La tua forza è l’amore per il giornalismo in tutte le sue declinazioni?

«La molla è questa. In tv i direttori cambiano e cercano di rinnovare. Magari scelgono, giustamente, qualcuno più giovane. Io mi sono dato da fare, mi sono occupato delle mie due figlie, Carlotta e Matilde, e ho scritto un paio di libri…».

Che libri sono?

«Libri da giornalista. Uno s’intitola Il male curabile (Rizzoli), ed è un’indagine fatta con Mauro Ferrari, il matematico che dirige il Methodist Hospital Research Institute di Houston, dove combatte il cancro con l’applicazione delle nanotecnologie. Il secondo è Gramigna. Volevo solo una vita normale (Piemme), la storia di Luigi Di Cicco, un ragazzo in fuga dalla camorra che ora vive a Civitavecchia e da cui Sebastiano Rizzo ha tratto un film».

Oltre ai libri?

«Collaboro con Il Corriere dell’Umbria, diretto da Franco Bechis, e continuo a fare tv. Antonio Azzalini, ex vicedirettore di Rai 1, che ora dirige Telenorba, mi ha proposto di condurre Buon pomeriggio con Mary De Gennaro, un programma leggero, con ospiti, musica, lifestyle. Infine, ho scoperto di avere estimatori anche a Mediaset. Poco meno di un anno fa il responsabile delle risorse umane, Sergio Restelli, mi ha chiesto di entrare nel cast del programma di Savino».

Che rapporto professionale hai con la Rai?

«Dal 1998, una volta staccato dal Tg2, non sono più un dipendente. Quando ho iniziato a condurre La vita in diretta sono diventato un collaboratore esterno».

Scelta di vita professionale o di vita e basta?

«Una non scelta. Dopo La vita in diretta ho fatto Unomattina. Poi Mauro Mazza, il direttore di Rai 1 di allora, è passato ad altro incarico e le cose sono cambiate. Ora mi fa piacere che tanta gente sui social mi chieda dove può vedermi. Telenorba è la più grande tv regionale italiana, ha anche un accordo con una tv siciliana. Così, io catanese, vado in onda anche nella mia terra».

Qual è la tua maggiore soddisfazione professionale?

«Sono contento di aver modulato il giornalismo nei diversi linguaggi, la scrittura, la televisione, la radio…».

Quale servizio ti ha dato più adrenalina?

«Al Tg2 lavoravo nella redazione esteri. Dopo l’occupazione del Kuwait, quando si pensava che Saddam Hussein avrebbe invaso anche l’Arabia, ho seguito la preparazione della guerra alla quale partecipava anche la spedizione italiana. Poi ho coperto i funerali di Lady Diana e di Madre Teresa, due celebrazioni apparentemente molto lontane tra loro. Madre Teresa era l’ultima degli ultimi, che aveva fatto del soccorso ai diseredati la sua missione. Diana era una principessa che negli ultimi anni si era impegnata nelle campagne contro le mine e per i bambini colpiti dall’Hiv».

Difficile fare servizi così a Telenorba.

«Mica vero. Nel maggio 2017, per esempio, ho avuto l’opportunità d’intervistare Silvio Berlusconi che non avevo mai intervistato prima…

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Renzi verso Mediaset. Prove di Telenazareno

«Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano», cantava Antonello Venditti nel 1991. All’epoca Matteo Renzi era appena sedicenne, ma solo tre anni dopo avrebbe esordito davanti alle telecamere di Rete 4 come concorrente della Ruota della fortuna di Mike Bongiorno. Un’altra èra, sia televisiva che politica. La notizia di oggi, però, è che l’ex premier potrebbe tornare là dove mosse i primi passi della sua fulgida vita pubblica. Il tam tam cresce da qualche giorno. Con il manager Lucio Presta, il senatore di Rignano sta preparando un programma sulla storia e le bellezze di Firenze. La Verità ne aveva anticipato i contorni il 26 giugno scorso, qualche giorno prima di svelare i dettagli dell’acquisto di una nuova villa di 11 vani del costo di 1,3 milioni nel centro di Firenze, per il quale è stato necessario accendere un mutuo, il terzo, gravante sul reddito familiare. Da qui, con molta probabilità, la necessità di rimpolparlo con un rinnovato attivismo che, oltre alle conferenze all’estero e al seguito di Avanti, diario personale sul «perché l’Italia non si ferma», prevede l’esordio dell’ex segretario Pd alla conduzione televisiva. Avvolto nel mistero, era invece rimasto il marchio della televisione sulla quale sarebbe avvenuto. Esclusa la Rai per ragioni di opportunità politica, Giacomo Amadori aveva ipotizzato Mediaset o Discovery Channel tra i probabili, fortunati, approdi.

Ora, dopo la nottata trascorsa a Montecarlo con Pier Silvio Berlusconi, se non del tutto caduto, il sipario è almeno strappato. «Il progetto di Renzi potrebbe essere interessante», ha svelato il vicepresidente Mediaset, considerando le tante novità che riguardano le reti del gruppo. «Abbiamo contattato il suo manager per capire di che tipo di programma si tratta. Potrebbe andare in onda su Rete 4 o su Focus. Certo», ha continuato con un pizzico d’ironia «se andasse in onda su Focus farebbe le stesse percentuali che fa alle elezioni». Scherzi a parte, la sensazione è che la trattativa sia a uno stadio più che embrionale. Se così non fosse, difficilmente l’ad della tv commerciale avrebbe ammesso l’esistenza dei colloqui.

Qualche ora prima, parlando del rinnovamento che investirà Rete 4, Piero Chiambretti, cerimoniere della presentazione dell’«offerta televisiva 2018-2019», aveva sagacemente scherzato sul ruolo del canale nella «formazione della classe dirigente italiana. Avete tenuto a battesimo Renzi alla Ruota della fortuna e Salvini a Ok, il prezzo è giusto: pensate di lanciare altri cavalli di razza?». No, ma di riciclarne qualcuno, magari sì. Rispondendo a precisa domanda sull’eventuale interesse per Renzi in versione Alberto Angela, Berlusconi jr. si era mostrato più che possibilista. «Abbiamo contattato il suo entourage aspettando di vedere… Se fosse, perché no?». A facilitare la venuta alla luce del progetto c’è anche il fatto che Presta è manager molto ascoltato a Cologno Monzese. Paolo Bonolis, il suo artista televisivo di punta, ci lavora con soddisfazione sua e dell’editore da diversi stagioni e nella prossima condurrà due programmi in prima serata (Scherzi a parte e Ciao Darwin) e un preserale (Avanti un altro), tutti su Canale 5.

Insomma, gli astri sembrano favorevoli. Corsi e ricorsi del circo politico-mediatico: ridimensionato nelle stanze dei palazzi romani, il patto del Nazareno potrebbe trovare nuova linfa negli studi televisivi di Mediaset. Anche Silvio Berlusconi, parzialmente decentrato dall’alleanza tra la Lega e il M5s, presumibilmente, vedrebbe di buon grado l’innesto del programma renziano in una rete di Cologno. «Certi amori non finiscono…», da una parte e dall’altra. Per Berlusconi jr., però, tra i «giri immensi» che precedono il ritorno alle origini non c’è quello trionfale dell’ex golden boy della politica italiana. «Credevo in Renzi, mi ero fatto affascinare, convinto che avesse una marcia nuova», ha confidato sempre a notte fonda. «Ma non ha rispettato le competenze degli altri. Si è messo al centro e si è isolato. A parole bene, bene, bene. Ma nella realtà dei fatti le cose sono andate diversamente». Il suo interesse per l’ex premier sembra essere esclusivamente televisivo. Però, come spesso accade, il confine tra televisione e politica è sempre difficile da tracciare. Accusata di aver tirato la volata alle formazioni populiste, con la new entry in palinsesto del programma di Renzi, la rivoluzione di Rete 4 sarebbe copernicana.

La Verità, 6 luglio 2018

 

Un Tiki Taka tra presunte gag e miss scosciate

Ormai è assodato, il calderone sgangherato più comico che tecnico è l’applicazione dei «Mondiali allegri e brillanti» che Pier Silvio Berlusconi auspicava presentando il palinsesto Mediaset di Russia 2018. Non solo Balalaika – Dalla Russia col pallone su Canale 5, pure Tiki Taka Russia su Italia 1, con il magniloquente Pierluigi Pardo, si iscrive al genere del varietà calcistico: commento delle partite condito con gag da bar sport. Il programma di Italia 1 patisce una serie di vincoli in materia di diritti che gli impediscono di accedere alle interviste post partita ai protagonisti. Senza lo spogliatoio, contenuto e approfondimenti tecnici risultano inevitabilmente indeboliti. A quel punto Mediaset ha scelto di virare sul costume e sul comico. I servizi degli inviati grondano di giochi di parole, di metafore, di citazioni e rimandi a titoli cinematografici e formule alla moda. Il pianto per la crisi dell’Argentina, i gol di uragano Harry Kane, il mondiale dei giocatori madridisti, i risultati ribaltati last minute… Un mare nel quale Pardo sguazza con il salvagente della verve autoreferenziale. «Vediamo questo servizio della tv svedese che usa una tecnica che era in voga una volta», ha premesso prima di avvitarsi nella citazione: «Scusate, ho detto in voga, non lo dicevo dal 1978, c’erano ancora gli Abbagnale». Massì, Pardo ricorda il grande Giampiero Galeazzi, oltre che nella corporatura, anche nell’enfasi e nel vocione. La differenza è che Bisteccone era sé stesso (come Pardo quando parla di calcio, ospite di Otto e mezzo). Invece Tiki Taka è debordante, eccessiva, vagamente tracotante. Farcita delle scollature abissali e delle scosciature inguinali della statua(ria) Ria Antoniou, del controcorrentismo sistematico di Giuseppe Cruciani, delle presunte gag di Andrea Pucci, delle prese in giro gratuite del pubblico di Cristiano Militello. Tutto troppo facile e scontato. Senza collegamenti dagli stadi, si riciclano le storiche maschere di Teo Teocoli in Maidiregol, da Gianduia Vettorello a Felice Caccamo. Difficile parlare di calcio per un tempo superiore ai tre passaggi nonostante le partecipazioni di Ciro Ferrara e Marco Amelia, tra i pochi che non soccombono alla baldoria. Gli altri, i talent più autorevoli, da Arrigo Sacchi a Xavier Zanetti a Paolo Rossi, si son visti pochino. Forse preferiscono Mondiali Mediaset Live, la rubrica dell’ipnotica Giorgia Rossi.

 

La Verità, 26 giugno 2018

«La nascita del governo? Come il Grande fratello»

Incontro Piero Chiambretti nel giorno del suo sessantaduesimo compleanno. Festa, regali… e bilanci non solo professionali. La nuova stagione di Matrix su Canale 5, pensata come una serie intitolata «La repubblica delle donne» e divisa in otto episodi sta andando più che bene. Ma Piero è ugualmente tonico e barricadero: «A fare le cose bene o male ci si mette lo stesso tempo, la differenza si vede in onda. Ogni puntata è come un’operazione a cuore aperto. Certo, non salviamo vite, ma le nostre scemenze le scriviamo come fossero per un film da Oscar», dice mentre gli cade l’occhio sulla biografia di David Lynch poggiata sulla scrivania. Dunque, tempo di bilanci tutti d’un fiato: «Mi sentivo già vecchio a 25 anni perché non ne avevo più 18. Quando Gianni Boncompagni diceva ≤guarda che ne ho ancora 79≥ si sentiva giovane. Fortuna che i compleanni arrivano una volta l’anno perché, con il telefonino e i social, se rispondi a tutti l’anno te lo sei giocato. Pablo Picasso diceva che ≤ci vuole molto tempo per diventare bambini≥. Io dico che, per vivere a lungo, bisogna invecchiare. Il che ha dei vantaggi: invecchiando vedi meno governi pasticcioni, meno politici impreparati, meno spread alle stelle, meno vittorie in Champions delle spagnole e meno tv trash».

Ha fatto la scaletta dell’intervista?

«Dimenticavo: meno presidenti della Repubblica accusati di alto tradimento».

Lei era confidente di Francesco Cossiga.

«Ero un suo servizio segreto deviato».

Non vorrà parlare di politica… Facciamo una sintesi di ’sto casino?

«Guardi, in questi giorni ho avvertito una sensazione di precarietà come poche volte. Premetto che sono un italiano sbagliato perché credo nel Paese ma sono anni che non voto. Alla cabina elettorale preferisco la cabina balneare».

A un certo punto sembravano coincidere.

«Anziché a nuotare saremmo andati a votare. Nell’incertezza noi ci siamo portati avanti con una puntata sulla Vita smeralda che partiva da Sapore di mare, il film con Jerry Calà e Isabella Ferrari che ci ha offerto la metafora del Paese che affoga. Lì Paolo Savona era perfetto. Un mio amico che lavora nell’alta finanza dice che siamo tecnicamente falliti. Quanto alla nascita del governo, sembrava una puntata del Grande fratello: chi entrava e chi usciva, chi elogiava in diretta e accoltellava nel backstage. Forse si poteva nominare subito premier Simone Coccia, il compagno dell’onorevole Stefania Pezzopane».

Il Grande fratello ha scatenato polemiche e Lele Mora ha detto che ci sono tre faide: quella del lungo, quella del corto e quella del pacioccone. Idee?

«C’è una certa competizione tra i gruppi di lavoro che producono più ore nei palinsesti. Oppure possono essere persone vicine a Piersilvio Berlusconi».

E la fisiognomica?

«Il corto potrei essere io, ma non c’entro con le faide perché sono un cane sciolto».

La statura è la seconda cosa che condivide con Silvio Berlusconi.

«Mi manca la prima: essere un grande imprenditore internazionale, dalla grande verve e con un contratto a tempo indeterminato con la vita».

Sbagliato: la prima è che entrambi avete iniziato sulle navi da crociera.

 

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Le convergenze parallele tra Sky e Netflix

«Se non puoi sconfiggere il nemico, fattelo amico». L’antico detto di Giulio Cesare illumina anche le strategie dei giganti televisivi. Da rivali che erano, Sky tv e Netflix, sono diventati alleati. È la clamorosa novità di ieri nello scacchiere delle telecomunicazioni. Un accordo inaspettato e sorprendente. Ci vorrà ancora qualche giorno per conoscere i dettagli economici della nuova alleanza. Così come per conoscere i costi dei nuovi pacchetti di abbonamento. Per ora è stato annunciato che sarà la piattaforma di Sky Q a diffondere film, serie e documentari della multinazionale californiana. Dal 2019, prima nel Regno unito e, a seguire di pochi mesi, in Germania, Austria e Italia, Sky tv distribuirà ai suoi abbonati anche i contenuti di Netflix. I telespettatori potranno accedere all’offerta Netflix con un semplice click su una applicazione, come avviene adesso per aprire ad esempio Sky box sets. Chi è già titolare di un abbonamento alla streaming tv potrà migrare il proprio account nel nuovo pacchetto Sky, o accedere all’app di Netflix utilizzando i dettagli dell’account esistente.

Andrea Zappia, ad di Sky Italia

Andrea Zappia, ad di Sky Italia

L’annuncio della partnership ha preso in contropiede tutto il sistema delle telecomunicazioni. Il primo motivo di sorpresa deriva dal fatto che finora Sky e Netflix erano considerate concorrenti. Con 23 milioni di abbonati in 7 Paesi (Regno Unito, Irlanda, Germania, Austria, Italia, Spagna e Svizzera), Sky è il gruppo leader dell’intrattenimento in Europa. Per contro, con più di 117 milioni di abbonati in oltre 190 paesi, che ogni giorno guardano più di 140 milioni di ore di programmi, tra cui film, serie, documentari e lungometraggi, Netflix è il più grande servizio di intrattenimento via Internet del mondo. Ora i giganti rivali si alleano. Gli interessi convergono. In un mercato che inizia a mostrare segnali di rallentamento se non di riflusso, una convivenza che consentisse l’espansione di entrambi stava diventando problematica in molte aree geografiche. Ancor più a fronte delle ambizioni per la nascita di un grande polo europeo della Vivendi di Vincent Bolloré. Che, ora, dopo l’annuncio di ieri (che segue lo slittamento al 23 ottobre dell’udienza sul contenzioso con Mediaset per l’acquisizione di Premium) dovrà rivedere radicalmente le proprie strategie.

La nuova partnership tra Sky tv e Netflix si colloca in una posizione di forza all’interno di un mercato tutt’altro che illimitato. Continuare a guerreggiare poteva rivelarsi autolesionista, devono aver ragionato i massimi vertici aziendali: meglio collaborare e giocare d’anticipo. L’ad di Sky Italia, Andrea Zappia, ha parlato di «una tappa rivoluzionaria nel nostro percorso di innovazione tecnologica e culturale». E di «accordo senza precedenti», grazie al quale «Sky Q diventa la piattaforma dove è possibile trovare tutti i migliori contenuti di intrattenimento al mondo, accessibili con un solo click». Il ceo del Gruppo Sky, Jeremy Darroch, ha osservato che «riunendo i contenuti Sky e Netflix sotto lo stesso tetto, al fianco dei programmi targati Hbo, Showtime, Fox e Disney, stiamo rendendo l’esperienza di intrattenimento ancora più semplice e immediata per i nostri clienti». L’ad di Netflix, Reed Hastings, ha suggellato l’intesa: «Siamo lieti di collaborare con Sky per riunire sotto lo stesso tetto il meglio delle ultime tecnologie e dello storytelling».

Reed Hastings, fondatore e ad di Netflix

Reed Hastings, fondatore e ad di Netflix

Il secondo motivo di sorpresa per l’annuncio di ieri è legato al risiko internazionale delle televisioni. Cordate e alleanze date per acquisite devono essere corrette. Nei giorni scorsi gli osservatori seguivano con curiosità il rincorrersi delle offerte di acquisto al vaglio dei vertici di Sky da parte di altri grandi player internazionali. L’offerta di 25 miliardi di euro cash di Comcast, gigante americano della tv via cavo, per la maggioranza della pay tv britannica. Quella di Disney, che in dicembre aveva messo sul piatto 50 miliardi di dollari per acquisire la maggioranza di Fox, Sky compresa. Infine, la proposta della stessa 21Century Fox di Rupert Murdoch per il 61% non già di sua proprietà (proposta stoppata dall’antitrust britannico). Ora la nuova partnership con Netflix rende Sky tv ancora più appetibile e le quotazioni dovranno essere aggiornate. Il sistema dell’audiovisivo è in continua fibrillazione. Lo dimostrano anche i movimenti che riguardano Chili, la piccola società di tv on demand nata da un’idea di Stefano Parisi nel 2012. Dopo l’ingresso di Warner Bros e Paramount-Viacom al 4% e Sony Pictures al 3% ai quali è seguito quello della famiglia Lavazza con 25 milioni per il 24%, ieri si è avuta notizia dell’investimento di 6 milioni di euro della 21Century Fox per il 4% del capitale. Evidentemente il semaforo rosso dell’authority londinese all’espansione di Murdoch (già proprietario nel Regno unito di un impero editoriale che comprende, tra gli altri, quotidiani come il Times e il Sun), ha suggerito al tycoon australiano di dirottare la sua liquidità sull’Italia. Lo scacchiere delle telecomunicazioni è in continua evoluzione.

La Verità, 2 marzo 2018

«Vorrei tornare all’Ariston da direttore artistico»

Lui il primo Festival di Sanremo l’ha presentato a 28 anni. Era il 1980, preistoria. L’alba di un decennio di svolta. Irripetibile. Visto da qui, dall’Ufficio rotondo, Milano zona San Siro, tutt’altro che archeologia. È presente, attualità, nella storia di Claudio Cecchetto: dj, talent scout, fondatore di radio, produttore musicale, manager dello spettacolo, autore e conduttore televisivo. 65 anni, nativo di Ceggia, paesino della provincia di Venezia, figlio di un camionista. Una discreta parabola. Condurre la più importante manifestazione italiana a quell’età è da vertigini. Un sogno che si avvera ancor prima di essere sognato. Come si fa a non montarsi la testa? A iniziare a guardare tutti dall’alto? E soprattutto: dopo, che si fa? Si presenta il secondo e il terzo, in rapida successione. Senza fermarsi a pensare che sei andato più veloce del tempo. Che hai preso il destino in contropiede. E che a trent’anni hai già vinto tutto, come Beppe Bergomi campione del mondo a 19 anni, nel 1982. Cose che succedevano a quei tempi.

Nella sua biografia, parlando della proposta di condurre Sanremo, scrive: «Nella mia carriera ho sempre avuto l’impressione che quando c’era qualcosa da cambiare chiamassero me».  

«È così. Poi bisogna trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Gianni Ravera mi aveva visto a Discoring e voleva rinnovare il Festival reduce da un’edizione un po’ così. Era il momento delle radio libere. Sono stato fortunato a essere il rappresentante del cambiamento. Non ero io il cambiamento, ci ero dentro. Peraltro, c’era anche un problema. Che mi guardai bene dal sollevare».

Cioè?

«Era il Festival della canzone italiana, ma io conoscevo quasi solo musica straniera. Nelle radio si mettevano dischi d’importazione, dance, new wave, rock. Ma non volevo certo porre dubbi. E siccome la fortuna aiuta gli audaci, un mese dopo seppi che, oltre all’attrice Olimpia Carlisi, nella serata finale ci sarebbe stato anche Roberto Benigni».

Claudio Cecchetto con Roberto Benigni e Olimpia Carlisi al Festival di Sanremo del 1980

Claudio Cecchetto con Roberto Benigni e Olimpia Carlisi al Festival di Sanremo del 1980

Come ricorda quei momenti? Oggi sarebbero possibili?

«Negli anni Ottanta si osava molto più di adesso. Sì, stava nascendo la tv commerciale, ma si poteva ancora sperimentare. Per me era tutto un regalo, non volevo diventare un personaggio televisivo. Il mio sogno era la radio. Avevo l’incoscienza dell’età: più che per l’opportunità professionale, ero contento che mi vedessero mio padre e mia madre».

Le è piaciuto il Festival di Claudio Baglioni?

«Mi è piaciuto, sì. Sono abituato ad aspettare prima di dare giudizi: se una proposta è diversa dalle tue aspettative non significa che sia brutta, diamole una chance. Dopo la seconda serata ho mandato questo sms a Baglioni: “Volevo farti i complimenti per Sanremo. La tua presenza in video rende piacevole tutti i contenuti del festival e grazie a te emerge anche il talento delle persone che hai scelto. Grande, un abbraccio. Ps. Mai visto il pubblico in sala a Sanremo così contento”. Questo è quello che penso».

Non c’è stato solo Fiorello.

«Perciò ho aspettato la seconda serata. Fiorello è una forza della natura, il divario è così evidente. Invece, guardando meglio, mi sono accorto che aspettavo riapparisse Baglioni. La sua presenza metteva a posto le cose, dava le misure. Michelle Hunziker e Pierfrancesco Favino sono entrambi bravi e professionali, ma è stato Baglioni la ricchezza del Festival».

Il «dittatore artistico» che ha inserito tanti artisti della Friends & Partners, la società che lo produce.

«Queste sono cattiverie per i titoli dei giornali. Se devi fare un bel Festival chiami chi fa squadra. E magari così riesci a spendere meno. Poi ci sono anche gli altri, i Negramaro non erano di Friends & Partners. Anche quando conducevo il Festivalbar dicevano: Cecchetto fa cantare i suoi, Sandy Marton, Tracy Spencer… Ma era gente affermata a livello internazionale. Conta che il pubblico sia contento e mi pare lo sia stato».

Cosa fa quando c’è Fiorello in tv? Vi sentite prima e dopo?

«Ci siamo sentiti, era contento. Fiorello non è un Robocop. Ha bisogno di avvertire affetto attorno a sé. Quando è salito all’improvviso sul palco quell’uomo, lui ci avrebbe fatto mezza serata. È un’anima sorridente, un cuore allegro, diverso da un comico».

Però fa divertire.

«Che non è solo far ridere. Ha la comicità della nostra gang, che ricorda i vecchi caffè degli artisti, dove si discuteva e si cresceva. Il posto favorisce le contaminazioni: Jovanotti che incontra Fiorello che incontra Gerry Scotti che incontra Fabio Volo che incontra Max Pezzali. Una catena del talento».

Fiorello è stato presentato come lo scaldapubblico.

«È riduttivo. Fiorello garantisce una partenza positiva. È uno generoso, preferisce essere all’inizio delle cose. Non dice: prima voglio vedere se funziona. Piuttosto, la sua partecipazione alza l’asticella per quelli che arrivano dopo».

Fiorello ospite della prima serata del Festival con Baglioni e Michelle Hunziker

Fiorello ospite della prima serata del Festival con Claudio Baglioni e Michelle Hunziker

Come fa un ragazzo nato a Ceggia, seimila anime, a diventare Claudio Cecchetto?

«Culo. Volevo intitolare Che culo il mio libro. Sottotitolo: quello che ho avuto e quello che mi sono fatto».

Ha un’immagine di questa storia?

«Ci dev’essere qualcuno lassù che ha pensato a me. Io ho cercato sempre di farmi trovare pronto e nello stesso tempo di non montarmi la testa. Ho cercato di trasmettere questa semplicità anche ai ragazzi. Quando vedevo il rischio, partiva il discorso preventivo: ricordiamoci sempre da dove veniamo, che la nostra è una condizione fortunata e non dovuta. Ringraziamo il cielo che ci sia, ma quello che abbiamo ottenuto è gratis. Ho sempre pensato che se fai bene le cose prima o poi i risultati arrivano».

Da ragazzino voleva fare il batterista. Un giorno di riposo della band andò nello studio per cambiare le pelli dei tamburi e vi trovò i suoi compagni che suonavano con un altro batterista.

«Da ragazzi si pensa che la batteria permetta di non studiare la musica. A me piaceva il ritmo. Mi piace sentire suonare bene la batteria; ma se io non la suono bene non piace neanche a me. Volevo stare in quella band, ma dopo il primo momento di stupore, mi accorsi che quel ragazzo suonava meglio. Lì è scoccata la scintilla del talent scout. Se trovo uno che sa fare bene una cosa e collaboriamo affinché si affermi, in qualche modo mi affermo con lui».

Dice Jovanotti che «il mondo di Claudio Cecchetto è un posto dove un ragazzo che mixa i dischi diventa un cantante che scrive le sue canzoni, il commesso di un panettiere diventa lo scrittore che vende di più e un animatore di villaggi diventa il più grande showman in circolazione». Scoprire e valorizzare i talenti degli altri è il talento dei talenti?

«Certamente è un talento. Bisogna vedere le persone, intravederle. Fabio Volo venne a Radio Capital per convincermi a trasmettere un suo disco. Rimanemmo mezz’ora a parlare: “Cosa ti piace fare?”. “Leggo molti libri”. Gli proposi un baratto: “Ti metto il disco a patto che tu venga a trasmettere da me”. Ero pieno di dj che sapevano solo di musica, finalmente uno che legge. Fiorello arrivò a Radio Deejay con Bernardo Cherubini, fratello di Lorenzo, che gli aveva detto che lì era pieno di ragazze. Andammo a cena e vidi subito quell’energia, un po’ grezza, ma esplosiva e incontenibile. Peraltro, lui imitava cantanti italiani e Deejay trasmetteva solo musica inglese. Poco alla volta ci siamo integrati, modernizzati, ognuno rimanendo sé stesso».

Jovanotti, Fiorello, Max Pezzali, Amadeus, Gerry Scotti, Leonardo Pieraccioni, Fabio Volo, Dj Francesco, Sandy Marton. Si parla poco di Sabrina Salerno…

«Ho prodotto il suo primo album che conteneva Boys boys boys, ma non faceva parte della mia organizzazione. Ha camminato con le sue gambe. È una figura legata agli anni Ottanta e Novanta, anche se mi risulta abbia ancora seguito in Spagna».

Sanremo e Fantastico, poi il lancio di Radio Deejay: erano gli anni delle ideologie, gli anni di piombo. Non è mai stato sfiorato dalla politica?

«Avevo così tanto da fare… Finivo un progetto ed entravo direttamente in un altro».

C’era la guerra in Italia.

«Pensavo a creare un mondo migliore con i miei mezzi. Mia sorella è psicologa e si occupa di far star bene chi soffre. Anch’io mi sono sempre occupato del benessere delle persone. Sono figlio degli anni Settanta, ero partito dagli ideali: ci sono i problemi, i conflitti, ma possiamo anche divertirci. Non mi spiegavo come mai se i giovani partono sempre di sinistra, alla fine la sinistra perdeva lo stesso. Vorrei vedere più giovani in politica. Ma non come i giovani di Sanremo, che sono istruiti dai vecchi e fanno le stesse cose dei vecchi».

È uno dei pochi ad aver lavorato in Rai, in Mediaset e con il Gruppo Espresso: come se lo spiega?

«Avevo un prodotto di successo, che per loro era un business. La radio volevo venderla a Berlusconi, ma Adriano Galliani disse che non erano interessati. Glielo dissi quando Berlusconi mi chiese: “Perché non l’hai venduta a me?”. Se volevo che Deejay crescesse dovevo associarmi a un grande marchio. Nonostante tutto, il Gruppo Espresso ha usato Deejay per la musica non come veicolo politico».

Adesso che cosa sta facendo?

«Faccio il Cecchetto, come al solito, mille cose insieme».

Ok, il progetto principale?

«Sto seguendo il tour di Max Pezzali, Nek e Francesco Renga. Era un’idea buona, ma vogliamo creare un evento musicale che vada oltre la somma dei fan dei tre artisti».

Che rapporto ha con il web?

«È la nuova frontiera del talent scout. Radio e tv sono sature e hanno tempi sempre più stretti. Internet è il pianeta dove trovare gli artisti del futuro. Con Stefano Longoni cerchiamo ragazzi da lanciare attraverso un format che abbiamo chiamato Starcube e che è il contrario di The Voice. Dentro un cubo vedo l’artista muoversi e ballare con l’audio abbassato: dev’essere la sua presenza a farmi venir voglia di alzare il volume. È il mio metodo di lavoro: non ho mai fatto provini sulla voce, è il contatto con la persona a svelarne il talento. Se mi fossi basato sull’estensione vocale forse non avrei lanciato Jovanotti».

Claudio Cecchetto con Fiorello e Max Pezzali, due degli artisti da lui lanciati

Claudio Cecchetto con Fiorello e Max Pezzali, due dei tanti artisti da lui lanciati

Accoglienza finora?

«Tiepida, ma non demordo. Oggi i dirigenti tv producono solo format garantiti. Io non voglio sostituire prodotti già in voga, ma aggiungere un’alternativa. Prima o poi produrrò una puntata pilota».

Cosa pensa dei talent show?

«Sono il matrimonio giusto tra tv e discografia. La tv ha suggerito alla discografia di fare spettacolo e non solo musica. Il primo talent show fu Castrocaro. Gli artisti di successo possono emergere anche altrove, non è colpa dei talent se non esce l’artista».

Qualcuno che le piace di più di questi anni?

«Marco Mengoni ha buone possibilità di diventare un artista storico. Del livello di Tiziano Ferro, Cesare Cremonini, Negramaro, Max Pezzali, Biagio Antonacci. L’X Factor che produce più artisti è quello inglese perché c’è Simon Cowell, un talent scout. Per un cantante è difficile giudicare un altro cantante».

Mara Maionchi?

«È una discografica, un’animale televisivo. Un piacere sentirla su qualsiasi argomento».

Il momento che ricorda con più piacere della sua carriera?

«Il Festival del 1981. Uscendo alla fine della finale, il mondo mi era cambiato davanti. La gente mi voleva abbracciare, le ragazze m’infilavano il numero di telefono in tasca, scene di fanatismo. Quella volta ho pensato ai Beatles».

E quello che le provoca dispiacere?

«Ognuno ha qualche rimpianto. Ma con la fortuna che ho avuto non è proprio il caso di lamentarsi».

Un progetto ancora da realizzare?

«Ho avuto due nascite, quella naturale a Ceggia, e quella artistica, a Sanremo. Per questo, mi piacerebbe tornare a Sanremo da direttore artistico».

In un libro sul lavoro Primo Levi scrive che si avvicina alla felicità l’uomo che riesce a far coincidere la sua passione con il mestiere.

«Le prime volte che andavo in radio non c’era lo stipendio, si mangiava gratis al ristorante in cambio della pubblicità. Non mi mancava nulla, non pensavo a guadagnare. La felicità di svegliarsi ogni giorno sapendo di fare la cosa che mi piaceva di più era appagante. Se poi ti pagano anche, è il massimo».

Non c’è il rischio che la vita coincida con il lavoro?

«Solo così si hanno grandi risultati. Una passione non prevede il part time. Per esempio, in discoteca mi annoiavo. O mettevo i dischi o niente».

Va in vacanza?

«All’Elba. Sono amico del padrone dell’hotel. Organizzo la serata di Ferragosto. Metto i dischi, li scelgo, preparo la scaletta. Una settimana di preparativi. Spotify, I-tunes, un’ora in spiaggia al giorno. Dal 16 mi annoio. Quando mi chiedono che musica metto in sottofondo, rispondo: in sottofondo non esiste, quello che faccio è in sottofondo. Per questo non posso fare l’amore con la musica».

Il genere musicale del futuro?

«La musica trap. Quella di Ghali e Sfera Ebbasta».

Come talent scout su chi scommetterebbe?

«Su Oel, quello delle Focaccine dell’Esselunga».

Diciamo che non deve fare molta strada.

«Diciamo che lo conosco bene».

Che cos’è la gratitudine?

«È un sentimento ambivalente, che serve al gratificato e al gratificante. Si deve anche stare attenti a non pretendere una gratitudine maggiore di quella che ci si merita. Quando lanci un artista è come un figlio: dev’essere libero di andare e sbagliare, senza pensare di doverti ringraziare tutta la vita. L’artista ha la sua strada, lo sa che sei suo padre. Bisogna avere le palle per essere grati. I miei artisti le hanno».

La Verità, 11 febbraio 2018

Baglioni, il ’68 e un pezzo di musica rimasta fuori

Se Sanremo è, o dovrebbe essere, il Festival della canzone italiana, allora ha ragione da vendere Maria De Filippi. Nel giorno della presentazione ufficiale del cast della 68ª edizione, la conduttrice di Amici e C’è posta per te, nonché dell’edizione numero 67 della kermesse al fianco di Carlo Conti, ha acceso una miccia che è filata sotto il palco del Casinò rivierasco: «Io penso che in generale Sanremo sbagli sempre quando non prende ragazzi dei talent, come Amici o X Factor, perché sono una realtà», ha detto la De Filippi intervistata dal settimanale Chi, «a meno che quelli che si sono presentati non fossero all’altezza».

Maria De Filippi, con Carlo Conti ha condotto l'edizione 2017 del Festival di Sanremo

Maria De Filippi, con Carlo Conti ha condotto l’edizione 2017 del Festival di Sanremo

Parole dirette, che meritano considerazione. Negli ultimi anni Sanremo ha sempre avuto concorrenti usciti dai talent show. Nel 2009, 2010, 2012 e 2013 qualcuno di loro l’ha anche vinto il Festival (in ordine cronologico: Marco Carta, Valerio Scanu, Emma Marrone, Marco Mengoni). Poi ci sono state le partecipazioni dei Dear Jack, Chiara Galiazzo, Lorenzo Fragola, l’anno scorso di Elodie e Michele Bravi; nel 2016 Francesca Michielin si è classificata seconda. Insomma, una presenza consistente e apprezzata sia dal pubblico televisivo che dalla critica. Quest’anno zero: una scelta, probabilmente, al netto della qualità scadente dei candidati che si sono presentati. Oppure, considerando il fatto che dei tre conduttori (Claudio Baglioni, Pierfrancesco Favino e Michelle Hunziker) nessuno è un volto Rai, si è temuto che altri innesti provenienti da programmi Mediaset e Sky diluissero ulteriormente il marchio di fabbrica della manifestazione. Chissà.

Tuttavia, la contemporaneità tra l’anticipazione di Chi e la presentazione della kermesse di Baglioni che, per lanciare il «Festival dell’immaginazione», ha rispolverato persino il Sessantotto, ha creato un corto circuito negativo. Se si vuole parlare di Festival democratico, ecumenico, buono e buonista, tanto da aver eliminato le eliminazioni, converrebbe cominciare a farlo almeno rappresentativo. Cioè, capace di mettere in vetrina tutte le realtà della musica. Escludere i cantanti dei talent vuol dire tagliar fuori un pezzo non trascurabile della scena musicale e creativa, rischiando di trasmettere un’idea lontana dallo spirito del tempo della canzone italiana. Peccato che ai vari Pippo Baudo, Fabio Fazio e Carlo Conti, così prodighi negli spot di consigli al direttore artistico su scalette e camerini, sia sfuggito quello più importante sul cast musicale.

La Verità, 10 gennaio 2017