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«Doris? Un cattolico con la speranza che manca al Pd»

Ennio Doris, un outsider sottovalutato. Forse anche a causa del suo temperamento tutt’altro che megalomane. A fargli giustizia arriva ora nei cinema un biopic incentrato sulla clamorosa restituzione nel 2008 di 120 milioni di euro a 11.000 risparmiatori che avevano investito nella Lehman Brothers. Tratto dall’autobiografia C’è anche domani (Sperling & Kupfer, 2014), prodotto da Movie Magic International, distribuito da Medusa, diretto da Giacomo Campiotti, interpretato da Massimo Ghini e Lucrezia Lante della Rovere, il film sarà nelle sale come evento speciale il 15, 16 e 17 aprile, prima di andare in onda in autunno sulle reti Mediaset.
Massimo Ghini, conosceva Ennio Doris prima di interpretarlo?
Ne conoscevo l’immagine pubblica, diffusa dallo spot della «banca costruita intorno a te» mentre lui traccia un cerchio per terra. Mi ha stupito che mi abbiano chiesto di essere lui: è stato come intraprendere un viaggio nella vita di un uomo particolare. Alla convention con 20.000 persone organizzata da Mediolanum a Torino ho letto un brano di una lettera nella quale sosteneva che chi lavora nella finanza, oltre a occuparsi di soldi, ha una responsabilità verso gli altri.
Cosa le è piaciuto di quest’uomo?
Il fatto che, pur essendo tra i più ricchi d’Italia, sia rimasto un uomo semplice, con uno spirito cattolico e un senso della famiglia molto forti. Conosco diverse persone molto facoltose e posso dire che un comportamento così non è nelle loro consuetudini. Sempre a quella convention ho detto che la parola chiave del mio confronto con Doris è «sorpresa». Come si fa a non essere sorpresi da un uomo che il sabato sera aveva l’abitudine di tornare in elicottero al suo paese d’origine per giocare a carte con gli amici?
Per impersonarlo non ha potuto far leva sulla somiglianza.
Era un omone alto e mi hanno sconsigliato di ricorrere alla cadenza veneta, così mi sono immedesimato nel suo temperamento. Alla fine, il complimento più bello è stato quello della moglie Lina: Massimo, mi hai emozionato perché hai saputo riproporre l’atteggiamento e la grinta che aveva Ennio quando faceva le cose.
Come definirebbe Ennio Doris?
Un uomo non ipocrita e generoso. Non ipocrita perché non fingeva di essere buono, ma era dotato di una generosità innata. Correggeva chi lo chiamava «dottore» perché era ragioniere. Ricordava di essere cresciuto in mezzo alle vacche e che suo padre era mediatore nei mercati agricoli.
Un visionario con i piedi per terra?
A differenza del grande amico Berlusconi, ha sviluppato il suo talento nella finanza portandosi dietro la cultura dalla quale proveniva.
Ha cambiato il modo di gestire le banche stando dalla parte dei risparmiatori?
Questo è un fatto bellissimo. Oggi la finanza è raccontata in modo negativo, non ci sono molti a spendersi per aiutare chi è in difficoltà. Non stiamo parlando di Padre Pio, ma di un uomo che, ricordandosi delle sue radici, ha fatto funzionare la banca e, contemporaneamente, tutelato i risparmiatori.
Era il banchiere di Silvio Berlusconi, non un bel biglietto da visita per un uomo di sinistra come lei.
All’inizio anch’io lo pensavo. Ora posso dire, e me ne assumo la responsabilità, che Berlusconi ha imparato da Doris. Quell’uomo gli insegnava a fare i soldi. Non a caso, tutto ciò che Berlusconi ha toccato è diventato suo, mentre la banca di Doris è rimasta di Doris. Berlusconi si è dimostrato intelligente rispettandone la genialità e lasciandolo lavorare.
Cosa pensa del fatto che quando ci fu il crollo di Lehman Brothers rimborsò di tasca propria i risparmiatori che avevano investito in quei titoli?
Non voglio fare paragoni con altre grandi famiglie, gli Agnelli tanto per dire. Questa vicenda mi ha lasciato a bocca aperta e penso che anche il pubblico rimarrà stupito quando la scoprirà dal film. Il figlio Massimo mi ha detto che è già nota, ma io credo non abbastanza. 11.400 investitori e le loro famiglie salvati da questa decisione. Dove si trova un uomo che dice «pago io»? Alla fine, Berlusconi gli è andato dietro, ma all’inizio, sia l’Abi (Associazione bancaria italiana ndr) che lui dicevano che era un pazzo. Ma Doris era deciso: ho i soldi e lo faccio anche da solo.
Il primo caso di restituzione spontanea di denaro ai risparmiatori fu un’azione di sinistra?
No, io ci vedo un’anima cattolica. Il fatto che ci siano uomini che devono essere salvati non ha bisogno di catalogazioni di destra o sinistra. Doris aveva questa formazione veneta, fortemente cattolica, e l’ha tirata fuori. Lo dico con piacere.
Che cosa le ispira il titolo del film tratto dall’autobiografia C’è anche domani?
D’istinto può ricordare il film di Paola Cortellesi, perciò il nostro s’intitola Ennio Doris – C’è anche domani.
Il libro di Doris è del 2014.
Infatti. È un titolo che dice che non serve indugiare sulle cose andate male, c’è sempre la possibilità di rimettersi in careggiata. Non è un pensiero di natura finanziaria, ma un’idea positiva di futuro.
Un’idea di speranza?
I nostri genitori hanno fatto le guerre, noi viviamo un momento di confusione che non aiuta a preparare il futuro dei nostri figli. Dobbiamo insegnare loro che il futuro si costruisce giorno per giorno.
La sinistra sa infondere questa speranza?
In questo momento no, non riesce a darla. Dobbiamo costruire un progetto comprensibile alle masse e alle persone comuni. Le continue divisioni interne sono una delle maggiori imbecillità del secolo.
Pur essendo di sinistra lei ha fatto cinema e televisione popolare. Cosa pensa del fatto che il cinema d’autore, finanziato dai fondi ministeriali, ha trovato raramente il favore del pubblico?
Se ho qualcosa di cui vantarmi è di aver fatto sia cinema popolare che impegnato. Il nostro mestiere serve a raccontare con professionalità storie che possono essere comiche o drammatiche. L’idea che dovremmo privilegiare i film d’autore perché siamo di sinistra mi sembra una stupidaggine. Ho recitato per registi internazionali e mi sono sempre rifiutato di pensare come alcuni colleghi, che se un film non sfonda è perché non è stato capito. Forse sei tu che non ti sei fatto capire.
Un pregio e un difetto del cinema italiano?
Il difetto è dividere sulla lavagnetta i buoni e i cattivi, i bravi e i non bravi. Ricordo che quando entrai negli uffici della Titanus, la prima casa di produzione italiana, c’erano le locandine dei musicarelli, dei film di Totò, di Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni. Non a caso ora il governo sta introducendo nuovi criteri di sostegno al cinema.
Il cinema italiano è romanocentrico?
È un’accusa esilarante. È come se dicessimo che il cinema americano è «losangelescentrico». I film di Paolo Sorrentino sono napoletani. Matteo Garrone ha raccontato i migranti africani, Mediterraneo ha vinto l’Oscar con una storia di guerra, Roberto Benigni è toscano.
C’è amichettismo anche nel cinema, il solito giro di attori e di registi?
Questa è una critica che serve ai giornali. Il cinema è nato a Roma, ma i registi e gli sceneggiatori sono romagnoli, milanesi, siciliani. Poi, siccome di soldi non ce ne sono e i produttori cercano di risparmiare, i film si fanno prevalentemente a Roma.
Quando vediamo i cast di Pupi Avati ci stupiamo perché recupera attori fuori dal giro?
Vogliamo dire, con tutto il bene che gli voglio, che Avati è «bolognesecentrico»? In America ci sono due poli produttivi, New York e Los Angeles, fine. Il criterio è uno solo: un film è bello o brutto, è interessante o no. Queste polemiche sono nate dalle film commission e dalla relativa distribuzione dei fondi. La prima film commission la proposi nel 1995 a Francesco Rutelli quand’ero consigliere comunale a Roma. Adesso ogni regione ha la sua film commission.
Prima consigliere comunale, ora membro della segreteria Pd del Lazio: mai pensato di impegnarsi seriamente in politica?
Me l’hanno chiesto, ma ho cercato di non rovinarmi la vita. Vivo il mio impegno come un volontariato perché mio padre è stato partigiano, combattente e internato a Mauthausen. Così, ho pensato di dare una mano anch’io.
Da romano come giudica l’amministrazione del sindaco Roberto Gualtieri?
Diciamo che potrebbe essere migliore.
Se dovesse dare un consiglio affettuoso a Elly Schlein cosa le direbbe?
Che abbiamo bisogno di persone che parlino al cuore della gente. Allora lei dovrebbe preoccuparsi meno del giudizio del salotto di Capalbio e di più di ciò che pensa chi vive nelle periferie.

 

Panorama, 10 aprile 2024

«Racconto la donna che inventò le cure palliative»

A volte le strade più tortuose sono le più feconde. Come quella di Emmanuel Exitu, bolognese, classe 1971, trapiantato a Roma, copywriter e documentarista. Solo cinquantenne si è scoperto scrittore, pubblicando Di cosa è fatta la speranza (Bompiani), romanzo biografico su Cicely Saunders, infermiera, assistente sociale e medico. Donna tenace che nella seconda metà del Novecento ha deciso di prendersi cura di chi è spacciato, riuscendo a valorizzare la medicina palliativa e a creare gli hospice per malati terminali.

Un libro straordinario. Ma intervistandola mi appello alle sue doti di copywriter più che a quelle di scrittore.

«Proverò ad andare subito al sodo».

Da dove spunta Emmanuel Exitu?

«Non lo so neanch’io».

Mi fa un suo breve identikit?

«Ho frequentato la scuola per odontotecnico, ma non volevo farlo. Ho superato il test di medicina, ma mi sono iscritto a filosofia, gettando i miei nello sconforto. Infine, mi sono laureato in poetica e retorica con una tesi su In Exitu di Giovanni Testori».

La fonte di nome e cognome?

«Emmanuel è il nome di battesimo».

«Dio con noi».

«All’università mi dicevano: Emmanuel come Kant? No, come Dio».

Genitori credenti.

«I miei fratelli si chiamano Samuel e Sara, nomi biblici anche i loro».

Ed Exitu?

«Cognome d’arte. Mi ero iscritto a filosofia con la fissa di capire perché le parole producessero significato».

Cos’è successo?

«Siccome, ero un filo problematico, alcuni amici mi fecero leggere In exitu di Testori. Era il monologo di un drogato che vuole andare a morire nella Stazione centrale di Milano. Un monologo che mischiava varie lingue e, non essendo io un lettore forte, all’inizio ci mettevo un quarto d’ora per decifrare una pagina. Quando ci ho fatto l’orecchio, l’ho riletto tre volte di seguito fino a sentirmi rigenerato da quel libro».

E cos’è cambiato?

«Intanto, il cognome. Per il resto, improvvisavo perché non sapevo cosa volessi fare da grande. A un certo punto, grazie ai miei studi sulle tecniche del racconto, mi hanno assunto alla Lux Vide, dove ho seguito la produzione di una dozzina di film. Poi ne ho scritto uno mio, La stella dei Re, sui Re Magi, che fu prodotto da Edwige Fenech e trasmesso in prima serata su Rai 1, con successo. Sono tuttora grato a Edwige Fenech».

E poi?

«Sono entrato in un’agenzia di digital design ma, giusto per non adagiarsi, sono partito per l’Uganda. Pur da cattolico, ho sempre avuto una questione aperta con la speranza, pensavo che la vita finisse lì dove la vedi. Negli slum di Kampala ho incontrato Rose Busingye».

Chi è?

«Una specie di madre Teresa nera che si occupava di donne malate di Aids. Ne è nato Greater, un documentario che Spike Lee ha premiato al Babelgum film festival. Poi, con i soldi del premio, ho fatto un altro documentario con Mario Melazzini, malato di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica ndr)».

Sempre situazioni estreme?

«Non avendo la speranza valeva la pena guardare a chi ce l’aveva».

Quando si è scoperto scrittore?

«Leggere Vegliate con me (Edb), un libretto di discorsi di Cicely Saunders, è stato un colpo di fulmine».

Cosa l’ha affascinata?

«Cicely era una gran rompicoglioni, una testa dura. Dentro la paura per la morte è andata a vedere che cosa si poteva fare».

Sembra che sia stata lei a trovarla, non il contrario.

«Se un libro funziona è perché quello che l’ha scritto è stato trovato dalla storia. All’inizio volevo farne un film come quello sui Re Magi. Sulla facciata del King’s College di Londra, dove sono andato per le ricerche, c’erano le gigantografie dei grandi britannici, compresa Cicely Saunders».

Una sconosciuta…

«Fuori dai circuiti del fine vita, sì. Quando mi accorsi che nel 2018 sarebbe stato il centenario della sua nascita pensai di essere bruciato. Invece, nessuno ne parlò, neanche in Inghilterra. Così, ho scritto il trattamento del film per poi rendermi conto che nessun produttore avrebbe finanziato uno come me. Allora ho pensato al romanzo. Ma avevo il plot e non la scrittura, la mia voce».

Non male come scoperta.

«Per due anni ho scritto e buttato. Finché l’ho trovata. Da quel momento è cominciata la vera fatica. Scrivere dopo che sei stato trovato dalla storia è qualcosa che ti sbudella, che ti scombussola. Per un periodo ho seguito una terapia».

Il lettore apprezza la scrittura disinvolta.

«Frutto di molto lavoro. Succede che in quattro ore scrivi tre frasi e ne sei entusiasta. Vai a mangiare, torni, rileggi e butti tutto. I maestri della letteratura avvertono di questa maledizione. Ero all’inferno, ma sapevo che era la strada giusta».

Ha mai avuto a che fare con malati terminali?

«Marco Maltoni, un palliativista che ha due hospice in Romagna, mi ha introdotto in questo mondo».

La storia di Cicely Saunders, i cui protocolli sono stati riconosciuti dall’Oms, è riassumibile in questa frase: «La speranza è un posto dove puoi morire scoppiando di vita»?

«La speranza è qualcosa che ti sorprende. Non è qualcosa che si possiede, ma una scoperta continua, che toglie il fiato».

Per Charles Péguy è la virtù bambina.

«La speranza fa casino. Invece che stare al suo posto è sempre in movimento, scappa da tutte le parti».

Come un cucciolo di elefante in corsia o il coro di pazienti del St. Christopher’s hospice fondato da Cicely nel 1967?

«Il fatto interessante dei reparti di cure palliative di cui si parla poco ma che fanno tanto, è che uniscono persone diverse. Chi ha fede e chi non ce l’ha. Nella zona del fine vita cadono certezze e sistemi di pensiero ma, come dice Cicely, si apre la possibilità di “condividere il comune terreno della nostra vulnerabile umanità”. Quindi, se un credente e un non credente si incontrano in questo territorio, allora si incontrano e si aiutano davvero. Per me, che sono un“malcattolico”, è sorprendente trovare persone che non hanno la fede, ma mi aiutano con il loro modo di guardare la vita».

Chi non ha fede tende a rimuovere lo scandalo della morte?

«Anche chi ce l’ha».

I non credenti sono portati ad abbreviare il tempo del fine vita?

«Non è quello che ho visto io. Le racconto due storie. Nel suo hospice di Milano, Augusto Caraceni, un amico di Maltoni, riceve la visita di una persona:“Sono un malato terminale, mi dica perché non devo andare in Svizzera”. Senza raccontargli favole, Caraceni gli propone il percorso delle cure palliative, la possibilità di alleviare la sofferenza. “Grazie dottore, mi ha salvato la vita. Mi ha dato una speranza…”. Un altro paziente: “Faccio qualcosa, poi vado in Svizzera…”. “Ok, ma perché non usa di questi giorni per cercare e stare con i suoi figli?”. Alla fine, quella persona ha scelto di rimanere con loro. C’era un’alternativa profondamente umana».

Per i medici la morte è una sconfitta e la malattia terminale un’esperienza d’impotenza?

«La morte fa parte della vita, invece viviamo immersi in una cultura che la rimuove. Quando è morto mio nonno, al quale ero affezionatissimo, non me l’hanno fatto vedere. Eravamo negli anni Ottanta, meglio non mostrare il cadavere a un ragazzino. Ero incazzato nero».

Che differenza c’è tra terapia e cura?

«Quando intervistavo Melazzini per il documentario parlavo di malattia inguaribile… A un certo punto, lui che è un medico e un montanaro incazzoso, mi ha detto: “Di inguaribile io ho solo la mia voglia di vivere”. Se non posso più guarirti, posso prendermi cura di te».

Per i nostri sistemi sanitari sono energie sprecate.

«Qualche giorno fa a Padova Luciano Violante ha provato a tracciare un terreno d’impegno comune: “Il tema del sostegno alla vita deve diventare un valore assoluto”, ha detto. “L’etica della vita deve prendere le mosse dalla dignità in sé della vita, anche a prescindere da valutazioni di ordine religioso”. Difendere la centralità della vita vuol dire superare le gabbie del relativismo».

Non crede che nelle situazioni estreme la carità possa aiutare?

«Lo credo. Se ti appoggi ai valori, i valori si piegano. C’è una zona nella quale non bastano. Cito Violante perché è l’esempio di una persona che sta cercando, con la forza intellettuale che lo contraddistingue, il terreno comune “della nostra vulnerabile umanità”».

Ha seguito il caso di Indi Gregory?

«In queste faccende bisogna essere precisi. Indi sarebbe morta in breve tempo. In Inghilterra la sua vicenda non era una notizia, lo era il fatto che gli Italiani si agitavano per lei».

Com’è possibile che il Paese di Cicely Saunders sia così spietato con i malati inguaribili?

«È un sistema agghiacciante: se un paziente non può guarire deve morire perché è un costo. Tuttavia, pur non essendo un medico, non credo che al Bambin Gesù sarebbe sopravvissuta a lungo».

Avrebbe avuto un tempo di vita maggiore.

«Stiamo parlando di una faccenda potentemente umana. Sfruttarla politicamente non mi è piaciuto».

Fortunatamente qualcuno ne ha parlato.

«Sarebbe stato giusto dare il tempo a quella bambina e ai suoi genitori, inevitabilmente scioccati, di entrare nell’idea della morte della propria figlia. Farsi carico del dolore di tutta la famiglia è una cura palliativa».

Una comunità di giudici, medici, psicologi e funzionari che decide quando un malato deve morire togliendogli i sostegni vitali fa pensare a una distopia.

«Non voglio negare questa deriva. Ma lo dico in modo provocatorio, non me ne frega un cavolo di fermarla. Il mio interesse è incontrare le persone sul terreno della comune vulnerabile umanità. Quando faceva i colloqui per le assunzioni, Cicely tagliava chi aveva le risposte pronte della fede entusiasta o dell’ateismo entusiasta. “Ho bisogno di gente che si faccia delle domande”, diceva. Quindi la soluzione è l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente nella quale si decide insieme».

C’è una medicina come servizio all’uomo e ai deboli e una medicina come pretesa di controllo?

«Se rispettano la loro natura, scienza e fede, ognuna seguendo il proprio percorso, non possono non andare all’interiorità della persona, del malato. Davanti alla soglia finale non si può barare. È questo che può rompere il meccanismo della rimozione. I granellini della condivisione di cui parlavo prima fermeranno la deriva».

Intanto, la comunicazione è orientata verso prospettive eutanasiche.

«La comunicazione non è tutto il mondo, ma una piccola parte».

Determinante, però: nemmeno Londra ha ricordato il centenario di Cicely Saunders.

«Quando entravo in libreria, su questi temi trovavo solo un certo tipo di proposte. Al massimo, qualche pippone religioso che non risponde alla reale drammaticità delle situazioni. Così, mi sono messo a cercare un’altra storia».

 

La Verità, 6 gennaio 2023

«Le battaglie della sinistra spopolano il pianeta»

Buongiorno Carlo Freccero, l’avvento di Giorgia Meloni è oggettivamente un fatto spiazzante per la politica italiana. Come lo definirebbe, con una formula?

«Contrariamente all’entusiasmo generale io ancora non mi fido del cambiamento annunciato».

Perché?

«Ho talmente somatizzato il fatto che il potere abbia imparato a interpretare sia il ruolo istituzionale che quello dell’opposizione che mi servono prove di discontinuità maggiori rispetto al recente passato».

Cosa la fa essere così scettico?

«Come il governo gialloverde, non vorrei che anche questo fosse un ribaltone ribaltato».

In che senso?

«Nel senso che Meloni sembra Draghi con la parrucca bionda di Maurizio Crozza».

Anche per lei è una draghetta in continuità con Super Mario?

«Non dico assolutamente che sia in malafede, ma è stata scelta dal potere con gli stessi criteri con cui nel 2018 aveva scelto i 5 stelle. Ora Meloni ha due possibilità: obbedire o, a differenza dei grillini, usare a suo favore le regole del sistema».

Cosa intende per potere?

«Il deep State dell’America e dell’Europa».

È la tesi dei complottisti.

«Io studio e leggo i documenti. Se siete ignoranti, affari vostri».

Eccolo qua, Carlo Freccero: studiare lo fa sentire giovane e attivo. Perciò, sempre con la sua indole vulcanica, frequenta anche temi distanti dalla zona di conforto di grande autore televisivo come la pandemia, la finanza e la politica internazionale.

La sua sensazione sul nuovo governo ora qual è?

«Meloni è stata molto efficace nel discorso della fiducia alla Camera perché è riuscita a essere motivazionale in un momento di forte depressione. Ma questo non basta per marcare la discontinuità».

Sospetta che sia collusa con il potere?

«Sto a guardare. È come la Audrey Hepburn di My Fair Lady che da povera ragazza di borgata arriva al gran ballo dell’Aspen, il salotto buono e meno volgare del potere. Ormai oggi è impossibile fare politica da underdog o da outsider, fuori da certe scuole o da certe istituzioni che formano i leader come, per esempio, quelle frequentate da Roberto Speranza e Matteo Renzi».

Perché Meloni ha vinto?

«Perché era l’unica a non aver partecipato al governo Draghi. Ma non mi sembra una ribelle del sistema, non a caso va spesso in America ed è la leader dei conservatori al Parlamento europeo».

Perché ha vinto?

«Ha ereditato da Matteo Salvini l’elettorato imprenditoriale del Nord, costituito da piccole e medie imprese e degli operai che ci lavorano, difendendoli dalle élite economiche che promuovono gli interessi delle multinazionali e che, a loro volta, rappresentano la fine della piccola imprenditoria. La detassazione alle aziende che assumono è la difesa del sovranismo produttivo e l’espressione di una politica che crede ottimisticamente nel libero mercato».

Giorgia Meloni riuscirà a guidare il governo senza mettersi contro le élite e i poteri forti?

«La sua unica possibilità è ritagliarsi spazi all’interno delle regole che ci sono imposte».

A una settimana dall’insediamento è già alle prese con parecchi problemi, il primo dei quali sembra la gestione del tetto ai contanti. È un tema che era in agenda o le esploso in mano?

«È un provvedimento che dopo due anni e mezzo di austerità vuole favorire la circolazione del denaro. Con la pandemia si è affermata una forma di controllo che ha usato come dispositivo la moneta digitale. È il capitalismo della sorveglianza. Innalzare il tetto a 5.000 euro vuol dire rompere in minima parte questo controllo e questa sorveglianza. La Germania e l’Olanda, i cosiddetti Paesi virtuosi, non hanno il tetto al contante: come può l’Ue chiedere all’Italia di mantenerlo ai livelli più bassi?».

Alzare il tetto, si dice, favorisce l’evasione, nessun povero gira con 5.000 euro in tasca: perché è così centrale questo provvedimento?

«Alberto Bagnai sostiene che quando parliamo di contanti non c’entra solo l’evasione, ma l’affermazione di un principio di libertà. In caso di disobbedienza, al cittadino potrebbe essere impedito l’accesso ai suoi stessi soldi per la vita quotidiana, come accaduto ai camionisti canadesi, ai quali, per sedare la loro protesta il governo ha bloccato i conti bancari».

E come si combatte l’evasione?

«È vero che c’è la piccola evasione dei ristoranti o dell’idraulico che viene a fare la riparazione in casa. Ma dobbiamo perseguire innanzitutto questo nero che spesso è uno strumento di sopravvivenza dei piccoli commercianti, oppure le grandi evasioni della Pfizer, ora sotto indagine per 1,2 miliardi di euro, e di tutte le altre multinazionali dell’hi tech?».

Non era meglio partire dal caro bollette?

«Assolutamente sì. È il tema principale che fa venire a galla la povertà diffusa del nostro Paese. Non ho ricette, spero che le abbia il governo».

Un forte elemento di discontinuità rispetto ai precedenti è che Roberto Speranza non è più ministro della Salute.

«In Speranza c’è qualcosa di geneticamente modificato che lo induce a reiterare il suo mandato: mantenere in vita la pandemia anche e nonostante la morte della pandemia».

Addirittura?

«In un Parlamento finalmente liberato dalla mascherina, Speranza mascherato spicca come un monito, un memento mori, tipico dell’iconografia seicentesca che ci ricorda la fragilità umana: la minaccia c’è ancora e non possiamo cedere all’euforia del presente».

Anche Mattarella lo ribadisce.

«Lo smantellamento delle restrizioni è in atto da tempo in tutto il mondo. Ma temo sia uno smantellamento temporaneo, come dice Matteo Bassetti: “Questa pandemia è finita, ma pandemie future sono già in agenda, come ci illustra Bill Gates”. Discontinuità significherebbe uscire da una gestione della pandemia in chiave igienico-sanitaria in cui passano i provvedimenti repressivi della politica e dello stato di eccezione».

L’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia è davvero indispensabile?

«Il presidente della Repubblica ha già manifestato la sua contrarietà. Per conto mio, commissione d’inchiesta non significa nulla. In primo luogo perché può riguardare il penale per le responsabilità sanitarie, ma anche il civile per i conflitti d’interesse. Inoltre può criticare la gestione sanitaria con le sue violazioni dei diritti umani o, al contrario, sancire che tali violazioni sono state troppo poche. In questa direzione andava l’inchiesta sui fatti di Bergamo. Troppo spesso la commissione d’inchiesta è una parola magica per colmare l’insoddisfazione popolare».

Un’altra discontinuità radicale si registra sulla problematica gender. Anche su questo terreno dobbiamo aspettarci un inasprimento del dibattito politico?

«Personalmente, ho sempre odiato diktat e divieti. Il mio mentore è stato Michel Foucault il quale, studiando la morale vittoriana, denunciava l’interdetto che colpiva l’omosessualità. Ho sempre difeso la diversità in ogni sua forma, non a caso sono stato stigmatizzato per aver mandato in onda la serie tv Chimica e fisica in cui erano rappresentate scene di omosessualità. Tuttavia, viviamo oggi immersi nell’ideologia radical che trasforma il gender in un’imposizione e colpevolizza l’eterosessualità. Alla luce di questa premessa, ritengo che la Meloni sia stata pacata e si sia ancorata a una visione tradizionale e conservatrice».

È bastato aggiungere la natalità tra le competenze del nuovo ministro della Famiglia perché si scatenasse un putiferio. Perché la sinistra non si preoccupa del fatto che siamo il Paese con la più grave crisi demografica al mondo?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma pongo io una domanda. Quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender: tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un minimo comune denominatore distopico».

Qual è?

«Il depopolamento del pianeta».

Altra parola scandalo è merito, la tutela del quale un tempo era fiore all’occhiello della sinistra perché via privilegiata per superare la supremazia delle classi agiate. Invece oggi?

«Il merito non è un valore né di destra né di sinistra, ma del neoliberismo che a vario titolo destra e sinistra condividono. Cosa significa? Che le differenze economiche non sono scandalose perché giustificate dal merito. Il Sessantotto ha avuto tra i suoi testi di riferimento la Lettera a una professoressa di don Milani. Per questo trovo infelice che Meloni abbia aggiunto la voce merito vicino a Pubblica istruzione. La scuola deve esserci proprio per i più deboli».

L’articolo 34 della Costituzione prevede la tutela «dei capaci e meritevoli privi di mezzi» affinché possano raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

«Concordo, ma non voglio creare esclusi».

L’unico elemento di continuità con i precedenti governi è l’appartenenza europeista e atlantista: intoccabile?

«È un limite e insieme una chance. Siamo alla vigilia delle elezioni di midterm in America. La guerra la vuole Joe Biden che in Ucraina ha un forte conflitto d’interessi, come dimostrano le attività di suo figlio Hunter. Se i repubblicani ottenessero la maggioranza al Congresso si capovolgerebbe la politica americana in chiave patriottica e non più globalista. E anche Meloni, secondo me, potrebbe seguire questo ribaltamento».

 

La Verità, 1 novembre 2022

«Il Pd è una setta, pensa già al suo congresso»

Indisciplinato, ingenuo, inquieto. Si descrive così Tommaso Cerno, senatore uscente del Pd. Friulano, giornalista, già direttore dell’Espresso, presidenzialista convinto, è l’unico gay dichiarato in Parlamento. Ma al momento del voto di fiducia sul ddl Zan si è astenuto.

Come mai il suo nome non è comparso nella bagarre delle candidature?

«Tre mesi fa avevo chiesto a Enrico Letta di non considerarmi perché sapevo che non l’avrebbero fatto».

Motivo?

«Pago il mio quattro in condotta. Ciò che io chiamo libertà di pensiero per loro è incapacità di stare in comunità. Avrei potuto crederci se non avessero candidato Luigi Di Maio».

Con lui si sono smentiti?

«Era uno che diceva “mai con il partito di Bibbiano”.  Eliminata la condotta, potevano bocciarmi in filosofia, dove però ne so più di loro».

Come definirebbe il suo rapporto con il Pd ?

«Quello di un uomo ingenuo che credeva di essere saggio».

Spieghi.

«Pensavo di entrare in un luogo dove parlare della sinistra fosse la cosa più importante. Invece ho scoperto che si può parlare solo come vogliono loro. È così nelle sette».

Per lei è stata una prigione mentale?

«Più un deserto mentale. Mi sono sentito abbandonato mentre la carovana prendeva la sua direzione. Mesi senza ricevere una telefonata. Il senso di esclusione è ciò che mi ha fatto più male».

Pietra sopra definitiva?

«Certo. Ma continuerò a parlare più di prima della mia idea di sinistra con la scrittura e la voce di cittadino e giornalista».

Come giudica la composizione delle liste?

«È lo specchio dell’identità politica di Enrico Letta e della sua segreteria».

Ovvero?

«Ricordavo che il Pd era fatto di primarie, di gazebo, di dibattiti di piazza. Poi è arrivato Nicola Zingaretti che almeno si è portato dietro un congresso. Ora c’è il primo segretario eletto con un applauso, come al televoto. La selezione di queste elezioni si è svolta sul suo telefonino».

Letta ha ceduto alla voglia di vendetta contro i renziani?

«La cosa incredibile è che non se n’è reso conto. Letta è fuggito in Francia ed è tornato come se un congresso del Pd si fosse aperto nel 2014 e il suo compito fosse quello di chiuderlo. Peccato perché ha avuto l’occasione di rifondare la più grande e variegata sinistra che i cocci della Seconda Repubblica gli avevano messo davanti».

La vendetta è l’esclusione di Luca Lotti?

«Lotti è il diversivo. Serviva un nome forte da far sembrare il capro espiatorio. La realtà è che l’accordo con Carlo Calenda è saltato per il timore di avere uno sfidante moderato alle primarie che seguiranno il voto».

Al prossimo congresso?

«Certo. È lo stesso motivo per cui è saltato Giuseppe Conte. La prospettiva è interna al Pd perché sanno già che le elezioni sono perse. Ma questo è un tradimento delle famiglie italiane. Se togli Lotti, devi spiegarmi perché candidi Elly Schlein».

Perché?

«Per depotenziare Stefano Bonaccini, sempre in vista del congresso. L’altra donna che poteva guidare il Pd è Debora Serracchiani. Letta ha escluso Lotti e ha trasformato nel suo alter ego l’ex vicesegretaria di Matteo Renzi. Sono logiche politiche democristiane che ammiro, ma che umanamente non condivido».

Anche Monica Cirinnà è stata punita con un collegio a rischio.

«Più che Monica Cirinnà è stato punito il suo cane e mi spiace perché le bestie non hanno colpa. Le racconto un aneddoto».

Prego.

«Io sono l’unico gay dichiarato in Senato. Bene: non ho mai ricevuto una telefonata per chiedermi cosa pensassi del ddl Zan. Da finocchio in Parlamento…».

Già questo termine è un’autoesclusione.

«Lo uso perché non ho bisogno di nascondermi dietro alle parole per essere orgogliosamente me stesso».

Non si sarà astenuto sulla fiducia per ripicca?

«Il ddl Zan contiene l’85% di cose necessarie al Paese, a cominciare dalla parte contro l’odio. In Italia la legge Mancino tutela le minoranze, cita i mafiosi e le persone di colore, ma non i gay. È quasi un’istigazione di Stato a delinquere».

Insomma. Il restante 15%?

«Il 10% sono idee di sinistra culturalmente discutibili, che la destra non voleva. Infine, c’è un 5% di errore madornale sulla libertà di parola che un giornalista non avrebbe mai potuto approvare».

Infatti lei non l’ha fatto.

«Il Pd e Letta sapevano benissimo che con una piccola modifica sarebbe passato. Invece decisero che Zan era Mosè e che la legge che il Dio dei gay gli aveva consegnato era immodificabile. Il vero motivo era avere un’idea da spendere in campagna elettorale. Di fronte a questo gioco, ho provato a dire “ma” e sono subito diventato un conservatore di destra. Questi comportamenti sono delle sette, non dei partiti».

Cosa vuol dire candidare sia Andrea Crisanti che Roberto Speranza?

«Certificare due errori. Il primo è ammettere che sul Covid si è fatta una politica casuale. Se candidi il responsabile delle politiche del governo e l’uomo che lo ha più criticato vuoi la moglie ubriaca e la botte piena».

Oppure applichi il «ma anche» veltroniano?

«Io vedo il tentativo d’infondere nel corpo elettorale la sensazione di essere in pericolo, mentre pensavo che si volesse rassicurarlo».

Il secondo errore?

«Presentarsi guardando indietro, dicendo che il Covid può ancora cambiare la nostra vita».

Rimettere la pandemia al centro, vedi il «Destra no vax» di Repubblica, giova alla sinistra?

«Visto dal Nordest il titolo di Repubblica è un falso. In Friuli con Massimiliano Fedriga e in Veneto con Luca Zaia le zone gialle sono arrivate prima che altrove. La Lega di governo è stata più speranzosa di Speranza».

Come giudica la gestione della pandemia di Speranza?

«Per sistemare i guai di Speranza il prossimo governo avrà bisogno del ministro Carità. Speranza non ha capito che il diritto alla salute s’inserisce nel diritto alla vita. Non possono servire tre anni per trovare equilibrio tra salute ed economia. L’esasperazione del contrasto al virus me l’aspetto da un medico non da un politico».

Una volta il Pd candidava i magistrati oggi i virologi.

«Candidare Crisanti contro l’emergenza salute non è molto diverso da candidare Cicciolina per affermare l’autogestione del corpo. Anziché tracciare la sua strada, la politica ricorre agli specialisti. È l’ammizzione di un’inadeguatezza. Per risolvere la quadruplicazione della bolletta elettrica bisognerebbe candidare Elon Musk».

Perché firmò con Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, un ddl che introduceva il presidenzialismo?

«Perché la sinistra aveva perso le elezioni e si poteva davvero pensare di favorire un processo che permettesse ai cittadini di scegliere “tra noi e loro”, come dice ora Letta. I cittadini devono poter scegliere su tutto, non solo su un pezzetto. È quello che voleva fare Berlusconi quando mise il nome sul simbolo. Oggi se vince Salvini governa Conte, se Salvini si dimette governa ancora Conte, se cade Conte spunta Draghi».

Pur di attaccare Berlusconi, che forse è stato improvvido, il Pd nasconde quel progetto di legge?

«Berlusconi ha detto quello che ha sempre detto. Se un Paese sceglie il presidenzialismo l’eletto col sistema precedente decade. Se la riforma istituzionale diventa una trovata elettorale avremo sempre una legge fatta per sconfiggere qualcuno. Salvo poi essere smentiti come avvenne con il Rosatellum che doveva fermare i 5 stelle, che invece stravinsero. Democrazia è far decidere ai cittadini da chi vogliono essere governati».

Che cosa pensa degli accordi e disaccordi nel centrosinistra?

«Letta poteva andare da solo e provare a essere davvero il primo partito italiano. Avrebbe potuto dire ai cespugli: voi fate quello che volete, io faccio “la grande alleanza delle due P”, palazzo e piazza, con quello che resta del popolo viola, dei girotondi, del Vaffa di Grillo. Oppure poteva fare il contrario: mettere dentro tutti, da Conte a Calenda. Entrambe le strade avevano pro e contro. Il peggio è la via di mezzo, qualcuno sì e qualcuno no, perché il messaggio è confuso».

La comunicazione è efficace?

«Siamo passati da smacchiare il giaguaro ad avere gli occhi della tigre. Il fatto è che sono entrambi animali in via d’estinzione».

L’agenda Draghi è scomparsa?

«Non è mai esistita. Era la sintesi minima di un governo di emergenza nazionale nato per spendere dei soldi, quelli del Pnrr. In questo Draghi è bravo. Quando l’emergenza è diventata mondiale e i soldi bisognava trovarli, il governo è caduto».

I diritti civili, lo ius scholae, la dote per i diciottenni finanziata dalla patrimoniale sono idee vincenti?

«Sono temi su cui la sinistra dibatte da anni. Lo ius scholae è il minimo sindacale. Il ddl Zan andava bene vent’anni fa. Oggi ci sono necessità più avanzate del matrimonio egualitario. Sembrano gli esami di riparazione di una sinistra superata».

La sinistra avanzata non sarà quella del politically correct?

«La sinistra è morta allontanandosi dai poveri e dalle parolacce. Negli anni Settanta era la destra a indossare la cravatta e il doppiopetto. La sinistra era per la libertà d’espressione e chiamava la realtà col linguaggio del popolo. È la sinistra che ha sporcato i giornali, le vignette, il linguaggio… Pensare di parlare con stecca e squadra mi fa venire i brividi».

Francesco Piccolo su Repubblica ha scritto che il Pd è vittima del fuoco amico: perché secondo lei?

«Non esiste il fuoco amico, esiste la franchezza amica. Io non so se la destra stia decidendo le candidature col bastone o cantando. Credo che la sinistra abbia bisogno di qualcuno che le dice come stanno le cose. La capacità di autocritica è sempre stato un grande patrimonio della sinistra».

Chi crede davvero alle ingerenze di Medvedev sul voto italiano?

«Solo chi non capisce che la vera ingerenza arriva per posta e si chiama bolletta. Il resto sono tweet ininfluenti».

Come andrà a finire?

«Penso che gli italiani non abbiano ancora scelto. Che Giorgia Meloni sia l’unica realtà nuova è un fatto oggettivo. Tutti gli altri, da Berlusconi a Letta, da Salvini a Conte e perfino a Calenda, li abbiamo già visti governare. Gli italiani devono decidere se provarla o no, senza troppi fantasmi».

La sinistra come digerirebbe la Meloni prima donna premier?

«Con invidia. Ci riuscirebbe la destra senza quote multicolore».

Lei tornerà al giornalismo?

«Essere un libero pensatore in Parlamento non è gratificante. Ma i giornali e i libri sono anch’essi dei parlamenti dove continuerò a esprimermi con l’abituale franchezza. Sperando che i miei amici la prendano come un contributo costruttivo».

 

La Verità, 20 agosto 2022

 

 

 

 

 

 

 

«Il tentativo di purgare la storia è insensato»

Massimo Luigi Salvadori è nato a Ivrea nel 1936. Quando suo padre, impiegato all’Olivetti, morì che lui aveva cinque anni, dato che la madre non era in grado di provvedere a lui e suo fratello, «la ditta», come Salvadori la chiama in un suo libro autobiografico, li fece entrare in un convitto. Con la guerra di mezzo, ha vissuto quella che si dice un’infanzia difficile. Lo fu anche l’adolescenza. Contro il volere della madre che avrebbe preferito Legge, si laureò in Lettere e filosofia. È stato membro del Pci, dal quale uscì nel 1956. Docente di Storia delle dottrine politiche, deputato del Pds dal 1992 al 1994, è nel Comitato scientifico della Fondazione Einaudi. Ha appena pubblicato In difesa della storia. Contro manipolatori e iconoclasti (Donzelli).

Professore, perché ha sentito la necessità di scrivere un libro in difesa della storia? Da chi e da cosa è minacciata?

«L’impulso a scrivere mi è venuto dal desiderio di contrastare la tendenza nella scuola secondaria, non solo quella italiana, a considerare lo studio della storia in maniera troppo marginale. Al contrario, per me, storico, è fondamentale per la comprensione del mondo in cui viviamo e per una formazione critica e aperta all’analisi della molteplicità delle esperienze di vita che ci vengono trasmesse dal passato. Una trasmissione che non sia improntata ad approcci pregiudizialmente unilaterali e a propositi propagandistici».

Negli attuali piani di studio scolastici la storia è sottodimensionata? A cosa si deve questa tendenza?

«Ritengo di sì: occorrerebbe darle uno spazio maggiore. Questa convinzione non proviene dall’avere personalmente fin da ragazzo amato lo studio della storia e poi dedicato la mia intera esistenza professionale al suo insegnamento, bensì dal fatto che esso è alla base della formazione del cittadino, la quale inizia sui banchi di scuola. È nel passato che sono state formulate le categorie di dispotismo, tirannide, oligarchia, democrazia, demagogia, populismo, monarchia, repubblica, interesse privato e interesse pubblico, liberalismo, comunismo, socialismo, liberismo e statalismo, società aperta e società chiusa…».

C’è un modernismo che tende a relativizzare il passato da cui provengono le comunità e i loro principi e di cui siamo la prosecuzione?

«Le categorie che costituiscono l’alfabeto della politica ancora oggi hanno la loro genesi nella storia e le loro radici nella cultura dell’antichità e nei suoi successivi sviluppi. I Platone, gli Aristotele, i Machiavelli, gli Hobbes, i Locke, i Montesquieu, i Rousseau, i Voltaire, i Marx, i Weber… sono a pieno titolo, in quanto grandi classici, dei nostri contemporanei. Studiarli non significa cedere al piacere dell’erudizione, ma meglio dotare giovani e adulti degli strumenti per comprendere e affrontare i dilemmi che ci stanno di fronte nel presente».

Oggi, sotto la spinta della tecnica, prevale una tendenza a privilegiare discipline scientifiche?

«Sarebbe insensato mettere in competizione lo studio della storia con l’importanza delle discipline scientifiche e tecniche. L’utilizzazione delle scienze e delle tecniche non è neutra, come mostra in maniera esemplare il Novecento. Esse sono nelle mani di noi uomini, che possiamo servicene per i fini più nobili e per quelli più ignobili, a seconda di quel che dettano le menti, in conseguenza della nostra coscienza morale e delle nostre tendenze in campo politico e sociale».

Che cosa pensa quando sente usare l’espressione «governo dei migliori» molto in auge in questi mesi a proposito del nostro paese?

«Da Platone in poi tutti sostengono che il “governo dei migliori” è quello che piace a loro. È un’espressione tanto bella quanto suscettibile di essere riempita con i più opposti contenuti. A ciascuno la responsabilità delle proprie scelte».

I regimi totalitari puntavano a una rivoluzione antropologica. Anche la globalizzazione, sotto la spinta della new technology e del politicamente corretto, punta a creare un nuovo umanesimo. Lo studio della storia può risultare in qualche modo un ostacolo a questo processo?

«L’ambizione di creare uomini nuovi è stata ricorrente nella storia: è stato il fine del cristianesimo, dell’islamismo, dell’umanesimo rinascimentale, dell’illuminismo, del liberalismo, del socialismo, dei regimi fascisti, di quelli comunisti, dei molteplici fondamentalismi religiosi. Gli esiti sono stati e sono alcuni positivi e innovativi, altri catastrofici. Non credo che la globalizzazione economica possa essere il veicolo di un nuovo umanesimo. Là dove produce avanzamento sociale e civile di popolazioni in passato condannate alla miseria e all’emarginazione può essere un fattore da salutare; là dove causa abissali diseguaglianze, marcia in senso inverso. Quanto al politicamente corretto, anche ammantato di velleità progressiste, mi fa venire l’orticaria».

Cosa pensare delle manipolazioni della storia e delle omissioni dei capitoli più scomodi, per esempio in Italia il consenso di cui godette il fascismo tra gli intellettuali, le rappresaglie dei partigiani?

«Nel mio saggio ho dedicato molte pagine alle manipolazioni e alle omissioni dei capitoli scomodi della storia italiana, che hanno riguardato, in misura maggiore o minore tutte le parti in lotta. Furono numerosi gli intellettuali che diedero il loro consenso convinto al fascismo, e numerosi occorre non dimenticarlo, furono coloro che si piegarono alla coercizione operata nei confronti degli oppositori, dei tiepidi, dei “nicodemiti”; gli eroi furono pochi perché, come ci ha insegnato Don Abbondio, di fronte al potere prevale la cura del proprio particulare. Ci furono anche le rappresaglie dei partigiani – le guerre civili sono quel che sono – ma furono certo minori rispetto a quelle messe in atto dai seguaci repubblichini dell’ultimo Mussolini. Anche a questo proposito la buona storia non deve tacere nulla e dare a ciascuno quel che gli spetta».

Come giudica i movimenti della cancel culture? Perché sono nati e si sono espansi nei Paesi anglosassoni e nelle loro università?

«Per uno studioso solo l’idea che si voglia cancellare la storia suona come un’insensatezza. La storia, una volta che ha scritto le sue pagine, non richiede altro che di essere compresa. È immodificabile e non resta che indagare i dove, i quando, i come e i perché. Possiamo dispiacerci che certe pagine siano andate in un modo anziché in un altro, ma questo non cambia nulla del corso delle cose come ci è stato consegnato dal passato. Le approvazioni o le condanne pronunciate nel presente dipendono dal tipo di valori e di principi propri di ciascun individuo o delle molteplici collettività e manifestano i loro progetti di vita; ma non possono cancellare proprio niente. Il motivo per cui i movimenti della cancel culture hanno trovato un terreno particolarmente fertile negli Stati Uniti e in Gran Bretagna mi pare riconducibile al fatto che in questi paesi sono particolarmente forti le radici di un puritanesimo di matrice religiosa, trasferitosi in campo ideologico e politico e sfociato nella pretesa prima di giudicare il passato e poi di oscurarne i capitoli ritenuti indegni. Questi movimenti si sentono investiti di una missione progressista, ma in realtà marciano in direzione contraria».

Se si applicassero i criteri dei nuovi giudici che contestano Aristotele, Shakespeare, Hume, Voltaire, Rousseau e via dicendo, e abbattono le statue di Cristoforo Colombo i secoli passati si trasformerebbero in cimiteri culturali?

«La pretesa di cancellare la storia che non ci piace è antica quanto il mondo. Si pensi ai gruppi di cristiani che nell’antichità si armarono di scalpelli e si diedero a cancellare dai monumenti della civiltà egizia i segni che consideravano blasfemi, ai roghi di libri delle tante inquisizioni che si sono susseguite nel tempo, per arrivare a ciò che fecero i regimi totalitari per affermare la buona contro la cattiva storia, fino alla barbarie distruttiva ad opera di talebani e seguaci dell’Isis di monumenti di incommensurabile valore. Si potrebbe continuare».

Si può dire che questa volontà di raddrizzare la storia contenga una buona intenzione purificatrice?

«I movimenti della cancel culture sono espressioni di una sorta di innocenza, ma nel loro Dna c’è il marchio palese di una pericolosa distorsione intellettuale. La loro pretesa di purificare la storia ricorrendo al bisturi è inquietante. Se vogliamo che il presente eviti ciò che la nostra coscienza giudica brutto del passato, dobbiamo agire di conseguenza. Ripeto: nei confronti della storia il nostro compito è comprendere le ragioni del suo essere stata ciò che è stata, in relazione allo sviluppo delle civiltà e delle persone che hanno agito sotto il peso dei relativi condizionamenti».

Perché qualche anno fa uno storico come lei ha scritto un libro autobiografico intitolato Cinque minuti prima delle nove (Claudiana)?

«Ne stesi il testo poco dopo la morte nel 1972 di mia madre, con la quale avevo avuto rapporti difficili. Avvertii il bisogno di sottopormi ad una sorta di riflessione psicoanalitica. Esitai molto prima di decidermi a pubblicarla. Mi convinse a farlo, parecchi anni dopo averla stesa, la scrittrice Marina Jarre, mia maestra e amica, la quale mi disse: “Massimo, ormai sei vecchio e puoi permetterti quel che vuoi”. Così mi decisi».

Che cosa le dà speranza oggi?

«La speranza, come si dice, è l’ultima dea. Ho ottantacinque anni e sono perciò prossimo alla fine della mia parabola. La speranza appartiene ai più giovani che hanno davanti il futuro. Ciò che prevale in me è l’inquietudine. Come non essere inquieti osservando un mondo in cui, tra i tanti pericoli che lo insidiano, grandeggia la minaccia di soccombere pagando il prezzo di avere compiuto le peggiori violenze nei confronti di madre natura?».

 

La Verità, 27 novembre 2021

«Perché la svolta di Draghi risparmia Speranza»

«Per fare i conti sulla pandemia ci vuole un processo, il processo di Norimberga». Qualche giorno fa, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica su Rete 4, Stefano Zecchi ha scatenato un vespaio. Filosofo, scrittore, editorialista del Giornale, docente di filosofia teoretica a Padova e poi di estetica a Milano, con parentesi d’insegnamento in vari atenei esteri tra i quali l’università Tagore di Calcutta, Zecchi è anche consigliere comunale a Venezia, eletto nella lista indipendentista del Partito dei veneti.

Professore, è pentito di aver usato un’espressione così forte?

«Non sono pentito. Leonardo Sciascia diceva che i comunisti prendono una parola e la usano come un cappio per impiccarti. Ma io sfuggo a questo cappio perché credo che chi ha commesso gravi errori di natura amministrativa, se non ha la dignità di assumersene la responsabilità deve trovare qualcuno che gliele assegna».

Quali sono queste responsabilità per giustificare il ricorso a una Norimberga sulla pandemia?

«Che in Italia la diffusione del Covid sia stata gestita in modo criminale è fuor di dubbio. Mi riferisco in particolare al governo giallorosso, durante il quale c’erano ministri che, dall’alto delle loro competenze, dicevano che la mascherina non serviva. Poi asserivano che il Covid è poco più che un’influenza, che non c’erano timori di contagi. Qualche settimana dopo ci siamo messi le mani nei capelli vedendo i camion dell’esercito pieni di bare a Bergamo. Adesso ci sgraviamo la coscienza con il giorno del ricordo delle vittime, ma la coscienza ce la mettiamo a posto con un esame vero delle responsabilità dell’accaduto».

Quali responsabilità amministrative sono da imputare al Conte bis?

«Ci siamo dimenticati della secretazione dei verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico? Su tutto c’era un’overdose di comunicazione, ma su quelle riunioni vigeva il segreto. E la mancata proclamazione della zona rossa della Val Seriana? Ora si è avuta anche conferma della gestione opaca, per usare un eufemismo, del piano antipandemico. Che era fermo al 2006. Adesso le vaccinazioni vanno a rilento, in particolare per gli ultra ottantenni. Il ministro della Salute Roberto Speranza è responsabile di tutto questo».

Qualcuno ha declinato la sua idea nella forma di una Norimberga politica.

«La mia espressione forte consegue a quella altrettanto forte di coloro che hanno paragonato la pandemia a una guerra. Nelle guerre ci sono soldati e generali capaci e incapaci, ci sono pusillanimi ed eroi. Conoscere le responsabilità di ciò che è stato fatto è un diritto dei cittadini. Un processo può anche assolvere gli imputati, a Norimberga ci sono state condanne graduali. Credo che chi ha visto morire in modo ignominioso i propri cari a causa di decisioni amministrative sbagliate debba poter sapere la verità».

Condivide la mozione di sfiducia al ministro Speranza annunciata da Fratelli d’Italia?

«Sì, la condivido. Anche se probabilmente non andrà in porto».

Il cambio di passo avviato da Mario Draghi con la sostituzione di Domenico Arcuri, la correzione del Cts e l’accelerazione sui vaccini si arresta davanti a Speranza?

«Non vorrei essere dissacrante: Draghi è un grande allenatore che gode di stima e attenzione internazionale. In squadra ha fuoriclasse come Giancarlo Giorgetti, ma con brocchi come Speranza difficilmente riuscirà a vincere o anche a pareggiare».

Avrà la forza di mandarlo in panchina?

«Questo governo vive su un equilibrio dettato dalla sinistra. Destituire Speranza significherebbe toccare un santuario delicato. A meno di suoi clamorosi errori dubito che il premier lo cambierà. Sarebbe un’umiliazione troppo forte, doveva pensarci per tempo. Credo che alla fine Draghi lo circonderà con le competenze di altri e lo depotenzierà».

La soluzione per accertare le responsabilità potrebbe essere una commissione parlamentare d’inchiesta?

«Non nutro molta fiducia nelle commissioni parlamentari, non ne ho mai vista una che arrivasse vicina alla verità. La soluzione sarebbe un passo indietro di coloro che riconoscessero le proprie responsabilità. Probabilmente è una pia illusione».

Per la sinistra la pandemia è un’occasione per un ricalcolo del sistema?

«Nel famoso libro di Speranza ho trovato riflessioni di politica economica nelle quali il Covid è visto come un’opportunità per instaurare una nuova egemonia della sinistra».

Cosa pensa del fatto che Nicola Zingaretti ha descritto gli esercenti della ristorazione e gli operatori di palestre e piscine come persone che «fanno i lavoretti»?

«In questa parola c’è tutto il senso della crisi della cosiddetta sinistra che ha completamente dimenticato la realtà del mondo del lavoro».

Complessivamente, come vede l’Italia di oggi? Mi regali un’immagine da filosofo, amante della bellezza.

«Vedo un’Italia che oscilla tra il disorientamento e il terrore. Forse l’immagine giusta è un’Italia allarmata, molto allarmata».

Il motivo principale?

«Oltre alle cose che abbiamo detto, un’altra causa d’insicurezza è dovuta all’informazione contraddittoria che tutti i giorni troviamo sui media. Mentre in altri paesi, gli Stati uniti per esempio, la comunicazione sul Covid è delegata a una sola persona competente, noi ascoltiamo tutte le sere in tv una ridda di opinioni di virologi ed epidemiologi che non hanno esperienza di comunicazione. Si parla della pandemia come fosse il derby di Milano, senza la consapevolezza che ogni parola può influenzare scelte e stati d’animo dei cittadini».

Ha mai avuto la tentazione di andare a vivere altrove?

«Sempre. Ho vissuto infanzia e adolescenza nella casa più bella del mondo, con la terrazza che guardava i Mori di San Marco a Venezia. Quando i miei genitori si sono separati, ho seguito mia madre. Poi a 18 anni sono venuto a Milano con una borsa di studio. Da allora sono sempre desideroso di cambiare, di girare…».

Di questi tempi invidia il welfare del Nordeuropa o la razionalità della Germania?

«Invidio gli inglesi. Hanno risolto tutta questa paura con grande razionalità e, dopo le precedenti, i tedeschi finiranno per perdere anche la guerra economica che hanno dichiarato loro sui vaccini. Se invece dovessi decidere a prescindere dal Covid andrei in India, il paese dove ho lasciato un pezzo di cuore quando ho insegnato tre anni a Calcutta».

L’Europa che immagine le suscita?

«È un’entità burocratica fatta per avvantaggiare la finanza e l’establishment internazionale, un sistema che non si preoccupa dei singoli cittadini. Lo si è visto nelle trattative con le grandi case farmaceutiche per i vaccini. Al contrario, la Gran Bretagna ha dimostrato quanto determinante sia il ruolo degli stati nazionali nella vita della popolazione».

Come giudica lo scontro geopolitico sui vaccini?

«Mi sembra che la parola decisiva non sia determinata dall’efficacia sanitaria, ma dal profitto delle Big pharma. Mentre negli Stati uniti Fauci parla per tutti, in Europa non c’è un’autorità riconosciuta. Così la Germania ha scelto Pfizer e osteggia l’anglo-svedese AstraZeneca. Inoltre, non si capisce il divieto a Sputnik. L’Europa ha palesato tutte le sue debolezze, coperte solo da una grande retorica ideologica. Ma se appena ne metti in discussione la funzione passi da reprobo».

Cosa pensa del fatto che, in un’intervista al Corriere della sera, il figlio di Beniamino Andreatta, Filippo, braccio destro di Enrico Letta, ha detto che «oggi essere di sinistra vuol dire essere europeisti»?

«È la solita ideologizzazione dell’Europa che nuoce anche all’Europa. Ed è anche la conferma che il Pd è il partito dell’establishment, per il quale votano la borghesia, i magistrati, i docenti universitari, i giornalisti che vogliono contare di più. Vorrei chiedere ai vertici del Pd cosa vuol dire esattamente oggi essere europeisti».

Che bilancio fa della sua esperienza di consigliere comunale nel Partito dei veneti?

«Volevo dimostrare che ci può essere un altro modo di far vivere Venezia. Questo partitino ha assecondato le mie idee. La prima: Venezia necessita dello statuto speciale che le dia autonomia amministrativa e fiscale di cui si giovano città europee come Berlino, Vienna, Amburgo e Madrid. La seconda: favorire in città il lavoro che comporti le defiscalizzazioni. La terza: ridare forza all’abitabilità di Venezia attraverso un nuovo piano di mobilità».

Riforme impegnative.

«Erano già nella testa di Gianni De Michelis, 35 anni fa. Da allora ha vinto la logica del non si può fare. Così continua a prevalere la lamentazione sullo spopolamento, sulla città invasa dai turisti e in mano alle grandi navi. I soliti piagnistei. Una volta si lamentava che Venezia era diventata una sorta di Disneyland. Ora è Pompei, morta».

Matteo Salvini ha messo in secondo piano il federalismo e l’autonomia?

«Sì, e secondo me sbaglia. Un Paese moderno deve avere, al contempo, una forte struttura statale e una forte struttura federale. L’Italia ha invece deboli istituzioni statali e deboli amministrazioni regionali. Il nostro regionalismo non è un vero federalismo. Per questo il Veneto ha votato al 90% per l’autonomia».

Quando si vaccinerà?

«Mi sono già vaccinato cinque giorni fa con AstraZeneca. Lo destinano a noi anziani perché ne abbiamo più benefici che costi. Finora è andato tutto bene, nessun sintomo. Ho avuto due embolie polmonari, ma il mio medico mi ha rassicurato».

È preoccupato?

«Diciamo che mi fido, gli effetti collaterali sono infinitesimali. L’embolia insorge nei primi 12 giorni dopo la somministrazione, ho ancora una settimana di tempo per morire. La tengo informato» (ride).

Le hanno fissato la data del richiamo?

«No. Una dottoressa carina mi ha promesso: “Le telefonerò”, come fosse una fidanzata. Aspetto».
Per chiudere, secondo lei Draghi ce la farà?
«Non sono particolarmente ottimista. La partita contemporanea dell’emergenza sanitaria ed economica è molto impegnativa. Bisogna razionalizzare le vaccinazioni partendo dalle fasce di età più fragili. E poi riaprire presto tutto quello che si può. Per far ricominciare la vita».

 

La Verità, 17 aprile 2021

 

Sarà la pandemia… Mijena e Chicco hanno un core

Sarà la pandemia. O sarà la sintonia. O, infine, sarà l’età che avanza. O magari tutte e tre le cose insieme. Fatto sta che ieri sera, nella consueta rubrica Dataroom del lunedì che ripropone nel TgLa7 la ricerca realizzata per il Corriere della sera, Milena Gabanelli ha lasciato trapelare qualche tratto personale più del solito. Si parlava della situazione degli anziani – dei vecchi, dicendola schietta – e di come vengono assistiti e accuditi nelle strutture pubbliche e private, nelle Rsa del sistema sanitario, negli istituti profit e non profit e nelle case famiglia. Dati, numeri, profitti e perdite della situazione. Alla fine dell’intervento registrato, Gabanelli ha detto che «la terza età è stata scaricata dal pubblico e il Covid ne ha mostrato l’orrore. Ora il ministro ha istituito una commissione di saggi che si confronteranno sulle idee, poi diventerà una relazione e alla fine magari un libro», ha concluso con chiaro riferimento all’inopportuna pubblicazione licenziata e subito ritirata qualche giorno fa dal ministro Roberto Speranza (Perché guariremo, Feltrinelli).

Nel breve dialogo che è seguito tra Gabanelli ed Enrico Mentana, oltre la denuncia documentata del trattamento degli anziani «come spazzatura», è trapelato, piuttosto inedito, il lato umano dei due giornalisti, rappresentanti di un modo di fare informazione solitamente freddo, distaccato, terzo.

La prima faccenda sconcertante è che non esiste una vera mappatura della situazione degli anziani in Italia. «Non ce l’ha il ministero, non ce l’hanno le regioni, non ce l’hanno i comuni. La situazione è fuori controllo», si è accorata Gabanelli. «La cosa migliore che ci possa capitare è diventare anziani…», ha osservato. «L’alternativa è peggio», ha fulmineamente chiosato Mentana, senza la solita ironia. «Esattamente», ha convenuto l’ex conduttrice di Report. Il ministro si è accorto del problema e ha creato questa commissione piena di menti illuminate guidata da monsignor Vincenzo Paglia per il quale Gabanelli nutre «enorme rispetto». Ma il tutto suona un po’ come «affidate l’anima a Dio. Lo dico da credente», ha confidato. «Mi aspetterei un tavolo tecnico…». Invece.

Sarà la pandemia che «intenerisce il core». Sarà la sintonia su un certo modo di fare informazione. Sarà l’età, che per entrambi si approssima alla soglia della terza (per inciso, è anche la mia). Sta di fatto che, forse, per la prima volta, o almeno in modo abbastanza insolito, abbiamo constatato che anche Milena Gabanelli ed Enrico Mentana hanno un core.

Aiuto! Siamo precipitati nella rivoluzione francese

Con colpevole ritardo, qualche sera fa vedendo in un talk show le facce a tutto schermo di Andrea Crisanti e Massimo Galli, mi si è accesa la lampadina: aiuto! È tornata la Rivoluzione francese. Con i suoi annessi e connessi. Con i suoi organismi repressivi, il controllo sociale e l’apparato linguistico di riferimento. Improvvisamente, la scintilla ha collegato tutti i cavi. I due professori citati sono tra gli oracoli anti-Covid più ascoltati dell’etere e non solo. Ma la suggestione sarebbe stata identica se al loro posto fossero comparsi Walter Ricciardi e Silvio Brusaferro o Ilaria Capua e Fabrizio Pregliasco. Non è un fatto di nomi o di preferenze tra virologi, di cariche ufficiali dei singoli, o di schieramento tra allarmisti e minimalisti. No, è il sentimento percepito dal semplice cittadino e telespettatore, quello che all’epoca era il Terzo stato. Ora comanda il Comitato tecnico scientifico, ma lo potremmo tranquillamente ribattezzare Comitato di salute pubblica. Anzi, l’espressione sarebbe più calzante, più rispondente alla realtà. Che cos’è infatti se non un Comitato di salute pubblica un organismo di scienziati e politici che arriva a controllare i nostri comportamenti fin dentro le sale da pranzo e le camere da letto?

Lentamente, attraverso slittamenti differiti e graduali, scopiazzature e scelte linguistiche siamo finiti dentro una macchina del tempo che ci sta riportando a 230 anni fa. Se la situazione non fosse tragica per le morti che ci stanno devastando, o drammatica per la comicità nella quale ci catapulta il tenero dilettantismo di buona parte della compagine governativa, sembrerebbe di essere precipitati in un videogame, un gioco di società, una distopia storico-politica nella quale orientarsi con apposita segnaletica, bonus e upgrade. Magari compulsando nervosamente la miracolosa piattaforma Rousseau, tanto per rimanere al secolo dei Lumi.

Purtroppo non è così. Durante la Rivoluzione, il Comitato di salute pubblica creato dalla Convenzione nazionale affiancò il Comitato esecutivo provvisorio per ribaltare le sconfitte militari, domare la rivolta vandeana e le altre insurrezioni antirivoluzionarie. Oggi il nemico non è politico – meglio: non è, in primo luogo, politico – ma sanitario. Un subdolo virus che sta mietendo vittime e mettendo in ginocchio l’intero pianeta, non solo l’Italia (il fatto è inconfutabile, qui si riflette sulle modalità di contrasto).

Per trasformarsi in Comitato di salute pubblica, il nostro Cts viene affiancato dal ministro della Sanità, dal titolare degli Affari regionali, dal capo dell’Economia e dal premier, il quale legifera attraverso i famigerati Decreti del presidente del consiglio dei ministri. Il potere legislativo è accentrato in poche mani ed esercitato con motuproprio dal sovrano senza che, in buona sostanza, le assemblee parlamentari possano intervenire, dialettizzare, contribuire. C’è lo stato di emergenza a sostenere la presunta necessità di poteri speciali, usati per prescrivere comportamenti virtuosi ai cittadini (Massimo Cacciari: «Serve lo stato di emergenza per dire alla gente di indossare la mascherina?»). Ma non per attrezzare strutture e infrastrutture a fronteggiare la crisi (ritardi sui tamponi, sui vaccini antinfluenzali, sull’adeguamento dei trasporti, sui servizi alla scuola). Si può interrogarsi a lungo se si tratti di uno stato d’eccezione giustificato. Fatto sta che negli altri Paesi europei, che versano in condizioni peggiori dell’Italia, non vige, a eccezione della Francia.

Il filosofo Giorgio Agamben ha più volte osservato che il ricorso alla legislazione di emergenza trova nella Rivoluzione del 1789 la sua origine storico-giuridica. Ma se dal presente andiamo a ritroso di qualche anno ci imbattiamo in altre non vaghissime assonanze che, dall’epoca immediatamente prerivoluzionaria, arrivano al presente. Il governo attuale è sbocciato facendo a meno del suffragio dei cittadini, grazie a una spregiudicata manovra di palazzo appoggiata da Beppe Grillo, novello Robespierre, fondatore di un movimento dalle forti nervature giacobine, nato a sua volta nelle piazze con i Vaffa urlati contro l’Ancien régime. Ovvero la famosa casta alla quale era già stato assestato il primo colpo dalla «rivoluzione dei magistrati» chiamata Tangentopoli. Dopo aver preso il potere, il movimento dell’antipolitica ha cominciato a epurare i dissidenti. Ora, in assenza di un leader riconosciuto, il M5s è guidato da un reggente e da un Direttorio, anch’esso di rivoluzionaria memoria. Come lo sono pure gli Stati generali che, essendosi a sua volta trasformato in casta, il movimento è costretto a convocare alla ricerca dell’identità perduta.

Corsi e ricorsi non solo linguistici, nei quali è rinvenibile il ruolo, defilato ma determinante, di Marco Travaglio, Jean Jacques Rousseau de noantri. All’epoca, gli Stati generali furono l’ultima spiaggia dell’aristocrazia monarchica per tentare di evitare la presa della Bastiglia da parte dei rivoltosi. Quelli indetti nel giugno scorso dal governo Conte avrebbero dovuto fornire le risposte per uscire dalla crisi sanitaria ed economica. In realtà, osservando le code per i tamponi e l’introvabilità dei vaccini antinfluenzali, si sono rivelati per quello che erano: una passerella in favore di telecamera, una fiera degli annunci. Ciò che conta è la nuova mappa ideologica da applicare sulla realtà, con le sue formule e i suoi slogan. Se poi, con la nuova enciclica sulla fraternité, ci si mette anche papa Francesco, allora siamo davvero spacciati. Così, mentre tra il Vaticano e l’M5s, oltre alle simpatie per l’Illuminismo, si registrano convergenze anche sulla nuova geopolitica filocinese, i soliti complottisti parlano di Terrore, proprio così; diffuso dai virologi oltranzisti, alleati del ministro Roberto Speranza, perfetto, nonostante l’aria spaesata,  nel ruolo dell’intransigente capo della polizia Joseph Fouché, pronto a far controllare dagli agenti in quanti sediamo a tavola.

C’è da augurarsi che il finale sia diverso da quello di oltre due secoli fa. Forse no, forse stavolta non rotoleranno teste sotto sanguinose ghigliottine. Ma di questo passo, nell’ultimo stadio del game distopico nel quale siamo precipitati, rischiamo di vedere decapitati interi settori economici, dalla ristorazione al turismo, dal mondo dello spettacolo allo sport, per stare ai primi che sovvengono.

Forse no, forse non moriremo di Covid. Ma abbiamo molte probabilità di morire di fame.

 

La Verità, 16 ottobre 2020

«La maternità può essere un atto di ribellione»

Una storia di ossimori. Di opposti che si toccano. Di antinomie che si fondono. Essendo cresciuto con il melodramma, non poteva che essere così. Ora che è adulto dice che dalla disperazione può scaturire l’evento più lieto. Poi c’è la speranza, che non è una virtù ma un vizio. Non a caso per Edoardo De Angelis, regista quarantenne di Napoli (Perez, Indivisibili), svezzato tra Portici e Caserta da nonna Filomena, «la semplicità è la sintesi di elementi complessi». Nel Vizio della speranza (Mondadori), uscito in contemporanea con il film che ha lo stesso titolo, si autodefinisce «un ruspante sofisticato», altro ossimoro partorito dai «sofisticati intellettuali» e i «polli ruspanti della provincia», trovati alla selezione del Centro sperimentale di cinematografia di Roma dove, inopinatamente, fu preso. Uno dei suoi esaminatori era il sussiegoso Umberto Contarello, sceneggiatore di questo film tosto, ambientato a Castel Volturno, enclave nigeriana a nord di Napoli. La morte di Miriam Makeba, avvenuta dieci anni fa durante un concerto proprio lì, è un cavallo di battaglia di Roberto Saviano. Ma nella lunga lista di ringraziamenti in fondo al libro il suo nome non compare: «Ho ringraziato le persone che mi hanno aiutato in modo diretto, il riferimento a Saviano è più mediato».

Che cosa le ha fatto fare un film così tosto?

«Ero alla ricerca di una storia semplice e così sono andato sul Volturno alla scoperta di luoghi e pesrone. Quando, risalendo il fiume, alcuni pesci hanno cominciato a saltare nella barca ho pensato che la storia doveva avere una magia ma essere anche vera. Cosa c’è di più reale e magico ad un tempo di una nascita?».

Ne è venuta fuori una meditazione sulla maternità?

«Se non la intendiamo come fatto meramente ginecologico, ma come un sentimento che può essere anche di ribellione, allora sì».

Riflette sulla maternità mentre in Italia non nascono più bambini?

«È un dato obiettivo».

Un film in controtendenza?

«Mai posto il problema delle tendenze. Provo a fare film che non passino di moda, perciò non lo sono mai. Ho un’attitudine demodé».

Perché le donne hanno tutte nomi mariani? Maria, Fatimah, Virgin…

«Anche zi’ Mari’… Maria è il nome femminile per antonomasia, può racchiudere tutte le identità di donna».

Sono mariani anche altri nomi.

«Tutti i personaggi hanno in sé qualcosa di Maria: in una versione innocente come Virgin, distorta come zi’ Mari’, esotica come Fatimah. Poi tra gli africani ora c’è l’abitudine di dare ai figli il nome di un sentimento: Hope, Destiny, Happiness».

Sono storie reali?

«Reali, ma trasfigurate a fini creativi».

In che modo la speranza, virtù teologale, può essere un vizio?

«È un vizio quando fa demandare ad altri la realizzazione di sé. O quando la preghiera diventa uno sgravio di responsabilità. È una virtù quando è la pietra su cui poggiare la nostra forza per ribaltare anche le circostanze avverse».

Il vizio della speranza racconta la ribellione alla sterilità di Maria. Viene in mente Abramo: parlando di lui San Paolo usa l’espressione «sperare contro ogni speranza».

«È un film che ha diversi riferimenti biblici. Anche se poi mi sono concentrato sulla vicenda umana dei protagonisti».

L’ostinazione di Maria a portare a termine la gravidanza mentre tutto suggerirebbe l’interruzione è anche un giudizio sul ricorso facile all’aborto?

«Non mi sono voluto addentrare in questioni troppo legate alla cronaca o a uno specifico momento storico. Tuttavia penso che quando un essere umano riceve un dono, questo diventi anche un obbligo morale a migliorare sé stessi».

Nel film ci sono molte donne che ne sfruttano altre: la pappona, la kapò, anche la madre della protagonista. È consapevole che questa immagine contrasta con quella in voga, nella quale le donne sono vittime che hanno ragione a prescindere?

«Anche qui sono disinteressato a un pensiero di moda. Credo non esista una vittima a prescindere o una ragione a prescindere. Questo però rafforza in me un sentimento di grande solidarietà e protezione nei confronti delle vere vittime».

Che fine fanno i neonati dati alla luce dalle donne che affittano l’utero?

«Di alcuni sappiamo che trovano famiglie che li amano. Di altri purtroppo non sappiamo niente: non vengono censiti, non esistono ufficialmente. Sono una moltitudine silenziosa che lascia un vuoto che si sente molto forte».

Bambini che spariscono per il traffico d’organi?

«È una realtà che esiste e non riguarda solo questo tempo e questo luogo».

Ha visto anche donne che partoriscono per altri e vivono in condizioni di semi schiavitù?

«Ci sono donne che subiscono questa sorte. È una forma di schiavitù soprattutto mentale, perché viene resa ermetica dai riti vudù ai quali si sottopongono».

Come giudica la pratica della gestazione per altri?

«Già da bambino sentivo racconti del genere, ma non la percepivo come disumana. Mi sembrava una sorta di servizio sociale che avveniva spesso attraverso la Chiesa. Dava un futuro a bambini di cui una madre non poteva prendersi cura, attraverso il desiderio di altre madri e padri che non potevano averne».

Questa è l’adozione di bambini già al mondo o che stanno nascendo. La gestazione per altri avviene su commissione, dietro pagamento, spesso di coppie omosessuali o di classi medio alte.

«Nel film non si racconta la gestazione su commissione, ma di donne che restano gravide e decidono di vendere i bambini. Siamo lontani da un’organizzazione che controlla tutto. Quelle donne sfruttano il proprio corpo non avendo altre ricchezze. Racconto una condizione estrema nella quale non c’è strategia, ma reiteramento della disperazione».

Alla quale contribuisce il distacco dal figlio concepito e tenuto in grembo.

«Rendendola irrisolvibile. Il film comincia proprio con la storia di una donna che scompare perché vuole tenersi il bambino».

L’unico uomo fa da ostetrico al parto di Maria in una situazione che cita la Natività: e così?

«Non mi nascondo, quella è la mia versione della Natività, la mia idea del Natale».

La vita vince anche sulla disperazione?

«Oltre a essere un dono è anche un ingaggio».

In che senso?

«Ricevere un dono chiede di rispondere all’obbligo morale che ne deriva. Se la vita non cambia il dono si perde».

Siamo a una visione cristiana…

«È possibile, ma non ho voluto raccontare un dramma con una tesi prestabilita. Più che una dimostrazione la mia è una ricerca. Se approda a una visione cristiana può andare bene. È di sofferenza anche il contesto in cui nasce Gesù: mi sono interrogato sul motivo dell’eternità delle parabole del vangelo».

E come si è risposto?

«Credo siano eterne perché, in realtà, prima ancora di parlare di Cristo, parlano dell’uomo. M’interessa la realtà, anche la più concreta, che nasconde qualcosa di magico. Cristo è una persona concreta che nasconde in sé una forma di divinità».

A questo punto dobbiamo parlare di conversione o almeno di avvicinamento al cristianesimo?

«Sono fortemente legato alla riflessione sulla fede. In questi ultimi anni si è intensificata sia per motivi intimi personali sia perché credo che la religione sia la questione più importante per l’uomo contemporaneo. Così importante da poterlo salvare o distruggere definitivamente».

Il delta del Volturno sembra il luogo della fecondità.

«È ciò che volevo rendere. Approfondire il contesto di un posto che parlasse di ogni luogo del mondo».

È noto come avamposto africano in Italia, dove morì Miriam Makeba.

«Venne a cantare unendosi agli africani che avevano protestato contro la camorra dopo l’uccisione di sei migranti del Ghana. Nel film una donna canta Malaika in omaggio a Mamma Afrika».

Vista da Castel Volturno dov’è molto radicata pensa che si combatta abbastanza la mafia nigeriana?

«È una domanda a cui non so rispondere. Leggendo reportage e vedendo la situazione sulla Domiziana mi sembra che sia egemone sul territorio. Quest’anno sono stati scarcerati per fine pena 2500 affiliati ai clan dei Casalesi. Quello che succederà è tutto da vedere».

O i Casalesi o la mafia nigeriana. Come mai lo Stato non riesce a intervenire se è tutto alla luce del sole?

«Non mi esprimo perché non è argomento di mia competenza. Mi limito a raccogliere le storie e a raccontarle. Non per sottrarmi a un impegno civile pubblico, ma perché penso di essere più utile alla causa facendo il mio mestiere».

Che consiste, come scrive, nel chiedere agli altri di fare come vuole lei le cose belle che non sa fare?

«È così. Il set per me è un momento di grande gioia».

Fare cinema è costruire «un mondo più vero della realtà». Nel caso del Vizio della speranza cos’è?

«Il seme che diventa atto concreto».

«Creare un mondo magari devastato però un po’ più ordinato. Dove si capisse quello che c’era da capire». Il cinema ha un intento pedagogico?

«Pedagogico non so; sicuramente per me è un’arte di disvelamento che può contenere altri punti interrogativi. Però questo non basta a frustrare una ricerca che procede attraverso soddisfazioni e delusioni».

Il film ha vinto il Premio del pubblico alla Festa di Roma: sperava in una risposta diversa al botteghino?

«Incassi maggiori ci avrebbero fatto piacere, ma non sono la nostra unica priorità. Di un film così è importante che lo spettatore conservi un ricordo profondo, piuttosto che sia visto da tanti che lo dimenticano subito».

Suo figlio di un anno e mezzo c’entra con la sua evoluzione?

«Già il desiderarlo ha innescato un processo di cambiamento, poi il suo arrivo lo ha radicalizzato».

Ci svela «la scoperta commovente» con cui chiude il libro?

«È la scoperta accogliente della normalità. Una cosa che mi piace e mi basta: il rito, il divano, casa».

 

La Verità, 2 dicembre 2018