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«La Rai è un calabrone, vola nonostante il peso»

Agostino Saccà, come vede la Rai da pochi metri di distanza uno che ci ha lavorato 35 anni?
«A rigore di fisica e di logica la Rai non dovrebbe volare. Invece, è come il calabrone, un volatile che ha un’apertura alare incoerente con il suo peso. Quello che la grava, soprattutto dall’esterno, è così tanto che dovrebbe spiaccicarsi al suolo».
Invece?
«È al 39% di ascolto in prima serata, contando anche i canali digitali. Se pensa che era al 45,8% 35 anni fa, poco dopo l’inizio dell’Auditel, assistiamo a un miracolo. Non c’è solo la concorrenza di Mediaset, ma anche quella di La7 e Sky, degli americani di Warner Bros Discovery, delle reti locali e di decine di canali satellitari. Senza dimenticare le piattaforme».
Siccome nella tv pubblica Agostino Saccà è stato tutto, ne parla con autorevolezza e passione. Dalla direzione generale di Willy De Luca passando per Biagio Agnes, dai professori a Pierluigi Celli, ha attraversato metà della sua storia settantennale. Giornalista in radio e al Tg3, vicedirettore di Rai 2, capo-staff di Letizia Moratti, due volte direttore di Rai 1, direttore generale e capo della fiction. Lo incontro a due passi da Viale Mazzini, negli uffici della Pepito che ha fondato nel 2007, sorta di laboratorio di idee dove nascono film, serie tv e documentari.
Cominciamo dall’addio di Amadeus, dal sorpasso di Mediaset o dalla presunta censura di Antonio Scurati?
«Dal sorpasso di Mediaset».
Prego.
«Intanto, nei primi quattro mesi del 2024, non c’è. In primetime la Rai, digitale compreso, è al 39% e Mediaset al 36%».
In daytime?
«Nemmeno. L’ha smentito anche il direttore generale Giampaolo Rossi che io ritengo, per cultura personale, conoscenza aziendale e capacità di dialogo la scelta migliore possibile oggi per il ruolo di amministratore delegato. La Rai fa il 37,8%, Mediaset il 37,2%. Se poi togliamo il digitale, dove Mediaset è più forte, sulle generaliste il primato Rai è schiacciante: Rai 1 è al 24,3 e Canale 5 al 16. Idem sui tg: il Tg1 fa il 25,4 e il Tg5 il 19,8».
C’è una narrazione falsata?
«A metà del 2023 Mediaset ha effettivamente superato Rai e ha mantenuto la posizione fino a fine anno. Ma dall’inizio del 2024 i dati sono questi».
Narrazione falsata?
«Soprattutto pigra».
L’amministratore delegato Roberto Sergio ha detto che c’è chi vuole distruggere la Rai: lo si trova nelle file dall’opposizione e nei giornali d’area?
«Oggi la Rai ha tanti nemici e pochi difensori. Nell’opposizione c’è chi è tentato di buttare l’acqua “sporca” col bambino per timore di un’egemonia del centrodestra nella tv pubblica. Questa tentazione può saldarsi con gli interessi degli editori che trarrebbero vantaggio da un suo ridimensionamento nel mercato pubblicitario. Ma oltre a conseguirli, con la direzione della pubblicità di Gian Paolo Tagliavia, la Rai sa vendere bene i suoi risultati. Grazie alla performance pubblicitaria, che a Sanremo si è espressa al meglio, ha ridotto di 90 milioni l’indebitamento».
Amadeus poteva essere trattenuto?
«No perché doveva portare all’incasso l’enorme successo di Sanremo. Ricordiamoci che è anche un grande autore. Lo dico perché l’ho portato al grande pubblico con In bocca al lupo su Rai 1 più di vent’anni fa e ho apprezzato sia le doti del conduttore che quelle autoriali che lo aiutano a migliorare i prodotti a cui lavora. A Warner Bros Discovery fornirà i format delle trasmissioni che potrà inventare, far comprare o anche produrre. Questo in Rai non era possibile».
Nella prossima stagione i poli televisivi aumentano: essendo ìmpari quella sulle risorse, sposterebbe la sfida sulle idee?
«Le idee sono fondamentali, ma senza soldi la tv generalista non si può fare. Quando devi massimizzare gli ascolti e difenderti da offerte ricche, perdi. Il canone di abbonamento della Rai è il più basso d’Europa, quattro volte inferiore a quello tedesco, più di tre volte di quello inglese, più della metà di quello francese. È stupefacente che il calabrone continui a volare».
Bisogna aumentare la tassa più invisa agli italiani?
«Il governo dovrebbe dare all’azienda risorse coerenti con la missione di servizio pubblico. Il canone andrebbe riportato a 90 euro e andrebbe ridotta la tassa di concessione di 90 milioni che le altre tv non pagano in questa misura. Se si teme il rifiuto di una parte dei cittadini c’è un’altra via».
Sentiamo.
«La Rai dispone di uno strumento efficace per la crescita del Paese e per la concorrenza alle piattaforme. Raiplay ha riavvicinato i giovani e, con 24 milioni di account, è un dispositivo strategico per preservare i codici espressivi nazionali e il modo di raccontare dei grandi artisti dell’immaginario italiano. Bisogna avere la forza di lanciare Raiplay, dicendo che servono 20 euro di canone da destinare al prodotto. Sarebbe una piccola grande rivoluzione culturale».
In questo scenario come valuta il ruolo di La7 di Urbano Cairo?
«È una televisione con professionisti di valore e i risultati lo confermano. La mia sensazione è che, forse, la sua narrazione si dimostri leggermente datata rispetto ai grandi cambiamenti geopolitici e culturali che si sono verificati negli ultimi tempi».
Come risponderebbe alla perdita di Amadeus?
«Se Mina accettasse di fare il direttore artistico di Sanremo sarebbe un grande ritorno. È figlia della Rai, ha fatto i varietà dell’epoca d’oro, è una grande conoscitrice di musica, aggiornata su tutte le nuove tendenze. Con Carlo Conti all’Ariston, sarebbe un colpo straordinario. Su Sanremo bisogna avere coraggio e fantasia».
Lei lo avrebbe fatto fare il monologo a Scurati?
«Io gliel’avrei fatto fare, anche se confliggeva con le norme che vogliono che il sabato precedente al voto sia di silenzio. Tuttavia, mi chiedo: se è agli atti che l’azienda l’aveva consentito a titolo gratuito, perché improvvisamente spuntano i soldi e successivamente la conduttrice attacca la Rai sui social e denuncia la censura?».
La politica ha sempre influenzato la tv pubblica: la situazione è peggiorata con la riforma Renzi che ne ha spostato il controllo dal Parlamento al governo?
«Il Parlamento e il governo sono gli azionisti, è inutile fare gli ipocriti. È così in tutta Europa. In alcuni casi le intrusioni sono leggende. È soprattutto la piccola politica a provarci, governo e Presidenza del consiglio di solito si fermano alle nomine apicali. Proprio il caso Scurati lo dimostra: Giorgia Meloni ha pubblicato il monologo sul suo account di Facebook che ha più seguaci degli ascoltatori del programma».
Buoni dirigenti dovrebbero saper gestire le situazioni.
«In Rai ci sono e un dato lo conferma. Un’impresa operante in un sistema competitivo che subisse interferenze continue non si manterrebbe quasi al 40% di share. La Rai sarebbe finita come l’Alitalia che è costata 8 miliardi di aiuti allo Stato. Ricordo che quando il governo Ciampi stanziò 200 miliardi di lire per aiutarla in un momento difficile, Letizia Moratti li rifiutò: “La Rai si salva da sola”, disse. E in due anni e mezzo abbattemmo 1500 miliardi di lire d’indebitamento, figlio della guerra contro Berlusconi e della realizzazione di Saxa Rubra. Non c’è in Italia un’azienda pubblica o privata, dall’Olivetti alla Fiat, che abbia rifiutato gli aiuti dello Stato come ha fatto la Rai».
Sono limiti strutturali a condizionarla?
«Dal punto di vista della gestione economica e finanziaria la Rai è più paralizzata di un ente locale. Per stanziare 2.000 euro serve una gara d’appalto. Alle riunioni del Cda partecipa un giudice della Corte dei conti con compiti di controllo, una prassi che non c’è in un nessun’altra azienda o amministrazione pubblica. Agendo in regime di concorrenza, andrebbero applicate le norme del diritto privato. Il governo dovrebbe presentare in Parlamento un articolo di poche righe per l’interpretazione corretta della natura e dell’azione della Rai».
Tornando alle questioni editoriali, la riforma per aree di genere è stata un errore?
«Non è sbagliato rendere autonome le produzioni per generi perché la Rai vive una condizione di multimedialità. Le reti producevano per sé stesse, mentre le aree per genere declinano i contenuti su più canali e più media, online compreso».
Ma non ci sono più i direttori di rete a dare identità al palinsesto e a rispondere se qualcosa non funziona.
«Giusto. Se si cancellano i responsabili delle reti si riduce il carattere identitario dell’offerta. È il responsabile di rete a sapere quello che gli serve. L’offerta di palinsesto dovrebbe definirsi nel rapporto dialettico tra i responsabili di rete e i direttori dei generi».
Dalla passione che ci mette sembra ancora un uomo di vertice della Rai.
«Amo e conosco i meriti di un’azienda che ha inventato il digitale e ha insegnato a parlare agli italiani. Ci sono arrivato quasi cinquant’anni fa, da ragazzo di Calabria…».
Anche lei come Giovanni Minoli invierà il curriculum alla Commissione di Vigilanza per entrare in Cda e magari presiederlo?
«Ogni stagione ha i suoi incarichi. Adesso mi diverto facendo il produttore».
Pepito le ha dato una seconda giovinezza?
«In un certo senso sì, perché continuo a fare il lavoro che mi ha sempre appassionato».
Che cosa le piace del mestiere di produttore cinematografico e audiovisivo?
«La meraviglia di partire da un’idea e farla diventare immagini, scene, costumi, facce. Lo stupore di prendere una storia vera come quella di Hammamet, o non vera ma realistica come quella di Favolacce, e farne due film definiti capolavori dai critici. Hammamet in Italia ha incassato quasi 7 milioni di euro, mentre Favolacce è stato venduto in 50 paesi, America compresa, e ha vinto l’Orso d’argento a Berlino».
Si producono troppi film d’autore e pochi per il grande pubblico?
«Si producono troppi film che non arrivano al pubblico. Ma credo che questo governo, di cui aspettiamo i decreti sul tax credit e i finanziamenti, stia lavorando bene contro la dispersione delle poche risorse. Le quali vanno concentrate su opere che, per scrittura, regia, cast e referenze del produttore, meritano l’attenzione del ministro della Cultura».
A che progetti sta lavorando?
«Stiamo scrivendo una sceneggiatura su Elvira Notari, la prima grande regista e autrice italiana che a Napoli, insieme con il marito, ha inventato tecniche di ripresa, fotografiche e di colorazione delle pellicole prima del colore. Un altro progetto con Rai Cinema riguarda la morte di Cavour, una morte misteriosa e sospetta che va raccontata».

 

La Verità, 27 aprile 2024

L’asso nella manica della Rai: Mina a Sanremo

Il succo è questo. Mentre i dirigenti Rai sono alle prese con le tessere da rimpiazzare nel puzzle dei palinsesti e Urbano Cairo conta i risparmi del salvadanaio di La7, nella provincia televisiva italiana atterrano gli americani. La concorrenza, vien da dire, si fa un tantino più vivace. È la legge del libero mercato. Ma oltre che di risorse, un fattore tutt’altro che marginale, è questione di prospettive. Di orizzonti. Di ampiezza del pensiero. Forse è il caso di rimboccarsi le maniche e farsi venire qualche idea, come sembra stia avvenendo dalle parti di Viale Mazzini. Finora, con le piattaforme over the top c’era poco da duellare. Anche con loro il confronto era ìmpari. Ma, in fondo, si rivolgevano a segmenti di pubblico minoritario. I ceti più abbienti, le classi medio alte. Adesso no, gli americani di Warner Bros. Discovery sbarcano nella televisione generalista. Perciò, è stato facile buttarla in politica. Lo smantellamento della Rai. L’estinzione del servizio pubblico. TeleMeloni fa scappare le star. Ecco Fiorello, Federica Sciarelli, Sigfrido Ranucci già incolonnati dai giornaloni dietro ad Amadeus, il cui approdo a Discovery è stato ufficialmente annunciato ieri (collaborerà alla realizzazione di nuovi formati per l’intrattenimento e condurrà un programma di access prime time, forse I soliti ignoti, e due di prime time: un’operazione da 100 milioni di dollari in quattro anni). E poi, rastrellando qua e là, Barbara D’Urso, Belen Rodriguez eccetera. Insomma, una pesca a strascico tra i volti noti più o meno irrequieti del villaggio provinciale. Non è finita. Il gruppo cui fanno capo Nove, Real Time, Eurosport e alcune altre reti, sta anche per aprire la nuova sede a Roma per lanciare il polo dell’informazione, acquisendo La7 o arruolando Enrico Mentana.

Allarmismo e toni apocalittici hanno riempito paginate e ramificato nell’infosfera. Con il solito retropensiero: il governo delle destre fa crollare persino gli equilibri dell’etere. Ma questa narrazione ha conquistato il record di smentite. Fiorello: «Nessuno mi ha chiamato, il mio contratto è solo con il divano». Warner Bros. Discovery: «Non c’è alcuna trattativa in corso da parte del gruppo per l’acquisizione del polo giornalistico di La7». Mentana: «Non vado da nessuna parte. Non ho difficoltà a dire che il mio contratto scade il 31 dicembre del 2024. Quindici giorni dopo compio 70 anni, cosa mi metto a fare?». Quanto all’apertura della nuova sede, nella capitale Discovery ha già i suoi uffici attivi e funzionanti. Infine, a proposito dell’acquisizione di altre star, la pesca a strascico non è nello stile del gruppo. Semmai si ragiona su un innesto o una nuova collaborazione a stagione. Così è stato in passato con Barbara Parodi, Maurizio Crozza, Roberto Saviano, Virginia Raffaele. E poi un anno fa con Fabio Fazio, l’arrivo che ha impresso la svolta alla strategia del gruppo perché gli ascolti di Che tempo che fa hanno dimostrato che sul pianeta della tv generalista c’è vita e hanno convinto i dirigenti a proseguire nella politica di espansione. Ma «non è la rivoluzione d’ottobre», è solo mercato, «e lo dobbiamo vivere laicamente», ha suggerito il solito Mentana in un’intervista alla Stampa nella quale ha scremato la schiuma militante dalle cronache del caso.

Tuttavia, soprattutto vista da Viale Mazzini, una questione di prospettiva e di rilancio della tv pubblica esiste eccome. A breve dovrebbe avvenire il passaggio di testimone tra l’amministratore delegato Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi, si vedrà se semplicemente con uno scambio di ruoli. Si parla di un ritorno di Marcello Ciannamea alla distribuzione e di un accorpamento dell’Intrattenimento day time e prime time in un’unica super direzione, con il recupero alla gestione del prodotto di Stefano Coletta (scelta perfetta se si vuol rendere ancor più arcobaleno il palinsesto serale). Al di là di tutto, rimane sul tappeto la necessità di un progetto editoriale di ampio respiro. Come il caso di Amadeus insegna, le star non se ne vanno principalmente per una questione economica, ma perché cercano nuovi stimoli, nuove prove nelle quali cimentarsi. Per contro, non potendo vincere la guerra sul terreno dei cachet, la Rai dovrebbe provare a farlo sul fronte delle idee, dell’identità e dell’immaginazione. Nel 1987 quando in un colpo solo Pippo Baudo, Raffaella Carrà ed Enrica Bonaccorti migrarono a Canale 5, l’allora direttore generale Biagio Agnes chiamò Adriano Celentano affidandogli le chiavi del sabato sera di Rai 1. Chi c’era ricorda come andò. La Rai riconquistò il centro della scena e riprese a dettare l’agenda pubblica. Ma per farlo occorre un disegno editoriale. Che non è appena riempire le caselle lasciate vuote dagli abbandoni. Il problema di che cosa fare del Festival di Sanremo ci sarebbe stato comunque, anche se Amadeus fosse rimasto in Rai. Un conduttore di format preserale si può trovare. Un direttore artistico dopo cinque edizioni di successo con le ricadute sugli introiti pubblicitari, le case discografiche e la fruizione del pubblico giovane, è un filo più complicato. Serve un’idea, un guizzo, un colpo di teatro. Serve sparigliare il copione di un Festival a misura di disc-jockey ed emittenza radiofonica. Serve qualcosa che somigli all’irruzione di Celentano di oltre trent’anni fa. Nel 2019 l’allora amministratore delegato Fabrizio Salini aveva avuto la pensata giusta: Mina direttore artistico del Festival. Purtroppo non se ne fece nulla. Quando la signora della canzone italiana si disse disponibile a patto di avere carta bianca sullo spartito della manifestazione, i dirigenti Rai si dileguarono. Ecco. Pensare in grande vuol dire avere il coraggio di lasciare totale libertà di movimento all’artista più contemporanea di cui disponiamo. Un’artista che continua a studiare, ad ascoltare musica. Che, come dimostrano le collaborazioni della sua produzione recente, è aggiornata su tutte le novità della scena non solo italiana. Un’artista la cui (non) presenza all’Ariston sarebbe anche un grande colpo mediatico. In Viale Mazzini l’idea sta facendosi strada. Auguriamoci, stavolta senza retromarce.

 

La Verità, 19 aprile 2024

I 70 anni della Rai celebrati con il manuale Cencelli

Ce l’ha messa tutta Massimo Giletti nello smoking da officiante delle grandi occasioni per gestire la celebrazione dei settant’anni anni della televisione italiana, una ricorrenza che, pur coinvolgendo Maria De Filippi ed Enrico Mentana, corrisponde all’età della Rai. Ce l’ha messa tutta, ma alla fine, anche per colpe non sue l’occasione è andata sprecata. Per il conduttore, la serata coincideva con il ritorno nella casa madre dopo gli anni a La7 e il distacco dalla rete di Urbano Cairo. Certi momenti troppo istituzionali sono sempre una trappola insidiosa. Innanzitutto, perché tra i tanti possibili cerimonieri, è difficile sceglierne uno senza far torto agli altri e forse anche per questo se n’è affidata la conduzione a un volto rientrante. In secondo luogo, perché la divisione degli spazi tra i vari protagonisti è sempre in agguato e può finire, com’è accaduto, per ingessare la cerimonia di LaTvfa70 in una faticosa spartizione democristiana (Rai 1, ore 21,35, share del 20%, 2,5 milioni di telespettatori). Così abbiamo assistito a una lunga e un po’ burocratica autocelebrazione nella quale per tutta la sera, da Amadeus a Piero Chiambretti, ha aleggiato l’interrogativo su chi condurrà il prossimo Sanremo. Una ricerca che, nonostante l’ironia di due tra i candidati convenuti, Antonella Clerici e Paolo Bonolis, rischia di sconfinare nello psicodramma. Ad accentuare l’enfasi ci si è messo anche il fatto che il protagonista della serata è stato Pippo Baudo che di Festival ne ha amministrati tredici. Sebbene in collegamento, il conduttore l’ha sollecitato a svelare particolari della lunga carriera, il più godibile dei quali è stato quello del gelido incontro con Bettino Craxi presidente del Consiglio, all’indomani del monologo di Beppe Grillo sul viaggio dei socialisti in Cina. Giletti ha gestito l’alternarsi di ospiti e intermezzi delle Teche Rai, nel tentativo di far emergere brani ed episodi dietro le quinte non arcinoti, tra brevi esibizioni e qualche talk piuttosto improvvisato, come quello che a tarda notte ha radunato Bruno Vespa, Enrico Mentana, Iva Zanicchi e Simona Ventura. Insomma, una serata costruita con il manuale Cencelli della tv, rimasta prigioniera di un approccio impiegatizio, privo di quell’orgoglio culturale che avrebbe potuto trasformarla in un grande evento capace di esibire tutto il meglio dello sconfinato repertorio. Al kolossal dell’amarcord è mancata anche la spontaneità delle sane rimpatriate, in occasione delle quali si gioca a vedere chi c’è, chi manca (Milly Carlucci, Mara Venier, Loretta Goggi) e chi, invece, ha voluto sdegnosamente rifiutarsi di esserci.

 

La Verità, 1 marzo 2024

«Tra le reti generaliste Rai è davanti a Mediaset»

Dopo lungo corteggiamento, Roberto Sergio, dal maggio scorso amministratore delegato della Rai, mi ha chiesto di preparare una decina di domande: «poi vediamo come fare!». Una volta pronte, mi ha invitato a mandarle via mail e, sebbene abbia ripetutamente proposto un confronto telefonico, ciò non è stato possibile. Quello che segue è lo scambio di domande e risposte, avvenuto in due riprese, con il massimo dirigente della tv pubblica.

Dottor Roberto Sergio, qual è il suo bilancio dei primi nove mesi alla guida della Rai?

«Molto positivo. Assieme al direttore generale Giampaolo Rossi e con il forte supporto del Consiglio di amministrazione abbiamo portato l’azienda a una chiusura 2023 con una riduzione dell’indebitamento finanziario netto da 650 a 560 milioni, meno 90 milioni, e un pareggio di bilancio con uno stanziamento importante per favorire il ricambio generazionale in logica digitale».

La Rai ha perso leadership nella vita del Paese? I programmi che creano dibattito vanno in onda su altre televisioni?

«La Rai è e continuerà a essere leader nella vita del Paese e continuerà a contribuire alla costruzione dell’identità nazionale, consentendo ai cittadini di riconoscersi dentro una memoria che appartiene a tutti. Non mi pare affatto che Report, Presa Diretta, Far West, Agorà fino ad Avanti popolo non creino dibattito, anzi, direi il contrario».

Tuttavia, sembra che l’agenda sia dettata da programmi di altre televisioni. Per esempio, dopo il ritorno in tv di Beppe Grillo di qualche settimana fa, domenica papa Francesco sarà ospite di Che tempo che fa sul Nove. State pensando a qualche volto, a qualche giornalista che possa ridare leadership al servizio pubblico?

«La leadership del servizio pubblico non è in discussione tantomeno ora. Papa Francesco lo scorso 28 maggio per la prima volta ha visitato uno studio televisivo, partecipando a una trasmissione Rai. Lo scorso primo novembre il direttore del Tg1 ha realizzato una lunghissima intervista con il Pontefice».

Avete un po’ subito la perdita di alcuni volti importanti e rappresentativi come Fabio Fazio o Bianca Berlinguer? Si poteva contrattaccare come fece Biagio Agnes quando chiamò Celentano per rispondere al passaggio di Pippo Baudo e Raffaella Carrà a Canale 5?

«Erano altri tempi e Biagio Agnes un gigante. Comunque, Monica Maggioni, Francesco Giorgino, Geppi Cucciari e il ritorno di Renzo Arbore e Pippo Baudo oltre ai possibili arrivi di Piero Chiambretti e Massimo Giletti mi paiono una risposta della Rai interessante».

A quanto si legge Massimo Giletti è già rientrato: c’è un progetto che lo vedrà nuovamente protagonista?

«Stiamo lavorando. Le idee non mancano».

(Qui avrei voluto chiedere: Ci può anticipare quella più interessante?)

Pino Insegno al Mercante in fiera e Nunzia De Girolamo con Avanti popolo sono due tentativi di «riequilibrio» non riusciti?

«Nel primo caso la fretta e un posizionamento sbagliato non hanno reso giustizia a un artista con 40 anni di lavoro e importanti successi realizzati. Il format di Avanti popolo aveva necessità di tempo per affermarsi in una giornata, il martedì, difficilissima, e con Nunzia, bravissima conduttrice come si è visto a Ciao maschio ed Estate in diretta, pronta a reinterpretarsi in una veste nuova. In entrambi i casi una pretestuosa e preventiva campagna stampa e politica ha sicuramente contribuito a rendere più difficile il loro lavoro».

I palinsesti autunnali sono stati preparati in poco tempo, quali sono le idee di punta di quelli dell’inverno-primavera 2024?

«In considerazione dei positivi risultati di ascolto, assieme al direttore generale Rossi abbiamo ritenuto di andare, in gran parte, in continuità con gli attuali e in aggiunta la programmazione dedicata ai 70 anni della Tv, celebrati a partire dal 3 gennaio».

In realtà, nel 2023 si è registrato il sorpasso nell’ascolto medio giornaliero di Mediaset sulla Rai.

«Lei dice? Bisognerebbe fare un ragionamento molto articolato e complesso. Posso solo dirle che se si considerano le generaliste Rai mantiene la leadership. Non andrebbe mai dimenticato che la Rai ha meno canali del maggiore competitor e soprattutto canali che non sono commerciali, ma di servizio pubblico».

(Qui avrei voluto sottolineare che da tempo «la Rai ha meno canali del maggiore competitor», ma finora il sorpasso non si era verificato. Inoltre, non si può trincerarsi dietro la funzione di servizio pubblico e contemporaneamente chiedere l’innalzamento del tetto di raccolta pubblicitaria come l’azienda si accinge a fare)

Fiorello è il più grande intrattenitore italiano, uno che andrebbe tutelato dall’Unesco come patrimonio del buonumore, ma la sua cifra è la leggerezza: in questo clima serve anche qualcuno che mostri capacità di indirizzare l’agenda anche con altri linguaggi?

«Fiorello, come amo dire, è unico e irripetibile ed è difficile parlare di personaggi in grado di reggere il passo con altri tipi di linguaggi. Questa prossima stagione il compito sarà affidato a titoli di fiction e documentari di altissimo livello e siamo certi di importanti risultati di ascolto».

Ne ha in mente qualcuno in particolare?

«I titoli sono tanti, così come le produzioni che offriremo, tutte di altissimo livello».

Come tutti gli anni la Rai riguadagnerà centralità con il Festival di Sanremo. Amadeus ha detto che la politica non deve entrare all’Ariston: visti i trascorsi, è da considerare un avvertimento o un pentimento?

«Io non posso rispondere del passato. Nel caso del festival 2024 la politica non è e non deve essere all’ordine del giorno. Poi, ogni cantante, ospite, co-conduttore ha la propria storia e la propria identità».

(Lei che cosa si aspetta dal prossimo Festival?)

Cosa c’è di concreto nei contatti con Piero Chiambretti e Barbara D’Urso?

«Con Chiambretti c’è una trattativa in corso, che mi auguro si chiuda presto. Con la D’Urso nulla, non la conosco».

Cosa c’è di vero nell’accusa che viene fatta alla cosiddetta TeleMeloni di aver progettato una fiction filofascista?

«Innanzitutto, non esiste TeleMeloni, esiste la Rai Radio Televisione Italiana che quest’anno celebra i 100 anni della radio e del servizio pubblico e mai come ora è pluralista e rappresentativa delle identità culturali, politiche e di genere del nostro Paese. Non so quale fiction filofascista possa avere progettato Maria Pia Ammirati, direttrice Fiction dall’11 novembre 2020».

Quanto è sicuro che il faccia a faccia tra Giorgia Meloni e Elly Schlein andrà in onda sulle reti Rai?

«Non lo sappiamo, e comunque sarebbe logico che fosse ospitato dalla rete ammiraglia Rai».

Chi potrebbe condurlo?

«E se fosse una giornalista? Quando sarà il momento prenderemo la miglior decisione possibile».

(Quindi la vostra candidata è Monica Maggioni?)

Nel mondo dell’informazione in generale nota una certa ipersensibilità derivante dal fatto che si vorrebbe che la Rai suonasse sempre il solito spartito?

«Nel mondo della disinformazione, vorrà dire. Chi afferma che la Rai perde ascolti, che i tg e in particolare il Tg1 va male, che io e Rossi siamo ai ferri corti, dice il falso. Nel tentativo, fallito, di delegittimare gli attuali vertici che hanno l’obiettivo di ridare lustro, immagine e orgoglio alla Rai. E soprattutto di rendere l’azienda libera e plurale con quel riequilibrio reso necessario da una visione passata miope e di parte».

 

La Verità, 12 gennaio 2024

 

«Macché TeleMeloni, la Rai è unica e si ama sempre»

Alla fine sul palco della Sala A di Via Asiago è spuntato anche Adriano Pappalardo per intonare con la sua voce di catrame: «Lasciatemi cantare, senza Viva Rai2! non so stare: ricominciaamooo…». È l’ultimo colpo di scena del minishow allestito per il varo della seconda stagione di Viva Rai2! Dal 6 novembre alle 7 sul secondo canale cinque giorni la settimana e, novità di quest’anno, su Radio 2 alle 14. Il primo, studiato, colpo di teatro era stato l’inizio della conferenza stampa senza Rosario Fiorello, Fabrizio Biggio e Mauro Casciari. Tutto schierato, invece, lo stato maggiore Rai, dall’amministratore delegato Roberto Sergio, al direttore dell’Intrattenimento prime time, Marcello Ciannamea e il suo vice Claudio Fasulo. Del resto, l’artista siciliano è ormai un patrimonio della tv pubblica, forse il suo asset creativo più pregiato. Al punto che, sottolineando la fruibilità del «mattin show» su tv, radio e Web, Sergio ha parlato di «Rai Fiorello». Conta su di lui anche per risollevare Rai 2, «dove si è voluto sperimentare»: i palinsesti autunnali si sono decisi in velocità, ma «adesso la vera sfida sono i palinsesti di gennaio. Rosario ci aiuterà…». Sedendosi al suo fianco, Fiorello ha duettato con l’amministratore delegato. «Da quando sei arrivato tu, i danni…». «Erano in itinere», ha puntualizzato Sergio. «È vero che Francesca Fagnani andrà sul Nove?». «No», risposta secca. Ma Fiorello voleva giocare tra il serio e il faceto: «Chiamerò Francesca e le dirò: “Se vai sul Nove vengo sotto casa tua e buco le gomme della macchina di Enrico Mentana” (forse dimenticando che non ha la patente). La Rai è la Rai a prescindere dal governo che c’è», ha proseguito. «Adesso si parla di TeleMeloni. Allora prima c’era TeleDraghi e prima ancora gli altri, fino a TeleMonti. La Rai è unica al di là del governo in carica. Tu hai votato la Meloni?». E Sergio: «Lo sai che sono democristiano».

Altra polemica di giornata lo spostamento al Foro Italico della location. Il disappunto dei residenti di via Asiago per il rumore ci poteva stare, ma erano i fan degli ospiti a provocarlo. «Però quando hanno detto che lasciavamo sporca la strada mi sono risentito perché non era vero. Sul serio vogliamo parlare di pulizia delle strade di Roma? Stavo per fare un reportage col telefonino sui cumuli d’immondizia…».

Argomento immancabile Sanremo, tanto più dopo la boutade di affidare a Fedez l’edizione del 2025. Qualche giorno fa c’è stata anche la riconciliazione tra il rapper e Sergio. Che però ha frenato: «Prima c’è da fare il Festival del 2024». Ma quello è già sistemato: «Nel 2025 prendete Fedez, chiamate Fazio e pagate la liberatoria alla Warner, che saranno due euro». E tu, Fiore, non pensi al Festival? «Non è il mio mestiere, ancora non avete capito? Ormai, quando mi chiedono se lo conduco quasi mi offendo. Alla quinta canzone da presentare potrei scappare. Avete creduto anche a Jovanotti ospite per cantare una canzone scritta da Lazza e intitolata Lazzaro, prima di buttare via le stampelle. Cosa dovevo dire ancora per far capire che era una gag?».

Paziente, Fiorello ha risposto alle domande sul talento, sui suoi stessi difetti, sul posto che riserva a Viva Rai2! in una classifica dei suoi programmi («considerato il pubblico eterogeneo lo metterei sul podio»), sulla sua multimedialità. E anche sulla satira dei fuori onda: «Striscia la notizia lo fa da sempre. Se lavorassi a Mediaset saprei che c’è la bassa frequenza e Antonio Ricci è così e mi comporterei di conseguenza. Tant’è che si sente che qualcuno glielo dice (a Giambruno ndr) di fare attenzione. È la cifra di Striscia. Noi ne abbiamo fuori onda?».

A 63 anni, Fiorello è un artista che l’Unesco dovrebbe proteggere come patrimonio universale del divertimento. Ma è anche un artista maturo. E a chi gli chiede se c’è qualcosa su cui non si può scherzare risponde: «Ci hanno chiamati per regalare un po’ di buonumore, 45 minuti senza riferimento ai fatti che ci angosciano tutti. La Rai ha una copertura del 100%, perché dovremmo dire anche noi la nostra? Io non ho un retaggio culturale adeguato… Se ti esprimi devi conoscere bene i fatti e io non li conosco abbastanza», ha sottolineato con grande consapevolezza. «Viene chiesto a tutti per chi parteggi… Ma non è Milan-Inter, ci sono bambini che muoiono, siamo tutti devastati. Se qualcuno mi chiedesse per chi parteggio lo manderei a quel paese. Qualsiasi cosa dici sei strumentalizzato… Io parteggio perché questa situazione venga risolta, ma da chi la deve risolvere. Non ci credo più molto, siamo arrivati al capolinea. Si dice che una parte deve farsi il suo Stato e l’altra il suo, certo. Ma non credo accadrà domani. Se non stiamo attenti qualcosa di drammatico può diventare ancora peggiore. Io, Rosario Fiorello, non ho risposte. Ma consentitemi l’indignazione, il dolore di veder uccidere i bambini, sia palestinesi che israeliani», ha sottolineato differenziandosi da Fedez che aveva detto che «c’è una sola parte dove si può stare, quella dei bambini e dei civili che a Gaza hanno perso o stanno perdendo la vita».

In chiusura, quanto ti deve la Rai? «La riconoscenza è reciproca. Io lavoro qui e mi sento a casa. Se il Nove mi chiamasse ci andrei…», gioca ancora. «Lo sapete che è in differita di un minuto? L’ho scoperto domenica quando ho chiamato Fazio sul cellulare. “Ma come, mi chiami adesso che c’è la pubblicità?”, ma io lo vedevo in onda. Hanno 60 secondi in più perché sono americani: servono per tagliare le parolacce».

Arriva Pappalardo: «Ricominciaamooo».

 

La Verità, 31 ottobre 2023

 

Rai, con lo spoil system a metà comanda Coletta

Usando un eufemismo, il crash test d’inizio stagione per la nuova dirigenza Rai non sta andando benissimo. Scarso l’apporto dei nuovi volti e dal recupero dei vecchi accantonati, modesta la difesa delle truppe rimaste in casa. Innanzitutto, la tv pubblica subisce sonore sconfitte a causa delle prestazioni degli ex. Fabio Fazio imperversa sul Nove la domenica sera e presto, con lo spacchettamento del Tavolo spostato al venerdì dopo Fratelli di Crozza, la rete di Discovery (gruppo Warner Bros) conquisterà ulteriore visibilità. Passata a Mediaset, Bianca Berlinguer continua a doppiare l’audience di Avanti popolo di Nunzia De Girolamo. Ma la Rai fa buchi nell’acqua anche in altri orari, cominciando dalla striscia di Mercante in fiera di Pino Insegno, o il lunedì, dove Liberi tutti, l’escape room ideata dal direttore dell’Intrattenimento prime time Marcello Ciannamea (condotta da Bianca Guaccero, Beppe Iodice e I Gemelli di Guidonia), si è fermato al 3,2%. È, più o meno, lo share abituale di questi programmi, con il risultato che Rai 2 è sempre più scheletrica. È stato conteggiato che nel primo mese della nuova stagione, il servizio pubblico ha perso circa 250.000 telespettatori. E non è un bel vedere, anche perché l’erosione continua.

Alcuni analisti hanno subito sentenziato il flop di TeleMeloni. Ma la conclusione è un tantino sbrigativa e qui si prova a suggerirne una diversa visione, accompagnata da un paio di consigli non richiesti. È vero che la nuova dirigenza è stata nominata dal governo secondo i dettami della riforma voluta da Matteo Renzi nel 2016. Ed è ancora vero che qualche innesto nella programmazione sia stato favorito dai buoni rapporti con il premier. Tuttavia, essendo anch’essa un pesante carrozzone pubblico, come in tanti ministeri dove contano più certi funzionari che i titolari degli stessi, anche in Rai esiste la deep tv: comanda l’apparato, il sottobosco dei dirigenti che hanno davvero le mani nel palinsesto. Per mettersi al riparo da sempre più frequenti sorprese, come nella macchina amministrativa anche nella tv pubblica bisognerebbe portare fino in fondo lo spoil system (applicato in modo scientifico nei Paesi anglosassoni). Altrimenti, mentre si accreditano a TeleMeloni errori e flop, in realtà, sottotraccia, manovra ancora alla grande la vecchia struttura Rai, quella dove, secondo Michele Santoro, «il Pd ha più sezioni che in tutto il resto del Paese».

Uscendo dal generico, il solito Ciannamea, considerato vicino alla Lega, appena nominato responsabile dell’Intrattenimento di prima serata, ha pensato bene di confermare tutti i vicedirettori di Stefano Coletta, il predecessore in quota Pd a maggio divenuto capo della Distribuzione (leggi palinsesti). Se questo spostamento doveva servire a ridimensionarne l’incidenza, in realtà, l’ha potenziato perché, oltre a continuare a gestire, tramite Federica Lentini e Giovanni Anversa, varietà, game, reality e infotainment di prima serata (la seconda non esiste, quindi da dopo i tg fino a notte fonda), il simpatico Coletta ne organizza anche la programmazione. Per intenderci, il divieto a Fedez di partecipare a Belve è imputabile per interposti vice a lui, già responsabile del mancato controllo delle esibizioni del rapper a Sanremo. Invece, il regalo di Chesarà su Rai 3 a Serena Bortone (3% fisso), sempre sconfitta anche da Massimo Gramellini su La7, è da attribuire a lui senza mediazioni.

In fondo, controllo diretto o indiretto, poco cambia perché si fa tutto in famiglia. Qualche giorno fa, Ciannamea, doveva andare in trasferta a Torino e in agenda c’era la riunione per mettere a punto i palinsesti da gennaio in poi. Che si fa? Si sposta la riunione e Coletta e i suoi (ex) vicedirettori aspettano che il responsabile dell’Intrattenimento, mica un fattorino, torni a Roma? Ma no, e che sarà mai, fate, fate pure, poi mi riferite… Morale: se lo spoil system si ferma a metà, i dirigenti delle ere precedenti continuano a favorire i propri clan e a lavorare per ostacolare il successo dei nuovi.

Con l’organizzazione aziendale divisa orizzontalmente in aree come Intrattenimento, Palinsesti, Approfondimenti, Fiction… e senza più i direttori di rete, i veri plenipotenziari sono i capi area. Alla faccia del ridimensionamento e dello spoil system, il dem Coletta sensibile ai diritti Lgbtq, capo dei palinsesti e, attraverso le sue ramificazioni, molto interventista nell’Intrattenimento è, concretamente, l’uomo più influente della Rai chiamata TeleMeloni. Non male come paradosso.

Il secondo consiglio non richiesto alla nuova dirigenza è provare a superare una certa mancanza d’iniziativa. Quando nel 1987 Pippo Baudo e Raffaella Carrà passarono a Mediaset (allora Fininvest), Biagio Agnes si guardò intorno e contrattaccò consegnando ad Adriano Celentano le chiavi del sabato di Rai 1. La tv di Stato divenne la locomotiva del dibattito nazionale e nel giro di un paio di stagioni Raffa e Superpippo fecero dietrofront. Oggi, con le dovute proporzioni, visti gli abbandoni di Fabio Fazio, Bianca Berlinguer e Massimo Gramellini, anche l’amministratore delegato Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi potrebbero tentare il contropiede. Pino Insegno, Max Giusti e Bianca Guaccero non riempiono il palinsesto. E serve a poco che Bortone faccia la brutta copia di Che tempo che fa. Per contrastare la rivalsa di Fazio ci vorrebbe qualche idea nuova, altrimenti l’effetto collaterale sono le inchieste sempre più forzate di Report. Con tutta la simpatia verso De Girolamo, per lottare nel fango del martedì sera, tra È sempre cartabianca, Dimartedì, Belve e Iene, forse serviva un peso massimo o un giornalista di provata esperienza. Tanto più se si ha memoria del recente flop di Ilaria D’Amico con un format simile di Fremantle. Ora il ritorno di Massimo Giletti avviene nel momento giusto, ma la controprogrammazione non s’improvvisa. Guardarsi intorno, cercare fuori dal recinto, vedere che cosa si muove oltre Viale Mazzini può aiutare. Qualche possibile nome a disposizione: Paolo Bonolis, Piero Chiambretti, Michele Santoro, Peter Gomez, Pietrangelo Buttafuoco, Linus…

La Verità, 26 ottobre 2023

«L’attualità ce la racconta l’establishment»

Buongiorno Peter Gomez, da vicedirettore a condirettore del Fatto quotidiano che cosa cambia?

«Resto direttore del sito e del mensile Millennium. Qui a Roma lavorerò all’integrazione tra giornale cartaceo e online. Le edicole chiudono e sempre più copie sono vendute in forma digitale».

Le edicole chiudono e i lettori calano?

«Quelli del Fatto quotidiano di Marco Travaglio stanno aumentando. Crescono le copie digitali e degli abbonamenti cartacei, oltre 50.000 in totale».

Da Milano a Roma, una bella sterzata…

«Mia figlia i miei affetti sono a Milano e quando le cose si sistemeranno spero di poterci rimanere di più. Ho sempre rifuggito Roma, che mi piace molto, ma è la città del potere. E ai giornalisti non fa bene star troppo vicino al potere, anche se per raccontarlo è necessario».

Altre novità professionali?

«Da lunedì sarò ospite due volte la settimana di Giù la maschera, il nuovo programma di Marcello Foa su Radio Uno».

Si era parlato di lei su Rai 3 al posto di Bianca Berlinguer.

«L’ho letto anch’io sui giornali, ma non c’è mai stato niente di concreto. A un certo punto Repubblica ha scritto che Giuseppe Conte voleva impormi per una sorta di ricatto. Qualche volta Conte l’ho intervistato, ma ci avrò parlato sei o sette volte in tutto. Poi il Corriere della Sera ha scritto che la mia partecipazione al programma di Foa è in quota 5 stelle».

Invece?

«Anche se la pensiamo diversamente su diverse cose, io e Foa siamo stati colleghi al Giornale di Indro Montanelli e trovo che in passato Marcello sia stato attaccato in modo ignobile. Quando mi ha proposto di collaborare a un programma pluralista e di qualità ho accettato di buon grado. L’unica cosa vera in questi anni è che, ai tempi del governo gialloverde, ho rifiutato la direzione del Tg1 per coerenza con il fatto che ho sempre scritto “fuori i partiti dalla Rai”».

È vero che potrebbe comunque approdare in Rai con La confessione?

«Purtroppo no. Sul Nove, dove il programma continuerà, ho sempre avuto libertà assoluta. Se arrivasse un’offerta la prenderei in considerazione perché la Rai è la Rai».

Perché al Tg1 no e un programma sì?

«Se il programma non funziona ti chiudono. Con la riforma voluta da Renzi la Rai è nelle mani del governo e la politica tormenta i direttori dei tg più di prima».

Come valuta gli abbandoni di alcuni professionisti all’arrivo della nuova dirigenza?

«Non ci sono epurati, ma persone che sono andate a guadagnare di più e con l’idea di sentirsi più libere. Fabio Fazio non è andato al Nove quando è arrivata la nuova dirigenza, è stato il cda di Carlo Fuortes a non aver avviato la trattativa per confermarlo».

Se ne sono andati anche Massimo Gramellini e Lucia Annunziata: se si è in dissenso con la nuova linea non è più da schiena dritta restare?

«Secondo me, sì. Però non riesco a biasimare chi pensa che il lavoro sarebbe stato impossibile. Mi ero fatto una cattiva opinione di Lucia Annunziata quando sembrava che si candidasse come europarlamentare del Pd. Ora che l’ha smentito l’ho rivalutata».

Quest’estate si è tornati a parlare della strage di Bologna e dell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia su Ustica.

«Sulla strage di Bologna ha fatto tutto Marcello De Angelis, giurando che Mambro, Fioravanti e Ciavardini non c’entravano. È troppo comodo smorzare i toni quando scoppia il polverone. Su Ustica ho un atteggiamento diverso rispetto a quando fioccavano le tesi complottiste. Ora mi sembra una grande storia giornalistica, anche se vedo poche novità. Mi pare che i lettori guardino a Ustica come ai cold case italiani, tipo la scomparsa di Emanuela Orlandi o la fine di Simonetta Cesaroni».

I misteri del passato hanno riempito l’assenza di grandi gialli estivi?

«In parte, sì. Noto che i giornali di destra stentano un po’ ora che governa Giorgia Meloni. Varrebbe anche a parti rovesciate, se ci fosse Conte al suo posto. A me sarebbe piaciuto fare questo mestiere quand’era vincente il giornalismo british, ma oggi funzionano le testate di opinione. Non si possono più portare a esempio nemmeno i giornali americani che sono stati embedded durante la guerra in Iraq e non si sono accorti dell’ascesa di Donald Trump».

Di che cosa è sintomo il caso Vannacci?

«Di quanto stiamo dicendo. Premetto: il generale è libero di dire quello che vuole ma, al di là di quello che c’è scritto nei codici, chi è dipendente pubblico ha obblighi maggiori rispetto a chi non lo è. Se esprimi opinioni critiche sui gay, ai cittadini può venire il dubbio che con quella divisa non eserciti il tuo ruolo in modo imparziale. Per lo stesso motivo disapprovo che un magistrato entri in politica o che lo facciano i giornalisti. Prendiamo un fatto di attualità: il problema di Andrea Giambruno è che è il compagno di Giorgia Meloni e chi lo guarda in video può percepirlo come un ventriloquo».

Giorgia Meloni ha risposto a questa obiezione difendendo la libertà di stampa: vale pure per Giambruno, o no?

«Secondo me tutto dipende dal rapporto che si vuole avere con il pubblico. Credo che chi ha un ruolo di arbitro nella convivenza civile abbia un dovere in più. Quando Enrico Letta diventò premier, Gianna Fregonara smise di scrivere sul Corriere, mentre Cinzia Sasso si ritirò quando Giuliano Pisapia divenne sindaco di Milano».

Il pubblico è così ingenuo?

«Se Giambruno non fosse il compagno di Meloni le sue parole non sarebbero state così rilevanti. Per dire, Nunzia De Girolamo è brava ma, più in piccolo, lo stesso conflitto si presenterà anche per lei, ex ministra del governo Berlusconi e moglie del numero due del Pd. Se eviterà di parlarne qualcuno potrà pensare che non vuole litigare col marito».

Tornando a Vannacci, anche noi facciamo come i media americani e sottovalutiamo fenomeni importanti?

«C’è un mondo, non so quanto grande, che la pensa come Vannacci e sta a destra di Fdi e della Lega. Ma alle urne le forze che dovrebbero rappresentarlo di solito non sfondano. Il caso Vannacci è esploso perché Repubblica ne ha scritto osteggiandolo, perché l’autore è un militare e perché il ministro Guido Crosetto lo ha destituito. Non è vero che questa Italia non viene rappresentata, La Verità e Rete 4 lo fanno. La sinistra si limita a condannarla, mentre noi giornalisti dobbiamo anche raccontarla».

Cosa pensa delle forme di protesta di Ultima generazione?

«Sono non violente, imbrattano monumenti o fermano il traffico. Certo, si viola il codice penale e sono azioni fastidiose, ma in democrazia ci sta».

Ha letto i documenti svelati da Fuori dal coro che annunciano un’escalation nei prossimi mesi?

«Se commetteranno reati è giusto che vengano perseguiti. Al momento si tratta di proteste e annunci di un movimento presente, ma non così esteso. Perché non c’è lo stesso allarme per le commemorazioni dell’omicidio Ramelli col saluto romano?».

Non c’è differenza?

«Il blocco stradale è una forma di lotta dall’Ottocento, adesso è un reato come lo è il danneggiamento di monumenti. A me sembra che si guardi più al dito che alla luna. Dovremmo preoccuparci che i ghiacciai e le calotte artiche si stanno sciogliendo. Che l’uso massiccio delle plastiche aumenta l’inquinamento, e il numero e la gravità delle malattie. Dovremmo essere contenti che i nostri figli non si battono più per il comunismo o il fascismo, ma per preservare il pianeta».

Studi di geologi e climatologi smentiscono l’eco-ideologia per la quale la causa di tutti i mali è l’uomo.

«So che ci sono posizioni diverse, ma per me questa è una battaglia ideale che, finché non si commettono reati, non mi sento di condannare. All’epoca del G8 di Genova tutta la destra era contraria ai no global non solo per il modo in cui manifestavano, ma anche per quello che sostenevano. Adesso anche Matteo Salvini riconosce che avevano ragione».

Le piace la famiglia queer di Michela Murgia?

«La mia regola di vita è non fare agli altri quello che non vorrei fosse fatto a me. Se loro stanno bene e sono felici, mi piace».

La famiglia si crea e si decide autonomamente come si vorrebbe fare con il sesso?

«La famiglia è espressione del tempo in cui si vive. Se fossi un musulmano di 400 anni fa avrei quattro mogli. Sarebbe sbagliato impedirlo se quello stato non ledesse i diritti di qualcuno e non comportasse reati».

Non si tratta di reati, ma di radice dell’essere: gli uomini non vengono al mondo per volontà propria, né come vogliono loro.

«Se cambiare sesso non danneggia qualcuno sono fatti di chi lo fa. Ciascuno ha diritto alla felicità e se la dà la famiglia queer o sentirsi oggi donna e domani uomo a me non cambia nulla».

C’è qualcosa da smascherare nella grande informazione?

«L’informazione serve agli scopi degli editori che, per esempio, guadagnano con le cliniche o con le autostrade. Oppure vogliono avere rapporti mirati con la politica. Così la realtà è raccontata con la lente dell’establishment. Quanti giornali stanno in ginocchio a pregare per rianimare il centro politico quando gli italiani non ne vogliono sapere?».

Quanto è credibile Giuseppe Conte come leader delle classi deboli?

«Secondo me, molto. La credibilità di un leader non dipende dal suo stato sociale, ma dalle sue battaglie e da quello che fa».

Elly Schlein è meno risolutiva di quanto gli elettori dem speravano?

«Temo di sì. I sondaggi danno il Pd sempre al 20% nonostante la campagna favorevole di cui ha goduto».

Cosa pensa delle sue ultime prese di posizione: «l’Italia ha diritto di sapere la verità su Ustica», «porteremo subito in aula una legge contro la propaganda fascista».

«Quando parla di propaganda fascista si rivolge a una parte del suo elettorato. Obiettivamente non vedo questo rischio in Italia. La verità su Ustica vorremmo conoscerla tutti, ma non dipende da lei».

Cosa pensa del decreto Caivano?

«Finora, in Italia la repressione penale non ha mai funzionato. Togliere il telefonino ai minori colpevoli è un provvedimento tecnicamente inattuabile».

E della tassa sugli extraprofitti?

«È giusta. Sbagliato sarebbe tassare chi guadagna grazie alla propria abilità. Chi trae profitto dalla fortuna perché la Bce alza i tassi può dare di più alla comunità. Stando ai grandi giornali, avrebbe dovuto crollare la borsa e salire lo spread, invece…».

Le manca Silvio Berlusconi?

«Da giornalista sì, perché c’era parecchio da scrivere. Da cittadino no, perché ritenevo sbagliato che facesse politica il proprietario di un grande gruppo editoriale».

 

La Verità, 9 settembre 2023

Rai, Mediaset, La7: nell’era Meloni la tv vira a sinistra

Presidente, non compra Mediaset, non entra in politica e non compra nemmeno La Verità: cos’è, la conferenza stampa dei no? Urbano Cairo è di buonumore, quest’anno è il decennale dell’acquisto di La7 da Telecom Italia «che perdeva 120 milioni» e, dunque, si fa presto a tirare le somme. «Con una rete stiamo in un sistema televisivo con Rai e Mediaset che hanno tre reti, poi c’è Sky che ha anche Tv8», premette l’editore del Corriere della sera. «Non produciamo chissà quali utili, ma neanche abbiamo perdite. Facciamo anche un po’ di servizio pubblico senza abbonamenti, canone, tax credit, proponendo una tv di qualità con i conti a posto. Una statuetta di polistirolo me la merito».

La presentazione dei palinsesti 2023-24 al Four Seasons di Milano chiude il trittico di upfront degli editori italiani ed è l’occasione per tirare le fila dei nuovi assetti della tv al tempo di Giorgia Meloni. Sarà anche per questo che le domande al patron di La7 spaziano dall’economia al calcio, dalla politica alla giustizia. Cairo guarda il bicchiere mezzo pieno e respinge l’impressione di giocare in difesa. Però alle ultime elezioni lo scenario è cambiato provocando ripercussioni sull’intero sistema, dagli addi di Fabio Fazio e Lucia Annunziata alla Rai che ora prova a essere più pluralista, fino alle acquisizioni di Mediaset di Bianca Berlinguer e Myrta Merlino. In questo scenario, avendo perso proprio Merlino e non avendo rinnovato Massimo Giletti, potrebbe sembrare che La7 giochi di rimessa. Ma Cairo non ci sta e sottolinea il ruolo di David Parenzo all’Aria che tira e l’arrivo di Massimo Gramellini che avrà sia la prima serata del sabato, con uno spazio fisso di Concita De Gregorio, sia un faccia a faccia con il personaggio della settimana la domenica, prima di cedere il testimone a In onda di Marianna Aprile e Luca Telese. Il resto del palinsesto poggia sulle pietre angolari: il Tg di Enrico Mentana, Otto e mezzo, DiMartedì, Piazzapulita e sui talk show del daytime, tutti confermati con l’eccezione dell’Aria che tira e del game preserale Lingo, alla ricerca del conduttore giusto per sostituire Caterina Balivo, tornata in Rai. Qualche novità si registra negli approfondimenti. Oltre alle conferme di Una giornata particolare di Aldo Cazzullo e di Inchieste da fermo di Federico Rampini, è previsto uno speciale di Ezio Mauro all’interno di Atlantide e alcune prime e seconde serate affidate allo storico Alessandro Barbero che su TikTok «ha grande seguito anche trai giovani», sottolinea il direttore di rete Andrea Salerno. Infine, la novità forse più rilevante sarà Centominuti, 12 serate di inchieste sul territorio firmate da Corrado Formigli e Alberto Nerazzini in onda da gennaio 2024.

Lo scenario politico cambiato stimola i retroscena. Che ne è dell’idea di scalare Mediaset? C’era l’idea di prenderla e fare, d’accordo con Marina Berlusconi, la tv di Giorgia Meloni? «Non ci ho mai pensato, non sta né in cielo né in terra. Tutto è partito da un retroscena di Dagospia che ipotizzava una cordata italiana, per la quale io stavo accettando consigli da Walter Veltroni. Un’idea traballante, improponibile sul piano umano e commercialmente impossibile perché Mediaset non è contendibile. Piuttosto», ha proseguito Cairo, «ho letto le parole di Pier Silvio Berlusconi… Lo conosco da quando aveva 12 anni e gli voglio bene. Ma ha detto che rispetto all’ipotesi di una nostra scalata di Mediaset, <semmai saremmo noi che ci mangeremmo Rcs>. Dal suo punto di vista, per carità… Però, ho fatto un piccolo controllo e mi sono accorto che per le leggi italiane esistenti non è possibile per Mediaset scalare Rcs mentre è possibile per Rcs scalare Mediaset. Lo dico come caso di scuola, niente più. Ne Rcs né Mediaset oggi sono scalabili». Fine della fantaeditoria. Infine, la politica: dopo la televisione, i giornali e il calcio, è l’unica attività che lo differenzia da Berlusconi. La discesa in campo sta su Marte o mai dire mai? «Sono al vertice di un gruppo di aziende con 4500 dipendenti. È un’ipotesi molto molto difficile. Poi certo, c’è anche un film che s’intitola Mai dire mai. Ma è una cosa molto remota». Però con un paio di giornalisti si lascia andare: «Semmai entrassi in politica, figuratevi se lo dico qui. Non succederà. Ma se succede…». Fantapolitica. Quanto a quella attuale, di Giorgia Meloni dice: «Mi è simpatica, è tosta, decisa. Piuttosto, attorno a lei mi pare che combinino un po’ di guai».

Ma tutto finisce qui, nella pura simpatia. Perché, a chi gli chiede se vuole approfittare del presunto «smantellamento di Telekabul», il patron di La7 replica: «Non abbiamo intenzione di fare un’Opa su Rai 3, le Opa si fanno in borsa. Il riposizionamento di Rete 4 è cominciato già da qualche anno, quando Barbara Palombelli iniziò a condurre la striscia serale nel 2018. Sulla Settimana enigmistica si legge che è il giornale più imitato d’Italia. Ma alla fine rimane sempre quello che vende di più». Insomma, squadra che vince non si cambia. Caso mai le posizioni si radicalizzano. Perché se l’apprezzamento verso Meloni sembra accomunare i vertici di Viale Mazzini, Pier Silvio Berlusconi e Cairo, in realtà anche TeleMeloni rimane fantatelevisione. Perché in Rai lo spostamento a destra sarebbe rappresentato dal vacillante innesto di Filippo Facci, in Mediaset sono arrivate Berlinguer e Merlino e a La7 le novità sono Parenzo, Gramellini, Marianna Aprile, Alessandro Barbero, Mauro… È la solita differenza tra narrazione e realtà.

 

La Verità, 12 luglio 2023

Michele Santoro carta giusta post Cartabianca?

Innesti, «ritornanze» e alcuni vuoti da riempire. È la sintesi della «nuova Rai meloniana», formula che l’amministratore delegato Roberto Sergio disapprova, presentata ieri al Centro di produzione di Napoli. Ma tra le tante «ritornanze», nel linguaggio di Stefano Coletta, è rimasta coperta quella che potrebbe scuotere davvero l’annata televisiva. Comunicarla ieri avrebbe catalizzato l’intera giornata e non solo. E di certo restano ancora parecchi dettagli da definire fra le parti, come avviene per il trasferimento di un importante calciatore. Ma tra le ipotesi che in Rai si stanno considerando per la sostituzione di Bianca Berlinguer potrebbe prendere corpo proprio la ritornanza di Michele Santoro. Siamo ancora a uno stadio embrionale, la notizia delle dimissioni dell’ex conduttrice di Cartabianca è appena di lunedì. Perciò, «ci stiamo prendendo ancora un momento di riflessione per confrontarci con l’ufficio marketing e fare la scelta giusta», ha detto Coletta. Giustificazione fragile dopo una settimana in cui l’addio di Berlinguer ha tenuto banco.

Più sul pezzo era parso il governatore Vincenzo De Luca nel suo benvenuto ai vertici aziendali quando, dopo gli elogi di rito, aveva strappato le risate della platea con la doglianza «per non poter più vedere quel Neanderthal, quel troglodita vestito da capraio afghano, da pastore yemenita» che di solito accompagna Berlinguer, «questa sòla che avete rifilato a Mediaset».

Esauriti il momento cabaret e il capitolo attenuanti, ovvero il breve tempo a disposizione della nuova governance per preparare i palinsesti, «appena 53 giorni nei quali si è dovuto fare i conti con alcuni dolorosi addii», si è passati a snocciolare titoli e volti dell’autunno-inverno 2023-2024. Alla faccia dell’occupazione meloniana, il compito è stato curiosamente affidato a Coletta, l’autore seriale di flop da direttore dell’Intrattenimento nella Rai del centrosinistra che ora dirige la Distribuzione, cioè i palinsesti.

La vera novità della prossima stagione dovrebbe essere «la narrazione», il vocabolo più gettonato della giornata. Quella che andrà in onda dall’autunno è finalmente la Rai ristrutturata per generi, «ideata nel 2019 dall’allora amministratore delegato Fabrizio Salini. È questo il modo migliore per dare centralità al prodotto», ha assicurato il direttore generale Giampaolo Rossi. E se si teme di veder annacquate le identità che un tempo animavano le reti generaliste «è perché il disegno non è ancora completato. Le tre reti non si diversificheranno più per impostazione ideologica, ma per linguaggi e marchi: Rai 1 sarà la rete del racconto e dell’autorevolezza, Rai 2 la rete dell’innovazione, Rai 3 la rete dell’approfondimento. Il nuovo claim <Rai di tutto, di tutti> sta a indicare che, in fondo, la Rai non è di nessuno perché vuol essere di tutti».

Vedremo meglio fra qualche mese cosa vorrà dire. Intanto, andando sul concreto, Roberto Inciocchi, proveniente da Sky, avrà la conduzione di Agorà su Rai 3 mentre Filippo Facci guiderà I Facci vostri, una striscia quotidiana prima del Tg2 delle 13. La strategia dei nuovi vertici è «aggiungere per essere più pluralisti di come la Rai è stata in passato: un obiettivo che siamo riusciti a raggiungere e che è anche un investimento per il futuro», ha sottolineato l’ad Sergio. Ma, alla fine, i veri innesti si esauriscono qui. Per il resto, si tratta di recuperi e «ritornanze», appunto. Con La volta buona Caterina Balivo prenderà il posto di Serena Bortone nel pomeriggio di Rai 1, Nunzia De Girolamo condurrà Botta e risposta in prima serata su Rai 3, dove, in seconda serata, tornerà Luca Barbareschi con In barba a tutto. Sempre in seconda serata, il lunedì su Rai 1 ricomparirà Francesco Giorgino con un approfondimento intitolato XXI secolo, quando il presente diventa futuro, mentre in dicembre Enrico Ruggeri condurrà Gli occhi del musicista su Rai 2. Un chiacchierato ritorno con Il mercante in fiera su Rai 2 è quello di Pino Insegno, visto alle convention di Fratelli d’Italia. «Fatte salve le nostre policy aziendali, se dovessi escludere tutti gli artisti e i giornalisti che partecipano a eventi politici ogni estate, temo che dovrei allungare la lista», ha replicato Sergio.

Ancora incerta, invece, la sorte di Viva Rai 2 di Fiorello, evento televisivo dell’anno, «uno show da prima serata che va in onda al mattino e ha avuto grande successo su tutte le piattaforme. In Via Asiago ci sono dei palazzi e abitano delle persone», ha proseguito Sergio. «Con il mio staff e i condomini speriamo di trovare una sintesi che consenta a Rosario, che considera fondamentale quella location, di riprendere il programma. Ma in questo momento non sono in grado di dire se accadrà».

A proposito dei «dolorosi addi», tre su quattro sono stati curati con risorse interne (Report la domenica sera al posto di Che tempo che fa, Monica Maggioni a In mezz’ora abbandonata da Lucia Annunziata e Serena Bortone nello spazio di Massimo Gramellini), mentre non regge la scusa di una ricerca di marketing per il talk di Rai 3 che ha già un pubblico super consolidato. I nomi filtrati di Monica Giandotti, Luisella Costamagna e Peter Gomez del Fatto quotidiano erano una boutade? «Sfido qualunque azienda a sostituire in due giorni un programma che faceva ascolti importanti», ha premesso Sergio. «Alcuni di questi nomi possono essere stati fatti per autopromozione. Infine, ancora non è sicuro che Bianca Berlinguer continui ad andare in onda al martedì. Vedremo, magari ai primi di agosto avremo una notizia da darvi». Insomma, la trattativa potrebbe essere in corso. Difficile però che riguardi Giandotti e Costamagna, già previste con Poster, la prima, e Tango, la seconda, su Rai 2. Quanto a Gomez è appena stato nominato condirettore da Marco Travaglio.

Lo spazio spetta all’opposizione e, fuori dalla Rai, Michele Santoro metterebbe d’accordo sia il Pd di Elly Schlein che ha voluto in segreteria il suo ex collaboratore Sandro Ruotolo, sia Giuseppe Conte, leader del M5s, nel quale Marco Travaglio è molto ascoltato. Qualcuno di ben informato parla di una telefonata ricevuta da Michele e partita dai vertici Rai, ma lui nega.

 

La Verità, 8 luglio 2023

Pier Silvio non entra in politica, la ritocca nelle tv

No, non scenderà in campo Pier Silvio Berlusconi, sebbene sia figlio di suo padre e qualche retroscenista abbia provato a ipotizzarlo in varie forme. Ma non succederà, per tre razionalissimi motivi. «Il primo è che la politica è un mestiere serio. Parlo di mestiere perché è qualcosa che si apprende nel tempo, non dall’oggi al domani», ha scandito l’amministratore delegato di Mediaset. «A livello emotivo qualcosa si è mosso», ha ammesso. «Ho pensato che il suo rapporto con gli italiani e con l’Italia, fatto di amore e di libertà, è un lascito che deve vivere. Per altro io ho 54 anni, mio padre ne aveva 58 quando è sceso in politica… Ma nessuno potrà mai sostituirlo. Il secondo motivo», ha proseguito, «è che non si lasciano i lavori a metà. E in questo momento Mediaset è impegnata in un progetto di lungo respiro, il consolidamento di Media for Europe (Mfe) per contrastare la forza delle piattaforme Ott (Over the top). Il terzo motivo è che un cambio di rotta si giustifica a servizio degli italiani e ora non c’è nessuna emergenza. Abbiamo un governo solido, votato dagli elettori, che sta facendo del suo meglio e che può durare. E al quale Forza Italia può garantire stabilità. Detto tutto questo, non ho intenzione di scendere in politica». Fine dei retroscena. Anche se nulla impedisce al primogenito del fondatore di Mediaset e Forza Italia di coltivare una certa curiosità e di sottolineare il «buon rapporto» con Giorgia Meloni «che conosco da molti anni ed è una persona giovane e decisa. Nutro stima personale per il nostro premier».

A poche settimane dalla morte di Silvio Berlusconi, il gala di presentazione della stagione 2023-24 era atteso per quanto avrebbe potuto dire Pier Silvio sugli scenari futuri e le ipotesi di vendita: «In famiglia non ne abbiamo parlato. Mi ha dato fastidio che con la morte di mio padre ci siano state simili ipotesi, ma è normale». Dopo una lunga pagina omaggio al genitore («Più passano i giorni più la mancanza è enorme»), anche nella serata pilotata da Gerry Scotti a un certo punto si è fatto «click» e ci si è messi a lavorare. Partendo dagli ostacoli affrontati negli ultimi anni come la pandemia, la guerra e l’inflazione, per poi planare su quelli specifici dell’editoria, l’impatto dei «giganti globali della comunicazione» e la «concorrenza senza regole delle multinazionali del Web sul mercato pubblicitario». La risposta dell’azienda di Cologno monzese è lo sviluppo del gruppo «crossmediale» fatto di reti generaliste, tematiche, pay-per-view, radio e Web (+19% di serate autoprodotte rispetto alla stagione 2019-20). E, soprattutto, la creazione di Media for Europe, la media company con Mediaset España, controllata al 100%, e la tedesca ProSieben, partecipata al 30%. «Sono orgoglioso che aziende italiane studino un’espansione internazionale e non che pezzi di Italia siano conquistati da un gruppo straniero. Perché», ha rimarcato Pier Silvio, «la tv generalista non è vecchia. Piuttosto è piccola, e sarebbe sbagliato contrastare la potenza delle Big tech restando nei confini nazionali».

All’interno dei quali, però, nell’ultimo anno lo scenario è mutato in modo sostanziale. A Mediaset erano preparati se, mentre nasceva la Rai meloniana, hanno avvicinato Bianca Berlinguer ora annunciata come la principale novità della stagione: «Sono molto felice. L’ho conosciuta e si è instaurato tra noi un rapporto vero, di fiducia». Come anticipato, l’ex direttore del Tg3 condurrà il talk show del martedì di Rete 4, dove dividerà anche lo studio di Stasera Italia con Nicola Porro e Augusto Minzolini, quest’ultimo nel weekend. «È un’operazione importante, destinata a far crescere il peso della nostra rete dedicata all’informazione e che vuole rivolgersi al pubblico in maniera più trasversale», ha ribadito l’ad Mediaset.

Editorialmente impeccabile con una Rai più spostata a destra, né Pier Silvio né «Bianchina», scortata da Mauro Corona («Sono un suo fan anche se lui ama la montagna, io il mare»), sottovalutano il rischio dell’operazione. È vero che già Michele Santoro passò da Saxa Rubra a Cologno, ma erano gli anni Novanta e «Michele chi?», come lo chiamò il presidente Rai Enzo Siciliano incentivandone l’esodo, si affacciò su Italia 1. Diversa è la Rete 4 che fu casa di Emilio Fede. Nella quale ora, pur molto cambiata, i programmi di Mario Giordano e Paolo Del Debbio godono di un vivace zoccolo duro di pubblico. E dove, senza far paragoni, l’innesto di Gerardo Greco non funzionò. Sarà lavoro per gli autori. «Ma con lei parliamo lo stesso linguaggio televisivo», ha assicurato Mauro Crippa, direttore generale dell’informazione.

Anche se con minori implicazioni ma sempre nella logica di «dare più peso ai nostri contenitori» va registrato l’insediamento a Pomeriggio 5 di Myrta Merlino al posto di Barbara D’Urso. La quale, dopo 15 anni di emotainment, non ha comprensibilmente gradito l’accantonamento.

Con l’eccezione di Amore + Iva, lo show di Checco Zalone in esclusiva su Canale 5 tra ottobre e novembre, le altre novità lo sono relativamente. Grande Fratello, per esempio, ritorna alla versione originale, né vip né nip, ma centrata sulle storie. Sempre a rimpolpare la quota reality, ecco un’edizione invernale di Temptation island. Poi Io canto generation e La ruota della fortuna per omaggiare il centenario della nascita di Mike Bongiorno, affidati a Gerry Scotti. Infine, Il più grande karaoke d’Italia. Tutti format che affondano le radici negli anni Novanta o «nella forza ancora attuale di quei prodotti», ha precisato Berlusconi jr. Per il resto, confermati i pilastri del palinsesto: Amici, C’è posta per te, Tu sì que vales con l’innesto di Luciana Littizzetto, Ciao Darwin, Michelle Impossible, Felicissima sera e, su Italia 1, Le Iene con Veronica Gentili al posto di Belen Rodriguez, al momento senza programmi.

In chiusura, un buffetto a Urbano Cairo che aveva ipotizzato una fusione fra i due gruppi: «Sono un fan di Urbano, è bravo, simpatico e vivace», ha premesso Pier Silvio. «Ma Mediaset con Rcs mi sembra un incastro spericolato perché in una fusione ci mangeremmo Rcs. È fantaeditoria».

 

La Verità, 6 luglio 2023