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Bianchina, una Berlinguer alla corte di Berlusconi

La notte bianca di Bianca. Le… notti bianche. Per l’ex conduttrice di #Cartabianca, più che i sogni e le passioni di Dostoevskij a San Pietroburgo, c’entra un calcolo professionale, seppur venato dal dubbio. Restare fedeli all’azienda di una vita o assicurarsi un allungamento di carriera alla corte della concorrenza? Eccola, è Bianca Berlinguer al bivio (acronimo: BBab). Praticamente un format: la conduttrice chiede un supplemento di riflessione per sciogliere la riserva. Accendiamo la telecamera e spiamo le notti insonni e i petali consumati dal dilemma: resto o vado, vado o resto? Di qua lo status quo, di là la freccia che indica Mediaset. Alla fine, l’ex direttore della Telekabul ereditata da Sandro Curzi ha scelto la nuova avventura nelle reti del Biscione. «Bianca Berlinguer ha comunicato le dimissioni da ogni incarico in Rai e dalla conduzione del programma #Cartabianca. La giornalista», si legge nella nota di Viale Mazzini, «ha ringraziato l’azienda per 34 anni di lavoro, svolti sempre in piena autonomia sia in qualità di direttore che di conduttrice di programmi di approfondimento».

Stasera alla presentazione dei palinsesti se ne avrà conferma ufficiale. Berlinguer avrà l’abituale prima serata del martedì su Rete 4 al posto di Veronica Gentili destinata alle Iene, con lo spostamento di Fuori dal coro di Mario Giordano al mercoledì. Mentre si alternerà una settimana a testa con Nicola Porro alla conduzione della striscia quotidiana finora condotta da Barbara Palombelli. Ne sapremo di più al gala di Cologno monzese, dove si capirà anche quale ruolo potrà avere Mauro Corona, l’alpinista scrittore da anni sparring partner di «Bianchina». Restando in casa Mediaset, sempre stasera si avrà conferma se il posto di Barbara D’Urso a Pomeriggio cinque verrà preso da Myrta Merlino. Se così sarà assisteremo a uno spostamento a sinistra del Biscione a compensazione del riposizionamento a destra della Rai, con conseguente rimescolamento di parte dei pubblici rispetto agli editori di riferimento.

Intanto, ieri il Cda di Viale Mazzini ha rinnovato il contratto di servizio fino al 2028, mantenendo gli spazi di giornalismo d’inchiesta – quanti allarmismi del giornalone unico – e approvato i palinsesti del prossimo autunno (presentazione venerdì a Napoli). Al termine della riunione, l’amministratore delegato Roberto Sergio ha comunicato che «al momento la trasmissione #Cartabianca non è presente in palinsesto». Sabato Berlinguer aveva chiesto ancora una notte per pensarci. Poi il pensamento si era prolungato, mettendo alla prova la pazienza dei massimi dirigenti (Giampaolo Rossi, direttore generale) che avevano già fatto di tutto per trattenere la giornalista, assicurando grande promozione all’unico talk politico di prima serata, budget e libertà nella scelta degli ospiti che la precedente gestione aveva provato a mettere in discussione. Non è bastato. Al suo posto, alla conduzione di #Cartabianca, su Luisella Costamagna sembra averla spuntata Monica Giandotti, in uscita da Agorà e moglie di Stefano Cappellini, capo del politico di Repubblica. Loro testimone di nozze è quel Mario Orfeo, già direttore generale, attuale guida del Tg3 e tuttora, curiosamente, molto influente in Viale Mazzini.

Ora, però, la telenovela della «zarina» è finita. Era stata lei a inaugurarla, impuntandosi contro la programmazione di Rai 2, ritenuta concorrenziale al suo programma. «Bianchina» non gradiva Belve di Francesca Fagnani e nemmeno Boomerissima con Alessia Marcuzzi, previste al martedì. E pazienza se quei programmi erano già andati in onda nello stesso giorno di #Cartabianca in passato e l’ufficio marketing di Viale Mazzini aveva documentato che i loro target erano diversi.

Non con Discovery come si era ipotizzato all’inizio, BB giocava di sponda col Biscione (acronimo: BBB), felice di puntellare il palinsesto all talk di Rete 4 con un volto storico, anche se non più così ortodosso, della Rai di sinistra. L’obiettivo di Berlinguer era allungare la carriera in prima linea. Così, anche lei ha rischiato di accodarsi alla lista dei conduttori presunti censurati dalla Rai meloniana. I quali, in realtà, seguono principalmente l’odore dei soldi. A Fabio Fazio, Luciana Littizzetto (contrattualizzata sia da Discovery che per Tu sì que vales di Canale 5), Lucia Annunziata e Massimo Gramellini, negli ultimi giorni si è aggiunta Serena Bortone che, salutando i telespettatori di Oggi è un altro giorno, li ha retoricamente esortati a essere «liberi e autentici, a qualsiasi prezzo», neanche fosse una paladina dei diritti a Weimar. Dove, per altro, difficilmente le affiderebbero una prima serata e un access primetime su Rai 3. Più o meno sulla stessa frequenza d’onda si è sintonizzato Alberto Matano che, pur confermato per il 2023/24, si è portato avanti con il lamento: «Non so cosa farò dopo la prossima Vita in diretta», ha detto in telecamera all’ultima puntata della stagione. Lesa maestà anche di Luca Bottura e Marianna Aprile per la sospensione di Forrest su Radio uno, non confermato dal nuovo direttore Francesco Pionati. I censurati immaginari rivendicano il diritto inalienabile al video e al microfono. Non si tratterà anche, e forse più prosaicamente, delle cospicue indennità relative? O magari dell’impagabile appagamento di essere un volto noto? No, sembra che chi va in onda sia esente dalle logiche di mercato. E che un nuovo direttore che arrivi in Rai non possa scegliersi i propri collaboratori come un qualsiasi nuovo direttore di giornale. Andava così anche con le maggioranze di centrosinistra?

 

La Verità, 4 luglio 2023

 

«Dopo Adriano e Sanremo rompo i recinti dei salotti»

Francesco Baccini, Caterina Caselli, Adriano Celentano, Dario Fo, Mogol, Gianni Morandi, la Nazionale italiana cantanti, Shimon Peres e Yasser Arafat, Sanremo nel senso del Festival. In ordine alfabetico, all’inizio ci andrebbe l’Arena di Verona. Gianmarco Mazzi è tutto questo e tutti loro, e anche molto di più. Perché ci sono anche Riccardo Cocciante, Massimo Giletti, Zucchero Fornaciari… star con cui ha lavorato, nella sua precedente vita. E perché ora, Mazzi, veronese, da sempre uomo di destra, deputato di Fratelli d’Italia, è sottosegretario alla Cultura del governo Meloni.

Oggi compie 63 anni, come festeggerà?

«Sarò a Genova alla cerimonia della partenza per il giro del mondo dell’Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina militare che in 19 mesi toccherà cinque continenti e 28 Paesi».

È il giorno giusto per chiederle che cosa le sta più a cuore nella vita, che cosa o chi vorrebbe salvare se fosse costretto a scegliere una sola persona, una cosa, un ricordo…

«Non so se è il giorno giusto, forse no. Quando compio gli anni mi fermo a pensare al tempo che passa e divento mediamente cupo. Ma le voglio rispondere. Mi sta a cuore essere in pace con me stesso, sapendo di aver fatto le cose per bene, al massimo delle mie possibilità. Salverei Evelina, l’amore della vita e poi i tre gol di Paolo Rossi al Brasile nel 1982. L’Italia mai doma, sul tetto del mondo. Una metafora, una sensazione indescrivibile che ancora oggi mi commuove e incoraggia».

Lei è sottosegretario alla Cultura, organizzatore musicale o agente di artisti?

«Dal 2 novembre 2022, sottosegretario di Stato al ministero della Cultura».

Qualcuno ha osservato che i ruoli potrebbero confondersi.

«Sia la legge che la giornata di 24 ore mi consentono di fare solo e orgogliosamente il sottosegretario. L’agente di artisti e l’autore televisivo sono esperienze significative della mia vita precedente».

Com’era il rapporto con Celentano?

«Adriano è un geniale visionario, devi stargli vicino da amico fidato. Ama molto dialogare e mettersi in discussione. Con lui e Claudia (Mori ndr) mi diverto da matti. Sono cresciuto con loro».

Un episodio che vuole ricordare?

«Ricordo la volta che chiesi ad Adriano: “Se non fossi diventato Celentano che cosa avresti fatto?”. E lui: “Avrei potuto fare qualsiasi altro lavoro, anche l’imbianchino o l’idraulico, meglio”. Rimasi spiazzato, ma lui proseguì, “mi sarei dato da fare per diventare l’idraulico della città, pensa che bello, andare nelle case, risolvere i problemi alla gente”. Lo diceva festoso, credendoci sul serio. Questo è Adriano; appassionato a ciò che fa, dà sempre il meglio di sé. Non male come insegnamento».

Beppe Caschetto ha imparato da Bibi Ballandi, lei ha avuto dei maestri?

«Sì, gli artisti. Celentano, Mogol, Gianni Morandi, all’inizio Caterina Caselli. Potrei dire anche Caschetto, che è manager colto, dall’estro prezioso».

Qual è l’evento internazionale che ricorda con più emozione?

«Una partita della pace del 2000, allo stadio Olimpico di Roma. C’erano Shimon Peres e Yasser Arafat con il presidente Carlo Azeglio Ciampi. E poi Pelè, Sean Connery, Michael Schumacher. Tutti nella stessa sera.

A ripensarci una cosa da non credere. Nel giro di una settimana ero andato a Los Angeles e a Ramallah. Ne parlavo con Morandi pochi giorni fa, mi emoziono ancora al ricordo. Mentre la vivevo, mi sembrava quasi normale».

Ha organizzato anche parecchi Festival di Sanremo con Lucio Presta: chi era il gatto e chi la volpe?

«Io ero il direttore artistico, Lucio mi consigliava e mi guardava le spalle. A Sanremo bisogna essere astuti come serpenti per mantenersi puri come colombe. E noi ci aiutavamo».

Come si trova nel ruolo attuale, più politico e istituzionale?

«All’inizio male, adesso comincio a orientarmi. Devo contenere l’impulso di realizzare subito un’idea che mi viene in mente. Le tempistiche dell’emisfero pubblico sono molto più lente. Ogni giorno devo mediare con la mia indole».

Per i cento anni del Festival lirico dall’Arena di Verona su Rai 1 è andata in onda un’edizione speciale dell’Aida: soddisfatto dell’accoglienza o qualche critica di troppo?

«No, non mi sembra. Da due anni, con la sovrintendente dell’Arena Cecilia Gasdia, lavoravo alla realizzazione di una serata televisiva memorabile per il mondo dell’opera. Un qualcosa di mai visto prima. Con Sophia Loren, la Rai, le Frecce Tricolori, Alberto Angela, Luca Zingaretti, Milly Carlucci e grazie a Giuseppe Verdi, agli artisti e ai tecnici dell’Arena ce l’abbiamo fatta. E il mondo ha apprezzato».

«Italia loves Romagna» è stato un successo, ma qualcuno ha notato l’assenza dei contadini che hanno allagato le loro terre per preservare dall’alluvione la città di Ravenna suggerendo di assegnare a loro la medaglia della cultura e dell’arte. Cosa ne pensa?

«È un’idea buona, come altre. In realtà l’evento è nato per la raccolta fondi e come abbraccio affettuoso ai romagnoli. I contadini sono stati meravigliosi ma tutta quella gente, intendo la popolazione della Romagna, è stata protagonista di tali e tanti gesti di generosità che abbiamo scelto di non farne una classifica».

Secondo lei c’è davvero la prevalenza della cultura progressista o è un falso problema e gli intellettuali conservatori ci sono ma non sono illuminati dai media, questi sì orientati a sinistra?

«Le definizioni progressista e conservatore, in questo ambito, sono categorie fuorvianti. Da anni vedo una cultura dominante che non produce dibattito, ma solo pensiero convenzionale, fatto di quattro concetti, sempre i soliti, espressi con un vocabolario povero, di una ventina di parole. Mi annoia. La cultura deve essere libera e arricchire il confronto con idee diverse, anche in contrapposizione tra loro, senza pregiudizi. Così ognuno può farsi la sua, di idea. Poi il sistema culturale italiano più che a un big bang creativo fa pensare a un centro per l’impiego, dei soliti noti. Ma questo è un altro discorso».

Proprio a questo riguardo Pietrangelo Buttafuoco dice che il governo Meloni serve a rompere i recinti e a dare una «casa a chi casa finora non ne ha avuta una». Concorda?

«Buttafuoco ha ragione. In realtà una casa forse esiste, ma i recinti l’hanno sempre costretta oltre i bordi della periferia più estrema. Penso che in futuro anche gli abitanti di quella casa potranno esprimere la loro opinione non conformista e lo faranno con calma, senza la supponenza di chi li ha emarginati sino a oggi».

Le è piaciuta la partecipazione del presidente Sergio Mattarella all’ultimo Festival? E in generale ha apprezzato l’ultima edizione?

«Per la prima volta dopo 73 anni, il Presidente della Repubblica ha presenziato alla manifestazione più conosciuta e amata dagli italiani nel mondo. È stato giusto. Ha impreziosito un’edizione di grande successo, costruita con passione e cura da Amadeus. Sanremo è uno spettacolo di canzoni, ma anche una sceneggiatura in cinque puntate, quasi una fiction. Deve coinvolgere il pubblico per una settimana intera, anzi per un anno, e lo fa attraverso vari strumenti narrativi, sviluppando un’alternanza di stati emozionali diversi, a contrasto. Come dire, dalla provocazione dei primi giorni fino alla pacificazione, magari nell’ultima sera e nei giorni successivi. È un lavoro più complesso e raffinato di quello che può apparire».

Parlando di provocazioni non le pare che ultimamente si sia un po’ esagerato?

«Mah, esagerato… Alla fine Sanremo resta una festa in famiglia. Qualcuno che fa casino c’è sempre, ma famiglia si rimane».

Magari famiglia arcobaleno… Quest’anno sarà l’ultimo festival di Amadeus. Si sentirebbe di dare un suggerimento per gli anni a venire? Per esempio, affidarlo davvero a Mina, cosa ventilata in passato, ma mai presa sul serio?

«Lei è davvero convinto che Mina aspiri a quel ruolo?».

Da quel poco che so credo che se ci fosse un progetto che le lasciasse carta bianca ci penserebbe.

«Lo scopriremo solo vivendo».

Tra pochi giorni verranno presentati i nuovi palinsesti della Rai: si aspetta un cambio di passo rispetto ai precedenti?

«Vedo concentrazione e impegno da parte della nuova dirigenza. Sono professionisti di grande esperienza e livello, con una visione culturale ampia e sfaccettata. Diamo loro tempo e si faranno apprezzare».

È giusto a suo avviso che la Rai si prefigga di contribuire «alla promozione della natalità della genitorialità»?

«Molto giusto, sono valori importanti, per i cattolici fondamentali, che è importante salvaguardare, rappresentandoli alle nuove generazioni. Bisogna riflettere sulla vacuità dei social e sulla dilagante aggressività di modelli che vogliono imporsi, umiliando la tradizione. Tutto troppo frenetico. A volte sembra un mondo all’incontrario, porta a una sorta di dittatura delle minoranze. Penso che ci voglia più rispetto, da tutti per tutti».

È stato a lungo amministratore delegato della società Arena di Verona: che cosa si può fare per rendere economicamente autosufficienti i teatri italiani?

«Ci vuole pazienza, avvicinare il pubblico alla cultura con semplicità e spiegare serenamente agli operatori che per ricevere contributi pubblici bisogna meritarseli, dandosi da fare, mostrando dinamismo e intraprendenza, anche economica. Ci vuole capacità di attrarre gli investimenti di quei privati che amano l’arte. Per un ministero pubblico ci vuole responsabilità. La cultura non può essere un concetto astratto, buono per la propaganda, ma va collegata al concetto di impresa. Va considerata come industria culturale, un settore vivo che produca lavoro, stimoli interesse, affascini i giovani e cresca in autorevolezza».

C’è un progetto, un’idea, un’iniziativa che ha in serbo per i prossimi mesi e che vuole rivelare in anteprima?     

«Il mondo dello spettacolo aspetta dal 1967, oltre 55 anni, un codice nuovo, lo stiamo scrivendo con serietà, dialogando con i protagonisti del settore. Poi vorrei valorizzare una scoperta archeologica eccezionale fatta a Verona, una residenza alberghiera di epoca romana con caratteristiche uniche al mondo. Per convenzione e per darmi un tono la chiamo “piccola Pompei”. Ma se mi sente il ministro Gennaro Sangiuliano, si arrabbia. Pompei non si tocca».

 

La Verità, 1 luglio 2023

Fazio, Annunziata e la favola fasulla di TeleMeloni

Ci sarà stato anche un certo «livore», dovuto a vecchie ruggini geopolitiche (Salerno, il Manifesto e Servire il popolo) nell’esternazione di Michele Santoro a DiMartedì rivolta a Lucia Annunziata, presidente Rai in èra berlusconiana, e a Fabio Fazio… e va bene, ci sarà stato. Spiace, però, che abbia prodotto «tristezza» in Aldo Grasso e, in seconda battuta, la reprimenda sulla prima del Corrierone di Massimo Gramellini, già spalla di EffeEffe a Che tempo che fa e ora in procinto di migrare a La7 (sempre gruppo Cairo). Livore e tristezza… Oltre gli stati d’animo, sono fatti concreti quelli espressi da fior di professionisti su ciò che si muove nella Rai orfana di Fazio e Annunziata: «Due signori professionisti che, per ragioni personali se ne sono andati», ha osservato ieri Giovanni Minoli, intervistato dal Corriere della Sera. «Il primo aveva una trattativa in corso da mesi. La seconda va via perché non è d’accordo con questo governo: ma se è stata direttore di rete con qualsiasi governo e presidente Rai con Berlusconi premier!». Uno a zero e palla al centro.

Per la verità, ormai siamo alla goleada anti-martiri della presunta TeleMeloni. In questi giorni, sulle grandi testate è in voga un nuovo gioco: le migliori firme offrono l’assist dell’indignazione per l’incombente dittatura e la cacciata dei migliori, ma finiscono per infilare l’autogol. Prima di Antonella Baccaro con Minoli, due giorni fa ecco Andrea Malaguti intervistare Piero Chiambretti: «La Rai si sta impoverendo?», gli ha chiesto il vicedirettore vicario della Stampa. Risposta: «Tutto può essere. Ma, da quello che leggo, chi se n’è andato lo ha fatto per scelta. Non è stato cacciato nessuno. E nessuno è rimasto disoccupato. Mi sembra difficile parlare di censure». Chi sa come gira il fumo nella Telerepubblica vede oltre le narrazioni di comodo. Ospite di Giovanni Floris, anche Marco Travaglio ha strappato il sipario: «Bisognerebbe almeno seguire la consecutio temporum. Uno per farsi cacciare dagli attuali vertici della Rai messi lì dalla Meloni avrebbe dovuto almeno aspettare che si insediassero e vedere se lo cacciavano o no. Ma se te ne vai prima, come fai a dire che ti hanno cacciato… Infatti, Fazio è stato onesto… (salvo continuare a lagnarsi in tutte le sedi…). E l’Annunziata? Il suo programma era stato confermato…», nonostante lei non condivida «niente di questo governo». «Allora dovevi rimanere per lottare dall’interno. Se te ne vai, te ne sei andata», ha scandito Fiorello nel suo imperdibile Viva Radio 2 prima di chiudere, sibillino: «Che poi tutto questo andare via, bisogna capire da dove arriva». Oltre gli stati d’animo c’è di più.

 

La Verità, 2 giugno 2023

«Auspico che i nuovi vertici Rai siano ambiziosi»

Il regista Pupi Avati è di nuovo nei cinema con il suo ultimo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario.

Pupi Avati, che cos’è il pupiavatismo?

«È un sostantivo che mi lusinga perché sintetizza un approccio personale, teso a guardare oltre il modo di fare cinema più in voga. Cioè, essere completamente anacronistici, fuori sync rispetto alle mode, partendo dai cast e proseguendo con la scelta di storie che raccontano un’Italia provinciale, anche minima, sempre più marginalizzata».

Il modo di fare i casting è il marchio del suo cinema alternativo?

«È un cinema che rinuncia volutamente alle star del momento per cercare gli interpreti dove nessuno li cerca più o li ha mai cercati, offrendo delle opportunità rimosse a causa delle atroci regole dello star system. E decontestualizzando attori che magari, in passato, hanno raggiunto il successo in un contesto lontano da quello in cui li propongo io».

Parlando di star system, in Italia il cinema è fatto da dieci attori e dieci attrici?

«C’è una panchina molto corta alla quale si ricorre doverosamente. Quindi ho sempre il compito di convincere la committenza, i distributori, a credere in scelte molto stravaganti che vanno da Katia Ricciarelli a Renato Pozzetto a Edwige Fenech».

I suoi casting sono l’invenzione di debuttanti, la reinvenzione dei dimenticati, lo sdoganamento degli etichettati. Anche così si esprime la sua visionarietà?

«Non è solo una provocazione, ma appartiene alla dilatazione dello sguardo che va oltre alla panchina corta e al ventaglio stretto dei generi cinematografici, che invece sono i più variabili. Tranne il western, li ho frequentati tutti. Mentre molti miei colleghi sono diventati il genere di loro stessi, io non disdegno di fare un film horror, anzi, mi è necessario. O un film storico come Dante…».

Il pupiavatismo finirà nei vocabolari?

«Chissà. È un augurio, un auspicio, ma io non ci sarò più se e quando accadrà. La cosa che più mi spiace è non essere diventato modello, non aver ispirato nessuno a seguirmi. Se pensa che, per esempio, due cantanti come Cesare Cremonini e Lodo Guenzi, che si sono rivelati attori straordinari, non sono corteggiati da altri colleghi, può comprendere il mio rammarico. Resterò il solo ad aver avuto questo tipo di approccio».

Non tutti hanno la capacità di trasfigurare gli interpreti.

«Mi auguro che a Edwige Fenech, di cui tutti parlano bene, vengano offerte nuove opportunità».

Si aspettava le tante recensioni favorevoli a La quattordicesima domenica del tempo ordinario o c’è stata una svolta nell’orientamento dei critici?

«Mi aspettavo che i recensori cattolici non fossero gli unici a sollevare obiezioni riguardo a un film così pieno di valori. Le racconto un episodio. A un certo punto nel film viene diagnosticato alla moglie del giovane interpretato da Guenzi un carcinoma ovarico. Allora lui, di fronte al pessimismo dell’oncologo, per prima cosa si reca in chiesa a pregare. A un incontro pubblico alla Sapienza davanti a 500 persone ho chiesto chi ricordasse un protagonista che di fronte a una difficoltà va in una chiesa. Uno ha alzato la mano e ha detto: <Me lo ricordo nei film di don Camillo>».

Roba di oltre mezzo secolo fa.

«Per trovare qualcuno che di fronte a una brutta notizia si rivolge al trascendente dobbiamo andare indietro cinquant’anni. Eppure queste persone esistono, ma il cinema laicizzato non le considera».

Per Dante non ha avuto neanche una nomination ai David di Donatello, per La quattordicesima domenica ne avrà?

«Non credo. Finché non cambiano quelli che gestiscono il potere del cinema italiano fortemente ideologizzato io non esisto, non ci sono proprio. Ma questo fatto mi dà una forza enorme. Essere emarginato da persone che non stimi dà grande forza. Tant’è vero che sono già qui a scrivere il prossimo film».

Ce lo anticipa?

«È un film del genere gotico che ho già frequentato in passato e che mi diverte molto. A 84 anni ho ancora dei committenti perché continuo ad avere un pubblico».

È il seguito di Signor Diavolo?

«Non sarà il seguito. È un film per metà ambientato in America e per metà a Comacchio. S’intitola L’orto americano».

Dice che non viene premiato, ma Renato Pozzetto vinse per l’interpretazione in Lei mi parla ancora.

«E mi fece molto piacere. Ma anche i premi ai miei film non sono mai a me…».

Al ricevimento al Quirinale in occasione degli ultimi David, tra gli addetti ai lavori si è diffuso l’allarme che ora la destra voglia prendersi il cinema. Risulta anche a lei?

«Non saprei in che modo e con chi. Se dovessi fare una lista di colleghi con un minimo di notorietà riconducibili all’area della destra non saprei che nomi fare. Perciò direi a questi signori di tranquillizzarsi. Mi ero illuso che la vittoria della destra avrebbe suggerito a chi può farlo di cambiare le cose soprattutto nel servizio pubblico della televisione italiana, invece…».

Un argomento che le sta a cuore come aveva evidenziato già due anni fa, nel momento acuto della pandemia.

«Scrissi una lettera ai maggiori quotidiani nazionali, invitando a superare la regola del mercato per la quale i numeri dell’audience danno la qualità dei programmi, il che non è assolutamente vero. Proponevo che la terza rete fosse svuotata dalla pubblicità e convertita alla cultura. Ricevetti numerosi messaggi di apprezzamento. Perciò, ora pensavo che la destra al comando in Rai avrebbe intrapreso questa missione, ideando un progetto ambizioso che sapesse inventare programmi innovativi. Anche lasciare il dibattito politico in mano alla tv di Urbano Cairo è un errore».

Lei parla al passato, ma la nuova governance Rai si è insediata da due giorni.

«È vero. Ma gli unici rumors riguardano la sostituzione di Fabio Fazio con Massimo Giletti o di Flavio Insinna con Pino Insegno…».

Ci si fermerà a questo?

«Le faccio una rivelazione. Ho raggruppato un nucleo di intellettuali autorevolissimi e non allineati, con attività consolidate e non bisognosi di alcunché, disposti ad aiutare i governanti competenti a individuare persone e temi per gestire in modo illuminato la tv pubblica. Bene: questa proposta non ha avuto riscontri».

Ultimamente l’abbiamo vista spesso in televisione: la miglior accoglienza al suo film può esser dovuta anche all’ospitata a Che tempo che fa?

«Fazio garantisce vendita di libri e presenze al cinema, altri programmi di maggior ascolto no. Su Rai 3 assicurava un’attenzione che altrimenti non si aveva. Non so se influisca sulla critica. E non so come andrà a Discovery. Ma sono convinto che lasciarlo andar via sia stato un errore. Sarebbe stata una dimostrazione di forza tenerlo».

Ma l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes non l’ha avuta.

«Lo so bene».

 

La Verità, 17 maggio 2023

Seguendo i soldi con Fazio si indovina sempre

A seguire il flusso dei soldi non si sbaglia. Soprattutto se il beneficiario è Fabio Fazio, nativo di Savona. Nessun martirio, nessuna censura. Ci mancherebbe. L’addio alla Rai «dopo quarant’anni di onorata carriera», tra folle di vedove inconsolabili e sodali de sinistra in servizio permanente, è una faccenda di mercato editoriale. Una questione di danè. Altro che vittime della democrazia. Follow the money, recita il vecchio adagio. E nel caso del conduttore di Che tempo che fa è più che mai la pista giusta. Nella nuova casa della Warner Bros Discovery Italia, Fazio guadagnerà 2,5 milioni all’anno che, moltiplicati per quattro, fanno dieci milioni tondi tondi. Niente male. Rispetto al milione e 900mila percepito in Rai con l’ultimo contratto, si tratta di un incremento superiore al 30%. Il miglioramento è ancora più ragguardevole considerando la durata del nuovo accordo che la Rai di sicuro non avrebbe potuto garantirgli. Insomma, un contratto dorato solo stando a quello che lo riguarda personalmente. Cioè, senza contare quanto incasserà OFFicina, la società fondata nel 2017 e di cui ora è socio al 50% con Banijay. Nell’ultimo biennio, per la produzione delle trenta puntate del talk show di Rai 3 l’incasso è stato di 10,6 milioni. Se la percentuale d’incremento fosse la stessa, si sfiorerebbe la cifra di 14 milioni, sempre all’anno. Ma questa è solo un’ipotesi perché dipenderà dalle scelte di palinsesto di Nove, la rete sulla quale potranno continuare a vederlo i suoi affezionati telespettatori.

«Sono in Rai da quarant’anni, però non si può essere adatti a tutte le stagioni», ha detto lui domenica sera rispondendo al fervorino di Ferruccio De Bortoli («Oggi la notizia sei tu…»). «Io e Luciana (Littizzetto ndr) non abbiamo nessuna vocazione a sentirci vittime né martiri», ha assicurato, bontà sua, tentando poco convintamente di sedare i piagnistei della tifoseria desiderosa di buttarla in politica. «Siamo persone fortunatissime e avremo occasione di continuare altrove il nostro lavoro», ha ribadito. Invano. Lo stesso De Bortoli aveva chiosato: «Il fatto che te ne vai è una gravissima perdita per il servizio pubblico e un grande errore editoriale». Ieri, con il solito gioco di prestigio tra narrazione e fatti reali, i giornaloni fiancheggiatori hanno dato il meglio per pilotare sul conto del governo di Giorgia Meloni il clamoroso divorzio. «Rai a destra, Fazio lascia», ha titolato Repubblica. «Vergogna Rai. Fazio costretto all’addio», ha echeggiato La Stampa. In realtà, se di «grande errore editoriale» si tratta, è evidente che a commetterlo è stato l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes che si è ben guardato dal presentargli una proposta di rinnovo del contratto. Come hanno sottolineato sia la presidente Marinella Soldi che i consiglieri Rai, nei mesi scorsi c’era tutto il tempo per farlo. Ma in quel modo non ci sarebbe stato nessun caso politico. E addio anche alle accuse di censura che stanno galvanizzando le milizie dem. Fazio non ha voluto aspettare che, giusto ieri, la nuova governance s’insediasse in Viale Mazzini e Roberto Sergio, amministratore delegato, e Giampaolo Rossi, direttore generale, prendessero possesso degli uffici, firmando il giorno prima con Discovery. Anche in questo caso la tempistica è rivelatrice. Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai? Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros. L’unica rimasta sul tavolo dopo che anche Urbano Cairo, patron di La7 con la quale il conduttore aveva già flirtato, si è defilato quando Fazio ha chiesto di contrattualizzare anche la squadra di autori e il gruppo di OFFicina. In fondo, con lui e «Lucianina», è un intero blocco di potere che si sposta. Che tempo che fa è una centrale di formazione del consenso, un crocevia di case editrici, produzioni cinematografiche, contenuti giornalistici, artisti, comici, ballerine e compagnia cantante. Ma per i bilanci controllatissimi del parsimonioso Cairo arruolare tutti avrebbe potuto essere un colpo mortale. Come quello che, nel 2001, portò alla fine precoce del tentativo di creare dall’ex Telemontecarlo di Vittorio Cecchi Gori ceduta a Roberto Colaninno l’agognato terzo polo tv. Anche allora c’erano Fabio Fazio e Luciana Littizzetto tra i volti della nuova emittente. Ma i debiti accumulati e il nuovo cambio di proprietà fecero abortire il progetto in poche settimane. Che, tuttavia, valsero a Fazio una liquidazione di 28 miliardi di vecchie lire, utili per prestigiosi investimenti immobiliari. Ci vollero due anni prima che il conduttore di Savona tornasse nella tv pubblica, nel 2003, ricominciando da Che tempo che fa.

Insomma, a seguire il flusso del denaro s’indovina. E si scopre che, ai quarant’anni di onorata carriera in Rai di EffeEffe, bisogna sottrarne due di esilio e sommare 28 miliardi di vecchie lire. Quanto fa?

 

La Verità, 16 maggio 2023

«Io di nuovo in Rai? Nulla di vero, solite chiacchiere»

La più guardata dagli italiani e la più invidiata dalle italiane. Per la dolcezza, l’energia e la carica di sensualità che sprigiona. Il grande pubblico se n’è accorto all’ultimo Festival di Sanremo, quando è scesa dalla scalinata dell’Ariston cantando e ballando La notte vola. Poi l’abbiamo intravista ai funerali di Maurizio Costanzo e ora la seguiamo come una dei prof di Amici di Maria De Filippi. Lorella Cuccarini ha 57 anni, quattro figli e una serenità non comune.

Questo è il suo terzo anno come insegnate, ora di canto oltre che di ballo, del talent show di Canale 5: che aspettative ha?

«Non ho aspettative personali, la nostra missione è accompagnare i ragazzi a fare le scelte giuste e difenderli quando serve. Anche se lanciamo i guanti di sfida agli altri prof, noi insegnanti restiamo dietro le quinte».

Che cosa la guida nel rapporto con i ragazzi?

«Metto a loro disposizione il bagaglio di esperienza maturato in 37 anni di professione. E anche il buon senso acquisito come madre di giovani che hanno più o meno l’età dei concorrenti».

Che cosa serve per coltivare il talento?

«Impegno, lavoro, sudore. Essere spavaldi sul palco e umili fuori».

Si dice che i talent show siano una scorciatoia che evita la gavetta: cosa ne pensa confrontandoli con la sua formazione?

«Il momento storico in cui sono uscita io era molto diverso, i talent show non esistevano. C’erano i talent scout che andavano a caccia di giovani. Io ho avuto un percorso ancora diverso perché, grazie a Pippo Baudo, ho potuto approdare a Fantastico, facendo un salto nel buio. Da un giorno all’altro sono stata catapultata nel varietà più importante con l’esperienza di una ballerina di fila. Se guardiamo ai talent, i ragazzi possiedono già un loro bagaglio e poi hanno parecchi mesi per crescere ed emergere».

Quindi, non concorda con quella critica?

«No. I talent sono una strada che offre delle opportunità ai giovani che altrimenti farebbero molta fatica. La Rete è un’altra possibilità».

Nel mondo dello spettacolo il merito è rispettato?

«Domanda da un miliardo di dollari».

Rispondiamo con 100 euro.

«Nel nostro caso sì. Il percorso a imbuto di Amici impone i concorrenti che valgono. A volte alcuni ragazzi capiscono che non è ancora arrivato il momento giusto. Perciò, devono aspettare per emergere dopo».

In generale nel mondo dello spettacolo la meritocrazia vale o no?

«Bisogna capire i contesti. A volte vediamo delle meteore che conquistano velocemente la popolarità in tanti modi. Io sono una boomer e mi sfuggono alcuni meccanismi della contemporaneità. Tra popolarità e successo vero c’è una bella differenza».

Ripartiamo dalla sua apparizione sanremese: è la disciplina che la fa essere ancora sensuale?

«La disciplina e anche la serenità. Cioè, essere arrivata a un punto della vita in cui prendo con leggerezza quello che succede».

Ha superato anche momenti in cui questa leggerezza è stata messa in discussione?

«Soprattutto quando ero più giovane e avevo una certa ansia da prestazione. Pensi di non fare mai abbastanza… Poi, finalmente, arriva il momento in cui non devi dimostrare niente e puoi vivere la tua stagione con leggerezza».

Qualche anno fa ha subito anche un intervento alla tiroide.

«Quello è stato un periodo impegnativo. A quel problema fisico si era aggiunta la perdita di mia madre, la persona più importante nella mia vita. È stata anche una fase d’impasse professionale. Quando si mette tutto in discussione, di leggerezza ce n’è poca».

L’altro grande segreto è l’unità della sua famiglia?

«Credo sia l’elemento fondamentale».

È raro nel vostro ambiente un rapporto duraturo come quello che ha con suo marito, il produttore Silvio Testi.

«Il giorno del matrimonio eravamo in tre. Siamo entrambi cattolici e praticanti e quando abbiamo scelto di sposarci non eravamo soli. Credo che questo faccia un po’ la differenza nel momento in cui abbiamo scelto di camminare insieme. Le promesse che reciti davanti al sacerdote hanno un loro peso specifico».

Ora non siete più in tre.

«In sette, con i nostri figli».

Come riesce a gestire il ruolo di madre di quattro figli e una professione tanto impegnativa?

«Come tutte le donne del mondo, non mi pare di essere dotata di superpoteri. Oppure li hanno tutte le madri che lavorano».

Nel vostro ambiente, la durata del rapporto coniugale non è così scontato.

«Non solo nel nostro, purtroppo. Gestire la famiglia e lavorare, anche questo costa disciplina. È faticoso, ma è bellissimo».

Il fatto che non vi siate vaccinati è stata una scelta?

«Ci siamo ammalati tutti con la prima ondata e perciò siamo sufficientemente immunizzati. Mio marito non si è ammalato e si è vaccinato».

L’abbiamo vista molto partecipe ai funerali di Maurizio Costanzo: l’ha colpita qualcosa di quel momento?

«Ho pensato al dolore di Maria. Ero abituata ad apprezzare la sua vitalità nel lavoro e la sua capacità di esserci per tutti. Vederla così è stato un dolore. Mi ha fatto piacere constatare la vicinanza a lei di tantissime persone, non solo dello spettacolo, anche meno note, ma sempre partecipi».

Che cosa pensa dei selfie alla camera ardente ai quali si è sottoposta? Lei come avrebbe reagito?

«Solitamente faccio le foto con chiunque, in qualsiasi situazione personale. Ma in chiesa non mi è mai capitato e mi è sembrato di cattivo gusto. Non so come avrei reagito, spero di non trovarmici mai».

Quell’episodio indica la superficialità cui ci sta portando la società dello spettacolo?

«Secondo me la causa non è il mondo dello spettacolo, ma l’avvento dei social. Con un telefonino si può immortalare qualsiasi momento e questo ci porta a fare cose insensate».

I social sono parte dello società dello spettacolo.

«Si entra in un circuito, si cercano like facili e si fanno anche azioni inaccettabili sul piano umano. Non tutti abbiamo la stessa sensibilità ed educazione».

Ha notato qualche cambiamento in Maria De Filippi in queste settimane?

«L’ho ritrovata con la sua capacità di esserci. Ha detto subito: “Cominciamo a lavorare, perché è così che mi hanno insegnato”. Una frase che esprime il suo modo di elaborare il momento. Ho condiviso la volontà di ricominciare dalla nostra passione, dando il meglio di noi».

Qualche settimana fa si era parlato di un suo possibile ritorno in Rai: c’era o c’è qualcosa di vero?

«Non c’è nulla, tutti gli anni vengo citata con questo tira e molla».

Che differenza c’è tra lavorare a Mediaset e alla Rai?

«Bisogna tener conto dei momenti storici. La Rai di Fantastico è stata la mia prima casa, furono anni esaltanti e bellissimi. L’ultimissima esperienza è stata più pesante».

Perché la partecipazione a La vita in diretta su Rai 1 si è conclusa in modo un po’ brusco?

«Quello che dovevo dire l’ho detto. È stato un anno difficile, anche per la situazione che ci siamo trovati a raccontare (il periodo dei lockdown ndr). Non ho nulla da aggiungere».

Invece a Mediaset tutto liscio?

«Per me è stata una rinascita perché sono tornata a fare ciò che mi piace di più e che avevo scelto all’inizio della carriera».

Anche con Heather Parisi il rapporto è stato burrascoso?

«Ma no… Vorrei evitare di fare quello che fa lei con me, non ho bisogno di parlare di Heather per esserci. La apprezzo artisticamente, ma dopo Nemicamatissima non ci siamo più sentite. Abbiamo visioni diverse della professione».

L’ha detto anche lei intervistata a Belve: «Lorella è un po’ la prima della classe, mentre io preferisco improvvisare».

«Prima della classe non lo sono mai stata, ma m’impegno e lavoro molto. Così mi è stato insegnato e così sono riuscita a crescere».

Perché due anni fa ha lasciato l’agenzia di Lucio Presta?

«Lucio è una persona che stimo da prima che iniziassi a lavorare con lui. È stato mio agente per 12 o 13 anni, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di camminare da sola».

Gli agenti hanno troppo potere in tv?

«Ne hanno molto, non so se sia giusto dire troppo. In certi programmi si nota un accentramento di personaggi della stessa scuderia. E quindi vien da chiedersi se vengano scelti per merito o per appartenenza. È difficile che tutte le idee confluiscano sempre nella stessa direzione. Se c’è una concentrazione dei soliti vuol dire che anche gli autori e i produttori sono d’accordo. Non credo che, pur con il loro strapotere, un agente possa decidere al posto di un’azienda».

Abbiamo citato La vita in diretta e Heather Parisi: non è che lei sia un po’ fumantina?

(Ride) «Penso di essere una persona serena e accomodante, lo dico sinceramente. Però sono anche un leoncino… Se vedo cose che non mi piacciono, parlo; difficilmente taccio e subisco. Di solito succede con le persone più potenti».

Ha perso qualche opportunità perché non si è morsa la lingua davanti a una persona potente?

«Non ricordo di aver perso delle opportunità. Però non mi piace che mi mettano i piedi in testa. Se capita, reagisco e in questo mondo finisce tutto in pasto alla stampa. Per questo passo per essere una fumantina, ma non lo sono».

È contenta dello spazio che hanno conquistato le donne ai vertici della politica?

«Non sono per le quote rosa, ma sono felice che ci siano sempre più figure femminili emergenti, come la premier. Mi piace che le donne guadagnino credibilità e conquistino ruoli apicali per capacità e merito, non per concessione. In politica, nelle aziende e nello spettacolo».

Tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein con chi andrebbe a cena?

«Con Giorgia Meloni, anche perché tifiamo per la stessa squadra».

Per quest’unico motivo?

«A pelle, mi sta molto simpatica. Mi piacerebbe conoscerla di più».

Ci può anticipare qualcosa del suo prossimo musical nei teatri?

«Se tutto va bene, in autunno proseguirò la tournée con lo show di quest’anno. Mentre per i miei 60 anni ho in mente un musical, non solo autobiografico. Ma sarà fra tre anni, il tempo per farlo bene non manca».

 

 

La Verità, 25 marzo 2023

Lasciate Fabio Fazio dov’è, nella Ztl di Rai 3

Aiuto, ricomincia. Anzi, è già ricominciato. Come nell’imminenza del rinnovo di ogni contratto. Puntuale e immancabile come la dichiarazione dei redditi, riparte il tormentone di Fabio Fazio fuori dalla Rai. Lo cacciano. Anzi no. È lui che se ne va, che non può restare a queste condizioni. Non può continuare a lavorare nella tv «in mano alle destre» (vedi Lucia Annunziata). Simpatico come un 730 da compilare, il tam-tam è iniziato con largo anticipo sulla scadenza, fra due mesi, del contratto. Si profila un’altra maledetta primavera di forse sì e forse no. Ogni volta un caso di Stato e, francamente, non se ne può più. Eppure c’è chi preferirebbe lasciarlo dov’è, Fazio. E potrebbero pensarci anche i padroni del vapore, Giorgia Meloni e i suoi uomini. Sarebbe un’astuzia che potrebbe spiazzare i fautori dell’«ora tocca a noi». Ma, in realtà, non se ne può più di vedere il «fratacchione» frignare per la mancanza di libertà. Magari gli si potrebbe sforbiciare la cresta del cachet da 1,9 milioni a biennio strappato nel maggio 2021. Continuare a lavorare con la squadra collaudata è pur sempre buona cosa, piuttosto che ricominciare da zero in una tv marginale come Nove, gruppo Discovery…

Da Viale Mazzini filtrano i rumors di scatoloni che si riempiono. A lungo atteso, il risiko delle nomine è partito. I dirigenti destinati a cambiare aria sono più d’uno, dall’amministratore delegato Carlo Fuortes al direttore dell’Intrattenimento prime time, Stefano Coletta, inventore seriale di flop (da Da grande di Alessandro Cattelan fino a Benedetta primavera). E prima o poi qualcuno farà i conti dei costi della sterminata sequenza d’insuccessi. Il vicedirettore dell’Intrattenimento daytime Angelo Mellone, in quota Fratelli d’Italia, sarebbe in odore di promozione, ma forse non a capo della fiction come lui spera. Protetta dal  solito Coletta che la portò da Rai 3 a Rai 1 sembra in declino la stella di Serena Bortone. Per Silvia Calandrelli, responsabile di Rai Cultura sotto la cui giurisdizione Fazio si è spostato per sfuggire alla direzione Intrattenimento, si dice invece sia arrivata l’ora di una nuova destinazione. Questione di settimane e la governance della tv pubblica sarà diversa.

Secondo i beninformati, a mettere in giro le voci del drammatico addio a Mamma Rai sarebbe lui stesso, EffeEffe. Gioca al rialzo, con la sapiente regia di Beppe Caschetto, che ha un nutrito stuolo di artisti e autori da piazzare come ospiti fissi, ospiti saltuari, ospiti frequenti, collaboratori e consulenti, prima, durante e dopo, al Tavolo, nel salotto, sopra e sotto la panca. Che tempo che fa è il giocattolo perfetto per il pubblico benpensante. Costruito e lubrificato negli anni. Nei decenni, già due (potrebbero pure bastare). Un terzo di buonismo, un terzo di perbenismo, un terzo di progressismo e il piatto è servito. Il nuovo film di Veltroni («ma anche» il nuovo documentario, il nuovo saggio, il nuovo romanzo, il nuovo giallo…). Una predica di Saviano. Una prescrizione vaccinale di Burioni. Una promozione dello scrittore da festival. Qualche regista e qualche attore/attrice del quartiere Prati. Il comico mainstream. Un tot di giornalisti allineati, meglio se del gruppo Cairo, vista la danarosa rubrica che EffeEffe tiene su Oggi (si parla di 6.000 euro al mese, beato lui): ed è sempre meglio essere riconoscenti. I compitini di Luciana Littizzetto. I monologhi moraleggianti di Michele Serra. Varie ed eventuali, sempre nel mood del dagli alle destre ora che il fascismo è di nuovo qui.

I siti specializzati tambureggiano da giorni. Dissodano il terreno. Preparano la strada per il sempre ventilato ritorno da La7 di Massimo Giletti. Uno se ne va e l’altro arriva. Ci sarebbero già stati dei contatti. Giletti rientrerebbe di corsa in Viale Mazzini. Quanto a Fazio, anche due anni fa si era parlato di un approdo su Nove, dove c’è ad attenderlo Maurizio Crozza, anche lui targato Caschetto. Sembrerebbe un gioco facile. La quadratura della tv ai tempi del governo più a destra della storia repubblicana.

Però, forse no. Il colpo a sorpresa potrebbe essere lasciare Fazio dov’è. Nella Ztl della Rai. Dove lo seguono quelli del salotto chic. Gli elettori dem. I convinti del gender. I fautori dell’accoglienza senza se e senza ma. I followers di Fedez. I transfughi di Propaganda live. I delusi da Soumahoro. I lettori di Vanity Fair. I nostalgici delle Invasioni barbariche… Il recinto dei buoni. Spingerlo fuori da Rai 3 vorrebbe dire vederlo atteggiarsi a martire, sentirlo piangere per le libertà costituzionali violate. E magari rischiare l’accusa di scarsa lungimiranza editoriale. Giletti potrà tornare lo stesso in Rai, il posto non manca. Ma lasciare il giocattolino a EffeEffe, concedendogli di restare nella Ztl della tv, vorrebbe dire mostrarsi veri liberali. Riuscendo, contemporaneamente, a depotenziarlo.

«Mio padre Gaber, uno di sinistra non della sinistra»

Di sinistra, ma coscienza critica della sinistra. Del conformismo e di quello che poi avremmo chiamato pensiero unico. Senza però mai atteggiarsi, né adagiarsi nel ruolo: l’inventore del Teatro canzone era sempre un passo avanti. E, ora che non c’è più da vent’anni, quanto manca, a tutto campo. Basterebbero i titoli delle canzoni e degli spettacoli – Far finta di essere sani, Libertà obbligatoria, E pensare che c’era il pensiero, citando poco e alla rinfusa – per dire quanto Giorgio Gaber è attuale oggi, e precursore era allora. La figlia Dalia Gaberscik ha creato e dirige l’agenzia di comunicazione Goigest (Gianni Morandi, Jovanotti, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti tra i suoi artisti) ed è vicepresidente della Fondazione Gaber. Ma soprattutto è la custode dell’opera del padre. Per la conservazione della quale annuncia una collaborazione con la Rai.

Chi era Giorgio Gaber?

«Mio papà, semplicemente. Ho avuto presto la percezione che era un papà fuori dal comune».

Vent’anni senza di lui che mercoledì prossimo di anni ne compirebbe 84: che cosa le manca di più?

«Mi manca il riferimento delle decisioni personali e professionali. Anche sul piano artistico sono orfana, come lo sono tutti quelli che l’hanno stimato. Però abbiamo la fortuna che il suo lavoro è ancora eccezionalmente attuale».

Quanto è stata importante nella sua vita la poliomielite contratta da piccolo?

«Abbastanza, direi. Ha formato il suo temperamento, la serietà nell’affrontare le cose. È stata decisiva nella formazione di musicista, lo ha reso tenace nella costruzione dei suoi spettacoli».

Suo padre gli regalò una chitarra perché esercitandosi sciogliesse la mano colpita dalla malattia. Lui ci prese gusto e una volta disse: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia».

«È andata così».

Chi era l’uomo di spettacolo Giorgio Gaber?

«Una persona semplice e curiosa. Molto ambiziosa nel voler trovare forme d’innovazione e stimoli intellettuali. Quindi, un grande lavoratore».

Cosa significa, concretamente?

«Che non si fermava mai. La sua ricerca di temi da trattare, di cui scrivere o da mettere al centro delle conversazioni con Sandro Luporini non aveva pause. Se a una cena ricorreva un argomento capivo a cosa si stava interessando».

Un uomo di sinistra mal tollerato dalla sinistra?

«Un uomo di sinistra, non della sinistra».

Cosa vuol dire?

«Che nasce di sinistra e ha un’attitudine artistica e comportamentale che richiama i valori della sinistra, senza una necessaria appartenenza alla partitica della sinistra».

Ebbe una prima stagione artistica, quella di Torpedo blu, Il Riccardo… che cosa lo fece virare verso la canzone impegnata?

«Credo che l’incontro decisivo fu con Paolo Grassi quand’era sovrintendente del Piccolo teatro di Milano. Fino a quel momento mio padre apriva gli spettacoli di Mina, un’esperienza non semplicissima perché il pubblico aspettava Mina. Ma lui ci è stato e, sera dopo sera, ha instaurato una relazione artistica prioritaria e unica con il pubblico. Fino a iniziare a pensare, con l’incoraggiamento di Paolo Grassi, di poter chiudere con la tv. Quel rapporto lo incoraggiò a rinunciare a tutto, a fronte di un mestiere difficile come il teatro. All’inizio, non sempre agli spettacoli del Signor G c’era il pienone».

L’hanno influenzato anche la canzone francese e Jacques Brel?

«Lo affascinavano molto e sicuramente hanno influito, ma la passione per il teatro nasce con Mina».

Però non indossò mai il sussiego esistenzialista.

«No. Il teatro era solo il posto dove avevano maggiore capacità di penetrazione le cose che voleva dire».

Che rapporto aveva con le donne?

«Erano anni abbastanza affollati, per usare un suo paradigma. C’era la rivoluzione femminista e mia mamma era molto impegnata. Ma loro si fidanzarono da piccolini, 19 anni lei 24 lui. L’ho sempre visto follemente innamorato. Il rapporto con il mondo femminile è sempre transitato da una donna molto diversa dall’universo tradizionale, impegnata per il divorzio e l’aborto in anni molto caldi».

In Chiedo scusa se parlo di Maria canta: «La libertà, Maria, la rivoluzione, Maria, il Vietnam la Cambogia, Maria, la realtà». Le donne interrompono le astrattezze ideologiche e riportano alla realtà?

«Direi di sì. Mentre il mondo parlava della rivoluzione pensava fosse altrettanto importante parlare del rapporto tra un uomo e una donna».

In un altro brano canta: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione».

«Era un invito a essere concreti perché troppa ideologia finiva in chiacchiere da bar. Chiacchieriamo e pontifichiamo pure, ma se non siamo concreti rischiamo di essere dei ciarlatani, nel senso di ciarlare e basta».

In che cosa può essere considerato un precursore?

«Basta rileggere i temi affrontati con Luporini, temi dai quali per tanti anni i cantautori si sono tenuti lontano. Come le riflessioni sul rapporto di coppia, di un’attualità sconvolgente».

«Al bar Casablanca con una gauloise, la nikon, gli occhiali. E sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali»: anno 1974, vide già la nascita dei radical chic?

«Potrebbe essere senz’altro così. Era un bar di Viareggio, frequentato da intellettuali».

In Io come persona, 1995, descrive «un tempo indaffarato e inconcludente», ma evoca la reazione e la responsabilità dell’io.

«La maggior contemporaneità è quando si addentra nell’analisi della persona. Abbiamo molte testimonianze di giovani che ce lo confermano. Mentre quando affronta la politica anche con pezzi ironici a volte cita figure che i miei figli ignorano, nelle questioni che riguardano l’animo umano mi sembra non ci siano rivali. S’inoltrava in un territorio unico».

È qualcosa che andrebbe protetta e tramandata ai giovani?

«Ci stiamo lavorando, raccogliendo tutti i materiali che in questi vent’anni abbiamo trovato. In collaborazione con la Rai stiamo definendo un progetto di organizzazione di tutto questo materiale».

Vedremo dei programmi tv?

«Per ora è un progetto finalizzato al recupero e alla conservazione».

Come lavoravano lui e Luporini?

«Facevano lunghissime chiacchierate. Mio padre andava in tour durante l’inverno, poi all’inizio dell’estate si ritrovavano a Viareggio, prima all’hotel Maestoso, poi al Plaza e negli anni Ottanta a casa nostra. Erano chiacchierate su tutto, che duravano dal primo pomeriggio fino a dopo cena».

Destra-sinistra è un brano del 1994: aveva già capito che erano categorie che non coglievano più l’essenza delle cose?

«Direi proprio di sì».

Non era una riflessione indotta dalla scelta di Ombretta Colli di candidarsi in Forza Italia?

«È un pezzo nato ben prima. Penso che in teatro l’avesse proposta già nel 1992-’93. Registrava le canzoni quando gli pareva. Al contrario di quello che succede oggi, lui usava il disco per fermare quello che aveva già avuto una vita a teatro».

Però tornò a votare per lei dopo anni che non lo faceva…

«È vero. Disse che il voto va dato alle brave persone e siccome pensava che sua moglie lo fosse, decise di votarla: “Non mi perdonerei mai se non fosse eletta per un voto”».

Fu criticato?

«Moltissimo. L’hanno messo in croce. Molti dei suoi ex amici della sinistra gli hanno anche chiesto di separarsi; perché qualcuno che ti chiede una cosa del genere non penso sia un tuo vero amico».

C’era qualche intellettuale in cui si riconosceva? Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco…

«Direi di no. La loro ricerca scandagliava tutti, da Borges a Pessoa a Rilke, per rubare anche a mani basse, ma dichiarando sempre il debito dalle fonti. Di italiani non ricordo di aver mai visto citato nessuno».

Il potere dei più buoni, 1998, fu un’altra profezia del buonismo terzomondista ecologista a caccia di visibilità?

«Era un sentimento omologato che faceva nascere dei sospetti sull’originalità del sentimento stesso».

Sembrano profili cuciti da un sarto, come in Si può e Il conformista.

«Non c’era un destinatario singolo. Fotografava una tendenza, un sistema di pensiero».

Per che cosa perdeva la pazienza?

«Detestava la superficialità, il tirar via le cose, il fatto di non esser seri. Diceva che voleva essere ricordato come una persona seria, la poliomielite l’aveva formato. Una cosa che diceva sempre della tv, anche a Celentano: tu provi due ore una cosa che vedranno 13 milioni di persone, io tre mesi una cosa che vedranno 300.000 persone».

Era una provocazione?

«Certo, erano grandi amici. Volle tornare in tv proprio ospite di Celentano con il quale si volevano bene».

Ha mai fatto una litigata furiosa?

«Non era un litigatore, uno che si metteva a urlare. I suoi silenzi erano punitivi e più che sufficienti, lo dico da figlia».

C’è qualcosa o qualcuno che non gli piacerebbe dell’Italia di oggi e qualcosa o qualcuno che apprezzerebbe?

«Domanda difficile. Non so cosa penserebbe degli influencer… L’approccio del successo facile non gli piacerebbe. È morto nel 2003, ma per ciò che è successo nell’intrattenimento e nella comunicazione son passati tre secoli».

Vuole raccontarci qualcosa di poco conosciuto della sua vita?

«Quando, a causa dei problemi di salute, non poteva più esibirsi a teatro, io e Paolo Dal Bon, ora presidente della fondazione, lo convincemmo a incidere un disco. Il successo di La mia generazione ha perso, che fu primo in classifica, lo spiazzò perché si accorse che il lavoro destinato al teatro lo aveva fatto arrivare a un numero limitato di persone».

Ho letto su .Con un articolo di Enzo Manes che racconta la sua partecipazione al Meeting di Rimini e l’inizio di un carteggio con don Luigi Giussani.

«Avvenne a fine anni Novanta. A proposito di persone serie, era incuriosito da gente che aveva voglia di riflettere e pensare. Confrontava quel mondo con la deriva del movimento studentesco che l’aveva affascinato ai suoi tempi».

Fu contestato dalla Pantera?

«Non ricordo. Ricordo uno scontro nel camerino del teatro Lirico con gli autoriduttori che volevano imporre esibizioni di persone qualsiasi».

Era incuriosito dalla gente del Meeting pur da posizioni diverse?

«Più di una semplice curiosità era un interesse sincero verso il mondo dei cattolici, interlocutori che lo soddisfacevano sul piano intellettuale e della passione per il ragionamento. Certo, con posizioni diverse, come sull’aborto e il divorzio».

Chi era suo padre?

«Un grande. Da ragazzina non capivo i contenuti degli spettacoli, ma vedevo la faccia delle persone quando uscivano dai teatri e capivo che era un’artista e una persona speciale. Sulla sua tomba abbiamo scritto “Artista”. Anche se lui forse avrebbe preferito “Una persona per bene”».

 

La Verità, 21 gennaio 2023

Il Moro di Esterno notte è vittima di Bellocchio

Potente, livida e rituale, alla maniera di tutta la sua cinematografia (L’ora di religione, Vincere, Bella addormentata), in particolare di Buongiorno, notte di cui è l’ideale prosecuzione, è iniziata su Rai 1 con i primi due episodi, dei sei previsti in tre serate-evento ravvicinate, Esterno notte di Marco Bellocchio, la serie già presentata al Festival di Cannes e premiata dagli Efa, gli Oscar europei, per il suo carattere innovativo. Nella scena finale di quel film ambientato tutto all’«interno» del covo, in una prospettiva onirica che echeggiava l’idea del buon esito della trattativa, Aldo Moro veniva dissequestrato dai terroristi e lo si vedeva camminare per le vie di Roma. Qui, interpretato da un somigliantissimo Fabrizio Gifuni, lo ritroviamo sotto choc dopo la liberazione in un ospedale dove, mentre gli fa visita lo stato maggiore del partito, si ascoltano le parole di una lettera da lui indirizzata ai terroristi: «Io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Per quanto riguarda il resto, dopo quello che è accaduto, non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della Democrazia cristiana». La lettera, trovata nel memoriale, risale ai giorni che precedono l’uccisione quando, anche dopo l’accorato appello di Paolo VI «agli uomini delle Brigate rosse», sembrava che una speranza di liberazione fosse ancora viva e lo stesso prigioniero se n’era drammaticamente illuso, sentendosi al contempo abbandonato dal partito.

È, in buona sostanza, la tesi dell’Affaire Moro di Leonardo Sciascia, per il quale il governo dell’epoca, il quarto a guida Giulio Andreotti, non ebbe titubanze nel perseguire la linea della «fermezza», attribuita dal regista proprio al presidente del Consiglio. Del resto, tra i contagi cinematografici di Effetto notte ci sono quel Todo modo di Elio Petri, scritto da  Sciascia, e Il divo di Paolo Sorrentino. Ne scaturisce un’opera formalmente curata,  di penombre e primi piani ritratti in una luce depressa che riflette sia l’aria plumbea dell’epoca che la psicologia dello stesso presidente Dc, a sua volta affetto da ansia depressiva (vedi Il Dio disarmato di Andrea Pomella, Einaudi, ndr). Un’opera che Bellocchio, con i consulenti Miguel Gotor e Giovanni Bianconi, dissemina senza controllo di tutte le sue antipatie e idiosincrasie. Per esempio, verso una Dc losca e proteiforme nelle sue diverse anime assetate di potere, in cui si salva solo il mite statista, vittima designata. Gli altri democristiani, chi più chi meno, sono proiettati in una visione parziale ed egoriferita. Appena appresa la notizia del rapimento, quando ministri e sottosegretari stanno giurando, Andreotti fugge a vomitare nel water, mentre Paolo VI intima ai suoi inservienti di stringergli il cilicio. Non tanto perché il pontefice di un compiaciuto Toni Servillo spicchi in ascetismo – risulta politico e ammiccante – quanto perché nell’estetica bellocchiana, se la Dc è ambigua e limacciosa, sua logica dirimpettaia è una Chiesa cupa e oscurantista.

Un Moro dimesso, nonno affettuoso e docente universitario già contestato a lezione dai militanti più radicali, attraversa sulla Fiat 130 i quartieri di Roma dove campeggiano scritte minacciose e si rapinano le armerie. Credibile nelle movenze e nelle titubanze, lo statista lo è meno nel vocabolario «da operazione culturale» quando, in un discorso alla direzione del partito, usa il verbo «includere» per descrivere la ricerca dell’appoggio esterno del Pci al nuovo governo. Il fatto stupisce solo in parte: «includere» e «inclusione» sono vocaboli forzatamente ed esageratamente infilati in tante pellicole e serie mainstream sul passato. Cosicché, in costume nelle scenografie e nelle ambientazioni, esse diventano ultra contemporanee in alcune parole d’ordine.

Per tornare ai protagonisti dell’esterno democristiano, già nelle prime apparizioni Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) si mostra preoccupato della reazione degli «amici americani». Ricorrerà infatti ai consigli di Steve Pieczenick, esperto statunitense di terrorismo, per gestire le indagini e indirizzare la comunicazione. Ha un ruolo notevole accanto al ministro dell’Interno, «Eccellenza» per i collaboratori, anche lo psichiatra Franco Ferracuti, poi trovato nelle liste P2, che lo assiste nella sua umoralità, causata dall’indifferenza della moglie, «per lei sono un fantasma», dalla vitiligine, dai tic e le passioni per i soldatini e le intercettazioni telefoniche, per ascoltare le quali viene allestita una gigantesca centrale. Ancora peggio escono le forze dell’ordine: comandanti dei Carabinieri, della Polizia, della Guardia di finanza, descritti da Cossiga come «tutti massoni iscritti alla loggia P2 (già lo sapeva nel 1978?), ex fascisti o ancora fascisti, ferri vecchi», propongono di dichiarare lo stato di guerra e ripristinare la pena di morte.

Ha grande ragione Maria Fida Moro, primogenita dello statista quando dice che «o si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». Prodotta da The Apartment, Kavac film, Rai fiction e Arte France cinéma, Esterno notte è un’opera forte e seducente che, per l’apocalitticità dei temi trattati, travalica i confini abituali della serialità, tanto più quella targata Rai. Ma è un’opera che richiede una visione critica e un buon grado di discernimento in possesso del pubblico più stagionato, testimone degli anni narrati. I telespettatori più giovani, invece, rischieranno di lasciarsi irretire dalla confezione, assumendo con essa anche le tesi parziali e orientate del suo autore.

 

La Verità, 15 novembre 2022

«Con questa campagna elettorale, meglio ballare»

Cara Luisella Costamagna, ci presenta il suo curriculum da ballerina?
«Ho fatto danza classica da bambina, come tanti».
Tanti?
«A sei anni mi piaceva avere il tutù e le scarpette a punta. Non coltivavo particolari ambizioni. Adesso ballo quando mi capita».
Per esempio?
«In vacanza, a una festa, corsi veri non ne ho mai fatti. Appena un paio di lezioni di tango, qualcun’altra di danza afro, quando andava di moda».
In gioventù?
«Mi piacevano i musical, il tip tap, Ballando sotto la pioggia, Gene Kelly più di Fred Astaire. Anche Blues brothers».
Un ricordo di lei ballerina?
«Ero in vacanza con i miei genitori e il villaggio organizzò una serata di rock acrobatico, ma a me capitò un partner mingherlino. Così mi toccò fare l’uomo e reggere le sue capriole. Ridevano tutti».
Balere, sagre paesane, discoteche o night?
«Vivevo in un paesino della provincia torinese di 1.300 anime e al sabato sera o la domenica pomeriggio si andava in discoteca. Adesso, a una festa di amici o in un hotel se c’è musica mi viene spontaneo ballare».
È la prima volta che Milly Carlucci le chiede di partecipare a Ballando con le stelle su Rai 1?
«Me lo chiese già qualche anno fa, ma dissi di no perché i tempi non mi sembravano maturi».
Perché ora lo sono?
«Ci siamo risentite in primavera e considerando che il ballo mi diverte, non ho trovato un solo motivo per non partecipare. Peraltro, dopo Agorà, non avevo impegni…».
Suo marito cos’ha detto?
«All’inizio era perplesso, ma poi si è convinto».
Giornalista televisiva e della carta stampata, autrice di libri-inchiesta sul sesso visto dagli uomini, Luisella Costamagna si è affermata nei programmi di Michele Santoro a partire da Moby Dick su Italia 1, anno 1996. Dopo la collaborazione con Maurizio Costanzo, ha firmato come autrice Annozero e Servizio pubblico, sempre di Santoro, per poi approdare alla conduzione in proprio su Sky e La7, fino alle ultime due edizioni di Agorà su Rai 3. Mentre parliamo la si sente svapare.
Sta fumando?
«Sì, fumo le sigarette elettroniche, recuperare il fiato sarà faticoso. Due anni di Agorà fiaccano fisicamente, prima andavo a nuotare, ora ho smesso. Sono sempre stata sportiva, ho giocato a calcio da centravanti. Da diversi anni ho scoperto le immersioni e ho preso il brevetto».
Un maschiaccio.
«Avevo due fratelli maschi, ma ho sempre rivendicato la mia femminilità».
Parliamo di Ballando, cosa pensa delle polemiche per l’arruolamento di Enrico Montesano?
«Penso che abbia ragione Milly Carlucci, Montesano è un grande uomo di spettacolo. Non condivido una sola parola di quello che dice sul Covid, ma non se ne parlerà perché Ballando è un varietà e non un programma d’informazione».
Lorenzo Biagiarelli è fidanzato della giurata Selvaggia Lucarelli: conflitto d’interessi?
«Confesso la mia ignoranza sia su di lui che sulle polemiche collegate».
Alex Di Giorgio per la prima volta ballerà con un partner gay.
(Sospira) «E che problema c’è?».
Discorso lungo. L’Espresso ha scritto che, partecipando a Ballando, corrompe la missione del giornalismo duro e puro.
(Ride) «Ho scoperto di avere dei nuovi tutori. Se ballo, come se faccio le immersioni, sono meno credibile come giornalista? Penso che quelli che mi attaccano cerchino visibilità attraverso di me. L’Espresso ha scritto che sono “una giornalista di razza” che è stata “salutata con imbarazzante leggerezza” dopo due stagioni di Agorà. Mi domando perché non l’hanno scritto quando è successo e lo fanno solo adesso, attaccandomi in nome di una categoria che non difendo».
Il ballo corrompe il giornalismo?
«Appunto, no. Sono due mondi diversi. Faccio la giornalista da trent’anni, penso di aver già dimostrato se sono capace di farlo o no».
Non trova curioso che chi critica la sua partecipazione a Ballando difenda a spada tratta la premier finlandese?
«È un problema loro. Una donna premier è libera di ballare a una festa come io lo sono di partecipare a un talent in cui si balla».
Ma lei è in quota riciclati con Gabriel Garko, in quota giornalisti con Giampiero Mughini o nella rivincita delle bionde con Paola Barale e Marta Flavi?
«Nei cast di Ballando c’è sempre stata la quota giornalisti. È un programma nel quale si fa del ballo sportivo con dei maestri e mi fido della credibilità che Milly gli ha dato negli anni. Nel cast ci sono concorrenti noti e popolari come Iva Zanicchi e Gabriel Garko che è un attore, non un riciclato. Altri sono più smarcati come Ema Stokholma e Paola Barale. Quello che mi compete è come provare a fare bella figura».
E la rivincita delle bionde?
«Anche delle brune, degli uomini e delle donne… Il ballo è interprofessionale, intergenerazionale, internazionale…».
Adesso è chiaro perché, giubilata da Agorà, non ha posato da martire: aveva voglia di far tardi la sera per andare a ballare.
«Su Agorà non voglio fare polemica. Dopo due anni di sveglia alle 4 del mattino, di non vita, di 2 ore di diretta al giorno e risultati eccellenti, mi sarei aspettata qualcosa di più e di meglio di un gelido “si accomodi”. Non fare una terza stagione ci stava pure, ma il nulla mi è sembrato un po’ ingeneroso».
Non le hanno detto niente?
«Non mi hanno proposto un’alternativa. Sono in contatto con Antonio Di Bella, (nuovo responsabile del genere Approfondimenti ndr): fino a dicembre c’è Ballando, vediamo se poi maturerà qualcosa».
Come gliel’hanno spiegato?
«Mario Orfeo mi ha comunicato che non avrei più fatto Agorà poco prima di essere rimosso anche lui dalla direzione degli Approfondimenti. Che abbia fatto bene il mio lavoro è nei fatti».
Non sarà perché è considerata in quota 5 stelle?
«Sono in tv dal 1996, quando i 5 stelle nemmeno erano nell’anticamera del pensiero di Beppe Grillo. In quante quote dovrei essere stata da allora?».
Cartabianca Carlo Calenda l’ha accusata di essere aggressiva.
«Ho fatto solo delle domande. Visto che parlava dell’incoerenza di altri politici ho citato una sua frase in cui si esprimeva in termini non entusiastici su Matteo Renzi. Poi gli ho chiesto se Mario Draghi è d’accordo sull’idea del Terzo polo di mantenerlo a Palazzo Chigi oppure se è un’iniziativa a sua insaputa. Forse alcuni politici non sono più abituati a ricevere delle domande».
I giornalisti potrebbero fare qualcosa di più per elevare questa campagna elettorale?
«Secondo me, sì. Per esempio, fare le domande ai politici. Proprio quello di Calenda è un caso emblematico, anche di un giornalismo acquiescente. Un altro problema di questo Paese è la memoria. Certe dichiarazioni o certe posizioni assunte non vengono tenute a mente quanto dovrebbero».
Per esempio, bisognerebbe chiedere più conto della gestione della pandemia?
«Infatti, il Covid sembra debellato. È un errore non parlarne soprattutto in prospettiva, perché purtroppo non è finito e bisogna continuare con la campagna vaccinale. Ho un figlio che tra pochi giorni tornerà a scuola e vorrei sapere perché certi interventi sui trasporti o sui sistemi di areazione non sono stati fatti».
Sarebbero interessanti anche risposte sulla mancata adozione degli antinfiammatori di cui l’Istituto Mario Negri ha documentato l’efficacia?
«Di fronte a un virus sconosciuto si è proceduto politicamente e scientificamente per approssimazione. Inevitabile siano stati commessi errori perché si facevano i conti con un virus nuovo. Ciò che preoccupa è che non se ne parli».
Come giudica che non si parli delle scelte economiche del governo Draghi e dell’invio di armi all’Ucraina?
«Negli ultimi mesi della mia conduzione di Agorà era un tema cruciale, mentre in campagna elettorale è scomparso. Un altro tema rimosso che riguarda milioni di italiani è quello delle pensioni, a fine anno scadrà quota 102: come la sostituiamo? Con una campagna elettorale così, meglio ballare…».
È proprio convinta.
«C’è solo lo scontro tra rosso e nero. Non si parla dei temi cruciali, ma dell’allarme per la democrazia».
Lei non lo vede?
«Non vedo derive autoritarie alle porte. Penso che il vero pericolo per la democrazia siano i troppi governi non scelti dagli elettori. E questo a causa del fatto che da anni, prima il Porcellum ora il Rosatellum, abbiamo leggi fatte per non far vincere gli avversari più che per garantire una maggiore e migliore rappresentanza degli italiani».
Le piacciono di più i manifesti rossoneri di Letta o le barzellette su TikTok di Berlusconi?
«Né gli uni né le altre. Sono radicalizzazioni inevitabili nelle campagne elettorali. Preferirei che i giornalisti facessero le domande e si parlasse di temi concreti».
Anche a lei sembra che Giorgia Meloni abbia un problema con le donne?
«No, anzi».
Sono le donne che hanno un problema con lei?
«No, domanderei ai suoi colleghi perché lei sia l’unica donna leader di partito e candidata premier. Perché gli altri sono così in ritardo? Rinfacciare a lei un problema con le donne lo trovo surreale».
Elly Schlein ha detto che non se ne fa niente di una donna premier non femminista.
«Condivido quello che ha detto Hillary Clinton: “La prima donna premier è sempre una rottura col passato, ma sicuramente è una buona cosa. Dopodiché sarà giudicata per quello che fa”. Nel frattempo registro che nel Regno unito siamo alla terza premier donna».
Andrà a votare?
«Sono sempre andata, votare è un diritto-dovere. Mi preoccupa lo scollamento che percepiscono gli italiani, il 40% tra indecisi e astenuti è un campanello d’allarme su cui riflettere».
La causa è un difetto di rappresentanza o la nascita di troppi governi creativi?
«Vedo varie motivazioni di questa distanza. Siamo usciti da una fase di grave preoccupazione sanitaria e siamo piombati in un’emergenza economica ed energetica. Il costo delle bollette è un problema serio e stringente e gli italiani vorrebbero delle risposte sul gas, sulle pensioni e sulla pandemia, invece si parla di TikTok».
Tornerà a scrivere sui giornali, magari sul nascente Nuovo mondo di Michele Santoro?
«Anche se prenderò sul serio Ballando con le stelle, continuerò a fare la giornalista, partecipando ai talk show e scrivendo. Conducendo Agorà in Rai avevo interrotto le collaborazioni perché tenevo a presentarmi in modo imparziale. Ora le riprenderò. Santoro non lo sento da tanto; nelle posizioni che ha espresso ultimamente, dopo un periodo di smarrimento, ho ritrovato il Michele che conosco».

 

 La Verità, 10 settembre 2022