Stipendi Rai, gli errori di CDO e l’ipocrisia dei politici
Ci sarà un motivo se l’unico broadcaster europeo che pubblica in rete stipendi e compensi di dirigenti e giornalisti è la BBC. E ci sarà un motivo se tutti gli altri servizi televisivi statali, da France2 a Ard e Zdf, non lo fanno.Il motivo è semplice: la BBC è l’unico servizio televisivo pubblico che si finanzia esclusivamente con il canone di abbonamento,
mentre tutti gli altri sono finanziati anche dalla pubblicità e devono perciò competere con il mercato. Tutto il casino cui stiamo assistendo per l’avvio dell’operazione trasparenza è dovuto al tentativo della Rai, primo network pubblico che si finanza anche con la pubblicità, di inaugurare nuove regole. La controprova è che, restando al modello BBC, nemmeno il broadcaster britannico pubblica i cachet degli artisti, proprio perché significherebbe fornire informazioni sensibili ai concorrenti delle tv commerciali. Come ha osservato Carlo Freccero, “non si è capito che questa operazione è come una tanica di benzina in una foresta”.
L’ipocrisia della politica. Ne abbiamo un esempio clamoroso nello spettacolo di Pd e M5S che si rinfacciano l’approvazione di leggi contraddittorie con l’esigenza della spending review e della trasparenza. Da una parte il cavillo che, attraverso l’emissione di un titolo di debito (bond), consente alla Rai di aggirare il rispetto del tetto dei 240 mila euro (voluto dal Pd e osteggiato dai grillini), dall’altra l’impegno per il Piano trasparenza (perseguito dai dem e non dal M5S). Ma la cattiva coscienza dei politici, a cominciare dal premier Renzi se sono vere le indiscrezioni di presa di distanza dai vertici Rai, si esplicita nella corsa generalizzata a scaricare sugli attuali amministratori responsabilità che vengono da lontano. Ovvero da altre “ere geologiche della lottizzazione” nelle quali i partiti hanno usato la Rai per soddisfare appetiti di potere, piazzando amici e parenti, e imponendo connivenze e condiscendenze in favore della propria propaganda. A questo si devono le attuali posizioni di ex dirigenti e giornalisti parcheggiati (Lorenza Lei, Alfredo Meocci, Mauro Mazza, Anna La Rosa, Francesco Pionati, per citarne solo alcuni) che percepiscono compensi sopra i 200mila euro senza fare nulla e trovandosi ora, genericamente, “a disposizione del direttore generale”. E a questo si devono, per converso, situazioni come quella di Carmen Lasorella, inutilizzata perché estranea alle logiche dei “gigli magici”. Ora ci si stracciano le vesti, che scandalo signora mia! Si convocano i vertici aziendali all’Autorità nazionale per l’anticorruzione e in Commissione di Vigilanza – che è proprio lo strumento attraverso il quale si è perpetrata la lottizzazione – e si pretendono miracolosi risanamenti di situazioni frutto di metodi che per secoli hanno premiato criteri di appartenenza e fedeltà a scapito del merito e della competenza.
Ora c’è chi vuole reintrodurre il tetto degli stipendi pubblici dopo che appena un anno e mezzo fa si è approvata la norma che permetteva di aggirarlo. Domanda: si fa un trattamento speciale solo per la Rai, colpevole di aver inaugurato l’operazione trasparenza? E le altre aziende a partecipazione statale (Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Finmeccanica) restano libere di oltrepassare i limiti? Improvvisamente, si vogliono risolvere le situazioni anomale pur sapendo che i tanti contenziosi vengono da lontano e quasi sempre si chiudono in favore dei dipendenti. Domanda: li affrontiamo caso per caso come si sta già facendo cercando una soluzione condivisa, o si pensa ad inaugurare una legge retroattiva? Difficile imputare a Campo Dall’Orto e Maggioni le colpe di un sistema di lungo corso. E difficile pretendere che risolvano “come supereroi nel volgere di una notte” le stratificazioni realizzate dalle varie lottizzazioni. Piuttosto, guardando al futuro, Campo Dall’Orto avrebbe fatto bene a limitare il ricorso agli esterni solo ai casi di assoluta e imprescindibile necessità. Quando si assume un allenatore ci si aspetta che faccia fruttare le risorse interne e faccia giocare meglio la squadra cambiandone mentalità e spirito di dedizione alla causa, concedendogli magari qualche innesto mirato e niente più. Certo, ci sono da smantellare incrostazioni (il vecchio partito Rai) e vecchi sistemi. Ma è proprio questa la scommessa. L’idea vincente sono le assunzioni a tempo determinato, tre anni di contratto, come è stato fatto per l’ad, la presidente, i direttori di reti e alcuni dirigenti (Verdelli). Sarebbe stato corretto estenderla più possibile. È vero, non è facile promettere un contratto a tempo determinato a chi ne deve lasciare uno a tempo indeterminato. Nei casi proprio indispensabili, si potrebbe introdurre una clausola per la quale, scaduti i tre anni, mansioni e compensi possono essere revisionati dai nuovi vertici. Non c’è altra soluzione se non si vogliono perpetrare nuove stratificazioni.
La vera anomalia è la natura ibrida della Rai, servizio pubblico che si finanzia anche con la pubblicità e deve competere con il mercato. Se si vogliono avere i professionisti migliori bisogna poterli pagare. Altrimenti, come già accade, i vari Mentana, Feltri e Mieli si guarderanno bene dall’entrare in Rai quando nel privato percepiscono stipendi doppi, se non tripli o quadrupli. Non si fa il direttore di telegiornale o l’amministratore delegato di un’azienda pubblica per vocazione. Arrivando alla questione finale, non sono affatto sicuro che la politica voglia davvero risolvere questa evidente anomalia. Mantenendo la natura ibrida della Rai, i vari Anzaldi e Brunetta possono continuare ad essere protagonisti, a dettare ultimatum, a esercitare poteri di ricatto, a tentare di influenzare nomine e promozioni, ad andare sui giornali, ad avere ospitate di favore nei talk show, a fare… politica (sic). Alla prossima.
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