10 cose da ricordare (e 3 conclusioni) sullo scazzo politici-Rai
Era ora. Giornalisti e opinionisti cominciano a svegliarsi. Meglio tardi che mai, si sono accorti che, detta in soldoni, la politica vuol riprendersi la Rai. Più nello specifico, è una parte della politica, una parte del Pd in particolare, a voler dettare regole, influenzare nomine, scelte, epurazioni e promozioni. La campagna contro i nuovi vertici di Viale Mazzini, nominati dal premier Renzi a inizio agosto, in verità è cominciata già da qualche mese. Ma ora siamo al culmine. La posta in gioco è alta. E allora le parti che si sentono escluse alzano la voce. Nel mio piccolo, su questo blog ne scrivo da diversi giorni (http://bit.ly/20KDNDA). L’ultimo casus belli è stato il “veto” imposto agli esponenti del Pd a Ballarò di Massimo Giannini, dato da molti come già giubilato dalla “Rai renziana”, e quindi propenso a vendicarsi. In realtà, si è presto capito che era necessario un riequilibrio delle presenze nel talk show, troppo sbilanciate proprio a favore dei dem.
Per comprendere meglio lo scazzo in atto tra alcuni politici e i vertici Rai, prima di tentare qualche considerazione, può servire mettere in fila i fatti dell’ultima, ottima annata.
- Dopo lunga ricerca, tra qualche diniego e autocandidati non convincenti, il 6 agosto Renzi sceglie Antonio Campo Dall’Orto come direttore generale della Rai. Monica Maggioni è la presidente.
- A fine novembre Campo Dall’Orto nomina Carlo Verdelli direttore editoriale dell’informazione. Va in soffitta la riforma dei tg incentrata sulle newsroom, voluta da Gubitosi e studiata da Nino Rizzo Nervo (ex Margherita) e Valerio Fiorespino.
- Il 22 dicembre il Senato riforma la governance trasformando il dg in amministratore delegato. Lo scopo è concentrare le decisioni, snellire le burocrazie e frenare le interferenze. Il superdg ha mano libera nella nomina dei “dirigenti apicali” e potere di spesa fino a 10 milioni.
- Il 9 febbraio Michele Anzaldi, commissario di Vigilanza (ex portavoce di Rutelli) rilascia un’intervista al Corriere della Sera: “Sui nuovi vertici Rai ci siamo sbagliati. Arroganti, sono peggio dei predecessori”. Ma lo sanno “come sono arrivati lì? Ce li abbiamo messi noi della Vigilanza, con una serie di votazioni a catena complicatissime… E adesso non vedono, non sentono, non parlano”. Cioè, non ci consultano per le nomine.
- Il 17 febbraio vengono annunciati i nuovi direttori di rete: Andrea Fabiano a Raiuno, Ilaria Dallatana a Raidue, Daria Bignardi a Raitre, Gabriele Romagnoli a RaiSport. Mentana sottolinea il ruolo di suggeritore dietro le quinte di Giorgio Gori.
- Intanto prosegue l’infornata di esterni. Da Guido Rossi, capo-staff del dg, a Gian Paolo Tagliavia, responsabile creativo, da Massimo Coppola, consulente editoriale a Giovanni Parapini, comunicazione istituzionale. Anche Verdelli chiede uno staff: Francesco Merlo (da Repubblica), Pino Corrias (interno), Diego Antonelli (ex Gazzetta) e quattro persone scelte con il job posting aziendale.
- Il 6 aprile Porta a Porta manda in onda l’intervista a Salvo Riina, figlio del boss mafioso Totò, a sua volta condannato a 8 anni e 10 mesi per reati mafiosi. Un obiettivo colpo giornalistico, mal gestito perché Bruno Vespa fa firmare la liberatoria solo al termine dell’intervista.
- In Commissione di Vigilanza Verdelli si assume la responsabilità della messa in onda e dice: “Non censuro un’intervista per le dichiarazioni di cinque, dieci politici”.
- Da inizio maggio si susseguono le audizioni di Campo Dall’Orto sul Piano industriale. Il 25 maggio, il sottosegretario alle Telecomunicazioni Antonello Giacomelli (area Margherita) dice che quello del dg “è più un’indicazione di obiettivi che un piano industriale”. Suona come una sconfessione.
- Il 31 maggio esplode il caso del mancato invito di esponenti pd a Ballarò nella settimana pre-elettorale. Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini annunciano un esposto all’Agcom. Conteggi alla mano, proprio l’Agcom ha chiesto di riequilibrare l’eccesso di presenze dem. Dal canto suo Roberto Fico M5S, presidente della Vigilanza, contesta lo sbilanciamento del Tg1 in favore del sì al referendum di ottobre.
Finalmente, dicevo, alcuni commentatori, da Paolo Conti sul Corriere (http://bit.ly/20Vx9KR) a Michele Serra su Repubblica (http://bit.ly/1VzqRRm) si stanno accorgendo del paradosso. La politica, Renzi in prima fila, annuncia di voler uscire dalla Rai e predispone una riforma che rafforza i poteri per tutelare l’autonomia degli amministratori interni. Ma appena vede che certi desiderata non sono assolti, si pente. Soprattutto si pentono i mediatori, che basano la loro stessa esistenza sul potere di condizionamento.
Conclusioni. Con l’eccezione dell’ultima iniziativa di Serracchiani e Guerini, forse mal informati, l’attacco sistematico ai vertici Rai, cavalcato da alcuni siti molto seguiti in Viale Mazzini, è portato in prevalenza da esponenti della ex Margherita, contrariati, in parte per l’archiviazione della riforma delle newsroom e l’esclusione dalle nomine sui direttori di rete e, in parte, frementi nel voler condizionare le prossime scelte sui telegiornali e sulle conduzioni.
La manovra s’incaglia sulla presenza di Verdelli, poco sensibile alle logiche lottizzatorie. Le sue parole in Vigilanza contro la censura all’intervista a Riina gli hanno attirato l’ostilità matematica e permanente dell’arco costituzionale. Non a caso un giorno sì e l’altro pure filtrano indiscrezioni che lo danno in uscita.
Chi s’illude che il luogo di composizione dello scazzo sia la Commissione di Vigilanza forse non ha presente di quale inutile e ipocrita rito bizantino si tratti. La telenovela continua.