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10 cose da ricordare (e 3 conclusioni) sullo scazzo politici-Rai

Era ora. Giornalisti e opinionisti cominciano a svegliarsi. Meglio tardi che mai, si sono accorti che, detta in soldoni, la politica vuol riprendersi la Rai. Più nello specifico, è una parte della politica, una parte del Pd in particolare, a voler dettare regole, influenzare nomine, scelte, epurazioni e promozioni. La campagna contro i nuovi vertici di Viale Mazzini, nominati dal premier Renzi a inizio agosto, in verità è cominciata già da qualche mese. Ma ora siamo al culmine. La posta in gioco è alta. E allora le parti che si sentono escluse alzano la voce. Nel mio piccolo, su questo blog ne scrivo da diversi giorni (http://bit.ly/20KDNDA). L’ultimo casus belli è stato il “veto” imposto agli esponenti del Pd a Ballarò di Massimo Giannini, dato da molti come già giubilato dalla “Rai renziana”, e quindi propenso a vendicarsi. In realtà, si è presto capito che era necessario un riequilibrio delle presenze nel talk show, troppo sbilanciate proprio a favore dei dem.

Massimo Giannini e, sullo sfondo, Antonio Campo Dall'Orto

Massimo Giannini e, sullo sfondo, Antonio Campo Dall’Orto

Per comprendere meglio lo scazzo in atto tra alcuni politici e i vertici Rai, prima di tentare qualche considerazione, può servire mettere in fila i fatti dell’ultima, ottima annata.

  1. Dopo lunga ricerca, tra qualche diniego e autocandidati non convincenti, il 6 agosto Renzi sceglie Antonio Campo Dall’Orto come direttore generale della Rai. Monica Maggioni è la presidente.
  2. A fine novembre Campo Dall’Orto nomina Carlo Verdelli direttore editoriale dell’informazione. Va in soffitta la riforma dei tg incentrata sulle newsroom, voluta da Gubitosi e studiata da Nino Rizzo Nervo (ex Margherita) e Valerio Fiorespino.
  3. Il 22 dicembre il Senato riforma la governance trasformando il dg in amministratore delegato. Lo scopo è concentrare le decisioni, snellire le burocrazie e frenare le interferenze. Il superdg ha mano libera nella nomina dei “dirigenti apicali” e potere di spesa fino a 10 milioni.
  4. Il 9 febbraio Michele Anzaldi, commissario di Vigilanza (ex portavoce di Rutelli) rilascia un’intervista al Corriere della Sera: “Sui nuovi vertici Rai ci siamo sbagliati. Arroganti, sono peggio dei predecessori”. Ma lo sanno “come sono arrivati lì? Ce li abbiamo messi noi della Vigilanza, con una serie di votazioni a catena complicatissime… E adesso non vedono, non sentono, non parlano”. Cioè, non ci consultano per le nomine.
  5. Il 17 febbraio vengono annunciati i nuovi direttori di rete: Andrea Fabiano a Raiuno, Ilaria Dallatana a Raidue, Daria Bignardi a Raitre, Gabriele Romagnoli a RaiSport. Mentana sottolinea il ruolo di suggeritore dietro le quinte di Giorgio Gori.
  6. Intanto prosegue l’infornata di esterni. Da Guido Rossi, capo-staff del dg, a Gian Paolo Tagliavia, responsabile creativo, da Massimo Coppola, consulente editoriale a Giovanni Parapini, comunicazione istituzionale. Anche Verdelli chiede uno staff: Francesco Merlo (da Repubblica), Pino Corrias (interno), Diego Antonelli (ex Gazzetta) e quattro persone scelte con il job posting aziendale.
  7. Il 6 aprile Porta a Porta manda in onda l’intervista a Salvo Riina, figlio del boss mafioso Totò, a sua volta condannato a 8 anni e 10 mesi per reati mafiosi. Un obiettivo colpo giornalistico, mal gestito perché Bruno Vespa fa firmare la liberatoria solo al termine dell’intervista.
  8. In Commissione di Vigilanza Verdelli si assume la responsabilità della messa in onda e dice: “Non censuro un’intervista per le dichiarazioni di cinque, dieci politici”.
  9. Da inizio maggio si susseguono le audizioni di Campo Dall’Orto sul Piano industriale. Il 25 maggio, il sottosegretario alle Telecomunicazioni Antonello Giacomelli (area Margherita) dice che quello del dg “è più un’indicazione di obiettivi che un piano industriale”. Suona come una sconfessione.
  10. Il 31 maggio esplode il caso del mancato invito di esponenti pd a Ballarò nella settimana pre-elettorale. Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini annunciano un esposto all’Agcom. Conteggi alla mano, proprio l’Agcom ha chiesto di riequilibrare l’eccesso di presenze dem. Dal canto suo Roberto Fico M5S, presidente della Vigilanza, contesta lo sbilanciamento del Tg1 in favore del sì al referendum di ottobre.
Mattero Renzi ospite di Nicola Porro nell'ultima puntata di Virus (foto LaPresse)

Mattero Renzi ospite di Nicola Porro nell’ultima puntata di Virus (foto LaPresse)

Finalmente, dicevo, alcuni commentatori, da Paolo Conti sul Corriere (http://bit.ly/20Vx9KR) a Michele Serra su Repubblica (http://bit.ly/1VzqRRm) si stanno accorgendo del paradosso. La politica, Renzi in prima fila, annuncia di voler uscire dalla Rai e predispone una riforma che rafforza i poteri per tutelare l’autonomia degli amministratori interni. Ma appena vede che certi desiderata non sono assolti, si pente. Soprattutto si pentono i mediatori, che basano la loro stessa esistenza sul potere di condizionamento.

Conclusioni. Con l’eccezione dell’ultima iniziativa di Serracchiani e Guerini, forse mal informati, l’attacco sistematico ai vertici Rai, cavalcato da alcuni siti molto seguiti in Viale Mazzini, è portato in prevalenza da esponenti della ex Margherita, contrariati, in parte per l’archiviazione della riforma delle newsroom e l’esclusione dalle nomine sui direttori di rete e, in parte, frementi nel voler condizionare le prossime scelte sui telegiornali e sulle conduzioni.

Carlo Verdelli, direttore editoriale dell'informazione

Carlo Verdelli, direttore editoriale dell’informazione

La manovra s’incaglia sulla presenza di Verdelli, poco sensibile alle logiche lottizzatorie. Le sue parole in Vigilanza contro la censura all’intervista a Riina gli hanno attirato l’ostilità matematica e permanente dell’arco costituzionale. Non a caso un giorno sì e l’altro pure filtrano indiscrezioni che lo danno in uscita.

Chi s’illude che il luogo di composizione dello scazzo sia la Commissione di Vigilanza forse non ha presente di quale inutile e ipocrita rito bizantino si tratti. La telenovela continua.

La differenza tra Rai e Sky in tre notizie

Vista da Palazzo San Macuto, Gomorra è un incubo. Anzi, un miraggio irraggiungibile. Un’entità astrale, forse: sto parlando della serie, ovviamente. Tanto per gradire, ecco qualche domanda alla rinfusa. Mentre vogliono sapere come impiega il suo tempo Carlo Verdelli, direttore editoriale dell’informazione Rai, che idea si sono fatti i vari Michele Anzaldi o Maurizio Gasparri di Gomorra? Quanti secoli ci vorranno prima che la Rai produca una serie in grado di reggere il confronto con quella di Sky? Nel frattempo, vale la pena presentare interrogazioni parlamentari su una parolaccia pronunciata da un conduttore che credeva di avere il microfono spento? Mentre ci pensiamo, oggi si è svolta l’ennesima audizione in Commissione di Vigilanza del dg Antonio Campo Dall’Orto. Un paio d’ore a giustificare, illustrare, rispondere, rintuzzare supposizioni dei commissari vigilanti dell’intero arco costituzionale su nomine, fiction, programmini da proteggere e quant’altro. Sull’argomento mi sono già espresso di recente (http://cavevisioni.it/2016/05/05/le-sedute-della-vigilanza-una-docufiction-brezneviana-2/) e non ci torno.

Antonio Campo Dall'Orto, direttore generale della Rai

Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale della Rai

Ciò di cui voglio parlare è la distanza abissale che intercorre tra la quotidianità della nostra tv pubblica, altrimenti chiamata prima azienda culturale italiana, e quella della principale tv a pagamento che agisce sul territorio nazionale. Precisazione: anche la Rai, grazie al canone che quest’anno avrà un gettito maggiorato, è una tv a pagamento. Mentre dal canto suo anche Sky, grazie a canali come Tv8, Cielo e SkyTg24, è una televisione in chiaro. Ci sono ampie parti sovrapponibili e confrontabili tra loro, soprattutto sul telecomando degli spettatori. Semmai, le differenze sono che una è una multinazionale con sede negli States, mentre l’altra, che dovrebbe rappresentare la nostra storia, è gravata dall’invadenza della politica. Rai e Sky sembrano gravitare a distanza siderale tra loro. Televisioni che corrono due gran premi diversi. Basta confrontare la quotidianità dell’una e dell’altra, basandosi sulle notizie di giornata.

Massimo Giannini, conduttore di Ballarò

Massimo Giannini, conduttore di Ballarò

Partiamo dalla Rai.

  1. La prima notizia di oggi, su molti siti e giornali, è l’epurazione di Massimo Giannini, il conduttore di Ballarò (Raitre) in rotta di collisione con il premier Renzi e nuovamente superato dal diMartedì (La7) di Giovanni Floris.
  2. La seconda notizia è rivelata dal Giornale. La produzione del reality show scolastico That’ll Teach ‘Em sul confronto tra i metodi d’insegnamento di mezzo secolo fa e quelli attuali, format inglese esportato in mezza Europa e previsto su Raidue, è stata vinta da Magnolia, società di provenienza del direttore della rete Ilaria Dallatana. Inevitabili le polemiche sul conflitto d’interessi.
  3. La terza notizia riguarda Paolo Bonolis. Definito “un fuoriclasse” da Campo Dall’Orto, il conduttore di Ciao Darwin ha parlato sia con i dirigenti Rai che con quelli Mediaset, ma alla fine ha deciso di rimanere a Cologno Monzese dove per lui si parla di un baby talent.
Ciro Di Marzio in Gomorra 2

Ciro Di Marzio in Gomorra La Serie, seconda stagione

Passiamo a Sky.

  1. La prima notizia riguarda gli ascolti di Gomorra – La Serie seconda stagione, uno show che ormai crea dipendenza. Gli episodi 3 e 4 trasmessi su Sky Atlantic e Sky Cinema Uno sono stati seguiti da 1,1 milioni di telespettatori con un incremento di ascolti dell’89 per cento rispetto agli stessi episodi della prima stagione.
  2. Fiorello ha annunciato su Twitter che la sua Edicola andrà in onda da giugno su Sky. Ma non nella pay tv, bensì su Tv8, uno dei canali in chiaro sopracitati. Saranno solo nove morning show “per vedere l’effetto che fa”. Con probabile ritorno in pianta stabile, dall’autunno. Nei giorni scorsi qualcuno aveva precipitosamente annunciato l’approdo in Rai dello showman. In realtà la firma della collaborazione con Sky risale già a qualche mese fa.
  3. Terza anticipazione: il canovaccio di Dov’è Mario?, la serie in quattro serate da mercoledì su Sky Atlantic. Con un certo scorno dei colleghi che attendevano la conferenza stampa, Repubblica ha pubblicato “l’editoriale supercazzola” a firma Mario Bambea, l’intellettuale di sinistra interpretato da Corrado Guzzanti che si sdoppierà nel comico trash Bizio.

È proprio così ovvio che Rai e Sky siano tv a due velocità? È proprio inevitabile che, parlando a un pubblico più vasto, la Rai debba perdere così tanto in qualità di contenuti e linguaggi? Non sarà che l’invadenza della politica in Rai faccia un po’ troppo da zavorra?

Le sedute della Vigilanza? Una docufiction brezneviana

Con una certa dose di masochismo ieri mi sono inflitto, via web tv, alcune ore di audizione della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi – già la denominazione... – di Antonio Campo Dall’Orto. Era la seconda puntata dopo la presentazione della settimana scorsa delle Linee guida del Piano industriale ad opera del direttore generale della Rai – mi ero sciroppato pure quella, si sa com’è il masochismo: si prova più gusto a rigirare il coltello… Il fatto è che ero curioso. Cosa succede nelle austere stanze di Palazzo San Macuto, donde le cronache ci riportano frammentarie dichiarazioni di guerra o di armistizi tra i politici e i televisionari che si sono malauguratamente iscritti alla roulette russa intitolata di volta in volta Amministrare la Rai, Riformare la Rai o, infine, Rivoluzionare la Rai?

Bene, anzi male(!): lo show è stato istruttivo. Il parallelo è di tipo calcistico. Avete presente quando Berlusconi sceglie un allenatore e giura di apprezzare il suo calcio, ma dopo un mese vuol già fare la formazione e decidere il trequartista? La politica si comporta allo stesso modo con la Rai. Annuncia a ogni piè sospinto la presa di distanza, ma poi inizia a ficcare il naso sull’assunzione di Tizio e il licenziamento di Caio. Nel caso del Berlusca il motivo è che mette i soldi nel Milan. Nel caso del governo, che assegna la concessione di servizio pubblico alla Rai. Invadenza dei committenti dilatata e autonomia gestionale degli amministratori striminzita in entrambi i casi. A San Macuto va così in scena una docufiction brezneviana, con grisaglie e interventi fumosi fin dai tempi della primissima repubblica. Avevo già nozione dell’atmosfera sovietica in cui si svolge questa liturgia. Ma assistervi è stata un’esperienza esaltante. L’Esaminando siede tra un dirigente Rai che lo accompagna per solidarietà, e il presidente di Commissione per illustrare il proprio operato e le proprie strategie. Nelle ultime due tornate al fianco di Campo Dall’Orto, da una parte c’era Giovanni Parapini, direttore della comunicazione, e dall’altra Roberto Fico. Già nella prima adrenalinica seduta il direttore generale aveva mostrato grafici, snocciolato tendenze e prospettato manovre per la trasformazione della Rai da broadcaster in media company. Se non ce la fa lui…

Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza

Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza

La recente riforma voluta dal premier Matteo Renzi ha stabilito che il direttore generale sia dotato di superpoteri. Vuoi vedere che è lavoltabuona? Ecco varata, dunque, la nuova governance, com’è stata subitamente battezzata in english, su modello delle televisioni anglosassoni – appunto. Dove la politica se ne sta fuori. Come da noi: è per questo, infatti, che un giorno sì e l’altro pure direttori e superdirettori sono convocati a vario titolo a spiegare e giustificare il loro operato e le loro strategie. Metti che Bruno Vespa sbagli un’intervista, che Michele Anzaldi s’innervosisca per un editoriale di Giannini a Ballarò, o che a Maurizio Gasparri non vadano a genio i collaboratori individuati da Verdelli per migliorare l’offerta informativa: ecco che ci si trova tutti nelle austere stanze, dietro banchi d’aula preguerra e davanti a microfoni con braccine snodabili.

Ordunque, sia nella prima puntata che nell’incipit della seconda, CDO aveva mostrato slide e cifre. Le quali, grazie all’unica telecamera fissa che accentuava vieppiù la plumbea atmosfera, erano naturalmente precluse ai perversi spettatori come il sottoscritto. Tuttavia, come dicevo, lo spettacolo è stato a suo modo esemplare. I commissari si sono lanciati in simpatiche analisi contenenti caldeggiamenti vari, introdotte da preamboli dal seguente tenore: lungi da noi far rientrare dalla finestra la politica che abbiamo deciso con una riforma ad hoc di tenere fuori dalla Rai… Assolutamente no, ce ne guardiamo bene, anzi benissimo (Salvatore Margiotta, Pd). Però, venendo al sodo: questo Verdelli a cosa serve, ci sono già i direttori dei tg, che bisogno c’era di nominare un superdirettore? E la riforma delle newsroom che fine ha fatto? E in questa nuova struttura con vicedirettori e capiredattori ci sono più ufficiali che soldati  (Gasparri, con metafora militare)… Alla faccia del capoazienda, lasciamolo lavorare (Raffaele Ranucci, Pd)…

 

Palazzo San Macuto, sede della Commissione di Vigilanza

Palazzo San Macuto, sede della Commissione di Vigilanza

Insomma, ognuno aveva un conduttore da rampognare (Gerardo Greco di Agorà, bersaglio di Lello Ciampolillo, M5S), un programma da raccomandare (Il caffè, preferito da Margiotta), un direttore cui dare il benservito (Tinny Andreatta, licenziabilissima per Alberto Airola, M5S), o da reintegrare (Valerio Fiorespino, per Gasparri). A quel punto ho capito la trama della docufiction. Anzi, seguendo la tempistica, della fiction-docu. Cioè: la parte delle premesse e delle promesse appartiene alla finzione, mentre i desiderata e le sagaci richieste sono il documentario, la parte da prendere sul serio come fanno, in primis, gli stessi commissari più che mai vigilanti. Fossero intervenuti anche Anzaldi e Brunetta il documentario sarebbe stato ancora più hard. Invece, niente: qualche giorno fa il premier ha elogiato il lavoro di CDO e quindi ciccia. Però settimana prossima ci si riconvoca tutti…

Intanto il Milan è sull’orlo del collasso e la Rai, prima o poi, cambierà di nuovo allenatore.

 

 

I David di Donatello di Sky portano Hollywood sul Tevere

L’idea era lì, a portata di mano. Ma finora nessuno l’aveva raccolta. Eppure non era difficile. Visto che i David di Donatello sono considerati gli Oscar italiani, i David Awards, perché non trattarli alla maniera di Hollywood? Perché non hollywoodizzarli? Al mattino, c’era da sempre anche il ricevimento al Quirinale col discorsetto del Presidente della Repubblica… Era semplice no? In mano a Sky, l’appuntamento televisivo relegato alla differita per pochi cinefili e un pubblico di nicchia si è trasformato in evento: cinematografico, mediatico, anche mondano, per quel che conta. Una cerimonia di poco più di due ore è riuscita ad armonizzare carattere istituzionale, linguaggio moderno, ambizione artistica, autoironia e glamour da tappeto rosso. È il risultato della volontà di pensare in grande. Trasformare il rito dei David in evento è un piccolo mattone nella costruzione di un’industria che voglia produrre arte rivolta al grande pubblico. Bisogna crederci giorno per giorno e sorprende – ma non tanto – che non sia la Rai, il servizio pubblico anche produttore e distributore cinematografico, protagonista di questa operazione.

Premiazione perfetti sconosciuti

Diversi altri mattoni vanno aggiunti per far avanzare il progetto, a cominciare dalla rottura di certe consorterie dure a morire che resistono all’interno dell’Accademia (1916 giurati) e si sono viste all’opera nella distribuzione dei premi che, manco a dirlo, hanno proditoriamente escluso Quo vado? di Checco Zalone, peraltro già ampiamente sdoganato dalla critica più engagé. Più plausibili il trionfo di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti che ha visto premiati tutti quattro gli attori (Claudio Santamaria, Ilenia Pastorelli, Luca Marinelli e Antonia Truppo, forse almeno il David all’attrice non protagonista poteva esser dirottato su Sonia Bergamasco), il successo di Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese (miglior film e miglior sceneggiatura) e il riconoscimento a Il racconto dei racconti di Matteo Garrone per la miglior regia e nelle categorie tecniche.

Tornando alla televisione, la sessantesima edizione dei David proposti in prima serata su SkyUno, SkyCinemaUno e, in chiaro, su Tv8, non è immune da impacci e ingenuità. A cominciare da Alessandro Cattelan,  acclarato talento della conduzione, ma forse troppo giovane e giovanilista per un evento così istituzionale. Lo si è intuito all’ingresso in teatro, quando con la sua verve da dj, ha presentato Toni Servillo in tutte le sue rughe da attore consumato. Il cambio d’inquadratura ha reso il salto generazionale e di carisma. Sensazione confermata poco dopo quando, citando Gianluigi Rondi, presidente dei David e autorità assoluta del nostro cinema, ha menzionato i suoi 94 anni, per invitare i premiati a ringraziamenti brevi. Per non parlare della gaffe sull’autore del motivo di Lo chiamavano Trinità (Franco Micalizzi e non Ennio Morricone). Altri nei: la lettura del gobbo di molti dei premiatori, le immancabili e veltroniane interviste ai bambini su chi è il produttore. Per il resto, narrazione ritmatissima, forse un filo discontinua, tra parodie dei Jackal, video registrati, gag di attori e attrici molto scritte (il presunto battibecco tra Matilde Gioli e Matilda De Angelis) e corsa indiavolata di Cattelan nel tentativo di recuperare il (presunto) ritardo. Pur con queste imperfezioni, dettate dall’esordio, alla prima prova Sky fa registrare un notevole cambio di marcia rispetto al passato. L’ironia di Paolo Sorrentino che si presta a giocare con i Jackal (“È il Cinema che mi manda”), l’emozione di Luca Marinelli e quella di Ilenia Pastorelli, l’intero cast artistico e tecnico di Perfetti sconosciuti sul palco restano momenti memorabili di una bella serata d’intrattenimento tra glamour e arte.

C’è da lavorare, c’è da limare. Ma abbiamo gli Oscar italiani, fruibili e godibili anche dal grande pubblico (grazie a Tv8). Una buona notizia, per la televisione e per il cinema.

Freccero: la Rai non è morta, è la tv che ha ucciso la realtà

Buongiorno Carlo Freccero, hai letto l’intervista al Fatto quotidiano di Angelo Guglielmi?

“L’ho letta, l’ho letta…”.

L’ex direttore di Raitre dice che il Cda non conta nulla. Che sai parlare ma non fare…

“Non voglio polemizzare con Guglielmi, tanto più che non lo vedo da anni. Lui ha sempre ragione, per definizione. L’unica cosa che non condivido è il giudizio su Campo Dall’Orto. Dire che è gradasso è come dire che Balotelli è disciplinato. E tu sai quanto simpatizzo per Balotelli…”.

Guglielmi dice anche che la Rai è morta.

“Può darsi che lo sia, che fatichi a rinnovarsi. Però una replica di Montalbano dà ancora dieci punti di distacco all’Isola dei Famosi“.

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Su una cosa però l’ex direttore di Raitre ha ragione: la Rai di oggi è fuori dalla contemporaneità. A differenza della televisione che avete fatto voi non dialoga con la realtà. I massimi dirigenti non parlano con gli artisti, con gli scrittori. Pensano che la tv sia sostanzialmente una questione di tecnica…

“C’è questo rischio. Anni fa la televisione era al centro di un movimento. Era un agente di modificazione della realtà. Oggi è al massimo un manuale di istruzioni per la sopravvivenza”.

Facciamo qualche esempio?

“Quindici anni fa il programma di punta era Satyricon, oggi la novità della stagione è Top Gear, un format internazionale. Cogli la differenza?”.

Un programma-provocazione, che modificava gli equilibri della comunicazione e un programma che oggi registra le passioni e le tendenze che già esistono. Altri esempi?

“Nel Duemila il Grande Fratello era l’apogeo della società liberista-individualista, gioiosa e vincente. Il protagonista principale di quella stagione è stato Taricone detto ‘o guerriero, un vincente. Oggi L’Isola, C’è Posta e Ciao Darwin sono l’espressione del declino di quella filosofia. Una volta i reality erano divertimento, oggi sono esibizione di miserie. Li guardo per vedere fino a che punto è arrivata la nostra società, come se leggessi un capitolo de I miserabili di Victor Hugo. Dal neorealismo siamo passati all’iper-realismo, in cui la televisione manifesta inconsapevolmente e inconsciamente la misère du monde.

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Barbara Cappi, l’autrice di Maria De Filippi mi ha inviato il suo romanzo che in qualche modo trasfigura il dietro le quinte di C’è Posta. Straziante. Non voglio giudicarlo sul piano letterario, ma ogni volta che vedo quei programmi, compreso Ciao Darwin, ho talmente empatia verso i protagonisti, che vorrei tanto raccontarli in una docu-soap. Ogni personaggio è un dramma, una sopravvivenza, un atto d’accusa verso la violenza di questa società”.

Tornando alla Rai, i suoi dirigenti non rischiano di isolarsi, di concentrarsi troppo sui format?

“La Rai aspettiamo un attimo prima di giudicarla. I nuovi capi vogliono partire dai generi che nascono dal factual che è una forma di storytelling sulle persone create dalla televisione stessa. La televisione di oggi è autoreferenziale. Elabora programmi su se stessa, sulla sua stessa visione della realtà. Ma perché i factual hanno così successo? Perché rispondono a un’esigenza della vita di oggi. Mentre cresciamo bombardati da una serie di messaggi che dovrebbero incrementare la nostra autostima, le nostre vite sono sempre più deludenti. Se non bastasse, la crisi ha abbassato drasticamente la qualità della vita. Esistono due possibilità di fuga. Da una parte la fiction. Dall’altra la rivendicazione del presente come migliore dei mondi possibili: attraverso la manualistica dei factual il soggetto trasforma la sua quotidianità in spettacolo. Ma la realtà in quanto tale è sparita, come diceva Baudrillard. A questo punto però il discorso si fa squisitamente politico…”.